Secondo Plinio il Vecchio, se la vitalitas dell’uomo risiede nelle ginocchia, la memoria risiede «nell’orecchio». Relegare questa affermazione nello sgabuzzino delle curiosità sarebbe un errore. «La memoria dell’orecchio» infatti ha l’immediato potere di svelarci uno dei fattori determinanti nella formazione della cultura romana, la parola parlata. I Romani cioè, e molte altre testimonianze ce lo confermano, sono ancora consapevoli del fatto che i costumi, le norme, i rituali, il ricordo del passato si tramandano (e si ricostruiscono) per via aurale. Come recita un proverbio ghanese «le cose antiche stanno nell’orecchio». A Roma non solo la produzione letteraria, ma anche il diritto, la pratica dello ius, viveva di «parola parlata», tanto che ai caratteri dell’alfabeto essa oppose spesso un’abile resistenza. E che dire del destino, concepito non come una «porzione» di vita (móira), alla maniera dei Greci, ma come una «parola», fatum, pronunziata dall’una o l’altra divinità? Perfino la norma indiscutibile e suprema che regolava il giusto e l’ingiusto, il lecito e l’illecito, ossia il fas, traeva origine da questa sfera: fas est, celebre e solenne locuzione romana, altro non significava se non «è parola che», proprio come molti secoli dopo si dirà «sta scritto che». Anche a Roma, però, la parola è soprattutto un evento sonoro. Come rivela la meravigliosa tessitura di «armonie foniche» che avvolgeva gli enunciati della produzione poetica, religiosa e giuridica di Roma arcaica: «armonie foniche», cosí le definí il grande Ferdinand de Saussure, che fu tra i primi ad appassionarsene.
(dal risvolto di copertina di: Maurizio Bettini, "Roma, città della parola", Einaudi, pp.424, €29)
Quando un antico romano tirava le orecchie voleva soltanto bloccare un ricordo
- di Giorgio Ieranò -
Se un antico romano vi tirasse le orecchie, sappiate che lo fa per una ragione ben precisa: vuole ricordarvi qualcosa. La sede della memoria diceva infatti Plinio il Vecchio, sta nell'orecchio. Lo dimostrano anche alcuni camei di età imperiale dove si vede una mano che afferra il lobo di un orecchio, mentre una scritta in greco chiarisce il concetto sottinteso al gesto: mnemòneue, «ricorda». Ma perché la memoria, secondo i romani, è collegata all'orecchio? Lo spiega Maurizio Bettini in questo libro affascinante, profondo e originale: perché le cose importanti, le cose fondamentali sono state a lungo affidate, anche nella società romana, soprattutto alla voce e all'ascolto; perché la memoria individuale e collettiva, anche quando l'uso della scrittura si era ormai diffuso, passava largamente attraverso l'oralità; perché ciò che veniva letto era talvolta più importante di ciò che veniva scritto. Soprattutto se si trattava di parole scandite in modo solenne e recitate in contesti che ne garantivano l'autorità. Prendiamo per esempio, suggerisce Bettini, la parola fatum: il fato, il destino. Per esprimere lo stesso concetto, i greci usavano il termine moira, che si riferisce letteralmente a qualcosa che è stato «diviso», alla parte assegnata a ciascuno. Fatum deriva invece dal verbo fari, che significa «dire». Il fatum, dunque, è propriamente «ciò che è stato detto», la sorte che è stata proclamata da Giove o dalle Parche, e quindi, nel momento stesso in cui viene pronunciata, è stabilita irrevocabilmente. Le Parche, le divinità del destino, si identificavano talvolta con gli stessi fata. Poi la parola scivola dal neutro plurale al femminile, dal generico all'individuale: «i Fata» diventano «le Fate», e ci ritroviamo così nel mondo delle fiabe. Ma anche fabula, termine con cui i romani traducevano il greco mythos, oppure fama, la parola pubblica che crea o distrugge la reputazione degli uomini sono connesse al verbo fari. Anche fabula e fama sono cose che vengono dette e che si trasmettono in modo quasi autonomo, indipendente dai singoli parlanti; sono le testimonianze di un discorso che, a volte, può essere anche considerato ingannevole, ma che ha una sua forza e una sua potenza intrinseca. Le fabulae e la fama vivono quasi di vita propria, si diffondono da sole, senza avere alle spalle un parlante preciso. Basti pensare alla rappresentazione che Virgilio ci offre della fama personificata, un mostro dalle mille orecchie e dalle mille bocche, la cui potenza si spande per il mondo. Fari, ci ricorda Bettini, rispetto ad altri verbi latini, come loui o dicere, designa un parlare autorevole: il parlare dell'indovino o del pontefice, ma anche del pretore. Il pretore applica la legge pronunciando parole solenni, è il suo dire che conferisce efficacia a una norma. Persino le famose XIII Tavole, le leggi della Roma arcaica, erano affidate al tramite della memoria: erano, come dice Cicerone, un carmen, una cantilena che i bambini imparavano a ripetere a scuola, come oggi si fa con le tabelline.
Bettini, maestro dell'antropologia applicata agli studi classici, ci invita così ancora una volta, con questo libro, a guardare gli antichi da una prospettiva inconsueta. Quando pensiamo al passaggio «dalla cultura orale alla civiltà della scrittura» (per citare il titolo italiano di un libro, giustamente famoso, di Eric Havelock) lo vediamo quasi come un passaggio senza ritorno: più o meno ai tempi di Platone, le cose importanti, come la poesia, non vengono più affidate alla recitazione ma consegnate alla forma del libro. I romani, quando, nel III secolo a.C., avviano la loro letteratura, con i loro Annali e le loro tragedie copiate dai greci, si inserirebbero così nel solco di un mondo che ha ormai dimenticato l'importanza dell'oralità. Ma Bettini dimostra che la questione è più complessa. E, scendendo fin nei minimi dettagli di quei versi saturni che caratterizzavano i testi della Roma arcaica, svela quanto essi siano legati al dire e al cantare, al fari e al carmen, e come il loro tessuto fonico sia quasi, per così dire, prevalente su quello dei significati. Del resto, ricorda Bettini, anche di Virgilio gli antichi sottolineavano un aspetto che a noi potrebbe sembrare secondario: la sua voce, quella voce con cui «dettava» i suoi versi, e ne riascoltava le sonorità.
Insomma, il libro di Bettini racconta come la parola parlata avesse ancora, nell'antica Roma, un'importanza maggiore di quanto spesso siamo portati a credere. Eppure non dovrebbe sembrarci così strano: anche noi viviamo in un mondo in cui, con l'avvento dei mass-media (radio e televisione), le parole dette sono diventate altrettanto importanti, se non addirittura più importanti, di quelle scritte. «Lo ha detto la Tv» non è frase molto diversa da «Lo racconta la Fama». In ogni caso, ricorda Bettini, il famoso verba volant, scripta manent è proverbio medievale e non antico. Per i romani le parole non volavano affatto, ma anzi restavano. MAgari con l'aiuto di una tirata d'orecchi.
- Giorgio Ieranò - Pubblicato su Tuttolibri del 23/4/2022 -
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