A quanto pare, in questo ultimo scorcio di era moderna, esistono ancora molti individui che, nonostante i colpi inferti loro dalla Storia, non si sono affatto stancati di schierarsi con questo o quello Stato - anche di questi tempi in cui di « Stati socialisti», e tantomeno «comunisti», non ce ne sono proprio «più» - e come risposta al fragore della guerra ritengono si debba perciò dare il proprio incondizionato sostegno a questo o quello Stato capitalista (non importa quale, ché sempre di Stato si tratta!), facendo perfino finta che non sia vero il fatto che in qualsiasi istituzione del genere la nicchia dove annidare il nazista di turno la si trova sempre; e a partire dalla presenza o meno di tale figura, si cimentano nel difficile sport di scegliersi la «Nazione eletta»! Naturalmente, in tutto ciò, il prerequisito rimane sempre il solito: assegnare tutte la «colpa bellica» al cosiddetto «imperialismo» - com'era quella del «socialismo degli imbecilli» affibbiato agli antisemiti?!? Ah già: per questo c'è la «Geopolitica»! - in modo che possa così assolvere «il Capitalismo» dalla responsabilità di averle inventate lui le guerre moderne, proprio con la modernità, e ben prima di qualsiasi «imperialismo».
Considerato che l'essenza della modernità è proprio la guerra!
Nazionalismo, guerra e capitalismo
- di Charles Reeve - [*1]
- I -
In questo impossibile vasto mondo, a volte avviene che il modo in cui funzionano le cose venga compreso meglio per mezzo di una miniatura del modello globale. Per esempio, in un piccolo paese, in una mini-società nella quale i difetti del capitalismo vengono esposti in maniera chiara. Si prenda il Portogallo, situato ai margini dell'Europa, lontano dai territori in conflitto e dal rumore degli stivali. Un paese dove la trionfante democrazia rappresentativa non nasconde la massiccia corruzione che affligge le istituzioni; dal più piccolo municipio finanziato dal capitalismo predatorio (ivi compresi i finanziatori ucraini e russi), alle forze armate corrotte che vendono le loro armi al mercato nero, e fino ai politici disonesti che si riproducono per generazione spontanea. Un paese, dove la comunità di proletari ucraini immigrati ammonta a più di 30.000 e dove, solo recentemente all'aeroporto di Lisbona, la polizia di frontiera ha ucciso uno di loro a sangue freddo - Ihor Homenyuk, per dargli un nome - durante un banale controllo dei suoi documenti [*2]. Un paese in cui, fino a poco tempo fa, il Ministero degli Interni ha consegnato ai funzionari russi di turno le coordinate di quei pochi esuli che avevano manifestato davanti alla loro ambasciata per protestare contro il regime.
A ogni modo, si tratta di un paese dove - come del resto è avvenuto ovunque - l'invasione dell'Ucraina da parte del regime di Putin, ha innescato una rumorosa sfilza di grida, proteste e affermazioni di solidarietà con il popolo ucraino, un paese dove, così come sta avvenendo dappertutto, l'ipocrisia avanza mascherata, vestita di virtù. A coronamento di tutto ciò, abbiamo assistito allo straordinario «affare Abramovich». Recentemente, il famigerato multimilionario russo, acquirente di squadre di calcio - una piattaforma per il riciclaggio di denaro sporco - era diventato portoghese grazie a uno di quei Visti Gold che da qualche anno vengono venduti dal locale governo socialista, per poter rimpinguare le casse in cambio di un «investimento» sul mercato immobiliare. È pertanto questo il modo in cui migliaia di personaggi dello stesso calibro comprano a buon mercato castelli, hotel di lusso, ville urbane e vigneti famosi: Russi, Brasiliani, Ucraini, Cinesi, Sauditi, Americani e persino Francesi avidi di sole a buon mercato. Il paese sta svendendo i propri beni.
Ma veniamo al punto. Denunciato probabilmente da un amico geloso, Abramovich adesso è nei guai, o quasi... Dopo essere stato obbligato ad ancorare i suoi yacht di lusso in Turchia, dopo essere sfuggito a dei tentativi di assassinio da parte di malintenzionati, si vede ora perseguito dalla giustizia della sua nuova patria. In realtà - e contrariamente a quanto detto - il nostro uomo non aveva comprato una Visa Gold. Egli ha ottenuto la sua nazionalità evocando semplicemente le sue origini sefardite; un altro recente business per le casse dello stato portoghese, il quale dà diritto alla nazionalità lusitana [*3]. Se non fosse che il capo religioso della comunità ebraica di Porto, il quale gli aveva fornito le prove necessarie per ricorrere alla legge, aveva manomesso il dossier, e avendo prodotto documenti falsi, si trova attualmente in prigione [*4]. Come se fosse un comune immigrato illegale, lo sfortunato Abramovitch si vede ora minacciato di perdere la sua nazionalità lusitana. Io ritengo che questi Visti d'Oro per banditi ricchi e «rispettabili» siano un'invenzione preziosa. Sono la prova scientifica che la «nazionalità» è un valore di mercato che copre miti altrettanto contraffatti delle prove delle sue origini sefardite che sono state fornite da Abramovich. Sono la prova che tutte le idee e i valori trasmessi dal nazionalismo servono solo a sottomettere chi non ha niente a coloro che posseggono tutto. Arrivando persino a far morire i primi pur di salvare gli interessi dei secondi. È tutto molto attuale, vero? Questa breve digressione potrà servire da introduzione. Contrariamente alla guerra, il ridicolo e lo sconveniente non uccidono. Essere consapevoli di tutto questo, quanto meno ci aiuta, nel confrontarci con l'inumano, a prendere le distanze dalla stupidità e dalla meschinità di coloro che ci stanno trascinando verso l'abisso.
- II -
Guerra: una parola che dice troppo, e che non può essere detta. Dirlo significa già prendere posizione. Viktor Klemperer, nel suo studio sull'uso politico delle parole nei regimi totalitari [*5] ha insistito su questo. La formula «operazione speciale», utilizzata dal regime russo, costituisce un vano tentativo per mascherare il pesante significato che la parola «guerra» ha nella storia, la barbarie che evoca. Curiosamente, il suo utilizzo non è originale, e non è nemmeno riservato ai regimi totalitari; è stato usato in altre circostanze da dei regimi democratici o autoritari, durante la guerra d'Algeria, oppure durante la guerra coloniale portoghese, giusto per portare solo due esempi recenti.
Non è facile discorrere della barbarie della guerra nel momento in cui ci sono delle persone che continuano a uccidersi a vicenda, gli uni per difendere ciò che pensano appartenga loro, gli altri per riprendersi ciò che pensano debba appartenere loro, allorché ci sono migliaia di persone che si nascondono nelle cantine, nelle buche, che arrancano lungo strade dissestate trascinando i loro sacchi dentro cui portano il loro misero equipaggiamento di sopravvivenza, mentre i loro bambini vengono abbattuti tra le rovine. Immagini già viste, troppo viste, intercambiabili, dalla ex-Jugoslavia a Grozny, da Aleppo a Mosul, poiché c'è continuità nell'orrore. Difficile, anche perché in momenti come quello che stiamo attraversando, a dominare è l'affetto, rendendo indecifrabile, impercettibile, persino illeggibile qualsiasi tentativo di liberarci dalla sofferenza, dalla barbarie che ci schiaccia. Eppure, chiunque voglia continuare a pensare al mondo con occhio critico «deve cercare di porsi al di sopra delle cose, altrimenti si impantanerà fino alle orecchie nel primo guazzabuglio in cui incappa», scriveva in prigione Rosa Luxemburg. Era il 26 gennaio 1917 [*6], ed era in corso il grande massacro della prima guerra mondiale. La difficoltà a «porsi al di sopra delle cose» fu il primo risultato della bestialità della guerra. Proviamoci comunque lo stesso, facciamo qualche passo noi, che ci troviamo lontani dai combattimenti e dalle bombe. Dopo anni e anni di teorie moderniste sulla società, mettendo in discussione concetti considerati superati, ora ci ritroviamo di nuovo immersi nel fragore di bombe sempre più potenti e micidiali. Ubriachi dalla mattina alla sera di quelle idee che costituiscono il grande «pasticcio» del passato, il nazionalismo. Ubriachi di racconti patriottici colorati di bandiere. Tutti presi dall'intervento militare russo, e con la mente naturalmente sedotta dai facili discorsi circa lo stato mentale del leader del regime russo. Impossibile evitare quello strettissimo legame che ogni potere, soprattutto se illimitato, intrattiene con la follia e la paranoia. Ma se con questo si riesce a spiegare questa o quella decisione, siamo ben lontani dall'affrontare le cause profonde della guerra. Rimangono i discorsi incentrati sulla geopolitica insieme ai rapporti di forza, che si trovano sedimentati anche sulla superficie dei movimenti del capitalismo. Si sa che la «geopolitica» - la geografia dei rapporti di forza tra le nazioni - ha sostituito, a vantaggio delle classi dominanti, le analisi basate sulla competizione tra le forze capitaliste e le forme imperialiste del sistema. Le teorie della geopolitica, che separano l'economia e la politica, hanno acquistato importanza dopo la prima guerra mondiale; erano perfettamente in sintonia con le idee naziste che parlavano della lotta per gli «spazi vitali». Il comunista rivoluzionario Karl Korsch è stato uno dei pochi teorici ad aver criticato una simile idea di «geopolitica», innovativa del pensiero borghese e, che da allora in poi è diventata sempre più popolare al fine di spiegare i movimenti di conquista del capitalismo concorrenziale e competitivo [*7].
Ci viene continuamente ripetuto che i vecchi schemi non ci permettono più di comprendere la guerra, e le sue cause. Si può difendere il contrario, e argomentare che alla fine, la guerra, questa guerra, ci dimostra invece proprio la loro pertinenza. Se viviamo ancora in delle società organizzate ai fini della produzione del profitto, basate sullo sfruttamento, divise in classi con interessi opposti, allora non si vede perché le cause della guerra - anche di questa guerra - dovrebbero essere trovate altrove dalla radice del sistema capitalista, al di fuori della sua riproduzione contraddittoria. È alle basi stesse dell'economia politica che possiamo trovare quei riferimenti analitici che ci permettono di capire le cause della guerra. Quale altra strada potremmo mai prendere per riuscire a «porsi al di sopra delle cose», per quanto terribile ciò possa essere?
- III -
Come in tutte le situazioni in cui il fragile equilibrio di società inique basate sullo sfruttamento si incrina, o dove addirittura esse crollano, non tutto appare chiaro, e il bianco e nero acquista delle sfumature. Quando il fumo delle esplosioni si diffonde, l'orizzonte diventa ancora più scuro. Le domande rimangono confuse. Ciò che domina in Ucraina è il desiderio di battersi e, se necessario, di morire, per non trovarsi sottomessi all'odioso regime che domina il popolo russo? E in che misura questo rifiuto di un regime che vuole imporsi diventa, in modo insidioso, l'elemento predominante di un'altra alienazione; la sottomissione a un altro mito nazionalista? Sicuro del fatto suo, il 25 marzo, un editorialista di un importante giornale spagnolo ci ha assicurato circa il fatto che gli ucraini non si stavano battendo per le borse Vuitton, bensì per la libertà! Tuttavia, ci sono buone ragioni per pensare che, in questo mondo, sia proprio la libertà di possedere borse Vuitton a definire i contorni della «libertà». E questo significa anche che coloro che combattono e muoiono, non avranno mai le borse Vuitton, e la «libertà» sarà invece per coloro che non combattono, i quali già possiedono le suddette borse, insieme a ben altri vantaggi del genere.
Ancora una volta, la domanda è se sia il nazionalismo all'origine della guerra oppure - proprio come il caso ucraino sembra dimostrare - la guerra è la barbara attività che consente di generare e costituire l'idea nazionalista e patriottica che ne deriva?
Da qui, il ruolo privilegiato che tale attività sanguinosa riserva e garantisce alle idee reazionarie e xenofobe dei gruppi neonazisti. In Ucraina, laddove, come ha recentemente sottolineato Yvan Segré [*8], queste correnti sono dominanti, non c'è alcuno spazio per la confusione. Giustamente, ci viene ricordato che quelle stesse persone che ieri non mancavano mai di sottolineare gli antisemiti commenti da bar, da parte di questo o quel Gilet Giallo, oggi mostrano grande tolleranza nei confronti dei neonazisti ucraini anti-russi. La guerra non offusca tutte le questioni, ma getta anche luce su alcune altre. Ad esempio, che cosa c'è di più indecente del trattamento a geometria variabile che gli Stati occidentali riservano, o piuttosto promettono, ai rifugiati che arrivano dall'Ucraina? Questo mette a nudo gli interessi economici che stanno alla base di questo improvviso amore per la condizione di rifugiato, dal re d'Olanda ai capi della piattaforma Airbnb ... In un'Europa, in cui migliaia di rifugiati dalle guerre condotte dalle potenze occidentali sopravvivono nelle strade, dormendo sotto i ponti o nel fango degli accampamenti di fortuna, o che annegano senza aiuto mentre cercano di trovare rifugio o di scappare, gli Stati si stanno dando da fare per «accogliere» e aiutare materialmente i rifugiati dall'Ucraina. Un «benvenuto» che nasconde male il loro interesse economico per delle persone considerate come «bianche» e «cristiane»; immediatamente sfruttabili, come è stato persino ammesso da un politico francese. Un'indecenza e un cinismo che rivelano la vera natura razzista e xenofoba dei signori del potere e del loro sistema. Dopo le bugie sulla pandemia, ecco che ora arrivano i discorsi ufficiali sui «buoni rifugiati». Le promesse non sono la realtà, e verrà presto il momento in cui questi «buoni rifugiati» dovranno fare i conti con quella che nel capitalismo liberale è la vera condizione dei rifugiati. Accolti in una piccola cittadina, non lontana dal famigerato campo di Calais, dove i «cattivi rifugiati» marciscono da anni, le giovani donne arrivate dall'Ucraina alzano la voce, e fanno notare l'ipocrisia. Chiedono qualcosa di particolare allo Stato francese? Sì, rispondono: «Che tutti i rifugiati - afgani, siriani - siano accolti con gli stessi diritti, con lo stesso calore ed empatia degli ucraini.» [*9] Questa inaspettata affermazione di internazionalismo contrasta con il discorso bellicoso che è stato riproposto più e più volte. Lo possiamo associare ai manifesti che tempo fa tappezzavano le strade di Odessa: «Soldati russi, con noi!» [*10] Gli esseri umani non sempre si sottomettono all'orrore.
- IV -
Ho letto recentemente che Lenin - un autore che non accompagna necessariamente le mie serate di lettura - diceva che la politica è sempre e solo un concentrato di economia [*11]; e la guerra, in questo senso, è a sua volta un concentrato di questa stessa politica. Quell'uomo sapeva molto di politica. Lasciamo stare quindi quelle narrazioni che spiegano ben poco, che aumentano la confusione, e cerchiamo perciò di avvicinarci alle condizioni materiali della vita sociale, alle relazioni sociali che stanno alla base di quella che chiamiamo l'«economia». L'Ucraina si trova dunque, oggi, in procinto di unirsi a quel vasto terreno di rovine che si estende, anno dopo anno, sulla superficie del pianeta, seguendo in questo lo stesso destino di altre società. Una guerra in più nei successivi prolungamenti della fine della «guerra fredda», i cui effetti sanguinosi si sono già fatti sentire su altri popoli e popolazioni, dalla Bosnia all'Afghanistan e alla Cecenia, dall'Iraq alla Siria, alla Libia e allo Yemen. Sembra quasi che stia emergendo un modello che si impone per le potenze capitaliste dominanti. Ciò che non possono dominare, lo distruggono, riducendo così lo spazio della globalizzazione dell'economia capitalista. In poco più di un decennio, l'Ucraina è passata dall'essere dipendente dalla Russia all'essere dipendente dal FMI. Per quanto il paese possegga alcune di quelle che sono tra le terre più ricche del pianeta, esso rimane profondamente arretrato e povero. Il 30% della popolazione vive nelle campagne, e circa il 14% della forza lavoro coltiva la terra, ma la produttività rimane assai bassa. Al momento della crisi politica del 2014, l'indebitamento del paese nei confronti della la Russia era molto alto. Incapace di continuare a ripagare il debito al «Grande Fratello», l'Ucraina si è rivolta al FMI, il quale si è impegnato a fornire quei prestiti necessari a mantenere a galla l'economia. Le rivolte urbane e l'insurrezione di Maïdan, nel 2014, sono state un punto di svolta decisivo. È ormai noto che questi eventi hanno permesso alle forze reazionarie nazionaliste e xenofobe, e ai gruppi minoritari neonazisti, di prendere un posto significativo nella vita politica, probabilmente sproporzionato alla loro forza nella società [*12]. Ma, al di là del fatto politico a partire dal quale si è strutturata la rinascita del nazionalismo ucraino, Maïdan significò soprattutto la rottura dalla dipendenza russa, e l'inizio della dipendenza dalle economie capitaliste occidentali. Un debito dopo l'altro. In cambio del suo intervento e dei suoi prestiti, il FMI impone, come sempre, l'applicazione di politiche liberali, privatizzazioni e austerità sociale. Le ricette sono ben note: i salari ristagnano, le prestazioni sociali e i sistemi pensionistici vengono attaccati, i servizi pubblici - eredità fatiscente del vecchio regime capitalista statale - smantellati, la spesa sociale è stata dimezzata in pochi anni. Inizialmente, la politica di privatizzazione si è concentrata sul settore bancario, per controllare la corruzione e il saccheggio delle risorse, e sui terreni agricoli e sulle risorse minerarie (soprattutto nel Donbass), a beneficio delle multinazionali del capitalismo occidentale. Il debito verso la Russia venne negoziato, con la mediazione tedesca, senza molto successo, e l'intervento del FMI continuò fino allo scoppio della guerra.
Per anni, il capitalismo occidentale ha fatto un uso diretto dei fondi dei predatori russi e ucraini, poi riciclati attraverso varie reti, che vanno dal gioco del calcio all'immobiliare e al lusso, con un significativo «sgocciolamento» verso i settori della borghesia parassitaria occidentale. Ciò spiega l'ipocrisia dell'attuale discorso a proposito del congelamento delle fortune degli oligarchi. Bisogna considerare che il crollo del capitalismo di Stato in Russia ha dato vita a una società mostruosamente disuguale, dove i più ricchi possiedono una delle più alte frazioni della ricchezza nazionale di tutte le economie capitaliste. Al contrario, l'entità degli investimenti, da parte dei capitalisti europei in Russia - tra il 50 e il 75% del totale - è enorme. Se lo colleghiamo all'importazione di gas russo, è facile capire il perché le minacce e le proposte di sanzioni siano inefficaci. Il modello era lo stesso anche in Ucraina: in un paese dove la stragrande maggioranza della popolazione vive in miseria, una nuova borghesia e una classe media modernista hanno preso forma all'ombra del Il modello è stato lo stesso in Ucraina: in un paese dove la stragrande maggioranza della popolazione vive in miseria, ha preso forma - all'ombra dei grandi oligarchi predatori, tra cui il mondano signor Kolomoisky, amico e sostenitore del signor Zelensky [*13] - una nuova borghesia e una classe media modernista. L'immagine del centro commerciale bombardato nella moderna zona residenziale della capitale ucraina, ci parla anche di relazioni di classe, di disuguaglianza e di ingiustizia sociale. Intorno allo scheletro fumante del centro commerciale, le gru e gli alti edifici in costruzione segnalano la vasta speculazione immobiliare che era in corso prima dell'invasione dell'esercito russo. Chiaramente, per lo stato maggiore dell'esercito russo, le borse di Vuitton e le grandi marche di moda rappresentano anche la libertà occidentale che dovrebbe combattere. Come si somigliano, i due fratelli nemici! La guerra può solamente indebolire una fragile economia russa che non è molto diversificata, e che si basa principalmente sullo sfruttamento e l'esportazione di fonti energetiche e risorse naturali; un'economia che negli ultimi dieci anni è stata praticamente. Per il capitalismo occidentale, il tentativo di prendere il controllo dell'Ucraina, delle sue riserve naturali e minerarie, è una questione importante. Per la potenza russa, la sua perdita era già stata annunciata un decennio fa. Il punto di svolta di Maïdan aveva evidenziato la debolezza economica della Russia di fronte alle forze capitaliste occidentali. In questo senso, ha annunciato la guerra che verrà. Data questa debolezza, è difficile parlare di un confronto tra due imperialismi, quanto piuttosto di una lotta per la difesa da parte di una potenza militare che non ha i mezzi economici del suo obiettivo: la difesa dei suoi interessi minacciati dal capitalismo occidentale. Si tratta di una nuova situazione storica che potrebbe benissimo sfociare in una barbara catena di eventi. Un'eventuale cessazione dei combattimenti e delle distruzioni, le prospettive di negoziato che stanno prendendo forma, comportano questa sconfitta della potenza russa. La «neutralità» ucraina avverrà forse al prezzo di accettare la sua integrazione nel capitalismo occidentale attraverso le politiche economiche liberali del FMI. In ogni caso, su entrambi i lati del fronte, il popolo ucraino e il popolo russo saranno i veri perdenti di fronte agli interessi delle borghesie e dei capitalismi attuali.
Così come saranno perdenti coloro che, nelle nostre società, soffriranno le enormi conseguenze di questa guerra. La tendenza affermatasi durante la pandemia di Covid - l'aumento della disuguaglianza sociale e il rapido e diffuso impoverimento delle classi lavoratrici - verrà confermata e rafforzata dalle conseguenze della guerra, dall'inflazione alla ripresa delle spese per le armi. In occasione della pandemia, abbiamo spesso sentito argomenti modernisti neo-malthusiani, secondo i quali la pandemia avrebbe sostituito la guerra nella regolazione delle popolazioni. Questo è un ragionamento poco sensato basato sull'illusione che in Europa la guerra sia finita, e ciò nonostante il precedente dell'intervento militare nell'ex Jugoslavia. Il capitalismo non sostituisce gli orrori, li somma, ne crea di nuovi mentre riproduce i vecchi. Soprattutto, rimane fedele ai suoi vecchi principi di funzionamento. La guerra rimane nel cuore della bestia, il capitalismo la porta nel suo seno e nella logica del suo funzionamento. Insieme agli elementi che genera, e che lo generano: nazionalismo, patriottismo, razzismo. Nel sistema di sfruttamento, di produzione del profitto, la guerra rimane una carta fondamentale nella «soluzione» delle sue contraddizioni e delle sue crisi.
- V -
Nel 1936, Antonin Artaud scriveva: «L'uomo che riconosce la patria è un uomo che tradisce. Essa [la patria] fa dell'uomo un traditore dei propri simili.» Allora, l'Europa si muoveva a grandi passi verso la barbarie. Anche oggi, non riusciamo a vedere con chiarezza i precipizi e le voragini verso cui ci sta portando la marcia cieca del capitalismo. Tuttavia, siamo certi che il risorgere delle idee nazionaliste e patriottiche, la loro capacità di assumere la forma di forze sociali in grado di mobilitare, sia un segno oscuro che può solo annunciare nuovi disastri. Fino a qualche anno fa, eravamo lontani dal pensare che un simile sviluppo sarebbe stato possibile. Senza alcun dubbio, il nazionalismo è sempre stato il prodotto dello sviluppo del capitalismo; ha sempre continuato a essere una componente di quelle forze politiche che lo legittimano, comprese quelle di sinistra, per non parlare delle esplosioni di patriottismo xenofobo che hanno segnato il percorso seguito dai partiti comunisti emersi dallo stalinismo. Il trionfo dell'individualismo liberale ha potuto far credere alla gente che quei tempi fossero superati. Il vecchio movimento operaio organizzato, i partiti e i sindacati associati a questa sinistra nazionalista, che si muovono sempre entro i limiti dello Stato-nazione, anche mentre il capitalismo si stava globalizzando, hanno prodotto e difeso l'idea che l'unico collettivo possibile fosse quello di queste organizzazioni, guidate dai loro leader. La loro sconfitta e la loro decomposizione, la crisi della rappresentanza e della politica, sembrava che avesse lasciato un vuoto relativamente a ciò che è collettivo. Non del tutto, però, visto che dei nuovi movimenti hanno fatto irruzione nelle società moderne, cercando di costruire un altro senso del collettivo, portando un contenuto di democrazia reale, più autonoma ed emancipatrice, in opposizione al funzionamento burocratico delle vecchie istituzioni. Oggi, mentre la guerra in Europa domina le menti e paralizza ogni reazione, si possono facilmente udire pareri assai dotti e saccenti - spesso provenienti da quella sinistra autoritaria che si è sempre opposta all'auto-emancipazione - insinuare, naturalmente con rammarico, che il ritorno del nazionalismo e del patriottismo, dell'azione bellica, sarebbe una reazione collettiva ineluttabile ai desideri dell'individualismo, dell'egoismo liberale. L'odio nei confronti dell'altro, la pulsione di morte, sarebbe l'unico attuale rifugio del collettivo?
Si tratta di un discorso inaccettabile, veicolato da quelle stesse persone che hanno sempre ostacolato qualsiasi lotta collettiva autonoma e sovversiva, presentandola come impossibile. Nella formula tuttora attuale di «socialismo o barbarie», si dovrebbe scegliere la barbarie, dal momento che la messa in discussione del mondo capitalistico rimarrebbe irrealista, impossibile. Per giustificare il fallimento del proprio realismo, altri tentano di contrapporre il patriottismo al nazionalismo. Un compito impossibile dal momento che non esiste nazionalismo senza patriottismo. Di per sé, il patriottismo non ha alcun senso; si esprime veramente solo attraverso il movimento del nazionalismo che porta inevitabilmente alla guerra. Ad ogni modo, il nazionalismo - un'idea che è diventata una forza sociale - ha dato storicamente prova di essere capace solo di spingere le persone a morire, e a far morire gli altri. In guerra, al di là delle capacità tecniche, la mobilitazione nazionalista è un fattore determinante. L'esercito russo in Ucraina ne sta pagando il prezzo. Per contro, nel mondo moderno, l'idea di nazionalismo non ha mai portato a un cambiamento nei rapporti sociali di sfruttamento. Una volta terminato il fracasso delle bombe, una volta sepolti i morti e ripulite le rovine, tanto nelle menti quanto nei territori, il popolo dell'Ucraina dovrà pagare il suo prezzo per la guerra e per la vittoria del «suo» nazionalismo. Avranno ottenuto un rafforzamento della sua identità in uno spazio statale, ma non sarà cambiato niente riguardo la loro dipendenza dalla borghesia ucraina e dai suoi amici, saranno ancora più schiavi dei loro interessi di classe. A Bukovel, le terme, i negozi e gli alberghi di lusso, le piste da sci, si riempiranno di nuovo. Lo stato delle cose del mondo non sarà affatto migliore di prima, piuttosto il contrario. E la povertà degli sfruttati sarà ancora maggiore. Il nazionalismo e il patriottismo costituiscono le forme più negative e letali del collettivo. Ne costituiscono la sua negazione stessa, se consideriamo come un vero collettivo l'aspirazione all'emancipazione umana. L'ultimo rifugio del collettivo - questo modo di fare società - non può assolutamente essere questa indegna forma di tradimento, di stare insieme ed essere contro l'altro, di essere insieme per difendere la disuguaglianza sociale. Il nazionalismo è la paura del collettivo che produce emancipazione, uguaglianza sociale. Se oggi si sta affermando di nuovo con tale forza, è perché le forme del collettivo emancipatore non sono al momento abbastanza forti per imporsi, per espandersi, per svilupparsi. Ogni guerra riporta indietro il tempo, e la possibilità di un mondo nuovo. La guerra costituisce la prova che la natura barbara del capitalismo non è per niente cambiata. La guerra è lo stadio supremo del nostro impotenza. Superare al più presto questa fase, è l'unica possibile guerra che possiamo fare.
- Charles Reeve - 11 aprile 2022 -
NOTE:
[*1] - Texte paru dans lundimatin#334 sous le titre : « Contre le collectif mortifère du nationalisme: la guerre et le capitalisme».
[*2] - Sulle recenti violenze e i crimini razzisti in Portogallo, si legga: "Le Portugal face à son passé colonial", CQFD CQFD, n. 191 (ottobre 2020).
[*3] - Nel corso del XV e XVI secolo, gli ebrei sefarditi vennero espulsi dal Portogallo. Una minoranza di loro, forzata e costretta, si convertì - i «nuovi cristiani» - per poter rimanere nel paese, e furono sottoposti a persecuzioni selvagge da parte della terribile istituzione dell'Inquisizione. La legge del 2015, nota come legge di «riparazione storica», concede la nazionalità portoghese a coloro che possono dimostrare di essere discendenti di questa popolazione ebraica. Naturalmente, in questi tempi di liberismo sfrenato, l'uso di questa legge ha portato a un accumulo di casi di corruzione che coinvolgono parenti di politici legati alla promulgazione della detta legge.
[*4] - Publico, Lisbona, 18 marzo 2022.
[*5] - Viktor Klemperer, LTI, la lingua del Terzo Reich, Pocket, 2003.
[*6] - Rosa Luxemburg, lettera dalla prigione a Louise Kautsky, Beginning to Live Humanely, selected letters lettere selezionate presentate e annotate da Julien Chuzeville, Libertalia, 2022, p. 88.
[*7] - Nel 1943, Karl Korsch analizzò sulla rivista New Essays (New York) le idee dei teorici della geopolitica, in particolare l'americano Mackinder e il generale tedesco Karl Haushofer, quest'ultimo dei quali avrebbe in seguito influenzato Rudolph Hess e altri teorici dell'espansionismo nazista. La questione è stata brevemente affrontata nel suo testo "The World Historians" (1942), tradotto in francese da Serge Bricianer e Claude Orsoni, in: Karl Korsch, Notes sur l'Histoire, Smolny, Toulouse, 2011.
[*8] - Articolo citato e referenziato nella nota 1.
[*9] - Anne Diatkine, "Les Ukrainiennes de Dakh Daughters réfugiées en France : Vire et revenir", Libération, 21 marzo 2022.
[*10] - Jean-Baptiste Naudet, "Odessa la ribelle", L'Observateur, 10 marzo 2022.
[*11] - La formula di Lenin è ricordata da Michael Roberts in "Ukraine: the Economic Consequences of the War", The Brooklyn Rail, New York, marzo 2022. https://brooklynrail.org/2022/03/field-notes/Ukraine-The-Economic-Consequences-of-the-War Ho anche attinto al suo testo per molti dei dati economici che seguono.
[*12] - Gradualmente, rapporti, testimonianze e analisi stanno confermando questo fatto. Va da sé che riconoscere ciò non significa avallare la propaganda del regime totalitario di Putin.
[*13] - Si legga: Les "chanceux" de Bukovel» di Florence Aubenas - Le Monde, 16 marzo 2022 -, un ritratto impressionante della nuova borghesia ucraina in tempo di guerra. Bukovel è un stazione di sport invernali, di proprietà di un oligarca ucraino, dove si sono rifugiati molti borghesi, nuovi ricchi e assimilati dall'inizio della guerra. Mentre le bombe cadono sul popolo ucraino, questo popolo modernista che ama le borse Vuitton si «sente in colpa» negli hotel di lusso.
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