venerdì 30 giugno 2023

I «Buddenbrook» de' noantri !!

La vampa è un libro sul potere che costruisce e dissolve ogni cosa: persone, famiglie, imperi commerciali, interi stati. È un romanzo che si muove tra due figure, un bambino e suo nonno, Annibale e Riccardo. Riccardo viene chiamato «il fondatore», ha dato vita a una delle maggiori imprese internazionali di import-export alimentare, la Angelini Grani: un luogo labirintico, in un indefinito Centro Italia, in grado di celare la storia segreta, mitologica e criminale del nostro paese, dagli anni eroici della Resistenza fino al buio periodo di Tangentopoli. Annibale ha sei anni ed è lui a raccontarci queste vicende oscure. Possiede la capacità di vedere, nel passato e nel futuro, tutto quello che è successo e succederà alla sua famiglia. Non comprende appieno ciò che osserva, non ha la possibilità di intervenire o modificare gli eventi, può soltanto assistere inerme. Questa capacità viene chiamata «la vampa» perché come un fuoco primordiale lo avvolge, lo distorce dal presente e gli permette di partecipare agli omicidi, alle relazioni pericolose, alle parole della mafia, alle promesse dei politici, che, come fiamme, si accendono e si spengono attorno ai suoi familiari. Finendo, inevitabilmente, per bruciare coloro che ama.

(dal risvolto di copertina di: Pier Franco Bandimarte, La vampa, Il Saggiatore, pp.376, €19)

La vampa, di Pier Franco Brandimarte
- di Andrea Tarabbia    -

Le prime pagine di "La vampa" sono occupate, anche se in modo non esclusivo, da questo episodio: Riccardo porta suo nipote Annibale, il narratore, a vedere i conigli e gli chiede di sceglierne uno; Annibale è piccolo, segue il nonno come si segue un patriarca, o forse un profeta, ovvero lo ascolta senza comprenderlo, ma fidandosi di lui; perciò immagina che il coniglio che sceglierà diventerà suo: così indica quello più dolce, bianco. Con un cenno Riccardo ordina al fattore di prendere la bestia, che viene uccisa e scuoiata davanti a loro e, poche ore più tardi, servita in tavola. Annibale sa che ciò che ha nel piatto è il coniglio che pensava di accudire, ma si fa forza: dopotutto, quei pezzi di carne che ora si trova davanti non hanno più nulla a che vedere con l’animale che aveva pensato di amare. Dunque mangia senza fare una piega, e in qualche modo capisce che quella che gli è stata impartita è una lezione, e che ha appreso una delle leggi fondamentali della famiglia Angelini. Un’altra legge famigliare, stavolta esplicita e tramandata, è questa: «Mangiare, dormire, contare: non si mangia e non si dorme senza contare».

Che cosa si conta in casa Angelini? Naturalmente i soldi, che sono tanti, tantissimi: La vampa è la storia dell’ascesa e della caduta di una dinastia industriale immaginaria, quella a cui ha dato vita nonno Riccardo, fondatore della Angelini Grani, e che sembra ricalcare il percorso di alcuni grandi gruppi industriali dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, a cui assomiglia per vicende, atteggiamento, spregiudicatezza dei giudizi e grossolanità degli errori. Tutto, o quasi tutto, di questa dinastia ci viene raccontato grazie a una felice intuizione che Brandimarte evoca di continuo: la vampa, appunto, una sorta di shining di cui Annibale, che in qualche modo è un prescelto, un predestinato, entra in possesso (meglio: da cui viene posseduto) a partire dal giorno della morte del nonno-fondatore. È una facoltà ultraterrena, si direbbe, che gli permette di vedere nel passato e nel futuro, di assistere in presa diretta ad avvenimenti accaduti molto prima della sua nascita e di antivedere le sorti della sua famiglia. Si sente avvolto in un fuoco primordiale, mitico, che lo spaventa e lo destabilizza ma di cui nessuno intorno a lui si rende conto. Mentre ha queste crisi Annibale vede, ascolta, registra. Con una complicazione: nella vampa ha sempre sei anni, ovvero torna allo stato di candore e ingenuità che aveva prima di scegliere il coniglio. Così, non capisce tutto quello che vede, gli sfugge il senso di molti dei discorsi che ascolta – soprattutto quando si parla di fusioni aziendali o di corruzione, o si commissionano atti violenti – e di certi destini, compreso il suo.

La storia copre una cinquantina d’anni, dalla fine della guerra a Tangentopoli. È ambientata in un centro Italia inventato, ma che somiglia all’Abruzzo: è lì, nella periferia, che il fondatore crea il suo impero, ed è da lì che parte questa vicenda composita, crudele a tratti, che parla del potere e di come bisogna educare sé stessi a perseguirlo e mantenerlo, e a quali costi, l’ultimo dei quali è la dannazione. All’inizio c’è il grano, bisogna raccoglierlo e venderlo – la Angelini è un’azienda a conduzione famigliare, il mondo descritto è ancora rurale; poi arrivano gli anni Settanta e Ottanta – la speculazione, i sogni multinazionali, la corruzione, la droga: il mondo attorno agli Angelini esplode, si dilata, la violenza e la morte entrano nell’orizzonte della famiglia come un dato di fatto; infine, questo mondo esplode. Ecco la parabola, a tratti criminale, di questi Buddenbrook nostrani, spietati e ingenui a un tempo, che Brandimarte segue attraverso un principio narrativo che non tiene conto della cronologia e dei nessi di causa-effetto: La vampa è infatti una lunga, ipnotica rapsodia che saltabecca di epoca in epoca, di personaggio in personaggio, e ci restituisce per fiammate un mondo che è il frutto delle continue visioni di Annibale, nel tentativo autoriale di instaurare un diverso tempo del racconto – un tempo sospeso in cui la storia industriale e criminale di questa famiglia (e in definitiva del nostro Paese, di cui la Angelini Grani è la personificazione) sta racchiusa come dentro uno scrigno mitico.

- Andrea Tarabbia - Pubblicato su TuttoLibri del 25/3/2023 -

giovedì 29 giugno 2023

Un gioco a somma zero tra oppressi e vittime !!

La Divisione Sociale della Sofferenza
- di Boaventura de Sousa Santos -

Il 14 giugno, nel Mar Egeo un'imbarcazione di migranti è affondata, e nel naufragio sono morte tra le 400 e le 700 persone, provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria ed Egitto. Per le persone annegate e per le loro famiglie - che avevano visto in questo viaggio, certamente pericoloso, l'ultima possibilità di sfuggire alle sofferenze della fame, della guerra, della disoccupazione, delle inondazioni, della siccità e dell'odio religioso -  si è trattato di una sofferenza immensa.

Ma, oltre a loro, ha sofferto qualcun altro? Ha sofferto la società greca? Ha sofferto la società europea? E nelle nostre società, in che modo si produce la sofferenza, e come si fa a contenerla? E come vengono distribuite la propensione alla sofferenza e l'immunità alla sofferenza? Perché tante persone non soffrono le stesse sofferenze che tanti altri vivono?

La sofferenza costituisce una delle esperienze umane più profonde e più inquietanti. A seconda della sua gravità, viene considerata come un male reale, fisico o morale; pericoloso per la vita; che minaccia l'integrità fisica o psicologica; che mette a repentaglio l'autostima e l'autocontrollo; che rende impossibile la gioia. In breve, rappresenta un'assurdità terrificante e alienante che nega l'umanità dell'essere umano che soffre. Il neoliberismo ha reso più visibile la sofferenza individuale e collettiva, e l'ha drammatizzata rappresentandola come una calamità, come uno spettacolo, e persino come un'opportunità di guadagno. L'idea di sofferenza viene associata a quella di una patologia, di un danno, una crisi, un degrado personale o collettivo, un'alienazione del sé, una dipendenza. Ma tuttavia la capacità di soffrire diventa anche una condizione per poter resistere allo sfruttamento e alla crudeltà. In "Introduzione ai principi della morale e della legislazione" (1789), Jeremy Bentham sostiene che la questione dei diritti umani non riguarda tanto coloro che hanno capacità razionali - o chi ha la capacità di parlare - quanto piuttosto chi ha la capacità di soffrire. La sofferenza costituisce un tema talmente profondo e complesso da essere stato affrontato da ogni corrente di pensiero. Le domande fondamentali che dominano tale argomento variano a seconda del campo di analisi: che cos'è la sofferenza? Qual è il rapporto tra sofferenza individuale e collettiva? Esiste una sofferenza giusta e una ingiusta? Qual è la fonte o la causa della sofferenza? Qual è la sua struttura? In che modo può essere superata o redenta la sofferenza? In una forma o nell'altra, tutte queste domande ricorrono nelle diverse aree del sapere; soprattutto in teologia, filosofia e scienze sociali. Mi limito a queste ultime.

Le scienze sociali rivestono il ruolo di essere una delle coscienze teoriche della modernità occidentale. Mentre le correnti positiviste o funzionaliste si concentravano sulla descrizione e sull'analisi della sofferenza, le correnti critiche cercano invece di individuare quali sono le cause della sofferenza, soprattutto di quella collettiva. In una recensione della "Soziologie der Leiden" (Sociologia della sofferenza) di Muller Lyer (1924), Oskar Blum ha affermato che «possiamo legittimamente dire che il problema fondamentale della sociologia è la sofferenza». A partire dalla schiavitù e dalla violenza coloniale, fino all'Olocausto e ai Gulag, passando per le guerre mondiali e per il genocidio in Ruanda, fino alle atrocità delle guerre jugoslave degli anni '90, le scienze sociali hanno indagato un vasto ambito di analisi e di critica. Senza mai dimenticare che l'accento va posto sulla sofferenza sociale o collettiva, e non su quella individuale. In questo modo, gli orrori della battaglia di Solferino (1859) avrebbero dato vita alle Convenzioni di Ginevra e alla Croce Rossa Internazionale.

Dal punto di vista della teoria critica, la questione principale riguarda sapere quali tipi di società tendono a produrre quali tipi di sofferenza, e che impatto ha tutto questo sulla produzione di conoscenza e sulla progressiva trasformazione della società. La sofferenza dev'essere integrata in una teoria più ampia della realtà. Theodor Adorno diceva che la separazione tra le discipline costituisce il più grande ostacolo, perché essa ci impedisce di vedere quali sono le relazioni tra la sofferenza individuale e la sofferenza collettiva. Così, quest'ultima viene concepita, o come una patologia sociale o come un'esperienza sociale negativa spesso invisibile, cosicché pertanto spetta alla teoria critica renderla visibile e indicare i modi per minimizzarla. Viene tuttavia riconosciuto il fatto che questo sforzo analitico potrebbe anche portare alla riproduzione del silenzio. Ed è forse per questo che Bourdieu, in un libro fondamentale sulla sofferenza del mondo, ha sottolineato che il suo ruolo era quello di essere un portavoce. Va detto che dal punto di vista dell'io sofferente, non c'è nessuna delle teorie sociologiche convenzionali che possa permetterci di rispondere a una domanda fondamentale: perché io (nel caso della sofferenza individuale) o perché noi (nel caso della sofferenza collettiva)? Se la sofferenza è negatività, allora essa che cosa nega? Se significa vita danneggiata, quali sono i fattori che danneggiano la vita? La risposta che mi propongo di dare, procede dal tentativo di immaginare quali potrebbero essere le risposte a queste domande, e che in questo momento si trovano tutte a molti metri di profondità nel Mar Egeo, dentro i corpi degli annegati, scomparse come sono scomparsi loro. Le società capitaliste, colonialiste e patriarcali in cui viviamo non permettono che tutti gli esseri umani siano trattati come pienamente umani. Ci sono umani e subumani, e la sofferenza degli uni e degli altri viene trattata in maniera totalmente diversa. Quelli pienamente umani sono coloro i quali vivono in una società simile a quella in cui vivo io, e dove vivono i lettori di questo testo, persone che possono leggere tale testo, che hanno la libertà e il tempo di leggerlo, e anche di rifletterci sopra. Il contesto del mondo in cui vivono permette loro di distinguere chiaramente tra sofferenza individuale e sofferenza collettiva.

In realtà, in tale contesto, una sofferenza individuale esiste nella misura in cui non esiste una sofferenza collettiva. La società soffre collettivamente solo in quelli che sono dei momenti eccezionali: catastrofi naturali, guerre, pandemie, eventi meteorologici estremi, crolli di infrastrutture (finanziarie, di trasporto, ecc.). La sofferenza individuale - sia quando è invisibile sia quando viene spettacolarizzata - non si trova mai a essere legata alla sofferenza collettiva, e questo a partire dal fatto che - in tempi normali - la società non vive, o non è consapevole di vivere una sofferenza collettiva. Pertanto, la sofferenza individuale tende a essere vissuta non come una sofferenza-con , ma come una sofferenza-contro.

L'esperienza della sofferenza ingiusta, appare essere decisamente più personale, e assai meno condivisibile. Dal momento che le identità vengono vissute in chiave neoliberale (vale a dire, come autoritarie, a somma zero, come identità pura e inquisitoria), avviene che l'individuo sofferente, il quale vive nella socievolezza del pienamente umano, è assai meno propenso a condividere la sua sofferenza. La condivisione che gli è accessibile è quella che consiste in uno scambio, il quale non è basato su una comunità di relazioni complesse e sui densi affetti che tali relazioni intessono; ma piuttosto su una comunità di media virtuali o professionali fatta di relazioni semplici. In queste società, l'individuo che soffre, soffre di più sotto forma di isolamento; sia sotto forma di silenzio che sotto forma di spettacolarizzazione. Il suo silenzio è spesso direttamente proporzionale a ciò che si dice di lui o di lei. Le ambulanze, i vigili del fuoco, la violenza e la ripetizione delle scene dell'incidente, o dello scandalo, la molteplicità dei commenti e delle "analisi" convergenti producono tutte l'effetto cumulativo di mettere a tacere l'essere sofferente, facendo notizia su di lui e invisibilizzandolo proprio nella misura in cui lo mostrano. La risposta alla domanda «perché io?», può essere trovata soltanto nell'individuo, e mai nella società. Dopo tutto, ci sono tante persone che si trovano nelle stesse condizioni e che non soffrono. Perciò, le possibili spiegazioni sono le cattive abitudini alimentari, i comportamenti che violano le convenzioni sociali, il cattivo umore, i conflitti familiari o lavorativi, ecc..

Il fatto che la sofferenza individuale non sia legata a quella collettiva, fa sì che essa possa essere affrontata in modo socialmente organizzato, ma pur sempre con l'obiettivo di risolvere la sofferenza individuale, e solo quella. È questo il modo in cui funzionano i sistemi sanitari e le politiche sociali in generale. Ci sono dei malati, ma la società non è malata; ci sono dei poveri, ma la società non è povera; ci sono degli ignoranti, ma la società non è ignorante; ci sono dei criminali, ma la società non è criminale.

I migranti che sono rimasti nella nave affondata, non vivevano nella società che ho appena descritto. Vivevano nella società dei subumani. E visti dalla società dei pienamente umani, be' i subumani non hanno problemi. Sono essi un problema. Ragion per cui, la separazione tra sofferenza individuale e sofferenza collettiva risulta essere assai labile. La sofferenza individuale non è un evento eccezionale. Anzi, al contrario, è un'esperienza ricorrente. La sofferenza individuale esiste perché c'è la sofferenza collettiva. La domanda «perché io?» non viene mai posta. L'individuo che soffre non soffre mai individualmente. Soffre con, soffre insieme a. Nelle relazioni esistenti tra i subumani e quelli che sono pienamente umani - laddove questi ultimi scortano i primi grazie all'alta tecnologia per poi infine lasciarli affondare - la sofferenza individuale, sopportata o inflitta, resta sempre come un''immagine, o una conseguenza della sofferenza collettiva. La sofferenza individuale non ha valore di per sé, né si spiega da sola. Viene sempre vista come derivata. Esiste sofferenza individuale a partire dal fatto che c'è sofferenza collettiva. E se quest'ultima è giusta, ecco che allora anche la prima diventa necessariamente giusta.

Per fare un esempio paradigmatico, quando il sorvegliante o il padrone dello schiavo punisce lo schiavo, la sua sofferenza non è altro che l'emanazione e la giustificazione di quella sofferenza collettiva che caratterizza la schiavitù. Lo schiavo che soffre rappresenta una schiavitù giustificata. E la sofferenza individuale appare giusta proprio a partire dal fatto che anche la sofferenza collettiva è giusta. La sofferenza dei migranti annegati è stata una sofferenza giusta perché essi hanno osato entrare illegalmente dove non avrebbero dovuto, nella società dei pienamente umani. La loro sofferenza non è nemmeno paragonabile a quella che esiste nelle nostre società. Dare importanza alla loro sofferenza, sarebbe un incentivo a farli ricadere nell'illegalità. La loro giusta sofferenza è la condizione affinché noi, pienamente umani, non si debba subire l'ingiusta sofferenza che la loro invasione ci causerebbe. Negli ultimi secoli, questa condizione strutturale non è cambiata molto. Ma la forma, con cui essa entra nell'esperienza sociale, varia a seconda delle epoche e dei contesti storici. In questa esperienza, il neoliberismo rappresenta un cambiamento qualitativo. Costituisce la versione (finale?) del capitalismo, ed è caratterizzata, tra le altre cose, dal trasferimento sistematico di ricchezza dalle grandi masse della popolazione impoverita - comprese le classi medie - a una minoranza di super-ricchi. Questo trasferimento viene giustificato a partire dall'idea di crisi permanente, la quale crea una situazione di malessere e di sofferenza perfino nella società pienamente umana. In quella che è una relazione tra la sofferenza dei subumani, da una parte, e la sofferenza che il neoliberismo sta causando ai pienamente umani con le politiche di concentrazione della ricchezza, dall’altra, e in riferimento a tutto ciò che a questa relazione si associa (guerra permanente, collasso ecologico), questo meccanismo opera in due modi.

Il primo modo consiste nel legittimare il disagio causato agli esseri pienamente umani, convertendolo nel benessere derivante dal non essere sottoposti a quelle sofferenze molto più violente cui sono sottoposti i subumani. Il benessere sociale cessa di avere un contenuto positivo, e diventa semplicemente l'assenza del disagio specifico a cui i subumani vengono sottoposti a partire dalla sofferenza particolarmente violenta che viene loro imposta. Tra gli esseri pienamente umani, l'unico modo per non essere consapevoli della sofferenza è non soffrire allo stesso modo in cui soffrono i subumani. E perciò i media trasformano la sofferenza dei subumani nell'unica sofferenza: una sofferenza tanto drammatica quanto eccezionale, tanto fugace e banalizzata quanto lo spettacolo mediatico che ne viene fatto.

Il secondo modo, ancora più perverso, consiste nel legittimare la sofferenza inflitta ai subumani come se essa fosse l'unica possibilità che abbiamo per riuscire ad alleviare il disagio e la sofferenza imposti agli esseri pienamente umani: «se a prosciugare le nostre risorse non venissero gli immigrati, noi vivremmo meglio». In questi due modi, il welfare viene svuotato di ogni suo contenuto positivo. Tale svuotamento si trova alla base della politica dell'odio, la quale trasforma facilmente le altre vittime del neoliberismo in dei presunti aggressori, e quindi in oggetti di odio. Il gioco a somma zero, ormai non è più tra oppressori e oppressi o tra aggressori e vittime, ma piuttosto tra oppressi e vittime.

Con la sua politica dell'odio, l'estrema destra si propone come la coscienza politica del neoliberismo. E così, alla fine non ci sarà benessere se non nella contemplazione e nell'esacerbazione del malessere e del dolore altrui. Che razza di società è quella in cui l'unico modo per stare bene consiste nel sapere che gli altri stanno peggio? Che genere di società è quella dove lottare per il proprio benessere significa contribuire attivamente ad aumentare il malessere di tutti gli altri?

- Boaventura de Sousa Santos - 19/6/2023 - fonte: Other News -

mercoledì 28 giugno 2023

Il solo immaginario è … il lettore !!

Muovendosi con maestria fra saggistica e narrativa, nell’Ultimo lettore Ricardo Piglia ricostruisce in modo originalissimo una possibile storia del lettore tipo: chi è? Dove legge? Quali sentimenti lo animano? Fra le pagine di questo libro incontriamo di volta in volta lettori e scrittori realmente esistiti e lettori-personaggi nati dalla mente creativa di alcune fra le penne migliori di sempre: osserviamo un Borges ormai cieco che «cerca di decifrare le lettere di un libro che tiene incollato alla faccia»; scopriamo il rapporto di Kafka e Tolstoj con le donne – muse e copiste al tempo stesso –; ci facciamo trascinare dalla follia di Amleto e don Chisciotte, risolviamo casi con Auguste Dupin e Philip Marlowe; proviamo ardenti passioni insieme ad Anna Karenina e a Madame Bovary e marciamo on the road con Ernesto Che Guevara, lo scrittore mancato, colui che non si è mai separato dai suoi libri, nemmeno durante la guerriglia.
Coinvolgente e ricco di spunti, L’ultimo lettore è «una serie privata, un percorso arbitrario attraverso alcuni modi di leggere», ma anche una riflessione profonda sull’arte di narrare.

(dal risvolto di copertina di: Ricardo Piglia, L'ultimo lettore, Sur pp.228, €17,50)

Come Don Chisciotte e Che Guevara: «domani nella battaglia» porta un libro
- di Tommaso Pincio -

I libri che parlano di chi fa della lettura una ragione di vita sono ormai così numerosi da rappresentare un genere a parte, come il giallo o la fantascienza. Che il lettore sia intanto diventato una specie in via di estinzione sembra alimentare la tendenza anziché porvi un freno. Più i lettori diminuiscono, più se ne parla. È un paradosso solo apparente. Anche in passato, quando televisione e telefoni intelligenti erano di là da venire e il libro costituiva l'unico mezzo per viaggiare in altri mondi senza muoversi di un passo, il lettore era già in via di estinzione, il sopravvissuto di un'età dell'oro in cui i libri godevano ben altra considerazione. Non per niente anche il protagonista del primo grande romanzo della storia, Don Chisciotte, è un uomo attempato e lettore avidissimo che si avventa su ogni foglio stampato gli capiti a tiro, amante di storie cavalleresche ormai fuori dal tempo. Il nome dell'hidalgo torna infatti più volte in uno dei migliori libri mai scritti sulla figura del lettore. Vi appare anche nell'epilogo dove si rimarca come in tutto il suo romanzo Cervantes non mostri mai il suo eroe leggere le sue amate avventure perché, avendo ormai divorato tutto quel che poteva divorare, si è trasformato in ciò che ha letto, nel cavaliere che combatte i mulini a vento ovvero nell'ultimo esemplare della sua specie.

L'ultimo lettore è anche il titolo di questo libro «fatto di casi immaginari e di lettori unici». Lo ha scritto Ricardo Piglia, autore argentino che meglio di chiunque altro si è misurato con una questione cruciale e ineludibile in quel paese  ai confini del mondo: come fare letteratura all'ombra di Borges, il cui insegnamento più importante consiste appunto nella certezza che «la finzione non dipende solo da chi la costruisce, ma anche da chi la legge». Fare del lettore il personaggio ideale dei suoi racconti era per Borges la naturale conseguenza del preferire la gloria dei libri letti a quella dei libri scritti. Attenzione però. Il personaggio lettore non è un riflesso del Borges lettore; sono entrambi due riflessi, due specchi posti uno di fronte all'altro in cui si specchia ciò che si trova in mezzo. «L'immaginario si colloca tra il libro e la lampada» scrive Piglia citando Foucault che a sua volta parlava di Flaubert, il che è come dire che l'immaginario è il lettore.

Impossibile e insensato dunque stabilire distinzioni e gerarchie tra lettori reali e lettori immaginari. Il vero lettore è sempre un'invenzione. Prendiamo la scena di Amleto in cui il principe di Danimarca entra a corte leggendo un libro ignorando i presenti. Per noi spettatori è evidente che finga per seminare sconcerto tra i presenti. Ma che finga o legga davvero non fa in fondo alcuna differenza; una persona che si immerga in un libro mentre è in società ci apparirà comunque separata del reale, un assente, un fantasma quasi. Vale per Amleto e vale anche per la famosa foto che mostra Che Guevara in Bolivia, appartato sui rami, intento a leggere e consapevole - possiamo dirlo perché lo ha scritto in un diario - che la lettura rappresentasse per lui un rifugio, un modo di eludere i problemi quotidiani e allontanarsi dagli uomini, tanto da definirla la sua principale debolezza insieme al tabacco. Piglia dedica un intero capitolo a questo ulteriore paradosso apparente: Che Guevara, il guerrigliero che prima e dopo una battaglia si apparta e legge, che porta sempre con sé un tascapane di cuoio con dentro il diario e i suoi libri, malgrado l'imperativo primario di un guerrigliero sia la mobilità, lo spostamento rapido e incessante, e dunque l'essere leggeri e sempre presenti, capaci di disfarsi di tutto.

Se chiedersi cosa sia un lettore implica che non si facciano distinzioni tra i lettori immaginari e i lettori in carne e ossa, è inevitabile che la risposta sia sempre la stessa anche se sempre diversa. Esistono lettori di ogni sorta che hanno però in comune il porsi al limite di qualcosa, che sia il consesso sociale o la realtà o la vita. È per questo che spesso i lettori rasentano la follia come Don Chisciotte o finiscono male come Emma Bovary o finiscono male dopo aver rasentato la follia come Amleto. Nella sua illuminante esplorazione Ricardo Piglia li analizza uno a uno, spesso mescolandoli, e noi che leggiamo, compiaciuti, ma anche un po' turbati, non possiamo che dargli ragione, con il pensiero rivolto al recente caso di quel giovane impiegato nell'ufficio di una casa editrice che per anni si è fatto inviare con l'inganno manoscritti ancora inediti, finché non è stato arrestato all'aeroporto di New York. Nessuno ha mai capito perché lo facesse, visto che non ha mai cercato di lucrarci. Il ladro ha spiegato di volersi godere quei libri prima di chiunque altro. Il che lo ha reso in fondo un nuovo Don Chisciotte, l'ultimo degli ultimi lettori.

- Tommaso Pincio - Pubblicato su TuttoLibri del  25/3/2023 -

martedì 27 giugno 2023

Centomila Romanzi; e tutti «senza prendere mai posizione» !!

Ne "La commedia umana", occorre tenere sempre presente quale sia stata l'enormità del progetto di Balzac, vale a dire, il modo in cui egli aggiorna la «narrazione universale» di Dante , nel mentre che, allo stesso tempo, dipende fortemente da quelle che sono le innovazioni tecnologiche del suo tempo, dalla sua contemporaneità, dalle nuove configurazioni sociali ed economiche (la mostruosa espansione delle città, e delle capitali), e così via.

Se facciamo un esempio, vediamo come, a partire da questo, un progetto di proliferazione narrativa ed editoriale - tipo quello di César Aira (che gioca deliberatamente con la dimensione mercantile della letteratura: contrapponendo, i libri pubblicati da delle mastodontiche case editrici multinazionali, da un lato, mentre mostra contemporaneamente dall'altro, i piccoli libri editati da piccoli editori domestici, con le loro copertine di cartone disegnate a mano) - non possa essere compreso se non riferendoci, e mobilitando il modello di Balzac.

In Balzac, la separazione e la frattura tra narrazione e giudizio guadagnano subito il primo piano della narrazione: a differenza di Goethe, ad esempio, Balzac imprime alla narrazione una fluidità che non può non essere la conseguenza diretta del suo sospendere ogni «presa di posizione», tralasciando ogni opinione diretta, dal giudizio di valore alla lezione morale, e così via. Non sono certo i valori a costituire l'orizzonte di riferimento per i personaggi di Balzac; come invece lo sono, spesso, per Goethe; anzi, al contrario, in Balzac i valori diventano degli ostacoli che si trovano a essere incorporati nei discorsi dei personaggi, nei loro resoconti che fanno riferimento al successo, o al fallimento delle loro imprese (la legittimità delle scelte è del tutto irrilevante: in quanto tema della narrazione, non emerge nemmeno).

Volendo, una differenza importante tra Stendhal (1783-1842) e Balzac (1799-1850): nel primo, i valori sono sempre in discussione, ed essi fanno parte della progredire dinamico della narrazione (a partire dal fatto che è proprio la tensione tra realtà e valori - o ideali - quella che dà corpo alla traiettoria del protagonista; come avviene con Julien Sorel ne "Il rosso e il nero"), e in tal modo spesso servono come se fossero un vero e proprio «materiale di riflessione» per la voce narrante, la quale sospende il suo "viaggio" proprio apposta per commentare (e a volte lo fa addirittura chiamando in causa il lettore, come se egli fosse un testimone).

In Balzac, invece, la tensione tra la realtà e l'ideale non è una questione di commento, ma piuttosto essa rappresenta una sorta di posizione testuale che viene così espressa stando su un pendio, su un crinale: da lì, da quel punto, qualcosa si muove, qualcosa si sposta, e si crea quella suspense per cui la narrazione (mastodontica, senza un centro fisso, come se si trattasse di «centomila romanzi», proliferante, senza alcuna intenzione di finalizzazione) inizia a occupare nuovi territori.

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 26 giugno 2023

Abbiate pazienza !!

Essere significa avere tempo. Eppure abbiamo continuamente la sensazione di non avere tempo. Ma che cos’è, allora, questo bene di cui lamentiamo la mancanza? Forse è il tempo di qualità. E come trovarlo? La nostra civiltà, sostiene Pascal Chabot, vive sotto quattro regimi temporali che si scontrano: Fato (imperativo biologico della vita fino alla morte), Progresso (imperativo del futuro), Ipertempo (tirannia del presente e tecnocapitalismo: il tempo è ovunque da nessuna parte) e Scadenza (conto alla rovescia verso la catastrofe ecologica). Prima d’ora mai si è sperimentato l’antagonismo di tante concezioni incompatibili del tempo, che il più delle volte si uniscono contro di noi e che dobbiamo tuttavia conciliare per affrontare la quotidianità. Perché l’atteggiamento che assumiamo nei confronti del tempo ha un impatto profondo sulle nostre vite: navighiamo tra nostalgia del passato, dipendenza dal presente e speranza per il domani. Ma quale temporalità dovrebbe essere preferita? La sfida, scrive l’autore, è costruire una saggezza del tempo commisurata all’attualità: una cronosofia.

(dal risvolto di copertina di: "Avere tempo", di Pascal Chabot. Treccani, pagg. 172, € 17)

Alla rincorsa del tempo, priorità irrinunciabile
- di Alberto Orioli -

«Vivere non è altro che avere tempo» ci ricorda Pascal Chabot, filosofo che insegna all’Institut des Hautes Études des Communications Sociales di Bruxelles. Il suo saggio Avere tempo diventa il manifesto per una nuova cronosofia, una sfida a cogliere l’essenza del bene più prezioso, spesso sciupato perché non compreso, sovente considerato scarso perché i ritmi della vita lo hanno reso confuso e indistinguibile, a tratti contraddittorio. Un libro che intercetta un’istanza contemporanea molto avvertita: il ritorno alla qualità del tempo, a un’ecologia degli orari, diventati forzosa unità di misura esistenziale. È l’esigenza alla base del fenomeno del big quit, vale a dire delle dimissioni di massa che interessa una parte delle nuove generazioni, quella di chi se lo può permettere. Sta crescendo il numero di quanti lasciano il lavoro se lo considerano non più compatibile con le esigenze del tempo di vita considerato una priorità sempre più irrinunciabile. È un modo con cui le nuove generazioni fanno la loro rivoluzione e “uccidono i padri” stakanovisti e unidimensionali. Chabot contribuisce a sistematizzare il tema della percezione del tempo che scorre e la sua natura intrinsecamente conflittuale, spesso paradosso.

Abbiamo almeno quattro tipi di tempo: il Fato come sintesi di un imperscrutabile vincolo biologico; il Progresso con la sua tensione vitale verso il futuro; l’Ipertempo nella sua accezione ossessiva di un presente immanente e tecnico che è ovunque e da nessuna parte, centrale soprattutto nella cultura occidentale derivata da certo capitalismo finanziario che vive un presente orientato continuamente al futuro e del futuro stesso fa una commodity; la Scadenza che l’autore associa alla deriva distruttiva verso l’ambiente, il gigantesco collasso verso la fine del mondo, il no future raccontato dai punk inglesi.

Naturalmente questa tassonomia del tempo racconta spinte conflittuali e antagoniste tra loro, da cui l’ansia presente di una umanità sempre affamata di tempo, perennemente ritenuto insufficiente e scarso. L’uomo contemporaneo è alla continua ricerca di un equilibrio che debba compendiare l’inafferrabilità del tempo della natura, con la sua inesorabile lentezza (quello del Fato che, ad esempio, dà il ritmo alla crescita dei capelli, secondo un copione che comprendiamo antico e primordiale) con la pretesa del tempo del Progresso che punta a rendere l’uomo padrone della natura, nel segno di «una moderna civiltà di persone impazienti». Nel mezzo, tra le due idee cronologiche, c’è la scoperta dell’orologio che rivoluziona il campo della conoscenza e quello del lavoro. «Una cosa è certa - scrive Chabot -: il tempo non è mai stato così presente in quantità, ma la sua qualità non è mai stata così problematica». È anche per questo che si applica una sorta di revisionismo civile all’idea del «tempo è denaro» di Benjamin Franklin fino ad arrivare al suo ribaltamento laddove il vero denaro sia proprio il tempo. Tanto più dopo che il mondo ha compreso in modo tanto traumatico quanto duraturo la sua intrinseca fragilità durante la pandemia. Un evento epocale che ha indotto i cittadini di cinque continenti ad una diversa percezione della storia stessa. Il Covid è diventato il catalizzatore della volontà di ripensare le priorità, le sequenze, le concatenazioni proprie del metronomo della nostra vita quotidiana. E ha sconvolto gli equilibri di una quotidianità che sembrava immutabile. E di cui il lavoro è da sempre parte importante. Torna preponderante il motto che André Breton fece incidere sulla sua pietra tombale nel cimitero di Batignolles a suggello della vita da poeta e da surrealista: «Cerco l’oro del tempo». La preoccupazione numero uno nel mondo del lavoro resta quella di «quanto denaro consente di comprare il tempo degli individui, in base alla loro formazione e ai loro contributi». Chabot avverte che «di fronte a questo, è difficile credere che il denaro ricevuto in cambio varrà mai lo sforzo. Il tempo è concreto, esistenziale: è qualità aggiunta a una quantità. Il denaro è astratto, circostanziale. È certamente necessario, indispensabile, persino essenziale, e per molti aspetti desiderabile, ma rimarrà sempre fuori dal cuore dell’esistenza perché è solo quantitativo».

La cronosofia proposta nel volume non potrebbe non avere un contraltare rivoluzionario e spiazzante. È il «contrattempo» che diventa il vero dominus in una esistenza agganciata alla disciplina degli orari, al mito della puntualità come cortesia sociale, a una fretta che non significhi sciatteria, ma tempo sincopato. Il contrattempo toglie a ciascuno il dominio della giornata, il potere di suddividerla in ritmo riconoscibile e condiviso. Solo allora ci rendiamo conto - è sempre la tesi dell’autore - di poter ritrovare l’energia che pensavamo perduta e la libertà di scelta, sepolta sotto una quotidianità eterodiretta. In effetti il contrattempo ci costringe alla «pazienza dell’imprevisto» e alla necessità di trovare risposte non precostituite. Ci costringe a un esercizio innanzitutto di pazienza che è qualcosa di antico e di arcaico, una sfida di oggi come di mille anni fa. È tutta qui la provocazione di Chabot verso l’epoca della nevrosi ipercinetica. Anche perché «la pazienza è il secondo coraggio dell’uomo». Ne ha avuta molta chi ha scritto questo libro, ne dovrà avere molta anche chi lo leggerà.

- Alberto Orioli - Pubblicato su La Domenica del 19/3/2023 -

domenica 25 giugno 2023

Buttare o no i soldi dalla finestra !?!!

Quello che deve risolvere le cose, è lo Stato
- Le tensioni geopolitiche e il cambiamento climatico stanno rilanciando l'intervento dello Stato e la sua politica industriale. Lo ha dimostrato, di recente, il dibattito riguardo la partecipazione di una società statale cinese al porto di Amburgo -
di Tomasz Konicz

Globalizzazione, libera circolazione delle merci, libertà di investimento: da qualche tempo, i pilastri del neoliberismo sembrano vacillare. La «mano invisibile» del mercato, come recita la famosa metafora di Adam Smith, viene di nuovo frequentemente guidata dall'intervento dello Stato, spesso per motivi di sicurezza e geopolitici. Per molti anni, la Germania, in quanto ex campione mondiale delle esportazioni, ha beneficiato più di ogni altro Paese della libera circolazione di capitali e merci. Ma da tempo, anche rispetto a questo, il tono protezionistico è tornato a prevalere. Lo dimostra il caso del porto di Amburgo. La società statale cinese, "Cosco", intende acquisire una partecipazione di minoranza nella società che gestisce il più piccolo dei quattro terminal container di Amburgo; il Container Terminal Tollerort (CTT). Ma i terminal sono stati classificati dal governo tedesco come infrastrutture critiche, motivo per cui bisogna che il governo ne debba approvare la vendita. L'ingresso della Cosco nel mercato, ha suscitato una grossa polemica. Alla fine del mese di aprile, Die Zeit ha criticato, per aver aperto a questa acquisizione, quella che a suo avviso rappresenta la «vecchia mentalità di mercato» del Parlamento e del Senato di Amburgo. Non tutto ciò che promuove il fatturato, è per questo anche «politicamente corretto o sostenibile», afferma il settimanale di Amburgo. La Cosco fa parte di un gruppo di circa 100 imprese statali, le quali agirebbero interamente nell'interesse del partito di Stato cinese - e, in ultima analisi, del «capo di Stato Xi Jinping» - con l'obiettivo di «aumentare innanzitutto l'influenza del regime autoritario». La partecipazione di Cosco in CTT, non le darebbe accesso diretto alle infrastrutture portuali, ma la società cinese, anche nel caso di una partecipazione di minoranza, avrebbe comunque accesso a dei dati sensibili. E sarebbe pertanto «irragionevole credere» che la società statale non trasmetta poi tali dati interni al governo di Pechino, o non agisca «nell'interesse del partito» per quelle che sono le decisioni economiche; come ha spiegato Die Zeit. Una posizione opposta è stata espressa - a metà maggio - dal presidente dell'Associazione dei datori di lavoro, Rainer Dulger, che riduce le divergenze tra il governo tedesco e il regime cinese a una «politica moralistica». Si tratta di una «strada sbagliata» che nei confronti del «nostro più grande partner economico» non dovrebbe essere seguita. La Germania farebbe bene a «continuare a rassicurare i nostri partner cinesi sul fatto che manteniamo la nostra amicizia», chiede Dulger. Queste contraddizioni della strategia tedesca nei confronti della Cina - che possono essere descritte approssimativamente come un conflitto tra interessi geostrategici ed interessi economici - si riscontrano anche all'interno dello stesso governo tedesco. In linea di principio, i partner della coalizione concordano sulla necessità di ridurre la dipendenza dalla Repubblica Popolare ma, soprattutto per molti socialdemocratici, gli sforzi di smarcarsi da parte del ministro degli Esteri Annalena Baerbock (Verdi) si spingono troppo oltre. Durante il suo recente viaggio in Cina, Baerbock ha criticato chiaramente le violazioni dei diritti umani. In risposta, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha dichiarato che la Cina non ha bisogno di un «professore occidentale», e che ogni Paese ha il proprio contesto culturale e storico, per cui «nel mondo non esistono standard uniformi».

Per quel che riguarda il caso del porto di Amburgo, sembra che ora abbia trionfato l'interesse per le buone relazioni economiche. Il 10 maggio, è stato annunciato che la Cosco verrà autorizzata ad acquisire una quota di minoranza del 24,9% nella società operativa CTT. Tuttavia, il cambiamento fondamentale nel dibattito pubblico appare inequivocabile: nella Repubblica Federale - la cui industria di esportazione negli ultimi decenni ha acquisito intere industrie dell'Europa centrale e orientale, per poi integrarle nelle sue catene di produzione globali - le partecipazioni di minoranza straniere a delle società operative di container relativamente insignificanti, sono ora controverse. La vendita del produttore di riscaldatori Viessmann all'azienda di refrigerazione statunitense Carrier Global, ha scatenato una polemica simile. Focus ha parlato del «cuore delle medie imprese tedesche», che ora sarebbero sotto il controllo degli Stati Uniti, ma ha anche sottolineato la pigrizia dell'industria tedesca nell'innovare. Nel mercato innovativo delle pompe di calore - rispetto ai produttori tedeschi, che «per molto tempo si sono accontentati» della vecchia tecnologia di riscaldamento a gas - i concorrenti stranieri sono molto più avanzati. Così, lo sfondo dell'acquisizione è stato infatti quello della stagnazione tecnologica dei produttori tedeschi di riscaldatori; tra i quali Bosch, Viessmann e Valliant. Per anni, le aziende tedesche, che hanno evitato di investire, hanno esercitato pressioni su Berlino contro l'introduzione obbligatoria della pompa di calore. Lo ha riferito in aprile Die Zeit, citando i nomi di alti esponenti dell'industria. I produttori tedeschi di impianti di riscaldamento, hanno grandi e vecchi impianti di produzione i cui costi di investimento sono stati ormai ammortizzati da tempo; ragion per cui sono stati fatti molti soldi grazie alla produzione di caldaie a gas. Dei nuovi investimenti nello sviluppo e nella produzione di pompe di calore avrebbero ridotto questi profitti, e di conseguenza pertanto non sarebbero stati fatti. Per questo motivo, le aziende tedesche come Viessmann non riescono a tenere il passo con la concorrenza a basso costo degli Stati Uniti e dell'Asia nel settore delle pompe di calore.

Ecco che in questo caso, lo Stato tedesco ha ovviamente fallito in quello che avrebbe dovuto essere il suo ruolo di capitalista collettivo ideale. Questa logica di profitto a breve termine, avrebbe potuto essere evitata grazie a delle norme legali, messe in atto al fine di proteggere nel lungo periodo la competitività del paese. Il parallelo con l'industria automobilistica appare evidente. Le aziende automobilistiche tedesche hanno sabotato l'implementazione precoce dell'elettromobilità attraverso un'efficace azione di lobbying mentre, simultaneamente, rischiano in tal modo di rimanere indietro in questo settore tecnologico. Così, per evitare che ciò accada, la Germania, insieme ad altri Stati dell'UE, sta sovvenzionando con miliardi di euro  la produzione nazionale di batterie. E su questo, si vengono a trovare in competizione con gli Stati Uniti; che vogliono anch'essi aumentare la produzione interna di batterie attraverso sovvenzioni miliardarie. Ma non è solo in questo settore che l'Unione Europea sta perseguendo una politica industriale attiva. L'UE vuole ridurre la sua dipendenza dalle catene di produzione globali emerse nell'era neoliberale - soprattutto nell'industria dell'alta tecnologia e dei chip - i cui centri si trovano ora nel sud-est asiatico minacciato dalla guerra. Attualmente, è Taiwan che produce la maggior parte dei microchip avanzati del mondo. Con l'aumento delle tensioni geopolitiche, ora i Paesi industrializzati vogliono dipendere il meno possibile dalle importazioni di chip.

Gli Stati Uniti, la Cina e altri Paesi sono in competizione tra loro in quella che è una costosa gara di sussidi per costruire un'industria nazionale di chip. Anche la Commissione europea vuol fare del settore dei semiconduttori un'industria chiave in Europa. La quota di mercato mondiale dell'UE deve raddoppiare arrivando fino al 20% entro il 2030 grazie a una politica industriale mirata. A Dresda, ad esempio, è appena iniziata la costruzione di un nuovo stabilimento della Infineon, il produttore di semiconduttori della Germania meridionale. L'investimento complessivo di cinque miliardi di euro verrà sovvenzionato dallo Stato con una quota di circa un miliardo di euro - scrive la FAZ - con l'obiettivo di ridurre quanto meno «il divario esistente con i grandi produttori asiatici e americani» e salvaguardare «la sovranità tecnologica dell'Europa». Nel quadro della concorrenza, la politica di investimento da parte dello Stato non guarda solo all'industria high-tech, ma si rivolge anche alla trasformazione ecologica del capitalismo; perlomeno così viene postulato dai politici. L'obiettivo sarebbe quello di guidare la corsa a quelle tecnologie che probabilmente domineranno il futuro: energie rinnovabili, auto elettriche, batterie, impianti industriali "verdi", tecnologie dell'idrogeno e cose simili. A tal fine, il governo statunitense prevede di investire circa 375 miliardi di dollari nell'ambito della legge "Inflation Reduction Act". Nell'UE, i sussidi industriali su larga scala - che di fatto sarebbero vietati dalle regole del mercato comune interno dell'UE - verranno imposti nell'ambito del "Temporary Crisis and Transition Framework" (TCTF). Le condizioni di finanziamento per gli investimenti nelle «tecnologie di trasformazione» dovrebbero essere facilitate in modo da accelerare così la produzione di batterie, impianti solari, turbine eoliche e pompe di calore.

Il fatto che questa logica capitalistica statale sia la conseguenza dell'aggravarsi della crisi, è dimostrato dal caso del produttore statunitense di semiconduttori, Intel. L'azienda sta progettando una fabbrica a Magdeburgo, e pertanto intende investire circa 17 miliardi di euro. Recentemente, l'azienda leader nella produzione di processori - la quale oramai non riesce più a tenere il passo con i suoi concorrenti del Sud-Est asiatico per quel che riguarda i microchip altamente sviluppati - ha registrato una perdita record, e così alla fine di aprile ha chiesto delle sovvenzioni ancora più elevate per lo stabilimento di Magdeburgo; finora erano stati concessi aiuti di Stato per sette miliardi di euro. Già in precedenza erano state espresse delle critiche ai sussidi: «Stiamo buttando soldi dalla finestra», aveva dichiarato a febbraio - alla "Süddeutsche Zeitung" - Reint Gropp, presidente dell'Istituto Leibniz per la ricerca economica di Halle (IWH) e professore di economia all'Università Otto von Guericke di Magdeburgo. Questo perché, in tal modo si sosterrebbero del«le fabbriche che producono con vecchie tecnologie», anziché sostenere la ricerca e lo sviluppo. Inoltre, c'è il rischio che i numerosi investimenti sovvenzionati arrivino a creare una sovraccapacità globale, portando così a una crisi dell'industria dei chip. Tutte queste argomentazioni corrispondono alla solita critica economica liberale nei confronti della politica industriale statale, la quale afferma e sostiene che i sussidi statali, o proteggono industrie e tecnologie obsolete, oppure contribuiscono a un ribasso dei prezzi dei loro prodotti, e pertanto a una riduzione dei redditi. Naturalmente, tutti questi avvertimenti vengono ascoltati sempre meno.

- Tomasz Konicz - Pubblicato in Jungle World il 25/5/2023 -

sabato 24 giugno 2023

Contro il Cemento !!

Sabotaggio: «Prendere di mira l'industria del cemento è più che legittimo.»
- Intervista con Anselm Jappe (Reporterre) del 14 giugno 2023 -

Reporterre: Il 5 giugno, le brigate antiterrorismo hanno arrestato una quindicina di attivisti che, secondo la polizia, avrebbero danneggiato una cementeria Lafarge nella regione Bouches-du-Rhône. Qual è la sua reazione a questa operazione?

Anselm Jappe: Lo Stato non si vergogna di accusare di terrorismo coloro che hanno protestato contro un industriale legato al terrorismo. Ricordiamo che Lafarge è attualmente indagata per doppia complicità in crimini di guerra e contro l'umanità, dopo aver negoziato con l'ISIS il diritto di continuare i suoi lucrosi affari in Siria. Per questo sostegno,  nell'ottobre 2022, il gruppo è stato multato dagli Stati Uniti per 778 milioni di dollari. Ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il cemento, e più in generale l'estrattivismo, operano in mezzo a milizie, eserciti privati e signori della guerra che esercitano forme di potere particolarmente brutali. E qui sta l'ironia: lo Stato usa le brigate antiterrorismo per rintracciare degli individui che tutt'al più avrebbero usato solo qualche mazza o un paio di tronchesi! Questo si chiama sparare ai passeri con l'artiglieria pesante! Ed è un modo classico per soffocare qualsiasi opposizione. Non è la prima volta che lo Stato usa la sorveglianza antiterrorismo contro gli attivisti, ma questi metodi stanno diventando sempre più comuni e diffusi. Ovviamente, bisogna opporci a questa forma di repressione. Allo stesso tempo, di tutto questo c'è da esserne fieri. Sul piano politico, è come se lo Stato stesse facendo i suoi complimenti agli arrestati, e ai movimenti a cui essi appartengono. La sua reazione isterica dimostra solo che è molto preoccupato. Si percepisce il nervosismo dovuto alla sempre più crescente forza del movimento ambientalista; e a causa dello sviluppo di quelli che sono atti di sabotaggio, che però io non definirei violenti, ma semplicemente illegali. Il movimento per la difesa della terra dispone di un potenziale sovversivo che forse è superiore sia alle lotte strettamente sindacali che a quelle sociali di oggi. La stragrande maggioranza delle persone si dice preoccupata per l'ambiente ed è pronta ad agire; o approva chi lo sta facendo. È questo, a spaventare di più lo Stato: il fatto che migliaia o decine di migliaia di manifestanti non rispettino più la legge, come hanno fatto a Sainte-Soline o altrove. L'atteggiamento dei manifestanti sta cambiando. La vecchia strategia del governo, tesa a separare gli attivisti, in pacifisti buoni e teppisti cattivi, non funziona più. Anche le persone più anziane o quelle che non si impegnerebbero personalmente in questo tipo di azioni ora le giustificano. È una reazione sana e legittima alla brutalità dello Stato e della polizia.

Reporterre: E per quanto riguarda gli industriali?

Jappe:  Sì, ovviamente il sistema industriale e produttivista rappresenta una forma di violenza. A essere i primi criminali climatici. sono gli industriali. Inoltre, essi non godono più di una buona stampa, e c'è una crescente consapevolezza di questo. Per molto tempo il cemento è stato considerato come se fosse un elemento neutrale, ma ora l'opinione pubblica si rende conto che questo materiale, così come l'industria che lo produce sono dannosi sotto molti aspetti. Il filosofo Hegel diceva: «Solo le pietre sono innocenti». Ma la verità è che ora anche le pietre, una volta entrate nel ciclo industriale, ormai non sono più innocenti.

Reporterre: Come analizza il fatto che 200 attivisti abbiano deciso di entrare in azione in un cementificio Lafarge e che in questo fine settimana, a Nantes,  si stiano mobilitando di nuovo contro l'industria del cemento e contro l'estrazione della sabbia?

Jappe: Come ha detto il filosofo Walter Benjamin nel 1940, si tratta di un modo per «tirare il freno d'emergenza». Il treno del progresso si sta precipitando verso quello che è un abisso e, prima di tirare il freno, non si va di certo a chiedere allo Stato se i regolamenti consentano o meno ai passeggeri comuni di tirare questo freno. Gli attivisti pretendono il disarmo del cemento. Ed hanno ragione a farlo. Il cemento è un'arma di distruzione di massa. Io non ho dei consigli legali da dare alle persone arrestate, che per ora sono innocenti, ma spero che questo caso possa costituire un'occasione collettiva per tornare all'attacco e dire che - anche se non seguiamo le leggi dello Stato - abbiamo tutte le ragioni per agire. Esiste una morale superiore alla legge dello Stato. È la legittimità contro la legalità. Di fronte ai tentativi di intimidazione, bisognerà riuscire a trovare collettivamente la forza per reagire. Prendere di mira l'industria del betonaggio rimane un obiettivo più che legittimo.

Reporterre: Perché?

Jappe: Perché non ci sono più dubbi sulla sua natura apocalittica. Perché il cemento gioca un ruolo centrale in quella che è la logica industriale e capitalista. È un'industria che produce enormi conseguenze per l'ambiente e per la salute, e che da tempo sta devastando il mondo con la costruzione di autostrade, centrali nucleari, dighe e così via. Il cemento si lega a traffici illegali, come quello del furto di sabbia, e produce un'enorme quantità di rifiuti. Si tratta di un grande problema industriale. Il cemento è il principale responsabile dell'artificializzazione dei suoli e dei catastrofici depositi alluvionali che ne derivano, come è accaduto il mese scorso in Italia, in Romagna. Da solo, è responsabile dell'8% delle emissioni globali di CO2. Per quanto riguarda il settore delle costruzioni, esso è responsabile del 39% delle emissioni di CO2 a livello mondiale. Ma non sono solo questi gli unici motivi per impegnarsi. Questo settore ha anche contribuito alla diffusione mondiale di un'architettura monotona e assai spesso inabitabile, che non tiene alcun conto di quali siano i materiali e del patrimonio del bagaglio di conoscenze locali, preferendo invece un materiale sempre uguale, le cui costruzioni sono spesso progettate da architetti-designer che non tengono alcun conto delle esigenze degli utenti. Il cemento armato ha contribuito in modo determinante all'impoverimento del mondo sensibile; un impoverimento che è il segno distintivo del capitalismo.

Reporterre: Come possiamo lottare contro questa industria?

Jappe:  Opponendoci in maniera pratica a ogni tipo di nuovo progetto inutile o dannoso; che si tratti di autostrade, centri commerciali, aeroporti, cementifici o cave. È incoraggiante vedere come negli ultimi anni queste lotte si siano sviluppate fortemente in Francia. Nel Paese non c'è quasi alcun progetto che vada avanti senza incontrare opposizione. Ciò dimostra che esiste una crescente consapevolezza del problema. Io penso anche che dobbiamo continuare a minare sempre più la reputazione del cemento. Per molto tempo, con Le Corbusier o altri, lo si è considerato come un materiale nobile, una prova di modernità. Ma adesso tutto questo è arrivato alla fine.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

venerdì 23 giugno 2023

En français

Jaggernaut n°5 - Estate 2023
Con e oltre Marx: la critica della dissociazione del valore, un dibattito teorico in corso
(pubblicato da Crise & Critique) ISBN : 978-2-490831-26-5 ISSN : 2534-6377
16 euro - 320 pagine - Distribuzione: Makassar e Hobo-diffusione

In origine, "Jaggernaut" era il nome del carro processionale della dea indù Visnù. «Il culto di Jaggernaut» - scrive Marx - «prevedeva un rituale assai pomposo, che dava luogo a un'esplosione di fanatismo, il quale si manifestava poi con suicidi e con mutilazioni volontarie. In occasione di queste grandi feste religiose, i fedeli si gettavano sotto le ruote del carro che trasportava la statua di Visnù-Jaggernaut». Una metafora, questa, che Marx ha utilizzato più volte, parlando di esseri umani che venivano gettati «sotto le ruote dello Jaggernaut capitalista», in modo da evidenziare così la dimensione sacrificale, feticistica e distruttiva del capitalismo.

In questo quinto numero della rivista, si potrà leggere un dossier in cui viene dato conto della costruzione teorica in corso di quella che è la nuova critica del patriarcato produttore di merci: una storia di quali, tra il 1966 e il 1992, sono state le origini della rivista tedesca "Krisis" ; un manifesto per la trasformazione della critica anticapitalista, un articolo di Robert Kurz in cui egli cerca di portare avanti una «rivoluzione teorica rimasta incompleta», tutta una serie di scambi critici che si sono svolti intorno alla teoria e all'analisi di quelle che sono state le molteplici forme assunte dalla crisi contemporanea, dalla finanziarizzazione all'inflazione globale, passando per la pandemia di Covid e per l'interpretazione che si potrebbe dare della guerra in Ucraina. Sandrine Aumercier ritorna sull'aporia relativa agli studi di genere, e sulla distinzione tra sesso e genere, che continua a mantenere una confusione implicitamente naturalistica tra la forma sessuata delle relazioni sociali in una data società, da una parte, e la riproduzione sessuale, dall'altra.

Indice dei contenuti:

DOSSIER

- Editoriale: "Con e oltre Marx: un dibattito teorico in corso", Di Matthieu Galtier e Clément Homs, per il Comitato di redazione .

- I cani da strada della teoria critica. Alle origini della Krisis: protagonisti e preistoria della Critica della dissociazione del valore (1966-1992) di Clément Homs.

- Una critica del capitalismo per il XXI secolo. Con Marx, oltre Marx: presentazione del progetto teorico del gruppo Exit! del Gruppo Exit!

- Una rivoluzione teorica incompiuta, di Robert Kurz

- Ernst Lohoff e l'individualismo metodologico, di Bernd Czorny

- Due libri, due punti di vista. Su "La grande svalutazione" e su "Denaro senza valore", di Ernst Lohoff

- Wishful Reading. Una risposta al gruppo di Karlsruhe, di Ernst Lohoff

- La critica del valore vista come una confezione ingannevole, di Thomas Meyer

VARIA

- La pandemia nella crisi fondamentale del capitale. Inflazione globale, lo scoppio dell'ultima bolla finanziaria e la disintegrazione sociale del capitalismo, di Fabio Pitta e Allan Silva

- Dinamiche di escalation e frammentazione globale. La lotta per l'Ucraina, di Marcos Barreira
 
VERSUS

- La naturalizzazione del sesso nelle teorie costruttiviste di genere, di Sandrine Aumercier


fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

giovedì 22 giugno 2023

Consumare il Mondo !!

Il Capitalismo in marcia verso la collisione ecologica
di André Villar

La contraddizione esistente tra quella che è la forma sociale capitalistica-moderna e il mondo concreto e sensibile, si evidenzia e si esprime, tra l’altro, a partire dalla crescente erosione delle fondamenta ecologiche e materiali della Terra. A ogni sviluppo tecnologico, ecco che viene mobilitata sempre meno forza lavoro destinata a produrre una determinata quantità di beni. Ciò significa che nel corpo di ciascuna merce si trova a essere coagulato sempre meno lavoro umano. Detto in altri termini, le merci valgono sempre meno. Come può, il sistema sfuggire a una simile contraddizione? Producendo sempre più unità del medesimo prodotto! Se a causa dei nuovi sviluppi tecnologici, il valore di ciascuna merce si è dimezzato, ecco che per compensare la perdita si rende quindi necessario produrre una quantità doppia di prodotti. E dal momento che questo movimento non si arresta - e che il sistema può preservarsi solamente espandendosi per mezzo della dilatazione della propria forma - ecco che ci rendiamo conto del fatto che tutta questa logica ha finito per portare a un incremento del processo di dilapidazione delle basi naturali della vita.

Si tratta di una sorta di «tasso di accelerazione del Consumo del Mondo»; cosa che nel corso della storia del capitalismo aumenta in maniera esorabile. Una dinamica questa, che continua ad aggravarsi sempre più. Basti pensare che sono decenni ormai che praticamente la velocità dei computer viene raddoppiata al ritmo di ogni ogni due anni; e questo tenderà ad aumentare ancora di più nel corso della cosiddetta singolarità, come è stato previsto da alcuni teorici: accelerazione dell'accelerazione di un movimento che era già esponenziale [*1]. Questa contraddizione tra la forma sociale e il contenuto concreto-sensibile del mondo è stata espressa da Marx nel modo seguente: «Ciò significa semplicemente che lo stesso numero di operai - la medesima quantità di forza lavoro che faceva lavorare un certo capitale variabile per ottenere un determinato volume di valore dato - ora, in seguito ai particolari metodi di produzione sviluppatisi nella produzione capitalistica, pone in attività, utilizza e consuma in maniera produttiva, durante lo stesso periodo di tempo, una massa sempre più grande di strumenti di lavoro, di macchine e di capitale fisso di ogni genere;  e pertanto consumerà produttivamente una quantità sempre più grande di materie prime e ausiliarie». [*2]

Il problema che Marx era riuscito a individuare, è diventato una vera e propria catastrofe; oltre a essere una minaccia crescente per la specie umana e per gli altri abitanti della Terra. Questa logica, che nel corso del suo processo di affermazione su scala planetaria ha già portato a molti eccessi, ora sta rapidamente procedendo in direzione della distruzione delle condizioni ecologiche necessarie alla vita nel suo complesso. Può darsi che forse la vita stessa sopravvivrà, e che tutto questo sia solo una leggera febbre nella storia della Terra. Ma il ritmo della depredazione planetaria tende a rendere impossibile l'esistenza umana in quelle che sono delle parti sempre più crescenti del pianeta, portando così a fughe di massa da quelle regioni colpite da dei disastri ecologici di qualche tipo, insieme a guerre per le "risorse" vitali; le quali guerre, per inciso, sono già iniziate in un modo o nell'altro in varie parti del pianeta, e comprendono anche la guerra per  l'acqua [*3].

L'accelerazione del processo di Consumo del Mondo si sta manifestando in modi diversi, ma l'aumento delle emissioni di CO2 nell'atmosfera ne è la manifestazione più evidente. Anche dopo la rivoluzione industriale, i livelli di emissioni di CO2 nell'atmosfera erano relativamente bassi. È dalla metà del XX secolo in poi, che questo processo si è intensificato. Nel 1950, appena cinque anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le emissioni globali annuali erano passate da 4 a 6 giga-tonnellate di diossido di anidride carbonica (una giga-tonnellata equivale a 1.000.000.000 di tonnellate). Nel 1989, tale cifra era quasi quadruplicata, arrivando a 22 giga-tonnellate. E nel 2022, avrebbe raggiunto le 36,8 giga-tonnellate. In altre parole, le emissioni di CO2, in tre decenni sono aumentate di oltre il 50%.

Una crescita, questa, che avrebbe potuto essere ancora maggiore se non fosse stato per la forte deindustrializzazione che ha fatto seguito al processo di crisi globale; e solo in misura assai minore in seguito alle misure adottate per ridurre le emissioni: energia solare ed eolica, auto elettriche, efficienza energetica, ecc. Tuttavia, sono state le stesse dinamiche del collasso che ora stanno portando a un aumento dell'utilizzo del carbone minerale e dell’«Olio di Scisto»: una vera e propria regressione energetica finanziata dai capitali fittizi, che sta amplificando i già gravissimi problemi ambientali [*4].

Altrettanto allarmanti  appaiono le cifre relative alla produzione di rifiuti, alla distruzione delle foreste, alla desertificazione del suolo, e così via. Ma è ovvio che tutti questi impatti non possono essere isolati l'uno dall'altro; al contrario. I loro effetti si intersecano, si compenetrano e si intensificano. Ad esempio, l'aumento della temperatura globale porta allo scioglimento del permafrost, e quindi a una maggiore incidenza degli incendi, e pertanto al riscaldamento degli oceani, e così via. Il risultato è il rilascio di una maggiore quantità di metano e di CO2, insieme a una minore capacità di assorbirli, cosa che sta creando una spirale devastante [*5]. Pertanto, non si tratta di un fenomeno lineare.

Una volta che sono stati superati certi limiti, c'è la possibilità di enormi balzi, e che si inneschino delle reazioni a catena, portando così un'escalation incontrollabile. In questo modo, quelle che erano le prospettive più catastrofiche di ieri, finiscono ora per svanire, lasciando il posto a previsioni ancora più terrificanti. Se essa non viene fermata, continuerà come un bolide, e lo farà nonostante tutti gli avvertimenti e tutti gli allarmi. Verso l'abisso.

André Villar - Pubblicato il 21/6/2023 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -

NOTE:

[*1] - La "singolarità" costituisce un singolo evento che ha dalle enormi implicazioni. Essa rappresenta quella fase di crescita tecnologica, esponenziale quasi verticale, allorché il ritmo diventa così talmente estremo che sembra espandersi - per quelli che sono i nostri limitati standard umani - fini a raggiungere una velocità infinita. Per Ray Kurzweil, nell'ultima fase di sviluppo della Singolarità, è l'intero universo che viene saturato dalla nostra intelligenza: «È il destino dell'universo» (p. 29). A suo avviso, una civiltà umano-macchina - con esseri umani non biologici - continuerebbe a rappresentare la civiltà umana, ma lo farebbe a un nuovo e più alto livello di evoluzione. Si veda: Kurzweil, "The singularity is near : When humans transcend biology", New York, Penguin, 2006.

[*2] - Karl Marx - Il Capitale - Libro III -

[*3] - Nemmeno i Paesi centrali vengono risparmiati dalla guerra per le risorse vitali. Il governo francese ha costruito dei giganteschi bacini idrici al fine di rifornire le grandi aziende agricole durante l'estate. I residenti protestano, sostenendo che queste misure danneggiano i piccoli agricoltori. Questi conflitti si stanno già diffondendo in tutto il mondo. I conflitti per l'acqua diventano comuni in Francia, DW Brazil su Youtube, 02/06/2023. Vedi su: https://www.youtube.com/watch?v=uk4NcVlwKzw . Consultato il: 12/06/2023.

[*4] - BOTELHO, Maurílio. "Pianeta in fiamme: come la crisi capitalista approfondisce il collasso ambientale", del 24/08/2021. Online su: https://francosenia.blogspot.com/2021/08/al-fuoco.html

[*5] - I grafici mostrano che più della metà delle emissioni di CO2 si sono verificate negli ultimi 30 anni, BBC News Brazil, 08/11/2021. Disponibile: https://www.bbc.com/portuguese/geral-59013520 . Consultato il 02/05/2023. Le emissioni di CO2 raggiungono un livello record nel 2022, ma sono inferiori al previsto; su: Carta Capital, World, 02/03/2023. Disponibile:  https://www.cartacapital.com.br/.../emissoes-de-co2.../ . Accesso: 12/06/2023.

Come un Uruboro, ma è solo questione di… tempo !!

Il capitalismo cannibale è il sistema a cui dobbiamo la crisi attuale. Debito schiacciante, lavoro precario e mezzi di sostentamento assediati; servizi in calo, infrastrutture fatiscenti e confini induriti; violenza razziale, pandemie mortali e condizioni meteorologiche estreme; il tutto sovrastato da disfunzioni politiche che bloccano la nostra capacità di immaginare e attuare soluzioni alternative. Questo libro è un'immersione profonda nella fonte di tutti questi orrori. Diagnostica le cause della malattia e dà i nomi dei colpevoli.

'Capitalismo cannibale' è l'espressione che usa Nancy Fraser per definire il sistema sociale che ci ha portato a questo punto. La metafora del cannibale è calzante per l'analisi della società capitalista caratterizzata da una frenesia alimentare istituzionalizzata in cui il piatto principale siamo noi. Ma Fraser precisa e amplia anche la parola 'capitalismo' che, a suo giudizio, designa un ordine sociale che consente a un'economia orientata al profitto di predare i supporti extra-economici di cui ha bisogno per funzionare: la ricchezza espropriata dalla natura e dai popoli assoggettati; le molteplici forme di lavoro di cura, cronicamente sottovalutate quando non del tutto disconosciute; i beni e i poteri pubblici che il capitale richiede e allo stesso tempo cerca di limitare; l'energia e la creatività delle persone che lavorano. Per questa ragione la parola capitalismo non si riferisce a un tipo di economia, ma a un tipo di società: quella che autorizza un'economia ufficialmente designata ad accumulare valore monetizzato per gli investitori e i proprietari, mentre divora la ricchezza non economizzata di tutti gli altri. Come l'uroboro che si mangia la coda, la società capitalista è pronta a divorare la sua stessa sostanza.

(dal risvolto di copertina di: NANCY FRASER, "Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta". Traduzione di Federico Lopiparo LATERZA Pagine 204, €20)

Il Capitale bestia onnivora
- di Carlo Bordoni -

L'uroboro è un serpente che si morde la coda, simbolo , alchemico del potere che si consuma e si rigenera. Ma anche della circolarità del tempo (Nietzsche) che si ripete all’infinito. Per Nancy Fraser, filosofa femminista della New School for Social Research di New York, l’uroboro può rappresentare bene il capitalismo. In Capitalismo cannibale (Laterza) ipotizza la sua capacità di crescere a dismisura attraverso la pratica auto-fagocitatrice degli stessi elementi che servono alla sua sopravvivenza. Cannibalizza le ricchezze della natura, soprattutto, senza provvedere a reintegrarle, assieme ai lavori di cura, le cui energie sono dirottate altrove, e persino le capacità politiche, destituite di ogni potere decisionale, con una continua opera di sfruttamento ed espropriazione a carico delle persone più deboli. Malgrado questa continua attività autodistruttiva, il capitalismo riesce a progredire e a rigenerarsi, in barba a ogni logica. Fraser non ha dubbi: partendo da una tesi che sembrava superata, la traduce in un manifesto di critica sociale ed economica dai toni durissimi. Infatti di capitalismo non si parlava quasi più, sembrava un termine obsoleto, da «padroni delle ferriere», fuori luogo in tempi di lavoro immateriale, di finanziarizzazione e di globalizzazione. Persino la classica equazione «capitalismo uguale lotta di classe» sembrava caduta per effetto della dismissione dei termini. Che senso ha una lotta di classe senza il capitalismo? L’ultima volta primeggiava nelle pagine del saggio di Marshall Berman "Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria" (il Mulino), ma erano gli anni Ottanta. Partendo da un’affermazione di Karl Marx, Berman scriveva che il capitalismo è per sua natura mutevole, proprio perché moderno. È instabile, si nutre di una modernizzazione continua, consuma risorse, idee, prodotti, mode. Crea nuovi equilibri, seguendo un processo incessante di dissolvimento e di ricreazione. Se si vuole contrastarlo è necessario cavalcare il cambiamento e magari precederlo.

Dell’idea di Berman resta molto in Nancy Fraser, grazie alla quale scopriamo che il capitalismo aveva alimentato le varie crisi che si sono succedute, compresa la pandemia, per tornare ogni volta più forte che mai. A perire sono stati semmai i suoi avversari, debitamente cannibalizzati o cooptati al suo servizio. Perché c’è un aspetto su cui insiste: che il capitalismo non è un sistema economico, bensì un sistema sociale. Nato con la modernità, ha realizzato la prima grande frattura con il passato separando il «lavoro produttivo salariato» dal «lavoro riproduttivo non salariato», con una netta divisione dei ruoli. La produzione (retribuita) è riservata principalmente al genere maschile e i compiti relativi alla riproduzione e alla cura (non retribuiti) al genere femminile, determinando così «le moderne forme capitalistiche di subordinazione delle donne». Unitamente a un sistematico sfruttamento e a un’espropriazione delle ricchezze, al punto di privare di energia gli stessi agenti produttivi e riproduttivi da cui trae sostegno. È in questa contraddizione insanabile, in questa continua dispersione e cannibalizzazione delle ricchezze naturali, umane e politiche che lo supportano, che il capitalismo si rafforza.

L’analisi di Fraser è radicale, svolta a tutto campo, quasi globale, nella sua comprensione degli eventi e delle tendenze. Offre al lettore una visione complessiva lucidamente destabilizzante dell’idea che abbiamo di una società tendenzialmente progressista, che deve ancora fare i conti con tante criticità e disuguaglianze. Fraser avverte che per comprendere il reale status del nostro mondo è necessario andare a scavare nelle «sedi nascoste» della produzione. Si scoprirà che il capitalismo come forma di vita, stabilmente radicato nella mente dell’umanità moderna, nella sua capacità proteiforme, ha assunto volti rassicuranti e ha palesato soluzioni in apparenza innovative, sulle quali si è riversata la critica collettiva. Come nel caso del neoliberismo, che non è altri che il vecchio capitalismo sotto mentite spoglie, utile a deviare l’attenzione generale verso obiettivi secondari. Alla fine Nancy Fraser non perviene a soluzioni, se non quella di «affamare la bestia».

Obiettivo non facile, se dopo secoli di lotte e di faticose conquiste (in parte ritirate) dipendiamo ancora dalle idee di Marx esposte nel suo capolavoro Il Capitale. La società attuale, sempre più individualizzata, sembra avere risolto i problemi generali a livello strettamente personale, ma sempre all’interno della stessa logica di accumulazione del valore. La privatizzazione delle vite riserva a ognuno il compito di risolvere i propri problemi, senza intaccare il sistema nel suo insieme. È una forma di sopravvivenza basata su un tacito accordo tra il singolo e il grande cannibale: l’importante è che lasci intatto il piccolo spazio personale in cui agire. In attesa della giusta soluzione, che non avverrà affamando la bestia e neppure attraverso una rivoluzione, meglio affidarci alla speranza di un lento declino. Se il capitalismo è nato con la modernità, solo la fine della modernità potrà cancellare la «sede nascosta» in cui nasce la cultura del capitalismo. È solo questione di tempo.

- Carlo Bordoni - Pubblicato su La Lettura del 19 marzo 2023 -

mercoledì 21 giugno 2023

Ricevo e pubblico !!

Ogni epoca celebra gli eroi che le si addicono
- di Gianfranco Sanguinetti -

La falsa coscienza degli italiani. La soffocante retorica celebrativa, il lutto nazionale, i funerali di Stato, gli opposti e adiposi giudizi morali, la partecipazione emotiva, vera o falsa, al compianto generale, così come i conati di becero squadrismo contro chi apertamente non ha condiviso il cordoglio istituzionale imposto per la scomparsa di Berlusconi, sono una fantasmagoria costernante degna di rituali di popoli neo-primitivi - quelli allevati dalla zootecnia televisiva.

La falsa coscienza e l'indigenza di un intero paese si è esibita impudicamente in deliquio, sproloquiando per la perdita di un uomo che  ha fatto impunemente ed esattamente il contrario di ciò che gli italiani hanno fatto in questi anni: cioè il proprio interesse. E l'ammirazione supera ogni limite a causa della sua impunità, perché, come ricorda Leopardi, "In tutta l'Europa (massimamente in Italia, dove tutti gli assurdi e gl'inconvenienti sociali sono maggiori che altrove) non reca infamia l'essere o l'essere stato vizioso, né l'aver commesso delitti [...] ma bensì l'essere o l'essere stato punito di qualsivoglia vizio o misfatto..." (Zibaldone, 4044-45).

La falsa coscienza degli italiani, che hanno proiettato le proprie meschine pulsioni inconsce, reificandole nel personaggio di Berlusconi, mostra l'inopia e l'impotenza della coscienza infelice di tutto un popolo. Gli storici del futuro, quando esamineranno le desolanti cronache italiane dei nostri tempi, per sondarne la gravità dovranno leggersi l'opera miliare di Joseph Gabel: La falsa coscienza.

Sarebbe forse tempo di indire il lutto nazionale perpetuo per la morte di un intero popolo.

Gianfranco Sanguinetti20/6/2023 -

martedì 20 giugno 2023

Lettera a Karl Marx

Firenze, 7 febbraio 1865, via dei Pucci, secondo piano

Carissimo, tu hai formalmente il diritto di avercela con me, perché ho lasciato senza risposta la tua seconda lettera e ho tardato fino a oggi a rispondere alla terza. Ecco le cause del mio silenzio: conformemente al tuo desiderio, ho mandato a Garibaldi una copia dell’appello del comitato internazionale e aspetto ancora una sua risposta. Attendo inoltre che si stampi la traduzione italiana per spedire anche questa. Non ti puoi immaginare come in questo paese la gente sia lenta e indecisa. La mancanza di denaro – questa prima e fondamentale, ma anche molto naturale malattia di ogni organizzazione democratica in Europa – inceppa ogni lavoro attivo. Oltre a ciò, la grande maggioranza degli italiani, demoralizzata dal fiasco [in italiano nel testo] completo e dagli errori del partito democratico centralista e unitario, è adesso fortemente malata di scetticismo e di stanchezza. Soltanto la propaganda socialista, appassionata, energica e conseguente, può far tornare in questo paese la vitalità e la volontà. Ma per tutto ciò ci vuole tempo, perché qui occorre ricominciare tutto da capo. In Inghilterra, com’è evidente, voi andate avanti a gonfie vele. Noi, al contrario, azzardiamo a dispiegarle a poco a poco [in italiano nel testo].
Ti mando una poesia fiorentina che spero non ti dispiacerà. Purtroppo l’organizzazione è un affare ben più difficile delle poesie: anch’essa procede, è vero, ma molto lentamente. I suoi successi sono rallentati dall’indifferenza scettica, dalla diffidenza reciproca, dall’ignoranza e dall’incapacità dei cosiddetti capi della cosiddetta democrazia, completamente disorientata e demoralizzata. In Italia deve formarsi una democrazia nuova, fondata sul diritto assoluto e sul culto unico del lavoro. Gli elementi per questo ci sono: l’Italia ne è piena e su questo punto non si deve disperare. Pazienza [in italiano nel testo], come amano dire qui, e di questa pazienza ne occorre tanta! Mazzini è terribilmente in errore se continua a credere che l’iniziativa del nuovo movimento verrà dall’Italia. Verrà dall’Inghilterra, o dalla Francia, o magari dalla Germania; certamente dalle prime due se parliamo solo dell’Europa, oppure da quella magnifica America del Nord: ecco il centro intellettuale e propulsivo dell’umanità. Il resto verrà dietro a rimorchio.
E ora, carissimo [in italiano nel testo] amico, dammi la tua assoluzione per il lungo silenzio, un peccato nel quale non ricadrò più, e bacia rispettosamente per me le belle mani della signora Marx e della figlia.

Tuo devoto M.B.

Non appena avrò le fotografie di mia moglie e di me stesso ve le manderò, ma in cambio chiederò quelle di tutta la santissima famiglia [in italiano nel testo]

(dal volume «Viaggio in Italia» (Elèuthera), una lettera di Michail Bakunin)

lunedì 19 giugno 2023

Democrazie schizofreniche !!

Da dove nascono la guerra, l'avidità, lo sfruttamento, l'insensibilità alle sofferenze altrui? E qual è l'origine della disuguaglianza, ormai riconosciuta come uno dei problemi più drammatici e radicati del nostro tempo? Da secoli, le risposte a queste domande si limitano a rielaborare le visioni contrapposte dei due padri della filosofia politica: Jean-Jacques Rousseau e Thomas Hobbes. Stando al primo, per la maggior parte della loro esistenza gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. A un certo punto, però, a incrinare quel quadro idilliaco è arrivata l'agricoltura, che ha portato alla nascita della proprietà privata. Poi sono apparse le città, e con esse si è affermata l'organizzazione fortemente gerarchica di quella che chiamiamo «civiltà». Per Hobbes, al contrario, la necessità di imporre un rigido ordine sociale si è imposta per contenere la natura individualista e violenta dell'essere umano, altrimenti sarebbe stato impossibile progredire organizzandosi in grandi gruppi. Quasi tutti conoscono queste due storie alternative, almeno nelle loro linee generali: riassumono le idee più diffuse sulla storia dell'umanità e la sua evoluzione, e hanno contribuito a definire la nostra visione del mondo. Ma pongono anche un problema: entrambe dipingono la disuguaglianza come una tragica necessità; un elemento che non potremo mai cancellare del tutto, in quanto intrinsecamente legato al vivere comune. Una visione che non convince affatto gli autori di questo libro, decisi a gettare nuova luce sul passato della nostra specie. In una sintesi tanto meticolosa quanto di largo respiro, che coniuga i risultati delle ricerche storiche e archeologiche più recenti al contributo di pensatori provenienti da culture diverse da quella occidentale, il sociologo David Graeber e l'archeologo David Wengrow ci raccontano una storia diversa - più articolata e ricca di chiaroscuri - dell'evoluzione sociale dell'Homo sapiens. Una storia illuminante e attendibile, dalla quale ripartire per provare a immaginare un futuro diverso.

(dal risvolto di copertina di: "L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità" di David Graeber e David Wengrow Rizzoli, pp. 736, €28)

Il diritto alla fuga
di Adriano Favole

Esistono «tre libertà fondamentali, se non addirittura primarie: la libertà di circolare, di disobbedire agli ordini e di riorganizzare i rapporti sociali». David Graeber e David Wengrow ("L’alba di tutto", Rizzoli, 2022) individuano nella «libertà di abbandonare la comunità con la certezza di essere ben accolti in terre lontane», il pilastro di ogni forma di libertà umana e insieme un forte antidoto al sorgere di poteri coercitivi e violenti. Lo fanno sulla scorta di una vasta analisi archeologica, storica e antropologica: in effetti, per gran parte della storia dell’umanità, sono esistiti sistemi di «ospitalità» che hanno permesso a individui e gruppi più o meno numerosi di muoversi in cerca di asilo e rifugio. I due autori definiscono queste aree come «reti» o «catene regionali dell’ospitalità»: un intero continente, l’Australia, sembrerebbe potersi definire in questi termini almeno fino all’arrivo dei coloni inglesi all’inizio dell’Ottocento. I nativi australiani circolavano liberamente in un’ampia area caratterizzata da lingue e usi alquanto diversi, ma unita da una comune struttura mitologica che dava a ognuno una sorta di cittadinanza o di «passaporto» per muoversi sul continente (Bruce Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, 1987). L’organizzazione «totemica» dei nativi dell’America settentrionale sembra svolgesse un ruolo simile: in gruppi linguistico/culturali anche molto lontani si poteva sempre trovare qualche affiliato al clan dell’orso, per dire, che in caso di necessità ospitava il fuggiasco. Ampie catene dell’ospitalità basate su credenze religiose e su giochi come quello della palla sembrano ugualmente caratterizzare l’area andina. Nella ricerca che fonda il metodo etnografico dell’antropologia, d’altra parte, Bronislaw Malinowski (Argonauti del Pacifico occidentale, Bollati Boringhieri, 2011) scoprì che gli isolani delle Trobriand (Papua Nuova Guinea, Melanesia) erano connessi con isole che si trovavano a migliaia di chilometri di distanza da uno scambio di «inutili» (dal punto di vista degli usi concreti) oggetti di prestigio come collane e braccialetti di conchiglie e madreperla. Il circuito del kula — così i nativi definivano lo scambio — sarebbe un indizio contemporaneo di una pratica un tempo molto diffusa.

Prima di dare vita ad aree culturali specifiche e relativamente chiuse, prima di pensarsi come un insieme di «società» diverse e discrete, e ben prima di inventare gli Stati-nazione e i loro rigidi confini, l’umanità sembra avere sperimentato forme di cittadinanza internazionale o se volete forme universali di parentela che permettevano la mobilità su lunghe distanze e soprattutto la fuga. Quando le condizioni economiche, ecologiche o politiche rendono difficile e al limite impossibile l’esistenza, agli esseri umani rimane la possibilità di fuggire o quanto meno il sogno di trovare ospitalità altrove, di poter riconfigurare in modo nuovo i rapporti sociali, di sottrarsi di conseguenza agli ordini di capi e tiranni. E se applicassimo questa idea a quello che sta succedendo nell’epoca contemporanea, dove non solo intere popolazioni vivono in mezzo a privazioni materiali e a costrizioni e a violenze di ogni tipo, ma dove la parte ricca del mondo pontifica sulla necessità di «fermare le partenze», di limitare gli aiuti e il diritto d’asilo (e persino il salvataggio), di impedire insomma l’esercizio della libertà fondamentale, quella di circolare e di andarsene sbattendo la porta? E se provassimo a «de-naturalizzare», ovvero a mettere in discussione l’idea secondo cui la normalità dell’essere umano è vivere nei rassicuranti confini di uno Stato? E se la libertà di circolazione di tutti fosse il vero antidoto al sorgere di dittatori violenti, un modo pacifico di esportare la democrazia?  Siamo una specie in perenne fuga. Come scrisse Marco Aime qualche anno fa: abbiamo piedi e non radici (Verdi tribù del Nord, Laterza, 2012). Siamo nel profondo meticci perché ci muoviamo ed emigriamo da sempre. La libertà di migrare, come hanno scritto Valerio Calzolaio e Telmo Pievani (Libertà di migrare, Einaudi, 2016), andrebbe considerata come un diritto universale dell’essere umano. Per gran parte della sua storia, in verità, l’umanità ha potuto contare su questa libertà intesa come una possibilità concreta, più che come un diritto astratto.

Nelle mie ricerche di campo, mi sono imbattuto spesso in popoli e gruppi fuggiaschi e in pratiche dell’accoglienza. In Polinesia occidentale la possibilità di fuga si incarnava nell’istituzione del tavaka. Individui solitari, o piccoli gruppi in conflitto col resto della popolazione, potevano prendere il mare sulle loro piroghe, cercando altrove asilo o un’isola vuota su cui ricostruire nuovi rapporti sociali. I diritti d’approdo facevano parte di una conoscenza diffusa e di possibilità di asilo riconosciute. Molte isole dell’Oceania sono oggi il frutto di questi complessi innesti e movimenti e a stento si trova una sola isola che sia il frutto di uno sviluppo endogeno. Ovviamente non sempre i fuggiaschi erano ben accolti, ma in molti casi questi arrivi sono all’origine di dinastie di capi. La figura dello stranger king, del «re straniero» che assume il potere politico attraverso un patto con i maîtres de la terre, i primi arrivati, è una figura molto diffusa tanto in Oceania come in Africa (David Graeber e Marshall Sahlins, Il potere dei re, Cortina, 2019). Quando la Terra presentava ancora ampi margini di insediamento, la fuga approdava spesso in aree non esplorate o poco sfruttate: sull’isola di Réunion, nell’Oceano Indiano, le popolazioni Kafr si presentano oggi come i discendenti di schiavi fuggiaschi che trovarono rifugio nelle aree vulcaniche interne. A volte sono i non umani a essere ospitali, come ben sanno i migranti che cercano di arrivare in Europa attraverso le foreste dell’Est o che cercano di arrivare in Francia attraverso i boschi delle valli alpine. In modo simile, i «figli dei fiumi» o bushinengé della Guyana francese, sono discendenti dei marrons, schiavi fuggiti dalle piantagioni che andarono a creare libere repubbliche lungo le complesse ramificazioni fluviali dell’Amazzonia. Senza scomodare società che a molti parranno esotiche e lontane (non per questo non esistono!), quanti discendenti di italiani ho incontrato in Francia e in Oceania i cui padri o nonni fuggirono altrove ai tempi del fascismo? Quanti italiani hanno trovato asilo e rifugio altrove in epoche di carestie o penurie o semplicemente perché hanno potuto lasciare il nostro Paese in cerca di fortuna altrove?

Viviamo in democrazie alquanto schizofreniche. A differenza di quanto si potrebbe pensare a prima vista, il mondo contemporaneo non ha affatto abbandonato l’antica idea delle catene regionali dell’ospitalità. Per certi versi in realtà è proprio questa la cifra fondante di quella che, con una bella dose di ipocrisia, chiamiamo «globalizzazione». Una parte di umanità circola e viaggia senza sosta: cercando altrove nuove opportunità o semplicemente per svago. A volte una fuga temporanea da routine eccessivamente inglobanti, come avviene per il turismo. Proprio in questo anno post-pandemico, molti osservatori si attendono un nuovo record di viaggi aerei intercontinentali. Una parte di umanità dunque ha realizzato, nonostante gli Stati e i loro confini, una nuova configurazione della possibilità di fuga e dell’accoglienza altrove, grazie a passaporti «forti» e accettati un po’ ovunque (e alle carte di credito ovviamente). La schizofrenia sta nel fatto che una parte di questi flaneurs contemporanei sostiene con disinvoltura che, al contrario, il resto del mondo dovrebbe essere «incoraggiato» a rimanere nei propri confini. Anzi, dovrebbe persino sentire la responsabilità di stare a casa per costruire una società migliore e combattere i dittatori. Per quell’umanità figlia di un dio minore dipingiamo la «normalità» come un mondo in cui ognuno rimane a casa propria, contento della propria «identità». Un intero continente, l’Europa, si affanna così a «limitare le partenze» e a contrastare gli «scafisti» invece di chiedersi con quali politiche (asilo, corridoi umanitari, flussi regolari di lavoratori, collegamenti aerei) ripristinare, per tutti e in primo luogo per chi scappa da guerre e persecuzioni (i sopravvissuti di Crotone, è bene ricordare, arrivavano da Siria, Iran, Afghanistan e Pakistan), l’antico diritto alla fuga. Impedire la fuga è il miglior dono che si possa fare ai regimi non democratici, i quali hanno da sempre lavorato a questo obiettivo costruendo muri, limitando i passaporti, imprigionando i dissidenti. La libertà di fuggire, di andarsene, di non obbedire più agli ordini e di riconfigurare altrove i propri rapporti sociali è una leva imprescindibile. La democrazia si nutre di diritti per chi rimane, ma non è sostanziale senza vie di fuga o quando si impedisce a mezzo mondo ogni via di fuga.

- Adriano Favole - Pubblicato su La Lettura del 12/3/2023 -