Quando Walter Benjamin - con il suo libro "Uomini tedeschi. Una serie di lettere" (una sorta di precursore del libro formato interamente di citazioni, che progetta nel suo lavoro dei "Passages") - ci propone una raccolta di grandi lettere, per farlo si serve della figura tutelare di Goethe, in modo che così possa riuscire a parlarci di un mondo che non esiste più, e rispetto al quale, nel 1936, si rende necessario compiere il lavoro di elaborazione del lutto (il libro viene pubblicato in Svizzera - proprio il luogo in cui dieci anni dopo uscirà il libro di Auerbach, "Mimesis": anch'esso una meditazione sui mondi che non esistono più), usando lo pseudonimo di Detlef Holz. Molti decenni dopo, Coetzee, nel pubblicare "Elizabeth Costello", promuoverà un movimento simile, sebbene più complesso, dal momento che mette in atto un ulteriore avvitamento, a partire da un personaggio interposto (una maschera, una protesi): per l'appunto, proprio quella Costello, che «non esiste». È Costello che entra in possesso della lettera di Lord Chandos, mostrando come, dentro questa invisibilità (la natura stessa del linguaggio, il mistero del linguaggio, il linguaggio come mistero), se ne dispieghi un'altra, quella di Lady Chandos ("Lettera di Elizabeth, Lady Chandos, a Francis Bacon" è il titolo dell'epilogo di "Elizabeth Costello"). Appare indubbio che la lettera si imponga, che per quanto tempo ci voglia, essa trovi un modo per arrivare:
La lettera di Goethe arriva a Benjamin (che si trasforma in Detlef Holz: la sua persona, la sua maschera, la sua protesi), allo stesso modo in cui la lettera di Chandos arriva a Coetzee (il quale inventa una scena in cui la lettera invisibile di Lady Chandos possa così arrivare fino a Elizabeth Costello; e in questa invenzione, l'abisso che separa la persona del libro "Elizabeth Costello" da Elizabeth Costello, opera una differenza derridiana che non viene tracciata con la voce, ma con la grafia, il segno).
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