La Divisione Sociale della Sofferenza
- di Boaventura de Sousa Santos -
Il 14 giugno, nel Mar Egeo un'imbarcazione di migranti è affondata, e nel naufragio sono morte tra le 400 e le 700 persone, provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria ed Egitto. Per le persone annegate e per le loro famiglie - che avevano visto in questo viaggio, certamente pericoloso, l'ultima possibilità di sfuggire alle sofferenze della fame, della guerra, della disoccupazione, delle inondazioni, della siccità e dell'odio religioso - si è trattato di una sofferenza immensa.
Ma, oltre a loro, ha sofferto qualcun altro? Ha sofferto la società greca? Ha sofferto la società europea? E nelle nostre società, in che modo si produce la sofferenza, e come si fa a contenerla? E come vengono distribuite la propensione alla sofferenza e l'immunità alla sofferenza? Perché tante persone non soffrono le stesse sofferenze che tanti altri vivono?
La sofferenza costituisce una delle esperienze umane più profonde e più inquietanti. A seconda della sua gravità, viene considerata come un male reale, fisico o morale; pericoloso per la vita; che minaccia l'integrità fisica o psicologica; che mette a repentaglio l'autostima e l'autocontrollo; che rende impossibile la gioia. In breve, rappresenta un'assurdità terrificante e alienante che nega l'umanità dell'essere umano che soffre. Il neoliberismo ha reso più visibile la sofferenza individuale e collettiva, e l'ha drammatizzata rappresentandola come una calamità, come uno spettacolo, e persino come un'opportunità di guadagno. L'idea di sofferenza viene associata a quella di una patologia, di un danno, una crisi, un degrado personale o collettivo, un'alienazione del sé, una dipendenza. Ma tuttavia la capacità di soffrire diventa anche una condizione per poter resistere allo sfruttamento e alla crudeltà. In "Introduzione ai principi della morale e della legislazione" (1789), Jeremy Bentham sostiene che la questione dei diritti umani non riguarda tanto coloro che hanno capacità razionali - o chi ha la capacità di parlare - quanto piuttosto chi ha la capacità di soffrire. La sofferenza costituisce un tema talmente profondo e complesso da essere stato affrontato da ogni corrente di pensiero. Le domande fondamentali che dominano tale argomento variano a seconda del campo di analisi: che cos'è la sofferenza? Qual è il rapporto tra sofferenza individuale e collettiva? Esiste una sofferenza giusta e una ingiusta? Qual è la fonte o la causa della sofferenza? Qual è la sua struttura? In che modo può essere superata o redenta la sofferenza? In una forma o nell'altra, tutte queste domande ricorrono nelle diverse aree del sapere; soprattutto in teologia, filosofia e scienze sociali. Mi limito a queste ultime.
Le scienze sociali rivestono il ruolo di essere una delle coscienze teoriche della modernità occidentale. Mentre le correnti positiviste o funzionaliste si concentravano sulla descrizione e sull'analisi della sofferenza, le correnti critiche cercano invece di individuare quali sono le cause della sofferenza, soprattutto di quella collettiva. In una recensione della "Soziologie der Leiden" (Sociologia della sofferenza) di Muller Lyer (1924), Oskar Blum ha affermato che «possiamo legittimamente dire che il problema fondamentale della sociologia è la sofferenza». A partire dalla schiavitù e dalla violenza coloniale, fino all'Olocausto e ai Gulag, passando per le guerre mondiali e per il genocidio in Ruanda, fino alle atrocità delle guerre jugoslave degli anni '90, le scienze sociali hanno indagato un vasto ambito di analisi e di critica. Senza mai dimenticare che l'accento va posto sulla sofferenza sociale o collettiva, e non su quella individuale. In questo modo, gli orrori della battaglia di Solferino (1859) avrebbero dato vita alle Convenzioni di Ginevra e alla Croce Rossa Internazionale.
Dal punto di vista della teoria critica, la questione principale riguarda sapere quali tipi di società tendono a produrre quali tipi di sofferenza, e che impatto ha tutto questo sulla produzione di conoscenza e sulla progressiva trasformazione della società. La sofferenza dev'essere integrata in una teoria più ampia della realtà. Theodor Adorno diceva che la separazione tra le discipline costituisce il più grande ostacolo, perché essa ci impedisce di vedere quali sono le relazioni tra la sofferenza individuale e la sofferenza collettiva. Così, quest'ultima viene concepita, o come una patologia sociale o come un'esperienza sociale negativa spesso invisibile, cosicché pertanto spetta alla teoria critica renderla visibile e indicare i modi per minimizzarla. Viene tuttavia riconosciuto il fatto che questo sforzo analitico potrebbe anche portare alla riproduzione del silenzio. Ed è forse per questo che Bourdieu, in un libro fondamentale sulla sofferenza del mondo, ha sottolineato che il suo ruolo era quello di essere un portavoce. Va detto che dal punto di vista dell'io sofferente, non c'è nessuna delle teorie sociologiche convenzionali che possa permetterci di rispondere a una domanda fondamentale: perché io (nel caso della sofferenza individuale) o perché noi (nel caso della sofferenza collettiva)? Se la sofferenza è negatività, allora essa che cosa nega? Se significa vita danneggiata, quali sono i fattori che danneggiano la vita? La risposta che mi propongo di dare, procede dal tentativo di immaginare quali potrebbero essere le risposte a queste domande, e che in questo momento si trovano tutte a molti metri di profondità nel Mar Egeo, dentro i corpi degli annegati, scomparse come sono scomparsi loro. Le società capitaliste, colonialiste e patriarcali in cui viviamo non permettono che tutti gli esseri umani siano trattati come pienamente umani. Ci sono umani e subumani, e la sofferenza degli uni e degli altri viene trattata in maniera totalmente diversa. Quelli pienamente umani sono coloro i quali vivono in una società simile a quella in cui vivo io, e dove vivono i lettori di questo testo, persone che possono leggere tale testo, che hanno la libertà e il tempo di leggerlo, e anche di rifletterci sopra. Il contesto del mondo in cui vivono permette loro di distinguere chiaramente tra sofferenza individuale e sofferenza collettiva.
In realtà, in tale contesto, una sofferenza individuale esiste nella misura in cui non esiste una sofferenza collettiva. La società soffre collettivamente solo in quelli che sono dei momenti eccezionali: catastrofi naturali, guerre, pandemie, eventi meteorologici estremi, crolli di infrastrutture (finanziarie, di trasporto, ecc.). La sofferenza individuale - sia quando è invisibile sia quando viene spettacolarizzata - non si trova mai a essere legata alla sofferenza collettiva, e questo a partire dal fatto che - in tempi normali - la società non vive, o non è consapevole di vivere una sofferenza collettiva. Pertanto, la sofferenza individuale tende a essere vissuta non come una sofferenza-con , ma come una sofferenza-contro.
L'esperienza della sofferenza ingiusta, appare essere decisamente più personale, e assai meno condivisibile. Dal momento che le identità vengono vissute in chiave neoliberale (vale a dire, come autoritarie, a somma zero, come identità pura e inquisitoria), avviene che l'individuo sofferente, il quale vive nella socievolezza del pienamente umano, è assai meno propenso a condividere la sua sofferenza. La condivisione che gli è accessibile è quella che consiste in uno scambio, il quale non è basato su una comunità di relazioni complesse e sui densi affetti che tali relazioni intessono; ma piuttosto su una comunità di media virtuali o professionali fatta di relazioni semplici. In queste società, l'individuo che soffre, soffre di più sotto forma di isolamento; sia sotto forma di silenzio che sotto forma di spettacolarizzazione. Il suo silenzio è spesso direttamente proporzionale a ciò che si dice di lui o di lei. Le ambulanze, i vigili del fuoco, la violenza e la ripetizione delle scene dell'incidente, o dello scandalo, la molteplicità dei commenti e delle "analisi" convergenti producono tutte l'effetto cumulativo di mettere a tacere l'essere sofferente, facendo notizia su di lui e invisibilizzandolo proprio nella misura in cui lo mostrano. La risposta alla domanda «perché io?», può essere trovata soltanto nell'individuo, e mai nella società. Dopo tutto, ci sono tante persone che si trovano nelle stesse condizioni e che non soffrono. Perciò, le possibili spiegazioni sono le cattive abitudini alimentari, i comportamenti che violano le convenzioni sociali, il cattivo umore, i conflitti familiari o lavorativi, ecc..
Il fatto che la sofferenza individuale non sia legata a quella collettiva, fa sì che essa possa essere affrontata in modo socialmente organizzato, ma pur sempre con l'obiettivo di risolvere la sofferenza individuale, e solo quella. È questo il modo in cui funzionano i sistemi sanitari e le politiche sociali in generale. Ci sono dei malati, ma la società non è malata; ci sono dei poveri, ma la società non è povera; ci sono degli ignoranti, ma la società non è ignorante; ci sono dei criminali, ma la società non è criminale.
I migranti che sono rimasti nella nave affondata, non vivevano nella società che ho appena descritto. Vivevano nella società dei subumani. E visti dalla società dei pienamente umani, be' i subumani non hanno problemi. Sono essi un problema. Ragion per cui, la separazione tra sofferenza individuale e sofferenza collettiva risulta essere assai labile. La sofferenza individuale non è un evento eccezionale. Anzi, al contrario, è un'esperienza ricorrente. La sofferenza individuale esiste perché c'è la sofferenza collettiva. La domanda «perché io?» non viene mai posta. L'individuo che soffre non soffre mai individualmente. Soffre con, soffre insieme a. Nelle relazioni esistenti tra i subumani e quelli che sono pienamente umani - laddove questi ultimi scortano i primi grazie all'alta tecnologia per poi infine lasciarli affondare - la sofferenza individuale, sopportata o inflitta, resta sempre come un''immagine, o una conseguenza della sofferenza collettiva. La sofferenza individuale non ha valore di per sé, né si spiega da sola. Viene sempre vista come derivata. Esiste sofferenza individuale a partire dal fatto che c'è sofferenza collettiva. E se quest'ultima è giusta, ecco che allora anche la prima diventa necessariamente giusta.
Per fare un esempio paradigmatico, quando il sorvegliante o il padrone dello schiavo punisce lo schiavo, la sua sofferenza non è altro che l'emanazione e la giustificazione di quella sofferenza collettiva che caratterizza la schiavitù. Lo schiavo che soffre rappresenta una schiavitù giustificata. E la sofferenza individuale appare giusta proprio a partire dal fatto che anche la sofferenza collettiva è giusta. La sofferenza dei migranti annegati è stata una sofferenza giusta perché essi hanno osato entrare illegalmente dove non avrebbero dovuto, nella società dei pienamente umani. La loro sofferenza non è nemmeno paragonabile a quella che esiste nelle nostre società. Dare importanza alla loro sofferenza, sarebbe un incentivo a farli ricadere nell'illegalità. La loro giusta sofferenza è la condizione affinché noi, pienamente umani, non si debba subire l'ingiusta sofferenza che la loro invasione ci causerebbe. Negli ultimi secoli, questa condizione strutturale non è cambiata molto. Ma la forma, con cui essa entra nell'esperienza sociale, varia a seconda delle epoche e dei contesti storici. In questa esperienza, il neoliberismo rappresenta un cambiamento qualitativo. Costituisce la versione (finale?) del capitalismo, ed è caratterizzata, tra le altre cose, dal trasferimento sistematico di ricchezza dalle grandi masse della popolazione impoverita - comprese le classi medie - a una minoranza di super-ricchi. Questo trasferimento viene giustificato a partire dall'idea di crisi permanente, la quale crea una situazione di malessere e di sofferenza perfino nella società pienamente umana. In quella che è una relazione tra la sofferenza dei subumani, da una parte, e la sofferenza che il neoliberismo sta causando ai pienamente umani con le politiche di concentrazione della ricchezza, dall’altra, e in riferimento a tutto ciò che a questa relazione si associa (guerra permanente, collasso ecologico), questo meccanismo opera in due modi.
Il primo modo consiste nel legittimare il disagio causato agli esseri pienamente umani, convertendolo nel benessere derivante dal non essere sottoposti a quelle sofferenze molto più violente cui sono sottoposti i subumani. Il benessere sociale cessa di avere un contenuto positivo, e diventa semplicemente l'assenza del disagio specifico a cui i subumani vengono sottoposti a partire dalla sofferenza particolarmente violenta che viene loro imposta. Tra gli esseri pienamente umani, l'unico modo per non essere consapevoli della sofferenza è non soffrire allo stesso modo in cui soffrono i subumani. E perciò i media trasformano la sofferenza dei subumani nell'unica sofferenza: una sofferenza tanto drammatica quanto eccezionale, tanto fugace e banalizzata quanto lo spettacolo mediatico che ne viene fatto.
Il secondo modo, ancora più perverso, consiste nel legittimare la sofferenza inflitta ai subumani come se essa fosse l'unica possibilità che abbiamo per riuscire ad alleviare il disagio e la sofferenza imposti agli esseri pienamente umani: «se a prosciugare le nostre risorse non venissero gli immigrati, noi vivremmo meglio». In questi due modi, il welfare viene svuotato di ogni suo contenuto positivo. Tale svuotamento si trova alla base della politica dell'odio, la quale trasforma facilmente le altre vittime del neoliberismo in dei presunti aggressori, e quindi in oggetti di odio. Il gioco a somma zero, ormai non è più tra oppressori e oppressi o tra aggressori e vittime, ma piuttosto tra oppressi e vittime.
Con la sua politica dell'odio, l'estrema destra si propone come la coscienza politica del neoliberismo. E così, alla fine non ci sarà benessere se non nella contemplazione e nell'esacerbazione del malessere e del dolore altrui. Che razza di società è quella in cui l'unico modo per stare bene consiste nel sapere che gli altri stanno peggio? Che genere di società è quella dove lottare per il proprio benessere significa contribuire attivamente ad aumentare il malessere di tutti gli altri?
- Boaventura de Sousa Santos - 19/6/2023 - fonte: Other News -
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