sabato 31 dicembre 2016

Prima prendiamo L’Avana

cohen

Nel 1957, Esther Cohen era tornata a Montreal dalla sua luna di miele. Entusiasta, aveva raccontato al fratello che Cuba era un paradiso per i turisti, e L'Avana una città voluttuosa, paradisiaca, piena di casinò, sale da ballo e bellissimi alberghi. Due anni dopo, nel 1959, Fidel Castro avrebbe preso possesso dell'isola e ben presto si sarebbe confrontato direttamente con gli americani. Era il 1961. Nel marzo di quello stesso anno, Leonard Cohen prese un volo diretto da Miami a L'Avana per andare a vedere da vicino la rivoluzione, e partecipare di persona del momento storico in cui avrebbe avuto inizio un governo il cui sistema politico gli sembrava incredibilmente attraente e promettente, l'edificazione di un paese che sarebbe diventato un paradiso per il bene comune degli individui.

Nell'immaginario di Cohen, la guerra civile spagnola aveva assunto proporzioni mitiche. Vi era stato assassinato il suo eroe letterario, Federico Garcia Lorca, una figura che avrebbe dato un'impronta particolare alla sua visione artistica e che per cinquant'anni avrebbe influenzato la sua opera. Allora, in Cuba, Cohen vedeva l'opportunità di poter partecipare alla sua guerra e di essere presente in quel movimento di liberazione dall'oppressione del potere.
Subito dopo essere arrivato, l'artista si ritrovava all'Avana, a discutere fino a tarda notte; a fare amicizia con prostitute, magnaccia, scrittori, artisti, comunisti americani e con ogni genere di personaggi notturni moralmente ambigui. In quel frangente, Cohen, mentre si trovava sulla spiaggia di Varadero, venne arrestato con l'accusa di spionaggio da una dozzina di soldati rivoluzionari armati di fucili mitragliatori cecoslovacchi arruginiti. Dopo un interrogatorio durato ore, alla fine riuscì a convincerli che si trovava a Cuba in viaggio di piacere, perché era un seguace del nuovo regime, e non in quanto parte di un'invasione americana, di cui si vociferava. Non appena i miliziani si ritennero soddisatti con le spiegazioni del poeta, aprirono una bottiglia di rum e diedero luogo ad una sorta di festa, di cui si possono vedere diverse foto che ritraggono Cohen in posa da soldato insieme agli uomini che lo avevano arrestato.

Nonostante tutto quello che accadeva sull'isola, il canadese non era riuscito a sfuggire alle abitudini e alle usanze della tradizione ebraica, così qualche giorno dopo un ufficiale del suo paese, a mezzanotte, bussò alla porta dell'albergo in cui era ospitato per portarlo al consolato e spiegargli che sua madre, nel più rigoroso stile iperprotettivo ebraico, aveva contattato i funzionari politici per localizzarlo e sapere se stesse bene. Il rivoluzionario Cohen doveva comunicare con sua madre.
In una lettera al suo editore, Jack McClelland, Leonard Cohen raccontò le peripezie occorsegli la notte in cui venne invasa Baia dei Marranos e scherzò sul fatto che per lui sarebbe stato meglio morire nel corso dell'attacco aereo, di modo che così le vendite del libro che stava per essere pubblicato a Montreal, "The Spice-Box of Earth", sarebbero schizzate alle stelle. Quello che allora non sapeva era che sei anni più tardi il suo nome sarebbe stato conosciuto a livello mondiale, e non come scrittore ma come musicista, una carriera iniziata nel 1967, all'età di 35 anni, per quadagnare un po' di soldi, dal momento che come scrittore non era riuscito a conseguire una sicurezza finanziaria.
Ma ben presto, a Cuba, aveva capito che il nuovo regime sarebbe stato ancora più dittatoriale, brutale ed oppressivo di quello vecchio. Anni dopo, avrebbe scritto a suo cognato: «Faccio parte di quei pochi uomini della mia generazione che hanno avuto interesse per la realtà cubana, quanto bastava per andare a vederla con i propri occhi, senza essere stati invitati, e per soffrire la fame quando ebbero finito il denaro, non essendo disposti a ricevere i sandwich di un governo che stava assassinando i prigionieri politici».

Da quel momento, le frontiere e le relazioni diplomatiche di Cuba con i paesi come il Canada cominciarono a chiudersi, e migliaia di turisti vennero rinchiusi nelle prigioni che si riempivano di prigionieri politici. Fu allora che Cohen decise che era arrivato il momento di lasciare l'isola, perciò ogni giorno si recava all'Aeroporto Internazione José Martí, per cercare di trovare un posto su quelli che sarebbero stati gli ultimi voli da Cuba a Miami. Dapprima con scarsa fortuna, Cohen alla fine riuscì a trovare un posto, solo che al momento di salire a bordo venne improvvisamente arrestato e portato ad una stazione di polizia. Qui, un ufficiale lo informò che non avrebbe lasciato Cuba, dal momento che nel suo zaino era stata trovata una foto che lo ritraeva vestito da miliziano insieme ad altri soldati e dalla quale si deduceva che era un disertore. Il suo falso passaporto canadese - lo avvertì l'ufficiale - non lo avrebbe aiutato a scappare. Nel frattempo, come se si trattasse del copione di un film di Hollywood, sulla pista di atterraggio era esplosa un'enorme confusione, nel momento in cui alcuni soldati avevano cominciato ad evacuare con la forza i cittadini cubani da un altro aereo. Il soldato che gli avevano messo di guardia venne chiamato urgentemente per affrontare la crisi improvvisa, e Cohen prese il suo zaino e si incamminò nervosamente verso l'aereo, ripetendosi: «Non ti voltare, continua a camminare, ce la puoi fare, cammina...». Quel giorno, Leonard Cohen salutò per sempre L'Avana.

Ma il danno ormai era stato fatto. Quel movimento che prometteva, o che per lo meno nella mente di Cohen sembrava essere il progetto di un ideale pratico che avrebbe permesso di fare della vità sociale un'attività più coesa e comprensibile, lo aveva assolutamente deluso. A Cuba, aveva capito che non avrebbe mai fatto parte della collettività, aveva capito che sarebbe stato un individuo la cui opera si sarebbe basata sulle stanze private e chiuse del suo cuore, con la sua vita di personaggio immaginario per eccellenza di quella sua stessa opera da poeta tragico.
Da quel trambusto e da quello stordimento si allontanò viaggiando verso Hydra, la piccola isola greca dove cominciò a lavorare al suo capolavoro, il romanzo Beatiful Losers, usando tutto ciò che i Caraibi non gli avevano dato: calma, senso di individualità, un proprio spazio.

Cuba è il prologo al primo capitolo in cui l'autore di "So Long, Marianne" rinuncia ad esser parte della collettività e diventa un individuo la cui vita è una costante pulsione di ossessioni circolari che formano una sorta di unità multidirezionale. Cohen è come un rotolo di spago, i cui estremi vanno a comporre una sfera, partendo da direzioni opposte per poi incontrarsi sorprendentemente in cima, e riconoscersi come parte di una tale unità, per poi continuare il loro cammino di nuovo in direzione contraria fino al fondo della sfera.
La poesia, l'ebraismo, la sua mania per le donne, le droghe, lo Zen e, soprattutto, il suo lavoro di compositore sono le ossessioni che sebbene appaiano contraddittorie si ripetono più volte nel corso della sua vita. Sono state queste le attività per mezzo delle quali ha cercato le risposte che lo avrebbero salvato, che avrebbero alleviato la sua costante depressione, che avrebbero dato senso alla sua vita come artista e come individuo, per poter così esplorare e sfruttare le possibilità poetiche della vita.
Il miracolo di Leonard Cohen affonda le sue radici nel fatto che il suo lavoro è quello di un artista che ha compreso che l'arte è in grado di sublimare il tragico, e che attraverso l'estetica del suo linguaggio ha mutato la sua oscurità in un fuoco di luce.

cohen a cuba

venerdì 30 dicembre 2016

Carte da decifrare

migrazioni

I sentieri sotterranei nella formazione della classe operaia
- Migrazioni. Dal XVIII al XX secolo, «Lavoro mobile», un quaderno della Società italiana degli storici del lavoro -
di Maria Grazia Meriggi

Il Quaderno qui presentato – "Lavoro mobile. Migranti organizzazioni conflitti XVIII-XX secolo", a cura di Michele Colucci e Michele Nani – raccoglie un gruppo di ricerche sulle mobilità come elemento costitutivo delle vite di operai e lavoratori nel tempo. Si segnala anche come il primo di una serie di pubblicazioni della collana editoriale promossa dalla Sislav, la società italiana degli storici del lavoro, che intende innanzitutto presentare ricerche che nascono dall’incontro fra studiosi di più generazioni ognuna delle quali portatrice di esperienze e priorità diverse.
 
NELL’INTRODUZIONE i curatori spiegano i problemi e le possibilità aperte dal loro approccio. La mobilità del lavoro è stata studiata da diversi punti di vista non sempre convergenti che ritraggono i diversi sguardi dei protagonisti, con grandi differenze nel tempo. Dal punto di vista degli operai autoctoni la presenza dei lavoratori immigrati – con progetti di ritorno spesso smentiti dalla realtà – suscita reazioni che coprono l’intero arco dalla xenofobia alla fraternità. Xenofobia provocata dall’uso che imprenditori e istituzioni fanno della forza lavoro migrante come dumping salariale, e talvolta rafforzata da elementi subculturali, in cui «imprenditori politici» operano spregiudicatamente ma superabile nel confronto coi comportamenti reali dei migranti nei luoghi di lavoro.

DAL PUNTO DI VISTA dei migranti l’arrivo attraverso catene migratorie «spontanee», famigliari o individuali, mosse da esigenze economiche, dalle crisi agrarie e/o dalla fuga da sconfitte politiche (da quella dei Fasci siciliani al fascismo) o grazie ad accordi interstatali, le precedenti esperienze determinano comportamenti diversissimi e forme talvolta intense di integrazione attraverso il conflitto.
Istituzioni statali e interstatali, organizzazioni sindacali impegnate, nel secondo dopoguerra, in un dialogo serrato con i governi, nella ricostruzione, a loro volta interferiscono con i punti di vista dei diversi soggetti sulla migrazione, come ricorda Michele Colucci nel saggio conclusivo.

L’EMIGRAZIONE diventa allora una dolorosa necessità che le organizzazioni sindacali cercano di seguire nei suoi spostamenti constatando la differenza fra le condizioni garantite dagli accordi interstatali e la realtà delle condizioni dei migranti ma anche uno delle accuse alle forze politiche di governo per non avere permesso un futuro ai cittadini lavoratori.
Tutti gli interventi suggeriscono al lettore piste innovative. Il saggio di Nicoletta Rolla sulla mobilità nei cantieri della Torino settecentesca è particolarmente significativo dell’attenzione che il gruppo della Sislav porta alla storia del lavoro e dei lavoratori in età preindustriale dove il «conflitto» è soprattutto orizzontale fra diverse competenze di mestiere delle corporazioni che tuttavia mostrano – potremmo dire precocemente – un forte interesse a gestire il mercato del lavoro controllando l’apprendistato. Un saggio che ci suggerisce anche di riflettere sull’eventuale rapporto fra lo sviluppo tardivo delle corporazioni in Piemonte e la loro a sua volta tardiva abrogazione che finisce per sovrapporsi al decollo del movimento mutualistico.
Michele Nani inquadra con domande innovative il tema classico della mobilità caratteristica del bracciantato ferrarese individuando tipologie e definizioni di mobilità anche allo specchio del giornale «La Scintilla». Che interpreta l’autentica sostituzione di popolazione che interessa i villaggi ferraresi di inizio Novecento come attacco cosciente ai «vincoli di solidarietà fra lavoratori» ed è strumento della ricomposizione di questi vincoli.

I SAGGI di Antonio Farina e Gian Luigi Bettoli – in cui chi scrive qui ha ritrovato ampie conferme alle problematiche suscitate dalle migrazioni dai paesi «arretrati» e dalla questione nazionale che si intreccia nella svolta del secolo a quella sociale nella Mitteleuropa – studiano i problemi dell’incontro fra operai e migranti italiani e polacchi e le specifiche forme organizzative del sindacato del Reich ma anche l’emigrazione come «scuola» di conflitto e di «importazione» di nuove domande dei lavoratori, un «male» che in Friuli, regione di emigrazione sia temporanea sia permanente e transoceanica, «viene dal nord» . Il saggio di Brier e Fasce si interroga sulla ricostruzione dell’emigrazione italiana negli Usa dove militanti di diversa origine hanno costruito una comune coscienza di classe contribuendo al making of the American working class. Stefano Gallo analizza le vicende dell’emigrazione italiana nell’isola dalmata di Lastovo, promossa dall’alto in epoca fascista che plasma la demografia di quel territorio.
Un lavoro da leggere nel contesto di più ampi progetti di ricerca cui la Sislav cerca di offrire un contesto collettivo.

- Maria Grazia Meriggi - Pubblicato su Il Manifesto del 1° novembre 2016 -

giovedì 29 dicembre 2016

La sovranità della morte

necro


"L'assunto di questo saggio è che l'espressione ultima della sovranità consista, in larga misura, nel potere e nella capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire".
Dalla deumanizzazione del destino degli schiavi all'abominio dei campi di sterminio, dalle colonie africane - luogo per eccellenza del dominio razziale e modello del genocidio ebraico - alla colonia di oggi: i Territori Occupati.
Fondando la sua riflessione su Arendt, Agamben, Bataille, Foucault, Gilroy e altri autori ancora, Mbembe traccia la genealogia dei poteri di morte: figura emblematica della modernità, della sua razionalità e della nozione di sovranità, che in essi esprime forse la sua essenza più cupa. Oggi le necropolitiche conoscono infinite metamorfosi e proliferano in un orizzonte dominato dalle guerre infinite nel Medio Oriente, dalle nuove tecnologie della morte e dallo spettro del terrorismo. Pensare a come uscire dalla notte di un mondo avvelenato dall'inimicizia: questo il lavoro instancabile che Achille Mbembe persegue da anni e di cui Necropolitica è una tappa fondamentale.

(dal risvolto di copertina di: Achille Mbembe: Necropolitica, ombre corte)


Il perenne gioco al massacro di «separare l’umanità»
- di Miguel Mellino -

Tra le «geografie della crisi» che l’Europa ci sta riconsegnando da due anni ve n’è una di particolare interesse. Questa geografia della crisi è andata materializzandosi a partire dal suo addensamento in alcuni specifici «punti nodali»: identificare la sua costituzione materiale – gli snodi e i rapporti che ne disegnano un suo particolare contorno – può essere un buon primo passo per aggiornare un discorso postcoloniale sull’Europa di oggi. I contorni di questa geografia ce li danno, come sempre, alcuni nomi: Atene, Lesvos, Calais, Ventimiglia, Lampedusa, Idomeni, Parigi, Bruxelles, Molenbeek, Como, Brennero, ma anche Brexit, Siria, Turchia e Libia.

QUESTA SINGOLARE geografia pone l’Europa di fronte alla sua crisi, ma anche di fronte alle sue guerre. Guerra ai migranti e ai richiedenti asilo; ma anche guerra dichiarata ai «post-migranti» o europei «bi-nazionali» (postcoloniali), ai figli di decenni di una gestione razzista delle proprie popolazioni. Questa geografia della crisi, costruita dal regime di significazione politico-mediatico come «crisi dei rifugiati», ci parla di un’Europa in preda a un «delirio securitario» sempre più «manicheo», per riprendere qui la nota espressione di Fanon.
La furia di alcune immagini e discorsi possono aiutarci ad afferrare l’entità e la qualità mortifera di questo delirio: treni fermi alle frontiere; repressione, caccia violenta e deportazioni di migranti e rifugiati accampati in diverse «giungle» (prima Ventimiglia, più di recente Calais e ora anche Parigi); proliferazione dell’approccio hotspot alle migrazioni; innalzamento di muri lungo i confini; missione militare Eunavfor nel Mediterraneo; accordo con la Turchia per la deportazione di profughi; prolungamento dello stato d’emergenza e richiesta di revoca della nazionalità ai «condannati» per terrorismo (la deriva Hollande); confisca dei beni ai rifugiati (approvata dal parlamento danese); sfruttamento come forza lavoro a basso costo di rifugiati (misura in vigore in Germania e anche in Italia).
È in questo contesto di evidente «decomposizione dell’Europa» che può essere di grande utilità un testo come Necropolitica di Achille Mbembe. Pubblicato di recente da ombre corte (pp. 107, euro 10), e corredato da un suggestivo saggio di Roberto Beneduce, Necropolitica è uno dei più noti scritti di Mbembe. Il testo, interrogandosi sul ritorno delle «politiche di morte» al centro dello scenario politico contemporaneo, ha come punto di partenza una domanda ben precisa: che ruolo hanno avuto razza e razzismo nello sviluppo delle diverse forme di sovranità moderna? Attraverso il concetto di necropolitica Mbembe cerca di rielaborare alcuni aspetti abbozzati dal lavoro di Foucault sul rapporto tra razzismo, modernità, colonialismo e sovranità, ma lasciati in secondo piano sia dalla sua opera complessiva, sia da una buona parte della letteratura foucaultiana. E tuttavia, ci sembrano aspetti fondamentali per comprendere più efficacemente i processi attuali di gerarchizzazione della cittadinanza, ma anche ciò che possiamo chiamare la «condizione postcoloniale europea».

L’ASSUNTO DI PARTENZA di Mbembe è che la modernità è all’origine di diversi tipi di «sovranità», ma soprattutto che la necropolitica – come specifica «tecnologia di governo» – è uno dei prodotti dell’incontro della sovranità moderna occidentale con le popolazioni coloniali; la necropolitica, come dispositivo di produzione della popolazione, è dunque il risultato dell’intreccio tra «sovranità» e «razza». Si può già evincere qui un’importante differenza tra l’approccio di Mbembe e quello, per esempio, di autori come Wendy Brown o Agamben, le cui prospettive non concepiscono alcuna colonialità interna alla sovranità. Mbembe, invece, insiste sul fatto che «vi sono alcune figure della sovranità moderna» il cui fine ultimo non era la creazione di una comunità politica, bensì la strumentalizzazione dell’esistenza umana e la distruzione materiale di certi corpi e di certe popolazioni; e queste figure della sovranità non erano mosse dalla sragione, dalla follia o dal mero istinto, ma dalla stessa logica civilizzatrice occidentale. Le colonie, infatti, non erano soltanto il luogo per antonomasia in cui la sovranità consisteva nell’esercizio del potere al di là della legge, ovvero in cui lo stato d’eccezione è chiaramente la regola, ma erano spazi in cui la violenza dello stato d’eccezione operava al servizio della civiltà.

PER MBEMBE, dunque, il necropotere sta a significare l’esercizio della sovranità negli spazi coloniali, dove una parte della popolazione viene a possedere sempre di più lo status di morti-viventi (gli zombies di Fanon). È così che la necropolitica andrà sempre di più materializzandosi in questi contesti come un sistema di governo incentrato, non tanto sulla produzione di vita, ma sulla produzione di terrore, violenza e morte (fisica, ma anche sociale) presso una parte della popolazione ma in quanto condizione minima dell’intera produttività (biopolitica) sociale. In breve: Mbembe ci chiede di pensare qui la necropolitica come una sorta di «rovescio costitutivo» delle tecnologie liberali (biopolitiche) occidentali di governo. È importante ricordare che per Mbembe la necropolitica, proiettando il discorso della razza sulla società, non produce semplicemente segmentazione, ma finisce per separare l’umanità, ovvero per produrre mondi di «reciproca esclusività». Necropolitica e biopolitica sono quindi alla base della costituzione di società o territori striati e anche duali.

INFINE, LA DIMENSIONE necropolitica del potere tende a iscrivere costantemente i corpi nell’ordinamento di un’economia imperniata sul massacro (guerra, violenza, repressione, incarcerazione sono i suoi principali strumenti). Per questo, conclude Mbembe, a partire dal Gilroy di The Black Atlantic, nei contesti dominati dal «necropotere» – e qui Mbembe ha in mente la piantagione, il ghetto della città coloniale, i campi profughi in molti paesi dell’Africa, il Sudafrica dell’Apartheid, la Palestina di oggi – la morte può essere vista come una liberazione dal terrore, dalla schiavitù e dal razzismo. In breve: il desiderio di morte appare in questi contesti un prodotto diretto delle condizioni di materiali di vita, di sofferenza e di sfruttamento dei soggetti. Fanon ha descritto in modo esauriente gli effetti di cosificazione e di de-soggettivazione (di morte sociale) prodotti dal razzismo.
A noi pare che il ragionamento di Mbembe, con le dovute cautele, possa essere esteso a quanto sta succedendo in alcune zone d’Europa. Inoltre, come si sostiene nel saggio di Roberto Beneduce, è difficile non pensare le necropolitiche contemporanee – da una parte e dall’altra – coma una sorta di nemesi della necropolitiche coloniali europee.

IL RICHIAMO di Mbembe alla dimensione «necropolitica» come rovescio storico della «biopolitica» può essere di fondamentale importanza per correggere (o decolonizzare) un certo tipo di studi «foucaultiani» sulla «governamentalità neoliberale», che tendono a concepire la razionalità alla base di questa tecnologia di governo come esclusivamente incentrata sulla messa al lavoro della vita, ovvero sulla produzione di libertà, di laissez-faire, di sicurezza e di tutte le altre condizioni ottimali al «libero» concatenarsi della concorrenza e dell’auto-imprenditorialità presso ogni popolazione. Il discorso di Mbembe, infatti, non pone l’accento sulla necropolitica come «limite sovrano» della tecnologia di governo biopolitica, bensì sull’intrinseca interdipendenza dei processi (governamentali) «biopolitici» da quelli «necropolitici».
È così che il lavoro di Mbembe ci consente di guardare diversamente anche all’attuale crisi dell’Europa. Da questa prospettiva, i processi di gerarchizzazione della cittadinanza alla base dell’attuale logica neoliberale/ordoliberale di accumulazione appaiono come il prodotto di un duplice dispositivo di governo (biopolitico-necropolitico), in cui la messa al lavoro della vita, la produzione di libertà, di concorrenza, di auto-imprenditorialità e la gestione umanitaria di una parte della popolazione non solo sono intrinsecamente connessi, bensì appaiono del tutto dipendenti dalla segregazione, dal disciplinamento, dallo sfruttamento servile, dall’incarcerazione e dalla morte (fisica e sociale) di un’altra.

FENOMENI COME il securitarismo, il razzismo (istituzionale e poliziesco) la militarizzazione dei territori e dei confini, la deportazione forzata non sono qualcosa di esterno o un mero «limite sovrano» della «governamentalità neoliberale», ma dispositivi al centro stesso di tale tecnologia di governo. Seguendo il ragionamento di Mbembe, dunque, il lato necropolitico dell’Europa non è qualcosa di estraneo alla logica di comando della UE. Più che di crisi dell’Europa sarebbe forse più opportuno parlare di Europa nella crisi. È nella morsa della crisi economica che l’Europa, questa Europa, ci mostra il suo lato (costitutivo) più oscuro.

- Miguel Mellino - pubblicato sul Manifesto del 6 dicembre 2016 -

mercoledì 28 dicembre 2016

100%

une-autre-fin-du-monde-est-possible

Un senatore repubblicano prevede il nostro distopico futuro capitalista: disoccupazione al 100%
- di Jehu -

Qualche settimana fa, il senatore Ben Sasse ha affrontato l'argomento di cui nessuno vuole parlare: la fine della schiavitù salariale e il fatto che non c'è niente che si possa fare per impedirlo. Ecco, qui di seguito, un'antologia dei suoi tweet volta a riassumerne i punti principali:

« Le notizie del giorno pretendono che ci sia un semplice soluzione politica al declino dell'occupazione nell'industria manifatturiera. Non è vero. Dobbiamo dire la verità. L'automazione - assai più che il commercio - continuerà a ridurre il numero di posti di lavoro nella produzione. Questo trend è irreversibile. I politici non sono bravi a dire la verità. Ma dobbiamo dire la verità anche quando è impopolare - ad esempio per quel che riguarda la precarietà. Dobbiamo essere onesti circa il fatto che in futruro ci sarà sempre più, e non sempre meno, precarietà. Dobbiamo incoraggiare ed essere preparati per lo smantellamento e la riqualificazione. L'economia statunitense sta creando circa due milioni di posti di lavoro l'anno. Questo non è affatto sufficiente.

Per immaginare i cambiamenti occupazionali nella produzione, bisogna considerare la storia dell'agricoltura:

1790: il 90% dei lavoratori erano contadini
1840: il 69%
1900: il 38%
1960: l'8%
1980: il 3%

Un'importante realtà

La produzione manifatturiera statunitense continua ad essere forte. Ma viene effettuata con meno persone (come in agricoltura). [Ciò avviene perché siamo] più produttivi.»

Immaginate di essere un potente uomo politico borghese della più potente nazione del mondo, ma che dovete apertamente ammettere che non si può fare niente per impedire che la schiavitù salariale abbia fine.

Come ha dichiarato il senatore, il problema è semplice: in circa 200 anni è stato eliminato il 97% del lavoro in agricoltura senza che i capitalisti intendessero nemmeno provarci a far questo. E ciò significa che il lavoro salariato è morto. Dopo aver abolito quasi tutto il lavoro in agricoltura, il lavoro nell'industria e nei servizi consiste in un'operazione di raccolta dei cocci. Quelli che continuano ad insistere nelle politiche di piena occupazione sono come quelli che continuano a fabbricare roba obsoleta, tipo ruote per carretti.

Il comunismo è la disoccupazione al 100% e nient'altro. I nemici del comunismo dichiarano che il comunismo distruggerà l'economia. Hanno ragione. Nel comunismo nessuno avrà un lavoro, nessuno avrà un qualsivoglia salario, sugli scaffali dei negozi non ci sarà niente da vendere. È questo il motivo per cui il comunismo terrorizza non solo la borghesia, ma anche i più ardenti comunisti. Neanche un comunista dichiarato riesce ad immaginare un mondo dove la disoccupazione è al 100% e nessuno può vendere la propria forza lavoro. Il che è bizzarro dal momento che tutti sappiamo che non ci si può nemmeno avvicinare al comunismo fino a quando nessuno potrà più vendere la propria forza lavoro, fino a quando i salari non saranno pari a zero e fino a quando tutti non saranno disoccupati.

Ma lasciamo stare quello che pensano i comunisti - a nessuno importa una sega di che cosa pensano. Immaginate solamente di provare a convincere un comune lavoratore che la disoccupazione al 100%, nessun salario e niente da vendere nei negozi sia un beneficio per loro. Trump ha dichiarato che non crede in un salario minimo, la Clinton gli si era opposta sostenendo un incremento del salario minimo. Gli elettori sono rimasti scioccati da questi punti di vista. Immaginate di andare dietro a Trump e alla Clinton e dire ai lavoratori che nessuno dovrebbe ricevere un salario. Come fareste a sostenere un simile argomento senza sembrare un politico di Neanderthal, che si pone da qualche parte a destra di Gengis Khan?

Esiste da qualche parte un modo per riconfezionare il comunismo di modo che il 100% di disoccupazione possa suonare allettante? Non credo che ci sia. Oggi è impossibile persino convincere le persone che meno lavoro possa essere una cosa buona, figuriamoci la disoccupazione al 100%. E non penso, neanche per un solo minuto, che sia così perché le persone siano ingannate o indottrinate dall'ideologia borghese. Non ho una risposta per questo, ma voglio sottolineare il fatto che nessun comunista ne parla. Ogni comunista sa che nel comunismo non c'è lavoro, denaro o Stato, eppure ignora completamente questo fatto. Non possono dire in che modo si possa passare da una società con lavoro, denaro e Stato ad una senza lavoro, denaro e Stato. Vogliono pretendere che questo problema non esista: che tu possa persuadere qualcuno della bontà del 100% di disoccupazione in una società dove quasi tutti vivono grazie alla vendita della loro forza lavoro.

Questa negazione assume due forme:

a. Far finta che il comunismo non sia il 100% di disoccupazione: ci sono un sacco di comunisti che pretendono che il comunismo non sia altro che una migliore gestione del capitalismo - piena occupazione. Abbiamo questa sorta di comunisti che producono i loro progetti di un capitalismo senza disoccupazione, povertà, depressione o crisi. Arrivano a chiamare questo tipo di capitalismo, "socialismo", "socialismo di mercato", oppure semplicemente la definiscono un'economia pianificata centralmente, ma si tratta solo di capitalismo dal volto umano.

b. Pretendere che il problema del comunismo verrà risolto in futuro: e ci sono un sacco di comunisti che riconosco che il comunismo sia assai più di tutto questo ma che non lo possiamo sapere fino a quando non ci arriveremo. Il problema di non saperlo fino a quando non ci arriviamo consiste nel non sapere quando effettivamente arriviamo lì, in quanto non abbiamo nessuna misura oggettiva del "lì".

Se la misura oggettiva del "lì" è il "100% di disoccupazione", allora abbiamo un grosso problema. Bisogna solo aspettare fino a quando la disoccupazione arriva al 100% perché tutto ci venga rivelato? La cosa mi sembra pericolosa. Non c'è niente di più spaventoso di una società piena di lavoratori disoccupati che non possono vendere la loro forza lavoro. L'ultima volta che è successo qualcosa in cui ci si avvicinava ad una cifra simile, gli anni 1930, sono state sterminate cento milioni di persone. Semplicemente, i comunisti non vogliono parlare di come la società arriva al 100% di disoccupazione - sono terrorizzati riguardo alla possibilità stessa di un ripetersi degli anni 1930 su una scala ancora più grande. Ma quello di cui dovrebbero essere terrorizzati è la prospettiva della catastrofe che ci attende al livello di disoccupazione ben al di sotto del 100%.

Il 100% di disoccupazione non è affatto un problema per i comunisti: se tutti quanti sono senza lavoro, senza soldi, e se scompare anche lo Stato. Il problema per i comunisti consiste nel cercare di passare dal 10% di disoccupazione al 99% di disoccupazione - cioè, il luogo privilegiato dove avvengono catastrofi impensabili; il punto in cui il lavoro è stato in gran parte reso obsoleto, ma in cui i salari rimangono la condizione singolare per il consumo.

Questo scollamento fra produzione e consumo significa che c'è una vasta e crescente massa di popolazione che non ha alcuna possibilità di vendere la propria forza lavoro, ma che la vendita di forza lavoro rimane la condizione della loro sussistenza - una condizione che equivale ad una sentenza di morte per una grande massa della popolazione lavorativa.

I comunisti devono parlare di questo; e si deve parlare di questo in modo da non eludere che cosa significa comunismo. Comunismo significa che ciascuno, senza eccezioni, è disoccupato e non riceve né alcun salario né alcun altro reddito. Significa che niente può essere venduto perché nessuno ha un mezzo - salario o altro reddito - per comprarlo. Significa che l'intera economia mondiale è scomparsa in un buco nero dal quale non potrà mai più riemergere. Dobbiamo parlare di comunismo in questi termini per evitare di illudere non stessi che il comunismo implichi il proseguimento di qualsiasi categoria che oggi consideriamo normale.

Se dibattiamo del comunismo in questo modo, diventa ovvio che non c'è modo di uscire dal capitalismo verso il comunismo senza una catastrofe.

Dal momento che non possiamo evirare tale catastrofe, dobbiamo abbracciarla. Una catastrofe è un evento che causa grande ed improvvisa sofferenza o danno ad una qualche persona o istituzione. La persona, in questo caso, è il lavoratore salariato, e l'istituzione è il lavoro salariato. In altri termini, dobbiamo determinare la fine catastrofica di entrambi. I comunisti devono abbracciare la catastrofe da cui il lavoratore salariato è già minacciato. Non possiamo illuderci che non sia questo il nostro obiettivo. Al contrario, il nostro obiettivo dichiarato dev'essere abolire sia il lavoratore salariato che il lavoro salariato.

Quel che inavvertitamente fa il capitale, noi dovremmo farlo deliberatamente. Le armi impiegate dal capitale per sbarazzarsi relativamente dal lavoro vivo, dovremmo impiegarle per sbarazzarcene in maniera assoluta. Quando il capitale libera lavoro vivo dalla produzione, dovremmo fare in modo che tale liberazione sia permanente. Quando il capitale tenta di aumentare l'occupazione, dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere per impedirlo.

Soltanto abbracciando questa catastrofe potremo poi discutere di come assicurarci che essa vada a vantaggio della grande massa della società.

- Jehu - pubblicato il 1° dicembre 2016

fonte: The Real Movement

martedì 27 dicembre 2016

Nella crisi

20130615-102049

La traduzione e la pubblicazione delle "Sette tesi sulla crisi attuale" di João Bernardo vuole essere un contributo al dibattito critico, e non presuppone affatto una totale condivisione di tale tesi nella loro interezza, e della premessa che viene fatta. Tuttavia, l'analisi svolta contiene indubbi punti di interesse - in particolare la settima tesi, relativa al "capitalismo sindacale" o "sindacalcapitalismo" - che devono essere affrontati e discussi. Nella crisi.

Sette tesi sulla crisi attuale
- di João Bernardo -

Contrariamente a quello che sono soliti affermare gli economisti e gli storici della sinistra marxista, io sostengo, ormai da molti anni, l'idea che sia impossibile concepire una teoria delle crisi sotto il capitalismo. Ciascuna crisi è specifica ed è il risultato del fatto che il sistema economico, con l'aggravarsi di alcune delle sue contraddizioni, non è più riuscito ad aggirare degli ostacoli che, in altre circostanze, avrebbero potuto essere facilmente superati. Bisogna quindi individuare quali sono le contraddizioni che si aggravano, ed una simile analisi cambia da una crisi all'altra. Su questa base, sviluppare una teoria delle crisi significa cadere nel formalismo e sostituire un'analisi delle strutture con la descrizione di alcuni episodi.
   Da un altro lato, le crisi settoriali sono state spesso confuse con le crisi mondiali. Quando un dato ramo di attività declina, si trova sempre qualcuno che predice che questa situazione potrebbe generalizzarsi in maniera catastrofica all'insieme dell'economia, dimenticando che - e questa è sia una causa che il suo effetto - il declino di un ramo comporta la crescita, o perfino l'emergere, di altri rami. Peggio ancora, il funzionamento ciclico dell'economia viene frequentemente scambiato per una crisi.
   In una sua frase spesso citata, Galbraith ha scritto che gli economisti hanno predetto molte più crisi di quelle che hanno avuto realmente luogo; in tal caso, si riferiva chiaramente ai suoi colleghi e non agli autori della sinistra marxista che amano scrivere di economia, in quanto, per quest'ultimi, una nuova crisi si può innescare in qualsiasi momento. Queste elucubrazioni comportano una grande quota di magia, come se il semplice fatto di discutere della crisi potesse indebolire il capitalismo. Ed i marxisti che credono che la base del capitalismo continui ad essere molto solida e che non sono state colpite le sue capacità di crescere ampiamente, vengono considerati con odio da parte di altri nemici del capitalismo, come se un'analisi che giudicano erronea potesse infondere nuova vita al sistema.
   In realtà, la sinistra anticapitalista rivela, in simili occasioni, la propria fondamentale debolezza, nella misura in cui spera di raggiungere, grazie alla crisi del capitale, ciò che la forza della classe operaia non è riuscita ad ottenere. I "grandi pensatori" della rivoluzione non hanno ancora deciso se il capitale si autodistruggerà, o se saranno i lavoratori ad eseguire la sentenza. E fino a quando essi esiteranno e resteranno indecisi su questo punto, i militanti di estrema sinistra non definiranno delle strategie autonome, vale a dire, non raggiungeranno mai la maturità. A mio avviso, l'attuale crisi finanziaria - perché è di questo che ora si tratta - è il risultato di più processi collegati fra di loro.

1) Uno degli elementi della crisi attuale è il lungo declino degli Stati Uniti in quanto potenza economica. Questo declino negli ultimi tempi si è aggravato e si manifesta in maniere flagrante in Iraq, dove i meccanismi strettamente economici dell'imperialismo sono stati sostituiti da dei meccanismi bellici. Una delle lezioni più istruttive, benché la meno compresa, di questa guerra funesta consiste nel fatto che l'amministrazione nordamericana, che obbedisce agli interessi delle grande società petrolifere, anziché assumere il controllo della produzione irachena utilizzando gli strumenti del mercato e gli investimenti di capitale, ha preferito tentare di raggiungere quest'obiettivo scatenando una guerra che ha provocato la distruzione di una gran parte delle capacità di estrazione e di trasporto di questa materia prima. Subendo dei costi incomparabilmente più elevati, per non parlare delle perdite in vite umane, il capitalismo nordamericano beneficia assai meno del petrolio iracheno rispetto a quanto sarebbe avvenuto se gli Stati Uniti non avessero invaso e distrutto quel paese.
   Questo paradosso dev'essere paragonato al comportamento dei capitalisti cinesi, sia che appartengano al settore privato che a quello statale, i quali, in questi ultimi anni hanno assicurato una presenza assai forte ma discreta in Africa, utilizzando semplicemente delle armi economiche. Il fatto che gli Stati Uniti non siano riusciti a imporre i loro piani in Iraq è il sintomo di una decadenza assai profonda. Coloro che sono stati finora considerati come i padroni dell'economia internazionale sono adesso ridotti ad essere una sorta di forza di polizia mondiale.
   Nel breve quadro di queste note, non intendo esporre, nemmeno sinteticamente, gli aspetti principali del declino dell'economia americana. Ma c'è una cifra che mi sembra sia sufficientemente eloquente: in percentuale, rispetto al PIL, gli investimenti nordamericani in infrastrutture materiali di comunicazione e di trasporto rappresentano la metà (2,4%) di quelli dell'Unione Europea (5%). Vediamo in questo il deterioramento di una condizione generale della produzione che colpisce tutti i settori economici. Gli Stati Uniti non stanno attraversando solamente una crisi finanziaria; durante gli ultimi decenni si sono accumulati dei problemi che interessano il cuore stesso del processo produttivo.

2) Un secondo fattore della crisi è strettamente legato a quel che ho sottolineato nella tesi precedente: il riequilibrio delle potenze mondiali. In generale, fra i 2/3 ed i 3/4 degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) - che definirei qui, in maniera semplificata, come quelli realizzati dalle imprese transnazionali - circolano in tre aeree: l'Europa, l'insieme formato da Stati Uniti e Canada, ed infine il Giappone. Nel corso della prima metà degli anni 1980, i paesi in via di sviluppo hanno ricevuto il 25% di tale IDE, totale che si è ridotto al 17% nella seconda metà degli anni 1980. Negli anni successivi, si è potuto osservare un aumento di questo IDE: ciò ha spinto alcuni economisti a trarre delle conclusioni affrettate, dato che nel 1991, il 26%, e nel 1992 il 35% degli IDE sono andati ai paesi in via di sviluppo. Ma un tale aumento è stato dovuto al fatto che una trentina di paesi in via di sviluppo, compresi la Cina e l'India, che si erano opposti fino ad allora agli investimenti transnazionali, avevano aperto le loro frontiere. Allo stesso tempo, l'ondata di privatizzazioni delle imprese pubbliche nei paesi in via di sviluppo aumentava le opportunità offerte agli investimenti stranieri. Nel 1995, questo gruppo di paesi otteneva ancora il 32% degli IDE, ma nel 1999 questa percentuale è scesa al 25%.
   Contrariamente ad una convinzione radicata nelle popolazioni dei paesi più poveri, le imprese transnazionali non danno la priorità al lavoro a basso costo; preferiscono sfruttare la manodopera qualificata, dal momento che è più produttiva. Non è ad Haiti o in Congo che il capitalismo prospera, ma in Svezia ed in Germania. Gli investitori transnazionali cercano le regioni più produttive dove l'economia è sviluppata e dove la forza lavoro è sofisticata. Certo, se due forze lavoro hanno lo stesso livello du qualificazione, ed una è meno remunerata dell'altra, gli investitori transnazionali preferiscono la prima. Ma, anche in questo caso, sono più interessati alle infrastrutture materiali del paese o della regione in questione, dal momento che la mancanza di infrastrutture rischia di non compensare i vantaggi che offrono dei costi salariali inferiori.
   Questo stesso criterio governa la ripartizione degli IDE in seno ai paesi in via di sviluppo. Le grandi imprese transnazionali cercano degli Stati che offrano la manodopera più qualificata e delle infrastrutture materiali che siano in grado di garantire un maggior potenziale di crescita. Per tale ragione, al di fuori dei tre grandi poli (Unione Europea, America del Nord e Giappone), il resto degli IDE si dirige di preferenza verso la Cina, l'India ed il Brasile. In tal modo, se da un lato, assistiamo al declino degli Stati Uniti, dall'altro, osserviamo una riorganizzazione che ha già trasformato la Cina in una nuova potenza economica e politica, e ha dato all'India ed al Brasile i mezzi per divenire delle potenze economiche. Contrariamente a quanto è avvenuto negli anni 1930, la crisi economica e finanziaria che colpisce gli Stati Uniti non corrisponde ad una crisi mondiale, ma piuttosto ad un rafforzamento delle possibilità di vaste regioni del globo.

3) Questo quadro globale viene ulteriormente complicato dal fatto che, nel corso degli ultimi decenni, i paesi hanno smesso di costituire delle reali entità economiche e che quindi gli Stati nazionali ed i loro rispettivi governi hanno perso la loro supremazia. Ho scritto molto su questo argomento, e molti altri autori hanno fatto lo stesso, ciascuno con il proprio punto di vista, ma partendo dagli stessi fatti. Ciò che caratterizza la circolazione transnazionale del capitale è la capacità di eludere ogni barriera doganale, cosa che priva i governi delle loro armi.
   Per comprendere i pro e i contro di questa faccenda, si può partire da un semplice esempio. Nella prima metà degli anni 1980, quando l'amministrazione Reagan era preoccupata a causa del vantaggio competitivo delle esportazioni giapponesi di automobili, di camion e di motociclette, impose delle tariffe doganali più alte. Ma le imprese giapponesi reagirono puramente e semplicemente investendo negli Stati Uniti, dove cominciarono a fabbricare i loro veicoli, accelerando in questo modo ancora di più il declino dell'industria automobilistica nordamericana. Infatti, fu sufficiente che le grandi imprese giapponesi avessero paura per l'aumento delle tariffe doganali perché anticipassero questa misura e cominciassero a fabbricare i loro prodotti negli Stati Uniti, come poi è accaduto. E lo stesso fenomeno si è verificato nella seconda metà degli anni 1980 con la produzione di computer. Secondo Dennis Encarnation, professore alla Harvard Business School, all'inizio degli anni 1990, la vendita alle fabbriche situate negli Stati Uniti, di impianti di assemblaggio ed impianti di stoccaggio situati sul territorio americano ma di proprietà del capitale giapponese era due volte il totale delle esportazioni dal Giappone verso gli Stati Uniti.
   Lo stesso fenomeno si è prodotto in senso inverso, a metà degli anni 1980, quando numerose imprese occidentali, al fine di evitare le misure protezionistiche attuate dal Giappone, hanno aperto delle fabbriche sul posto, anziché esportare i loro prodotti verso quel paese.
   Oggi, quello che la maggior parte delle statistiche continua a descrivere come flussi commerciali fra economie nazionali è in realtà un fenomeno che si svolge fra imprese transnazionali. Secondo uno studio fondamentale condotto alla fine degli anni 1980 da De Anne Julius, gli scambi fra le imprese e le loro succursali all'estero rappresentano più della metà del totale degli scambi in seno ai paesi dell'OCSE. Nel corso degli stessi anni, circa un terzo delle esportazioni nordamericane è stato inviato a delle imprese straniere di proprietà di società che avevano sede negli Stati Uniti, ed un altro terzo era costituito di merci che le imprese di proprietà straniera aveva delle succursali negli Stati Uniti che esportavano verso i paesi dove avevano la loro sede. In senso opposto, nel 1986, quasi 1/5 delle importazioni verso gli Stati Uniti proveniva da imprese americane situate all'estero, e quasi un terzo era costituito da merci che imprese straniere con succursali negli Stati Uniti avevano importato dai paesi dove avevano la loro sede.
   Se cerchiamo di avere una visione globale, alla fine degli anni 1980, i calcoli di De Anne Julius mostrano che il totale delle vendite realizzate dalle imprese di proprietà nordamericana, sia che si tratti delle loro sedi che delle loro succursali, alle imprese di proprietà estera è stato cinque volta maggiore rispetto alla stima totale delle esportazioni americane. Allo stesso tempo, le imprese straniere hanno comprato tre volte il volume delle importazioni americane. A quel tempo, fra i 12 principali paesi dell'OCSE,erano 11 gli stati che avevano venduto maggiormente negli Stati Uniti, attraverso filiali nordamericane di società che avevano la loro sede in quei paesi, piuttosto che attraverso l'esportazione diretta.
   In una situazione in cui vengono resi pubblici solo i dati nazionali, e dove le statistiche delle imprese rimangono confidenziali, questi calcoli sono molto difficili e pochi economisti osano addentrarsi su questo terreno, ma tutto indica che i valori calcolati per la seconda metà degli anni 1980 oggi sono ancora più elevati.
   Di conseguenza, quando si menziona la natura concorrenziale dei prodotti cinesi, sarebbe meglio non dimenticare che la maggior parte della crescita delle esportazioni cinesi è dovuta a delle succursali cinesi di imprese transnazionali. Questo non dovrebbe sorprenderci affatto, in quanto alla fine degli anni 1980 e all'inizio dei 90, le succursali giapponesi con sede negli Stati Uniti rappresentava la quota maggiore delle esportazioni da questo paese verso il Giappone.
   Infatti, dal momento che le statistiche sono unicamente nazionali viene alimentata una visione nazionalista anacronistica dell'economia. Invece di considerare l'esistenza di un piano strutturale di produzione e di distribuzione in seno alle grandi imprese transnazionali, gli specialisti preferiscono immaginare una concorrenza disordinata fra entità nazionali.

4) Un'economia mondiale, nella quale gli Stati-nazione ed i loro rispettivi governi hanno perso il loro primato e le imprese transnazionali sono gestite da una rete di poli interconnessi, sempre cangianti, una tale economia globale non si basa più su delle monete nazionali.
   Nel 1970, quando le istituzioni nordamericane ufficiali possedevano quasi 24 miliardi di dollari dislocati all'esteri, i privati e le imprese ne possedevano circa 22 miliardi. Questo squilibrio non ha fatto che crescere da allora. Ciò significa che, a forza di fabbricare biglietti verdi che circolano su scala mondiale, l'amministrazione nordamericana ne ha perso il controllo. È stato questo il motivo fondamentale che ha portato allo smantellamento degli accordi di Bretton Woods, smantellamento sancito dagli accordi di Washington (o Accordo Smithsoniano) del 17 e 18 dicembre 1971, una delle date più importanti di questo lungo processo di riorganizzazione economica, che non è stato ancora completato.
   Ma oggi non è il corso del dollaro ad essere in discussione, né un confronto fra i depositi ufficiali e quelli privati [di quella o di quell'altra moneta]- L'attuale volume delle transazioni finanziarie è di gran lunga superiore a tutte le riserve bancarie, per le banche centrali è impossibile controllare le monete nazionali senza tener conto delle posizioni delle grandi imprese transnazionali. Ci devono essere degli accordi, espliciti o impliciti. Nessuna banca centrale è in grado di sostenere la sua moneta, se si dispiegano dei movimenti sistematici contro questo strumento.

5) È in questa prospettiva che va compreso il rimodellamento del credito e dei meccanismi finanziari che hanno avuto luogo nel corso degli ultimi anni. Da parte di molti si denuncia ora il ruolo del «capitalismo speculativo», ignorando (o dimenticando) che è stato uno dei concetti tipici dell'estrema destra fascista o fascisteggiante durante gli anni 1920 e 1930. Il nazionalsocialismo di Hitler ha dato al «capitalismo speculativo» una connotazione biologica, identificandolo con gli Ebrei, cosicché le camere a gas nel Terzo Reich e le Einsatzgruppen (commandos di sterminio) nei territori occupati dell'Est sono stati la conseguenza finale di questa concezione di «capitalismo speculativo».
   Oggi ci sono numerosi marxisti di sinistra, che del tutto candidamente riproducono questa terminologia e, peggio ancora, queste idee. Il capitalismo non conosce alcuna opposizione fra produzione e credito; infatti, una tale opposizione non esisteva nemmeno ai tempi del mercantilismo, almeno per quel che riguarda il credito ottenuto attraverso meccanismi fiduciari. La funzione del credito è quella di permettere alla produzione di funzionare in maniera fluida e, quando si raggiunge la complessità attuale, i meccanismi finanziari diventano assai complessi e allo stesso tempo molto diversificati. Inoltre, in un periodo in cui il quadro nazionale delle economie è stato superato e in cui, in ogni caso, l'emissione di moneta nazionale non basta più a soddisfare del tutto i bisogni, le banche e le altre istituzioni finanziarie sono esse stesse obbligate a creare costantemente altre forme di moneta bancaria, e lo fanno direttamente nel quadro transnazionale in cui operano.
   Evidentemente, ci sono degli speculatori nell'ambito finanziario, ma sono sempre esistiti così come si sono sempre trovati degli individui nell'industria che si dedicano alla contraffazione ed esistono dei borseggiatori nei centri commerciali. Non è in questo modo che potremo comprendere i meccanismi dell'economia. Sarebbe auspicabile che, di tanto in tanto, i marxisti seguissero l'approccio di Marx che, ne Il Capitale, criticava il capitalismo non evocando le sue anomalie, ma osservando il suo funzionamento normale.

6) Oggi, esiste quindi un nuovo quadro economico, di risorse, di strumenti, ma ciò che manca è il coordinamento. I meccanismi di regolazione son chiaramente insufficienti per i bisogni attuali. Col declino delle nazioni in quanto quadro economico e quindi col declino dei ruoli dei governi nazionali, le istituzioni e i meccanismi interstatali sono stati anch'essi rimessi in discussione. Alcuni di essi sopravvivono così come erano stati concepiti negli Accordi di Bretton Woods, altri hanno subito delle modificazioni che non hanno influito sulla loro sostanza, mentre il grande capitale transnazionale nel corso del tempo ha già superato tutto ciò. Da un altro lato, tuttavia le grandi imprese transnazionali, mentre si erano mostrate più o meno in grado di autoregolarsi, non sembrano essere capaci di regolare il sistema nel suo insieme.
   In realtà, queste grandi società finora hanno cercato di approfittare del meglio di entrambi i mondi, essendo, in pratica, delle istituzioni pubbliche che da un punto di vista giuridico continuano a presentarsi come istituzioni private. Così, nel 1992, la Banca mondiale ha adottato delle Linee guida sul trattamento degli investimenti diretti esteri: questo documento è stato accettato dagli amministratori della Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale dopo che avevano consultato i governi interessati, dalle altre organizzazioni internazionali, da gruppi di uomini d'affari e da associazioni giuridiche internazionali. Ma benché questo testo abbia formulato delle raccomandazioni volontarie, aveva come oggetto solamente quello di regolare le azioni degli Stati, non le azioni transnazionali. In quest'occasione, la Banca mondiale ha affermato chiaramente che le Linee guida
propongono dei «principi generali destinati ad orientare i comportamenti dei governi nei confronti degli investitori stranieri ma che non includono delle regole di buona condotta concernenti gli investitori stranieri». Questa seconda dimensione è stata negoziata per un lungo periodo nel quadro di un Codice di condotta delle Nazioni Unite delle imprese transnazionali, ma, dopo le consultazioni ufficiose del luglio 1992, le delegazioni hanno deciso che era impossibile arrivare ad un consenso e hanno messo fine a tutti i negoziati che andavano avanti da quindici anni. Così, si è deliberatamente venuto a creare un vuoto giuridico intorno alle imprese transnazionali, al punto che uno dei loro principali organi ideologici, la rivista The Economist, ha insistito a più riprese sul fatto che non esistono imprese transnazionali, ma solamente somme di imprese nazionali.
   La crisi attuale non sembra condannare questa falsa idea. Le istituzioni che si limitano alla sfera nazionale sono superate, cosa che mina le basi della sopravvivenza delle organizzazioni internazionali strutturale sul modello di un'assemblea delle nazioni. La soluzione alternativa più praticabile sembra risiedere in una nuova alleanza fra le grandi imprese transnazionali e i nuovi organi sovranazionali che emergono dalle istituzioni internazionali esistenti. Ma il fatto che le grandi imprese transnazionali agiscono come degli organi sovrani su scala mondiale senza che questa sovranità sia ufficialmente riconosciuta, costituisce uno dei principali ostacoli che rende difficile, e perfino impedisce, la riorganizzazione urgente delle istituzioni incaricate della regolazione economica.
   Infine, rimane da fare, su scala mondiale, quello che la Cina è riuscita a fare sulla scala della sua economia, vale a dire gestire congiuntamente il capitalismo di Stato e le grandi imprese private nel quadro di un unico organo di decisione, consacrati dall'ammissione dei capitalisti privati in seno ad un partito che continua - evidentemente - a chiamarsi comunista. Di conseguenza, sembra che, anche in questo campo, il capitalismo cinese indichi la via da seguire.

7) La grande differenza fra questo ipotetico sistema di regolazione che ho appena evocato, o qualsiasi altro sistema simile, ed il keynesismo che è stato promosso dopo la seconda guerra mondiale, risiede nell'integrazione dei lavoratori. Nel modello keynesiano, così com'è stato applicato dai socialdemocratici e dai cristiano-democratici, il tasso di crescita economica, l'aumento della massa monetaria e il tasso di crescita dei salari risultavano da accordi tripartitici fra le confederazioni padronali, lo Stato e le centrali sindacali. Tuttavia, perché i sindacati possano contribuire a regolare il mercato del lavoro, bisogna che essi raggruppino una percentuale significativa di lavoratori. Ora, oggi giorno, i sindacati non possono più essere considerati come i rappresentanti dei lavoratori in quanto il tasso di sindacalizzazione è crollato in maniera spettacolare.
   In Australia, dove nel 1970 era sindacalizzata più del 50% della popolazione attiva, tale percentuale nel 2001 è crollata al 25%. L'evoluzione è stata praticamente identica nel Regno Unito, passando da quasi il 50% della seconda metà degli anni 1970 a circa il 30% del 2006. Lo stesso in Italia, dove nel 1980 era sindacalizzato intorno al 50%, ed ora il tasso attuale è inferiore al 40%. Negli Stati Uniti, il 34% della popolazione attiva sindacalizzata del 1965 è ora, nel 2006, solamente il 12%. In Germania si è passati dal 30% degli anni 1990 al 20% del 2003. E infine in Francia, dove i sindacati organizzavano negli anni 1970 il 20% della popolazione, questa proporzione nel 2006 è scesa a meno del 9%. Pochissimi paesi sono sfuggiti a questa tendenza.
   Oggi, i sindacati non contribuiscono più ad organizzare il mercato del lavoro, in quanto sono diventati incapaci di farlo. Sopravvivono principalmente in quanto detentori di capitale. I meccanismi che hanno permesso ai sindacati di appropriarsi, di diritto o di fatto, di importanti pacchetti di azioni sono complesse e varie. Non posso affrontare la questione in queste note, come invece ho potuto fare in un libro scritto in collaborazione con Luciano Pereira [*1]. Per mostrare l'ampiezza del problema, basta menzionare il fatto che nel 2003, su 17 miliardi di dollari che rappresentano i fondi pensione ed i fondi comuni di investimento in tutto il mondo, circa 12 miliardi sono direttamente collegati a dei sindacati, o sono gestiti da dei rappresentanti dei lavoratori salariati.
   In simili circostanze, i capitalisti possono controllare i lavoratori solo per mezzo della disciplina che instaurano in seno alle imprese e attraverso l'enorme sistema di controllo elettronico messo in atto al di fuori del luogo di lavoro? Oggi il credito è certamente diventato uno dei mezzi più potenti per controllare i lavoratori. Nei paesi più sviluppati, la generalizzazione del credito individuale e della moneta elettronica ha portato alla completa scomparsa di qualsiasi chiara delimitazione fra il totale del salario ed il totale delle spese; mettendo la maggior parte dei lavoratori in una situazione simile a quella che esisteva in un'epoca precedente, quando si indebitavano con il negozio di proprietà del loro padrone. 
Diventavano prigionieri del debito, come avviene oggi per tutti i lavoratori salariati nei paesi sviluppati. In realtà, il fatto che la crisi attuale si svolga a livello di credito potrebbe diventare un fattore molto grave che contribuisce all'addomesticamento dei lavoratori. E i capitalisti non esitano ad utilizzare tutto il potenziale di una tale arma.
   Malgrado ciò, gli attuali meccanismi di controllo saranno sufficienti? Dopo aver distrutto o marginalizzato gli organi burocratici della rappresentazione e dell'integrazione dei lavoratori, riusciranno i padroni, di loro propria iniziativa, a creare dei nuovi mezzi di regolazione del sistema economico, ivi compreso il mercato del lavoro? Oggi, i giornalisti (e gli accademici che accettano di abbassarsi al livello di pennivendoli) cantano ad ogni occasione le virtù del libero mercato e lo fanno proprio nel momento in cui l'influenza sul mercato degli oligopoli e gli oligopsoni ha raggiunto un livello senza precedenti. Ma, malgrado tutta la demagogia di questi discorsi, i cittadini ordinari si rendono conto, grazie alla loro esperienza pratica, che esiste un solo libero mercato concorrenziale, quello che organizza la concorrenza fra i lavoratori. Fino ad oggi, è stato questo, in termini economici, il fattore che ha contribuito maggiormente alla supremazia incontestata dei padroni durante gli ultimi venti o trent'anni. Il mercato si basa sulla libera concorrenza solo per quanto riguarda i lavoratori che entrano in competizione con gli altri salariati. Ma tale frazionamento e questa frammentazione dei lavoratori non costituisce forse un grave problema per il capitalismo, visto che si vuole regolamentare globalmente il sistema? È questa la domanda cruciale alla quale le lotte sociali dovranno rispondere nei prossimi anni. E da tale risposta dipenderà l'evoluzione della crisi ed il modo in cui essa verrà risolta.

- João Bernardo - Pubblicato su Revista de Economia, vol.11, n°2 del 2008 -

[*1] - O capitalismo sindical [Il capitalismo sindacale] de João Bernardo e Luciano Pereira, Xama Editora, Sao Paulo, 2008.

fonte: Mondialisme.org

lunedì 26 dicembre 2016

Compiaciuti

roberts

Il sistema è rotto
- di Michael Roberts -

In un articolo di fine anno, il biografo di John Maynard Keynes, l'economista Lord Robert Skidelsky scrive: «Cerchiamo di essere onesti: nessuno sa cosa sta succedendo oggi nell'economia mondiale. Il recupero rispetto al crollo del 2008 è stata inaspettatamente lento. Ci troviamo sulla strada della buona salute o siamo impantanati in una "stagnazione secolare"? La globalizzazione sta arrivando o se ne sta andando?»
E continua: «I politici non sanno che pesci pigliare. Spingono le solite (ed insolite) leve e non succede niente. Si supponeva che il quantitative easing avrebbe riportato nuovamente l'inflazione a livelli utili. Non è stato così. Si supponeva che la contrazione fiscale avrebbe ripristinato la fiducia. E non l'ha fatto».

Skidelsky dà la colpa di tutto questo allo stato della macroeconomia - e ci ricorda la famosa visita della regina Elisabetta alla London School of Economics nel bel mezzo della Grande Recessione del 2008, quando la regina chiese al gruppo di eminenti economisti: perché non si fossero accorti di cosa stesse arrivando? E loro risposero che non sapevano perché non lo avevano saputo!
Skidelsky va avanti a considerare le diverse ragioni dell'incapacità da parte degli economisti ufficiali di vedere l'arrivo della crisi, così come di riuscire a capire ora che cosa fare. Una delle ragioni potrebbe essere dovuta al fatto che l'istruzione economica si concentra su modelli irrealistici e su formule matematiche, piuttosto che cogliere "il quadro intero". Skidelsky sostiene che gli economisti si sono tagliati fuori dalla «comprensione comune di come funzionano le cose, o di come dovrebbero funzionare». Quest'analisi segue a quella svolta recentemente da Paul Romer, il nuovo economista capo presso la Banca Mondiale, che, nel dare le dimissioni dal mondo accademico, ha attaccato lo stato attuale della macroeconomia.

Una seconda ragione proposta da Skidelsky è quella per cui l'economia ufficiale vede la società come se fosse una macchina che può raggiungere un equilibrio fra offerta e domanda, cosicché «le deviazioni rispetto all'equilibrio sono delle "frizioni", dei semplici "sobbalzi lungo la strada"; ammortizzandoli, i risultati diventano predeterminati ed ottimali». Ciò che quest'approccio non riesce a riconoscere, dice Skidelsky, è il fatto che nell'economia operano esseri umani i quali non possono essere adattati al modello di equilibrio della macchina. La matematica li considera ostacoli per il quadro generale a causa della loro volubilità ed imprevedibilità umana. Quello che secondo Skideslky manca agli economisti è una «una cultura più ampia ed una prospettiva». Gli economisti hanno bisogno di una conoscenza più ampia di un maggior numero di cose che attengono all'organizzazione sociale, al comportamento, e alla storia dello sviluppo umano, e non solo di modelli e di matematica.

Anche se le argomentazioni di Skidelsky contengono più di un elemento di verità, tuttavia in realtà non spiegano perché l'economia ufficiale abbia divorziato dalla realtà. Non si tratta di un errore nella formazione o della mancanza di conoscenze nell'ambito delle scienze sociali, ad esempio la psicologia; ma si tratta del deliberato risultato conseguente al bisogno di evitare di considerare la realtà del capitalismo. "L'economia politica" inizia come un'analisi della natura del capitalismo svolta su basi "oggettive" dai grandi economisti classici Adam Smith, David Ricardo, James Mill ed altri. Ma una volta che il capitalismo è diventato il modo dominante di produzione nelle maggiori economie ed è altresì diventato chiaro che il capitalismo era un'altra forma di sfruttamento del lavoro (questa volta da parte del capitale), gli economisti si sono immediatamente affrettati a negare tale realtà. L'economia ufficiale ha preferito diventare un'apologia del capitalismo, sostituendo l'equilibrio generale alla concorrenza reale; ha sostituito la teoria del valore-lavoro con l'utilità marginale e ha messo la legge di Say al posto delle crisi.

Come succintamente espresso da Marx: «Osservo qui una volta per tutte che per economia politica classica io intendo quell'economia, da W. Petty in poi, che ha indagato le relazioni reali di produzione nella società borghese, in contrasto con l'economia volgare, la quale si occupa solo dell'apparenza, tornando sempre a ruminare incessantemente il materiale fornito da tempo dall'economia scientifica, allo scopo di rendere plausibili, per l'uso borghese quotidiano, le spiegazioni dei fenomeni più fastidiosi, ma per il resto si limita a sistematizzare in maniera pedante e proclamare come verità eterne le trite e banali idee dei borghesi compiaciuti del loro proprio mondo, che è per loro il migliore dei mondi possibili»

Quel che non va con l'economia ufficiale non è (solo) il fatto che gli economisti di oggi sono troppo strettamente matematici e focalizzati sui modelli economici - non c'è niente di intrinsecamente sbagliato nell'uso della matematica e dei modelli - né che la maggior parte degli economisti non abbia quella pià ampia «erudizione e i molteplici talenti» che avevano gli economisti classici del passato. Ma si tratta del fatto che l'economia non è più "economia politica", non è più un'analisi oggettiva delle leggi della dinamica capitalista, ma è un'apologia di tutte le "virtù" del capitalismo.

L'assunto dell'economia è che il capitalismo è l'unico sistema praticabile di organizzazione sociale umana che possa garantire i desideri e le necessità delle persone. Non esiste alternativa. Il capitalismo è eterno e finché non ci saranno troppe interferenze nel mercato da parte di forze esterne come il governo, o da parte di "eccessivi" monopoli, continuerà a funzionare. Occasionalmente, ci sarà da svolgere il compito di controllare gli "shock" subiti dal sistema (punto di vista neoclassico) ovvero intervenire per correggere i "problemi tecnici" che intervengono nella produzione  e nella circolazione capitalista (punto di vista keynesiano). Ma il sistema in sé va bene.

Si prenda la reazione di Paul Krugman all'articolo di Skidelsky. Ciò che sconvolge Krugman è il fatto che Skidelsky sostenga che l'economia ufficiale abbia calcolato che la contrazione fiscale (austerity) fosse necessaria per "ripristinare la fiducia" dopo la Grande Recessione. Krugman, moderno decano del keynesismo, non è d'accordo con il biografo di Keynes. L'economia ufficiale, quanto meno la sua ala keynesiana, sostiene il contrario. Più spesa pubblica, e non meno, avrebbe portato l'economia capitalista fuori dalla sua depressione. Si tratta di macroeconomia di base, sostiene Krugman.

Subito dopo dichiara che l'austerity è «fortemente correlata alle recessioni economiche». In realtà, la validità di una simile affermazione è piuttosto debole, come ho dimostrato in più post sul mio blog e in articoli per la stampa (presenti e futuri). La grande soluzione keynesiana dei soldi facili, zero rate di interessi e fiscal spending, quando è stata sperimentata (e tutte le tre volte che questo è avvenuto, è stato in Giappone), si è rivelata ben al di sotto delle aspettative di porre fine alla depressione. Krugman, naturalmente, ci racconta che questa prova non c'è stata, per lo meno non abbastanza. I politici «hanno rifiutato di usare la politica fiscale per promuovere posti di lavoro; hanno scelto di credere nella favola della fiducia per giustificare gli attacchi al welfare, dal momento che era questo ciò che desideravano fare. E certo, alcuni economisti hanno dato loro copertura. Ma questa è una storia del tutto diversa da quella che pretende che l'economia non è riuscita ad offrire una guida utile. Al contrario, ha fornito una guida estremamente utile, che i politici, per ragioni politiche, hanno scelto di ignorare».

A mio avviso, i politici potrebbero aver scelto di non avvalersi del fiscal spending per risolvere il "problema tecnico" della Lunga Depressione in parte per "ragioni politiche". Ma ci sono anche ragioni economiche molto buone per affermare che in un'economia capitalistica, incrementare la spesa pubblica ed aumentare il deficit del bilancio potrebbe non portare ad una ripresa economica se la redditività del capitale è bassa.

Skidelsky ha menzionato l'altro grande punto cieco dell'economia ufficiale: l'affermazione secondo cui il libero movimento delle merci e del capitale, la globalizzazione, è un'opportunità per tutti. Angus Deaton, premio Nobel per l'economia nel 2015, è un ottimistico difensore della globalizzazione. Nel suo libro del 2013, The Great Escape, sostiene che il mondo in cui viviamo oggi è più sano e più ricco di quanto altrimenti sarebbe stato, grazie a secoli di integrazione economica. In una sua intervista al Financial Time, Deaton dice che la «Globalizzazione non mi sembra sia il male peggiore e trovo assai difficile non pensare che abbia avuto il risultato di liberare dalla povertà miliardi di persone».

Ho discusso gli argomenti di Deaton in un post precedente. Deaton rappresenta tutto ciò che c'è di meglio oggi nell'economia ufficiale, dal momento che osserva i grandi temi: globalizzazione, robot, ineguaglianza e salute e felicità umana. Ora è preoccupato della minaccia che i robot rappresentano per i posti di lavoro, per la crescente ineguaglianza proveniente dal "rent-seeking" e per il deterioramento della salute degli americani a causa dell'abuso di farmaci, pompati dalle aziende farmaceutiche. Ha calcolato che «la felicità può essere effettivamente raggiunta quando una persona guadagna la somma di $75.000 l'anno». Naturalmente, per la maggior parte delle persone questo non si verifica, come sa bene Deaton. Ma lui rimane comunque fiducioso che il capitalismo sia il miglior sistema di organizzazione sociale in quanto negli ultimi 250 anni ha tirato fuori miliardi di persone "dalla povertà". Perciò il capitalismo funziona, anche se gli apologeti ne ignorano il funzionamento, e quando non funziona non riescono a spiegarne il perché.

L'intervistatore del Financial Time ha salutato Deaton e si è incamminato verso la sua automobile, «C'è un foglietto morbido e bagnato attaccato al parabrezza, una multa di $40. Sorrido. Ripenso anche al consiglio che mi aveva dato Deaton non appena mi ero seduto ed avevo menzionato il mio timore per la possibilità di una multa. "Sono sicuro che tu possa sistemare la cosa", mi ha detto il premio Nobel. "Basta che tu dica loro che il sistema si era rotto".

Ecco, il sistema si è rotto e gli economisti non possono tirarcene fuori.

- Michael Roberts - Pubblicato il 25 dicembre 2016 -

fonte: Michael Roberts Blog

sabato 24 dicembre 2016

Eternità

letteraperta

Qualcosa ancora succede!
A proposito del sogno della vita eterna del capitalismo attraverso tutte le crisi.
- Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio al nuovo anno 2017 -

Anche il 2016 è stato segnato da tutte le catastrofi riguardo la vita e la morte dei rifugiati. È venuto così apertamente alla luce del sole quello che  tanto piace ai mediatori ed alle mediatrici professionali, da chiunque lavori per i media fino ai funzionari della pubblica istruzione: storie personali e destini di vita, che si suppone siano indispensabili per poter mediare i contesti più complessi. Sarebbe stato naturale sommare uno più uno, e farsi venire il sospetto che, con i rifugiati, gli europei si sono trovati immediatamente di fronte quella situazione di crisi globale da cui si erano isolati.

Tuttavia, ancora una volta è stata riscoperta la "lotta contro le cause della fuga". Invece di "rimestare" nei sintomi - questo ci chiedono le voci pacifiche della politica e dei movimenti sociali - bisogna combattere le cause della fuga. Ma quali sono le ragioni per fuggire? Nel numero tematico della rivista "iz3w" [ https://www.iz3w.org/ ] viene discussa tutta una miscellanea di ragioni per la fuga: Il mercato mondiale produce povertà. La politica tedesca di esportazioni di armi sta obbligando le persone a fuggire. Le alterazioni climatiche distruggono i mezzi di vita di molte persone. E la politica dello sviluppo - al contrario di quanto dichiara il suo slogan «combattere le cause della fuga, non i rifugiati!» - con i progetti di infrastrutture, con la politica di liberalizzazione del mercato e con la cooperazione con le élite cleptocratiche, spinge le persone a fuggire. Per non parlare dell'islamismo "taglia-mani e taglia-teste", che, con le sue azioni quotidiane di terrore e di guerra, obbliga le persone a fuggire. Tra le cause di fuga non mancano nemmeno l'omofobia e la persecuzione dell'omosessualità [*1].

Quella che non compare, ancora una volta, fra queste "molteplici cause", è la percezione della crisi del capitalismo, manca il riferimento alla logica della dissociazione-valore, che agisce come una contraddizione in processo: sul piano economico, come contraddizione fra l'utilizzo illimitato dei lavoratori sulla base della logica del capitale - ossia, la produzione senza limiti di plusvalore - e l'aumento della produttività forzato dalla concorrenza, ossia, la riduzione del numero di lavoratori produttori di plusvalore; sul piano politico, come contraddizione fra la tendenza universalista del capitale, orientato al mercato mondiale, ed il suo legame allo spazio funzionale e riproduttivo particolare, nazionalmente costituito.
E, in termini di soggetti, la violenza maschile va esprimendosi sempre immediatamente nei differenti modelli di elaborazione ideologica. È la logica stessa del capitale che si scontra con i propri limiti storici e fa sì che la dinamica del progresso diventi una dinamica di distruzione.

Chi cerca le cause della fuga senza considerare tutto questo rimane intrappolato in una discussione meccanicistica, suggerendo che, se venissero rimosse dal mondo le "molteplici cause", anche i rifugiati rimarrebbero nei luoghi ai quali appartengono. A tale scopo, basterebbe invertire i meccanismi di causa ed effetto. Le soluzioni diventano così semplici e realizzabili: la redistribuzione della ricchezza, la regolazione sociale ed ecologica del mercato mondiale, una politica di sviluppo orientata in tal senso, la lotta contro il terrorismo islamico e contro la repressione sessuale... L'importante è ottenere qualcosa e - soprattutto - che il capitalismo possa continuare il suo eterno cammino. Per far sì che questo cammino possa proseguire, la crisi dev'essere negata.

È esattamente la cosiddetta crisi dei rifugiati che avrebbe potuto mettere in chiaro il fatto che niente funziona. L'impasse immanente della situazione di crisi, nel caso dei rifugiati diventa chiaro: sono sotto gli occhi di tutti i limiti della possibilità di utilizzazione della forza lavoro dei superflui, l'impotenza degli interventi politici di ordinamento mondiale attraverso guerre interminabili, la fine della forma del diritto visibile nello stato di eccezione che diventa lo stato normale, così come nella deportazione e nell'internamento nei campi per i rifugiati. Interventi giornalistici critici della politica dei rifugiati, come quello di Metz/Seeßlen, percepiscono perfettamente alcune di queste relazioni [*2]: per esempio, il fatto che riguardo ai rifugiati diventa visibile «il dominio di uno stato di eccezione esorcizzato, (della) esclusione sociale...» [*3], il fatto che nello stato di eccezione «i grandi progetti della modernità - la democrazia, l'illuminismo, l'umanitarismo - vengono sospesi» [*4]. Ma, dal momento che non riflettono la cosiddetta crisi dei rifugiati sulla relazione sociale totale, il loro intervento rimane impantanato nella sfera politica. Si lamenta la decadenza dell'Europa, diventata visibile nel trattamento dei rifugiati, «un mostro post-democratico, neoliberista e, a volte, infantilmente malevolo, ed un progetto di regresso inesorabile» [*5]. La lamentazione sfocia in un'invocazione astratta di democrazia, di illuminismo e di umanitarismo. Anziché riflettere sul legame costitutivo fra Stati-nazione e democrazia e sulla sua inclusione nella totalità sociale, si invoca l'impossibile, in un "gergo di autenticità" (Adorno): «Una nuova forma transnazionale di democrazia. La democrazia reale, volta a difendere la libertà, la giustizia e la solidarietà» [*6]. Si fa appello ad un universalismo astratto, in cui le persone hanno capacità giuridica solo se hanno anche la capacità di lavorare e di valorizzare, o, quanto meno, possono essere finanziati a partire dalla produzione di valore. L'impossibile dev'essere possibile, dal momento che non può avvenire quello che non deve avvenire: la fine del capitalismo.

Quanto il canone del capitalismo eterno rimanga fermamente ancorato, anche a livello di riflessione teorica, diventa chiaro nel confronto di Roswitha Scholz con le teorie della colonizzazione di Klaus Dörre e di Silvia Federici [*7]. L'argomentazione di Dörre consiste nel fatto che «le colonizzazioni capitaliste in realtà sono illimitate, ovvero il capitalismo crea per sé, incessantemente, un esterno, sia sotto forma di regioni devastate, sia anche sotto forma di forza lavoro che non viene sfruttata» [*8]. Pertanto esiste la speranza per un nuovo regime di accumulazione, che per molti a sinistra è irrinunciabile. Non va dimenticata la mano curativa dello Stato, che - volendo - può superare le leggi economiche. Sulla strada verso un capitalismo eco-sociale, l'esterno e lo Stato, eterni, possono unirsi in un progetto di salvezza.

Per Silvia Federici, il capitalismo rimane vivo nella perpetuazione della società del lavoro. Essa vive nell'accumulazione primitiva, che è proseguita nelle colonizzazioni. In questo modo continua anche lo sfruttamento del lavoro. La fine della società del lavoro è talmente tabù che la superfluità oggettiva della forza lavoro non viene vista in maniera categoriale. «La paura di diventare superfluo è talmente grande che si riesce solo ad identificare teoricamente sé stesso con il diventare precario, essendo tabù considerare la fine assoluta della società del lavoro; questo è puro e semplice horror per il precario, che si vede obbligato a posizionarsi all'interno delle relazioni in  via di decadenza per poter mantenere sé stesso come qualcuno che si sforza al massimo» [*9]. Anche quando la società del lavoro ormai non funziona più, si potrà in qualche modo scoprire come continuare l'attività professionale, da mantenere incondizionalmente, in un'imprenditoria individuale postmoderna. La critica di sinistra non ne vuol sapere di una rottura categoriale. In qualche modo, ci sarà sempre una possibilità di salvare il capitalismo da sé stesso, dalla dinamica di distruzione che ne accompagna la crisi.

Quanto peggio vanno le cose, tanto più bisogna fare intravvedere un qualcosa - da qualsiasi parte provenga - che lo Stato dispensa sulla strada per salvare il capitalismo. La speranza nel lavoro, un nuovo regime di accumulazione, un soggetto come portatore di salvezza diventano l'identità marcia di un'illusione quasi trascendentale. Ora, ciò che è realmente impossibile e che non può essere nemmeno sperato può diventare realtà. Il desiderio ardente serve a qualcosa solo nelle favole - ma non serve contro la logica della dissociazione-valore in quanto contraddizione in processo. Questa non può continuare eternamente. La sua dinamica la porta a sbattere, logicamente e storicamente, contro i limiti che nessuno Stato può permetterle di superare, in quanto questo può svolgere le sue funzioni solamente come parte immanente della costituzione del feticcio capitalista. Ma anche i fenomeni evidenti, in cui questa fine diventa visibile - le masse di superflui e le tendenze alla destatalizzazione e all'inselvaggiamento - non riescono a scuotere la speranza in un'eternità inservibile. Andando avanti, qualcosa "deve" succedere! E, laddove ormai niente più funziona, bisogna far apparire fede, speranza e una prassi feticizzata di solidarietà. Ora, neppure la teologia riesce a pensare fede e speranza in contrasto con la realtà. Nemmeno un Dio onnipotente potrebbe perpetuare la contraddizione in processo.

Sinistra e destra sono unite nella negazione della crisi. Mentre con un anelito di sinistra si cerca una nuovo barlume di creazione di valore, si invoca la "vera" democrazia e il diritto internazionale come ancora di salvezza, nei movimenti neofascisti che si stanno rafforzando si mostra la volontà di ricostituire la sovranità nazionale in via di disintegrazione. Tutto ciò avviene in una situazione nella quale, con la crisi del 2007/2009, salta agli occhi anche la fine delle possibilità di poter affrontare la svalorizzazione globale per mezzo degli strumenti neoliberisti. L'illusione che si possa trovare una via d'uscita dalla crisi attraverso la creazione di capitale fittizio, con circuiti di deficit e con interventi statali di salvataggio, ormai è stata negata. Quel che Robert Kurz aveva diagnosticato, circa i processi in corso nel mercato globale internazionale, è diventato evidente in parti sempre più ampie del mondo. «Lo Stato appare come economicamente svuotato, se comparato alla sua funzione precedente, e si è trasformato in una copertura politica cadente e socioeconomicamente al collasso» [*10].

Con la scomparsa dello spazio di manovra della gestione neoliberista della crisi, la crisi si ripercuote nella disintegrazione della sovranità nazionale, anche in forma aggravata negli Stati europei. Lo stato di eccezione diventa lo stato normale - come si evidenzia nell'ultimo anno, specialmente per quel che riguarda le persone che, di fronte alla disgregazione degli Stati, cercano rifugio in un Europa che viene supposta come ancora intatta. L'imperialismo di sicurezza delle "guerre di ordinamento mondiale" (Kurz), ormai non più finanziabili, sta diventando sempre più imperialismo di esclusione, con localizzazione nazionale particolare. Daniel Späth, nella sua presentazione al seminario di EXIT! di quest'anno, ha sintetizzato l'aggravamento dei processi di crisi, che vanno di pari passo con il crollo del 2007/2009, in quanto "svolta immanente postmoderna". Sul piano dell'elaborazione ideologica, alla svalorizzazione immediata del capitale occidentale ed al collasso della sovranità dello Stato corrisponde l'ideologia della ricostituzione della sovranità nazionale, che trova espressione nei movimenti neofascisti.

La contraddizione essenziale consiste nel pretendere di restaurare qualcosa che si decompone per aver perso la sua base in un'accumulazione che funzioni. Perciò, non è per caso che i tentativi di ricostituzione avvengono sempre più sulla base delle regioni, anziché delle nazioni. Esse non sono un'espressione di forza nazionale, ma semmai «un'espressione di disintegrazione della coerenza nazionale in formazione sub-statali di clan e di tribù» (Daniel Späth). Per quanto i movimenti neofascisti si presentino in maniere differenti, condividono tutti la volontà di sovranità e di auto-sviluppo. Si pretende che la sovranità torni ad essere realtà a tutti i livelli: nell'alimentazione, nella cura del proprio corpo, nella regione e perfino nella resurrezione del clan e della tribù.

Lo sfondo sociale di questo sviluppo è la negazione della crisi, come si può vedere nel paradosso di una critica neofascista a sondo neoliberista del neoliberismo. Il neoliberismo e la postmodernità che lo accompagna erano, infatti, reazioni alla crisi, ma sulla base della sua negazione. Le gestione neoliberista della crisi si stabilisce a partire dall'abbandono del paradigma politico-economico e nella transizione verso il culturalismo delle differenze, attraverso il gioco dei segni e dei soggetti. Con la crisi del 2007/2008 la cosa diventa chiara: il gioco è finito, non c'è alcuna base per poterlo prolungare. Si è sentito il fischio finale. In un contesto di elevata pressione della svalorizzazione, l'amministrazione neoliberista della crisi è al capolinea. Avviene una mutazione verso un'amministrazione di emergenza, autoritaria e repressiva. Alla negazione neoliberista della crisi risponde l'affermazione della crisi nei nuovi movimenti di destra - sorretta dall'illusione dell'autarchia economica. Ma anche quest'affermazione deve negare la crisi; perché anche dal fallimento della crisi non nascerà alcun nuovo regime di accumulazione.

Destra e sinistra si uniscono nella volontà di negazione della crisi e nel rifiuto di riflettere sulla totalità sociale. La vita immediata e le preoccupazioni immediate continuano ad essere il punto di partenza, e simultaneamente di arrivo, del pensiero. Continua a riflettere la sua mediazione con la totalità sociale determinata dalla relazione di dissociazione-valore, così come la crisi finale relativa a questa. Al posto di teorie complicate, vengono discusse semplici verità, con un'evidenza che viene supposta come immediata, e personalizzazioni, che trovano espressione nella critica delle élite. Anziché riflettere sulla relazione dei fenomeni isolati con la totalità sociale, quel che ha luogo è «un'invocazione vitalista di "esistenza" immediata [...] nel senso di una falsa immediatezza non-dialettica, un'esistenza che non ha in sé alcun contenuto, né orientamento e che, pertanto può anche spostarsi a destra» [*11].

Il fatto che il capitalismo, di fronte alla fine del prolungamento delle possibilità di accumulazione, porti alla distruzione del mondo, di certo non può essere vero. Ed ecco che qui la negazione della crisi appare ancora più urgente, come ultima ancora contro lo sprofondamento nel nulla. Tuttavia, quanto più, con i processi di svalorizzazione globale, collassano anche le basi della sovranità e del diritto, tanto più si aggrava la situazione di impasse e si marcia verso la distruzione della vita - sia a causa dell'esaurimento delle basi della vita, sia per i processi di inselvaggimento barbaro o per la morte finale.

In tale contesto, si evidenziano due fenomeni, sorti nel 2016 in connessione con la crisi dei rifugiati. In primo luogo, i modi di pensare ed agire xenofobi, razzisti e sessisti, che si sono manifestati attraverso la violenza maschile. Nonostante la necessità di distinguere, rispetto a questi fenomeni, piani differenti, si può tuttavia dire che la crisi associata a timori e fenomeni contraddittori deve essere elaborata dagli individui stregati dalla forma del soggetto, socializzati in maniera postmoderna ed orientati in senso narcisistico. Gli atti di violenza devono essere intesi come auto-posizionamento della soggettività narcisista maschile di crisi. Al contrario, le donne - ora responsabili sia del salario che della famiglia - diventano amministratrici di crisi, nelle situazioni dove si tratta di "nuda" sopravvivenza - e questo senza alcuna prospettiva. Situazioni in cui sono esposte alle proiezioni del sesso maschile, che, in condizioni narcisiste, possono immediatamente trasformarsi in violenza [*12].

In secondo luogo, la cosiddetta crisi dei rifugiati e il relativo dibattito politico-mediatico sono stati accompagnati da azioni terroristiche attuate da individui che avevano una storia di migrazione, o sonnessi in qualche modo con la migrazione. Secondo Gotz Eisenberg, in questo si può riconoscere un "nuovo copione": «Viene suggerito che gli autori di tali gesti, che abbiano o meno origine migrante, si servono di una codifica islamica e si dichiarano simpatizzanti dell'ISIS. Questo stabilisce "senso" e garantisce osservazione e grande attenzione» [*13]. Simultaneamente, attraverso l'attribuzione all'islamismo, si offre alla società scossa dalla crisi un nemico stabilizzatore che è venuto da fuori. Questo assolve e legittima lo stato di eccezione.

A partire da tale assoluzione, Eisenberg dice chiaramente in quale direzione vada cercata la soluzione all'enigma dell'amok e del terrorismo: «La normalità delle nostre condizioni di vita produce mostri: il protagonista della strage terrorista incarna il lato oscuro della vita quotidiana, dei suoi orrori nascosti» [*14]. Il quotidiano del modo di vita capitalista - aggravato dalle crescenti condizioni di crisi - spinge le persone ad una concorrenza incontestabilmente ostile, e la mancanza di senso e di prospettive porta all'autodistruzione, facendo in modo che scompaia il confine fra l'omicidio ed il suicidio [*15].

In questo modo si rivela, nei limiti della riproduzione sotto forma di merci del sistema, «la metafisica reale della modernità nella sua forma più ripugnante. Dopo che il soggetto borghese illuminato si è spogliato dei suoi abiti, appare evidente che sotto quegli abiti non c'è nascosto NIENTE: che il nucleo di tale soggetto è il vuoto; che si tratta di una forma "in sé", senza alcun contenuto» [*16]. Dietro questo vuoto c'è il vuoto della relazione di valore e di sovranità, insieme alla sua vuota forma del diritto fatta di "validità senza significato" (Agamben), in quanto relazione di coercizione politica in dissoluzione.

Il vuoto, in termini di contenuto, di una forma vuota sottomette a sé tutto il processo della vita. Nella crisi, manca la sostanza per questa coercizione di esposizione e sottomissione. Si scontra con il suo limite assoluto e sviluppa il suo potenziale di annientamento: l'annientamento dell'altro, in una concorrenza selvaggia, e l'annientamento di tutta l'organizzazione, senza senso perché vuota. La riduzione a "vita nuda" (Agamben) dell'essere umano sfocia nell'«ultima ed assoluta riduzione [...] a materia morta» [*17].

Benché l'illusione di eternità del capitalismo si presenti in maniera ancora più virulenta, come ancora di salvezza rispetto alla situazione ancora più drammaticamente aggravatasi con la crisi del 2007/2009, l'eternità del capitalismo è impensabile. Altrettanto impensabile è il suo fine emancipatore, nell'immagine di una ricostituzione qualsiasi, a prescindere. Quel che resta è l'insistenza sulla crisi categoriale, continuamente legata agli sviluppi empirici. Solo quando, in questo contesto, viene riconosciuto e negato ciò che costituisce il limite dell'immanenza capitalista, ci può essere un'opportunità di trascendere questo limite, per mezzo della negazione. Quel che è emancipatore non attiene alla famosa questione delle alternative, ma riguarda bensì la critica consistente della società delle merci e la riflessione sulla dinamica distruttiva della crisi che l'accompagna.
Affinché EXIT! possa continuare su questa strada, anche quest'anno chiediamo espressamente delle sottoscrizioni, e ringraziamo tutti coloro che, così, contribuiscono a garantire le basi materiali per il nostro progetto.

- Per la redazione e per la direzione di EXIT!, Herbert Böttcher -

Note:

[*1] - Vedi Informationszentrum 3. Welt (Hg.), Eine Frage der Existenz – warum Menschen fliehen [Una questione di vita o di morte - Perché le persone fuggono] Sept./Okt. 2016.

[*2] - Vedi Markus Metz/Georg Seeßlen, Hass und Hoffnung. Deutschland, Europa und die Flüchtlinge [Odio e speranza. La Germania, l'Europa e i rifugiati], Berlin 2016.

[*3] - Ivi

[*4] - Ivi

[*5] - Ivi

[*6] - Ivi

[*7] - Vedi, su EXIT! Krise und Kritik der Warengesellschaft, Nr. 13 (2016):  Roswhita Scholz - Cristoforo Colombo forever? - Per la critica delle attuali teorie della colonizzazione nel contesto del "Collasso della modernizzazione" - [ http://francosenia.blogspot.it/2016/06/i-fiori-recisi.html ]

[*8] - Ivi

[*9] - Ivi

[*10] - Robert Kurz, Das Weltkapital. Globalisierung und innere Schranken des warenproduzierenden Systems [Il capitale mondiale. Globalizzazione e liniti interni del sistema produttore di merci.] Berlin, 2005.

[*11] - Roswhita Scholz - Cristoforo Colombo forever? [ http://francosenia.blogspot.it/2016/06/i-fiori-recisi.html ]

[*12] - Vedi Elisabeth Böttcher, „Die sozialpsychologische Matrix des bürgerlichen Subjekts in der Krise. Eine Lesart der Freud'schen Psychoanalyse in wertabspaltungskritischer Sicht“ [La matrice socio-psicologica del soggetto borghese nella crisi. Una lettura della psicoanalisi freudiana dal punto di vista della critica della dissociazione-valore], in Netz-Telegramm des Ökumenischen Netzes Rhein Mosel Saar, März 2016.

[*13] - Götz Eisenberg, "Von Orlando bis München: Amok oder Terror“? [Da Orlando a Monaco, Amok o Terrore?] in Nachdenkseiten, online: http://www.nachdenkseiten.de/?p=34349, Letzter Zugriff: 3.12.2016.

[*14] - Ivi

[*15] - Vedi Robert Kurz, Weltordnungskrieg. Das Ende der Souveränität und die Wandlungen des Imperialismus im Zeitalter der Globalisierung [La guerra di ordinamento mondiale. La fine della sovranità e le metamorfosi dell'imperialismo nell'era della globalizzazione], Bad Honnef 2003, 71.

[*16] - Ivi

[*17] - Ivi. Vedi anche Robert Kurz, "Ausgrenzungsimperialismus und Ausnahmezustand“, in: EXIT! Krise und Kritik der Warengesellschaft, nº. 13 (2016), Traduzione in "Imperialismo di esclusione e stato di eccezione" [ http://francosenia.blogspot.it/2016/10/la-guerra-di-ordinamento-mondiale.html ]

Pubblicato su www.exit-online.org il 13/12/2016

fonte: EXIT!