mercoledì 7 dicembre 2016

Erbacce

biblio

Nel 1931 un trasloco costrinse Benjamin ad affrontare la mole sterminata dei volumi accumulati nel corso degli anni. Dal mezzogiorno alla mezzanotte, senza essere riuscito a terminare l’impresa, il filosofo tedesco aprì le casse che contenevano la sua biblioteca. Le ore passate tra la polvere e gli scatoloni ispirarono questo saggio. Dalla tensione mai risolta tra ordine e disordine, alla presenza massiccia di libri mai letti sugli scaffali, passando per gli acquisti memorabili e le tattiche da adottare nelle aste pubbliche: tutto concorre a delineare la figura del collezionista, il cacciatore di libri, il flâneur che, perdendosi nelle grandi e piccole città, brama la scoperta di una botteguccia antiquaria o di una sperduta cartoleria.
Un testo curioso, qui presentato insieme ad altri due scritti, Presso il camino e Come si spiega un successo editoriale?, nei quali Benjamin indaga la magia della letteratura e le cause  che possono rendere un trattato sulle erbe un imprevedibile best seller.

(dal risvolto di copertina di: Walter Benjamin: La mia biblioteca, Eliot)

Benjamin un flâneur in biblioteca
- di Paolo Mauri -

Nel 1931 Walter Benjamin scrive un breve saggio che si intitola “La mia biblioteca”. A Benjamin interessa far luce sulla figura del collezionista, cioè, come subito ammette, di se stesso. «Avete già sentito parlare di persone che si sono ammalate per la perdita dei propri libri» continua. Già in “Infanzia berlinese” si era soffermato sulla sua storia di lettore: nel capitolo “Vecchi libri” ricorda appunto i volumi che gli passava il maestro a scuola e nel capitolo “Armadi” ecco il piccolo Benjamin, rimasto solo in casa, frugare prima nell’armadio della biancheria e poi proprio in quello dei libri. «Spalancavo i battenti, cercavo a tastoni il volume che non era allineato con gli altri, ma stava nascosto dietro, nel buio; lo sfogliavo febbrilmente fino a trovare la pagina dov’ero rimasto e, inchiodato sul posto, divorando le pagine davanti all’armadio spalancato, mi studiavo di trarre il massimo profitto dal tempo che mi separava dal ritorno dei miei. Di ciò che leggevo, nulla capivo. Voci di fantasmi, rintocchi di mezzanotte, anatemi…».
Non possiamo immaginare che cosa avrebbe detto Benjamin se avesse potuto squarciare il velo del futuro e vedere questa nostra epoca in cui tutti scrivono (e si scrivono) grazie a strumenti molto sofisticati e insieme di semplice gestione. Certo è che anche il libro come contenitore di scrittura è destinato sempre più a misurarsi con la scrittura che corre liquida in rete e in ogni computer. I nuovi mezzi di comunicazione si chiamano “social”, ma in realtà consentono di mettere in primo piano (esibire?) il proprio privato e di “spiare” quello altrui, esprimendo pareri in forma talvolta di stereotipato geroglifico.
Nel ricordare The Old Wives’ Tale, un romanzo di Arnold Bennett uscito per la prima volta venticinque anni prima, cioè agli inizi del Novecento (se ne parla in questo volumetto alla pagina 35), Benjamin apre il suo discorso all’insegna di Oscar Wilde. «Di Oscar Wilde si racconta che una volta si trovò in una cerchia di persone e che la conversazione era caduta sulla noia. Ciascuno aveva espresso una sua piccola sentenza; Wilde tacque sino alla fine. Lo guardarono impazienti per l’attesa. Allora disse: “Quando mi annoio, prendo un buon romanzo, mi siedo presso il fuoco del camino e lo osservo con attenzione” ». Spesso non ci si rende conto che il come (e il dove) si legge ha una sua notevole importanza. Non tutti oggi possono godere del fuoco del camino, metafora del calore che viene dalle vicende narrate nel romanzo stesso, anche se parla di morte e di destino.
Ma un libro è un oggetto che ha una sua perfezione. Come il cucchiaio, scrisse una volta Umberto Eco, intendendo dire che ci sono oggetti che si inventano una volta sola e durano per sempre. Robinson aveva con sé una Bibbia. Se avesse avuto un qualunque congegno elettronico, questo si sarebbe fatalmente scaricato e sarebbe in breve diventato inservibile. «Non c’è nulla di più bello che stare sdraiati su un sofà e leggere un romanzo» scrive Benjamin introducendo il suo discorso sul teatro epico di Brecht, che vede invece gli spettatori partecipare collettivamente a quanto accade in scena. Il fatto è che Benjamin si preoccupa di illuminare, come si è già detto, il futuro, dove l’opera d’arte si vale di tecniche riproduttive che permettono una sorta di creatività e fruizione collettiva. Rispetto a Benjamin noi viviamo già quel futuro e possiamo trarre qualche conclusione forse non del tutto provvisoria.
Benjamin ricorda che durante la rivoluzione del 1848 Dumas pubblicò un appello agli operai di Parigi in cui si presentava come un loro simile. In vent’anni, diceva, aveva scritto quattrocento romanzi e trentacinque drammi, aveva dato pane a 8160 persone: correttori e tipografi, macchinisti e guardarobiere, senza dimenticare neppure la claque.
È raro ma non impossibile che uno scrittore produca come una fabbrica: Balzac, Simenon, Wilbur Smith, Camilleri e tanti altri sono lì a dimostrarlo, e la tendenza dell’industria culturale è quella di arruolare scrittori prolifici nella fabbrica del bestseller, in una catena di montaggio che vede intrecciarsi autore, editore e pubblico senza più soluzione di continuità. Una scrittura originale e magari un po’ ostica è un vero tormento per il grande pubblico, e va decisamente controcorrente.
Per tornare all’immagine di Benjamin, quando erano in pochi a scrivere e in pochi a leggere il rapporto tra creazione e consumo era più semplice e diretto: chi scriveva somigliava a chi leggeva. E le biblioteche personali contenevano pochi libri fondamentali. In una società di massa può capitare che un lettore legga per tutta la vita senza mai incontrare un’opera degna di questo nome. In fondo non fa altro, questo ipotetico lettore, che adeguarsi al canone provvisorio che l’industria culturale prepara per lui giorno dopo giorno. Ma sull’industria culturale è già stato scritto tutto, nel bene e nel male. A mio parere, essendo produttrice di beni di consumo in grande quantità, è certamente una ricchezza per tutti, purché prima o poi si impari a consumare, così come si impara ad usare il cucchiaio stando a tavola. Tanto più il cucchiaio- libro.
Uno dei difetti dei pensatori troppo affascinati dai paradisi che verranno è quello di trascurare l’intervento diretto sul Presente, cercando di correggere quello che è possibile correggere. Per esempio, aiutati anche dal comportamento del mercato, possiamo pretendere che i libri, almeno in una certa misura, rimangano quello che sono da qualche secolo. Se ci piacciono così, perché dovremmo accettare l’idea che scompaiano? In fondo l’avvento delle automobili non ha eliminato le biciclette, dunque l’ebook può anche convivere a lungo con il libro di carta. E il piacere del testo di Roland Barthes si può incrociare con il piacere di leggere evocato da Benjamin.
«Come si spiega un grande successo editoriale?» si chiede Benjamin (il testo è qui alla pagina 43) ragionando non su un romanzo, ma su un libriccino dedicato alle erbe medicinali svizzere. Un manuale, insomma. «Al critico, cui i denti sono diventati traballanti dopo tanta pappa di romanzi, essi possono mostrare cosa ci vorrebbe ». Essi si basano infatti su una antica antitesi, quella tra luce e tenebre. Nel nostro caso si sta tra erbe ed erbacce, ma l’assunto è chiaro: bisogna saper toccare il cuore del problema, dove si nasconde la grande poesia.

- Paolo Mauri - pubblicato su La Stampa/Tuttolibri del 1° giugno 2016 -

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