È in una Cina immaginaria che Brecht decise di trasporre narrativamente, con divertito coraggio, i tempi oscuri e turbolenti in cui la Storia gli diede in sorte di vivere. Cominciato durante l’esilio e rimasto frammentario dopo oltre un decennio di lavoro, Il romanzo dei tui e` una satira feroce degli intellettuali che affittano a cottimo al migliore offerente il proprio ingegno: i «tui». Dal mare dell’imbecillita` umana emerge qui un arcipelago di aneddoti, storielle, parabole e corrosivi esercizi di umorismo che mettono alla berlina tutti i grandi ideologi dell’Occidente e forniscono anche una diagnosi inaspettata e spiazzante dell’ascesa di Hitler. Un geniale e comico breviario sul cattivo uso dell’intelletto che zigzaga tra apologhi memorabili, trattati stravaganti (compreso uno sull’arte del leccapiedi) e racconti arguti, consegnandoci una requisitoria serrata e farsesca contro ogni pensiero fumoso e servile. Un tesoro di caustica comicita` proposto per la prima volta al pubblico italiano.
(dal risvolto di copertina di: Bertolt Brecht, Il Romanzo dei tui, L’orma, pp.250, euro 18,00)
Una tragica beffa contro l’euforia bellicista
- di Marco Bascetta -
Un’opera incompiuta è sempre, immancabilmente, un labirinto. Infestato di vicoli ciechi, di biforcazioni, di tornanti. Tutto è ancora aperto, esitante, indefinito e sospeso. Il Romanzo dei tui (L’orma, pp.250, euro 18,00) opera più che incompiuta, di Bertolt Brecht, di cui ci restano brani sparsi, appunti, indici e scalette è un puzzle in cui poche tessere si incastrano le une con le altre. Sullo sfondo, però, un disegno, chiaramente leggibile, che si propone, in forma satirica, una storia della Germania dalla prima guerra mondiale allo scoppio della seconda. Storia che avrebbe dovuto essere soprattutto quella della «falsa coscienza» che dall’imperialismo guglielmino, attraverso gli anni turbolenti della Repubblica di Weimar, conduce alla «resistibile» ascesa di Adolf Hitler e alla nuova, spaventosa catastrofe bellica.
I «tui», protagonisti di questa narrazione, sono infatti gli intellettuali, asserviti al potere o suoi velleitari oppositori, lontani dalla vita reale e dai bisogni delle masse sfruttate. Gli uni servilmente impegnati nel legittimare la guerra e l’oppressione, gli altri persi dietro l’acume delle proprie interpretazioni, o esitanti e interdetti di fronte alle scelte che si impongono con l’incalzare degli eventi.
In questi testi viene in luce quel paradosso, tipico dell’irriverenza brechtiana, che mette i più raffinati strumenti dell’intelletto al servizio di una polemica «antintellettuale». La posizione materialista, per quanto possa esibirsi nella maniera più ruvida («prima viene il cibo, dopo la morale», recita una celebre strofa del poeta) è pur sempre il risultato di una sintesi filosofica tutt’altro che elementare. Così come la ridicolizzazione dei «tui» reca comunque i tratti di un rigoroso esercizio critico, di un intento esplicativo, del «rischiarimento» illuminista e, dunque, della sua origine «intellettuale». Il talento comunicativo di Brecht, del resto, è tutto giocato sul paradosso , scelta che lo mette al riparo, anche se non sempre e in tutti i casi, dal rischio dell’appiattimento didascalico.
I frammenti e gli abbozzi di questa idea di romanzo si sono sedimentati lungo un intero terribile decennio dal 1931 al 1942, quello dell’esilio e dell’apocalisse bellica. Il progetto, ripreso, lasciato, poi ripreso ancora, mostra incertezze e discontinuità nella sua architettura e nel registro narrativo. L’ambientazione è però stabilita. Brecht trasporta la Germania guglielmina e la repubblica di Weimar in una Cina immaginaria, chiamata Cima, e i personaggi – politici, militari, intellettuali – evocati nella narrazione ricevono di conseguenza una denominazione «cimese», che rende assai faticosa la lettura, richiedendo il continuo ricorso alla consultazione di un piccolo dizionario dei nomi.
Alla scelta della Cina come teatro di storie e apologhi, Brecht è, del resto, notoriamente affezionato. Questa ambientazione remota e beffarda dei costumi e delle vicende germaniche, ricorda, per contrasto, La storia degli Abderiti, (1774) di Cristoph Martin Wieland, dove si narra della controversia sull’ombra di un somaro che condurrà gli abitanti di Abdera sull’orlo della guerra civile . Tanto ottimista e sereno era, però, lo spirito dell’illuminista tedesco fiducioso nell’avvento di una grandiosa rivoluzione pacifica, quanto sardonicamente pessimista è, nonostante il tono scanzonato e divertito, quello di Brecht nell’accingersi a raccontare la genesi ideologica della più grande catastrofe della storia. L’autore, è indubbio, si diverte, gioca, sbeffeggia, dissacra. E l’intero progetto non uscirà mai da questa dimensione ludica e perfino goliardica. Ma è di una goliardia tragica che si tratta.
La maggior parte dei testi prendono di mira l’euforia bellicista della Grande guerra, rispecchiando quell’ironia sdegnata, dissacratoria e «impertinenente» che il sedicenne Bertolt aveva già riversato nella stupefacente Ballata del soldato morto del 1918. Tra i brani più straordinari del libro, un vero e proprio racconto compiuto di inconfondibile sapore kafkiano, è la storia di un filosofo convocato dal Capo di stato maggiore dell’armata «cimese» (controfigura del generale Ludendorff) per redigere il proclama che dovrà sostenere la natura difensiva e umanitaria di quella che in realtà è una guerra d’aggressione. Il povero «tui», inseguendo l’armata attraverso le terre che essa ha devastato senza pietà, si contorce nello sforzo di adeguare le sue argomentazioni patriottiche all’atroce realtà che ha sotto gli occhi, mistificandola. Fino a quando quella realtà non avrà definitivamente ragione di lui.
Vi sono insomma delle pagine memorabili in questo prezioso relitto letterario. Pochi maneggiano l’apologo, la parabola, l’aneddoto con l’ironica maestria del poeta di Augusta. E nello scanzonato catalogo dei germanici «tui», tra tecnici, scienziati, storici e pensatori, non poteva certo mancare il più venerato e illustre tra loro: «Questa era la dottrina del filosofo Leh-geh. Il pensiero preesisteva alla testa. Per esprimersi gli mancava solo la testa. E la testa nacque per conformarsi a tale necessità». La traduzione dal cimese mi sembra, in questo caso, superflua.
- Marco Bascetta - pubblicato su Alias dell'11 dicembre 2016 -
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