sabato 30 novembre 2019

La prima volta

Ricordo...

Era il 1970, il mese di dicembre, la prima volta in cui sentivo pronunciare l'espressione «rifiuto del lavoro». L'aula 8 di Lettere, in piazza Brunelleschi. L'assemblea gremita e infuocata. Ovviamente l'ordine del giorno, come lo si chiamava allora, non lo ricordo, e francamente non mi sovviene nemmeno di cosa si discutesse ed in che modo e attraverso quale riferimento fosse venuta fuori Kronstadt (e la repressione di quell'esperienza).
Anche li, tra le parti "contrapposte", il «vento di coltelli» fu sul punto di levarsi. Finì in maniera assai meno cruenta grazie all'intervento di Pancho Pardi, che dopo essersi offerto di fornire, accademicamente, una bibliografia su un argomento così tanto "dibattuto", aggiunse recisamente che il problema, a Kronstadt, era appunto quello del Rifiuto del Lavoro; che i Marinai e i Soldati di Kronstadt praticavano il rifiuto del lavoro, si rifiutavano per l'appunto di ... lavorare.
Quasi a voler dire - ma forse senza quasi - che allora e laggiù era davvero un bel problema, per Trotsky e i bolscevichi, inceppare la macchina della modernizzazione ritardata capitalistica. E di problemi, a seguire, ne avrebbero avuto molti altri, che avrebbero risolto sempre nel medesimo modo. Ricordo bene che a Pancho, il quale mi stava e mi sta tuttora oltremodo simpatico, non ribattei alcunché (anche perché a quel tempo sull'argomento non sapevo proprio come ribattere!) e me ne stetti zitto. Ogni tanto ci ripenso: «ma avrà davvero voluto dire quello che io allora ritenevo stesse dicendo?!?»

venerdì 29 novembre 2019

Un'emozione più seria della felicità

Usare la catastrofe
- di Out the Woods -

Il cambiamento climatico fa parte della nostra realtà. Nel bel mezzo della tempesta, ci si presenta un'occasione, quella di rompere con il capitalismo e le sue feroci disuguaglianza. Cerchiamo di coglierla, quest'occasione, finché è possibile. È l'unica alternativa pensabile.
« Qual è la sensazione che ci coglie in occasione di così tanti disastri? » si chiede Rebecca Solnit nel suo libro del 2009, "Un paradiso all'inferno" (Fandango, 2009). Esaminando quelle che sono le reazioni umane ai terremoti, agli incendi, alle esplosioni, agli attentati terroristici e agli uragani del secolo scorso, Soint afferma che l'idea comune, secondo la quale le catastrofi rivelino, portandolo alla luce, quelli che sono i tratti peggiori della natura umana, è errata. Al posto di un'idea simile, mostra come in molti di questi eventi possiamo vedere «un'emozione più seria della felicità, ma profondamente positiva», come una speranza risoluta che galvanizza quelle che lei chiama le «disaster communities» [Comunità disastrate].
Nel momento in cui l'ordine sociale dominante fallisce temporaneamente, emerge tutta una serie di «comunità straordinarie» costituite dalla collettività ed il mutuo appoggio (fra gli esempi proposti da Solnit troviamo l'uragano Katrina, l'11 settembre 2001 ed il terremoto di Città del Messico nel 1985). In momenti così effimeri, ci dimentichiamo delle differenze sociali e ci aiutiamo a vicenda. Purtroppo, una volta che il disastro passa, queste comunità collassano. Secondo quelli che sono i termini di un libro come "Un paradiso all'inferno", il «grande compito contemporaneo» in cui dobbiamo impegnarci è la prevenzione di tale cedimento, «recuperare questa vicinanza e questo modo di essere senza né conflitto né pressione». A fronte di quella che è la calamità del riscaldamento globale, questo compito sta diventando sempre più urgente. Come distruggere gli ordini sociali che rendono così disastrose le catastrofi, mentre si rende ordinario lo straordinario comportamento umano che esse provocano?
Le argomentazioni di Solnit suonano giuste, anche se si può essere meno ottimisti riguardo a quel che è il valore intrinseco della comunità. Nell'inferno del presente, troviamo gli strumenti di cui abbiamo bisogno per costruire altri mondi, insieme ad allettanti scorci di ciò che spesso ci sembra impossibile. Ma tutto questo non è motivo per rallegrarsi, e neppure di essere ottimisti. È motivo di speranza.
Perché questa speranza possa realizzarsi, tuttavia, dobbiamo guardare al di là di quella che è la focalizzazione empirica della Solnit circa ciò che avviene come risposta a delle specifiche catastrofi, e cogliere la totalità della catastrofe capitalista. Non si tratta semplicemente di puntualizzare tutta una serie di date e di luoghi - Katrina, Harvey e Irma, 1755, 1906 e 1985 - ma piuttosto di quella che è una malattia cronica. Per molti di noi, la normalità è una catastrofe. Una risposta coerente ad un disastro così continuo dev'essere diffusa e durevole per poter avere successo. Costruire un paradiso all'inferno non basta: dobbiamo lavorare contro l'inferno, e andare oltre. Più che di comunità disastrate, abbiamo bisogno di un comunismo della catastrofe.
Certo, nel richiamarci al comunismo delle catastrofi, non stiamo insinuando affatto che la comparsa sempre più frequente di incubi eco-sociali produrrà inevitabilmente del condizioni sempre più favorevoli al comunismo. Non possiamo adottare il perverso fatalismo secondo cui tanto peggio tanto meglio, né possiamo aspettare che arrivi un uragano finale che distrugga il vecchio ordine. Al contrario, constatiamo che anche la più grande e la più terrificante delle catastrofi straordinarie può servire ad interrompere la catastrofe ordinaria che è, per la maggior parte del tempo, troppo grande per essere compresa appieno. Questi sono dei movimenti di rottura che, benché atroci per la vita umana, possono anche essere catastrofiche per il capitalismo.
Il comunismo delle catastrofi non è separato dalle lotte esistenti. Ma piuttosto ponte l'accento e sottolinea il processo rivoluzionario dello sviluppo della nostra capacità collettiva di resistere e prosperare: un movimento interno, contro e oltre la catastrofe capitalista in atto. In che modo i numerosi progetti di creazione di mini-paradisi all'inferno possono essere coerenti, essere qualcosa di più che delle comunità effimere? Il «Disaster Communism» aggiunge un epiteto chiarificatore al progetto politico ormai vecchio che è rivolto contro lo Stato, il capitale, e va oltre i suoi confini. Orienta il movimento di quello che è un potere collettivo che, benché palpabile nel corso di catastrofi straordinarie, è stato sempre lì, soprattutto nei luoghi e tra i gruppi che hanno vissuto per centinaia di anni una situazione di catastrofe ordinaria. Il cambiamento climatico sconvolge e porta alla luce quelli che sono i talenti indispensabili per queste lotte.

Capitalismo delle catastrofi: il capitale come disastro
Il geografo Neil Smith ha sostenuto in maniera convincente che non esistono disastri naturali. Definire «naturali» le catastrofi serve a nascondere il fatto che esso sono il prodotto sia di divisioni politiche e sociali che di forze climatiche o geologiche. Se un terremoto rade al suolo delle case popolari di una città, che sono state costruite male e con una cattiva manutenzione, ma lascia intatti gli edifici ben costruiti dei ricchi, il fatto di maledire la natura serve solo a consentire agli Stati, ai costruttori e ai proprietari di tuguri (per non parlare dell'economia capitalista che sta all'origine di queste disuguaglianze) di essere esentati da ogni critica. I disastri sono sempre delle coproduzioni in cui le forze naturali, così come la tettonica a zolle ed i sistemi metereologici, lavorano di concerti alle forze sociali ed economiche.
Il modo in cui avvengono le catastrofi straordinarie, non può perciò essere separato dalle normali condizioni  in cui tali catastrofi si producono. A devastare la colonia americana di Porto Rico, lasciando gli abitanti senza acqua potabile, è stata un uragano di categoria 4, Maria: un evento disastroso. Ma se ci si ferma a questo, si nasconde il fatto che prima dell'uragano il «99,5% della popolazione di Porto Rico veniva servito da dei sistemi idrici che violavano la legge sulla salubrità dell'acqua potabili», mentre «il 69,4% della popolazione dell'isola veniva servito da un sistema idrico che violava le norme sanitarie della Safe Drinking Water Act (SDWA)»; secondo quello che è un rapporto del Natural Resources Defense Council.
Eventi così devastanti non dovrebbero però servire ad eclissare altre catastrofi più lente, come quella di Flint, in Michigan, dove decenni di assenza di manutenzione insieme all'inquinamento industriale del fiume Flint e dei Grandi Laghi hanno, similmente, lasciato senza acqua potabile la classe operaia e la maggioranza delle comunità nere e latine. Facilmente trascurati a causa del fatto che questi fenomeni non hanno la drammatica potenza di un uragano o di un terremoto, simili disastri di lunga durata tracciano il confine tra la catastrofe-come-avvenimento e la catastrofe-come-condizione. Quello che per molti arriva come uno shock improvviso ed inatteso, per altri è invece il problema di una realtà quotidiana che si va intensificando.
Il cambiamento climatico aumenta in maniera considerevole la frequenza e la gravità sia di quelli che sono i disastri ad evoluzione lenta che di quelli ad evoluzione rapida. Il riscaldamento globale produce un aumento della quantità di energia in circolazione nell'atmosfera e sulla superficie degli oceani. Per esempio, quando gli oceani caldi creano delle cellule di bassa pressione, l'energia termica, sotto l'influenza della rotazione della Terra, viene convertita in energia cinetica, caratteristica degli uragani e delle tempeste tropicali. Temperature più clade generano più energia, e questo surplus di energia in un modo o nell'altro si deve manifestare. (L'energia non può essere distrutta: non può fare altro che cambiare forma.) La fisica di questo processo è diabolicamente complessa e difficile da modellare, ma si possono fare delle previsioni.
L'ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) sull'evoluzione del clima suggerisce che il cambiamento climatica perturberà l'approvvigionamento di cibo ed acqua, danneggerà case ed infrastrutture, provocherà siccità ed inondazioni, ondate di calori ed uragani, mareggiate e incendi boschivi. I progressi della scienza e le conoscenze ottenute a partire da quel semplice grado Celsius di riscaldamento globale oggi esistente, hanno permesso di quantificare quale sia stato il contributo del cambiamento climatico ad ogni avvenimento meteorologico estremo. Oggi possiamo stabilire un legame tra il riscaldamento del pianeta e quelle calamità come l'ondata di calore europea del 2003, o l'ondata di calore russa del 2010, ciascuna delle quali ha ucciso decine di migliaia di persone, per non parlare delle innumerevoli tempeste, inondazioni ed altri eventi metereologici.
Il fatto che il cambiamento climatico sia in sé di origine umana (o piuttosto di origine capitalista) sottolinea ancora dell'altro quella che è l'impossibilità di separare gli eventi catastrofici dalle condizioni disastrose del loro avvenire. La relazione tra le due cose va nei due sensi: le condizioni generano degli eventi che, a loro volta, approfondiscono quelle condizioni. L'obiettivo dello Stato-nazione , durante ed immediatamente dopo una catastrofe straordinaria, è generalmente quello di imporre l'ordine, piuttosto che aiutare i sopravvissuti, e ciò perché generalmente le catastrofi esacerbano la catastrofe soggiacente che è il capitalismo. Quando ci fu, nel 1906, il terremoto di San Francisco venne inviato l'esercito. Vennero uccisi tra i 50 e i 500 sopravvissuti e vennero fermati tutti gli sforzi auto-organizzati di ricerca, salvataggio e lotta contro gli incendi. I tentativi statali di gestione delle catastrofi si sono rivelati come disordinati, distruttivi delle forme di auto-organizzazione da parte della base. La reazione dello Stato americano nei confronti dell'uragano Katrina, a New Orleans, è stato contrassegnato da una simile reazione repressiva contro il «saccheggiatori» (vale a dire, i sopravvissuti). Il 4 settembre 2005, sul Danziger Bridge, sette poliziotti aprirono il fuoco su un gruppo di neri che tentavano di scappare dalla città allagata, uccidendo due persone e ferendone altre quattro. L'assassinio di sopravvissuti neri in cerca di salvezza illustra quali siano i mezzi con cui lo Stato cerca di fermare le possibilità di emancipazione che potrebbero emergere in simili catastrofi.
In queste situazioni, lo Stato cerca solo un ritorno a una normalità disastrosa per i poveri, i migranti ed i neri. Tali misure sono contrarie a quanto raccomandano i sociologhi della catastrofe, persino quelli tra loro che sono più "mainstream". egli anni '60, per esempio, lo stratega militare, poi diventato sociologo, Charles Fritz sostenne strenuamente che lo stereotipo di un individualismo antisociale, del fiorire di un'aggressività generalizzata nel corso della catastrofe non si basava su alcuna realtà. Sottolineò inoltre con perspicacia che la distinzione tra le catastrofi e la normalità può «facilmente trascurare le numerose fonti di stress, di tensione, di conflitto e di insoddisfazione che sono insite [sic] nella natura della vita quotidiana».
Tuttavia, le disastrosi macchinazioni dello Stato del capitale non si limitano agli eventi localizzati e puntuali, ma si susseguono dalle vicinanze a tutto il pianeta. Com'è stato dimostrato da scrittori come Naomi Klein e Todd Miller, le catastrofi straordinarie vengono utilizzate per prolungare, rinnovare ed estendere gli ordinari disastri dell'austerità, della privatizzazione, della militarizzazione, del mantenimento dell'ordine, dell'istituzione di frontiere. Si tratta del capitalismo della catastrofe: un circolo vizioso nel quale le catastrofi ordinarie esasperano le catastrofi straordinarie, e viceversa.
Gli eventi disastrosi permettono allo Stato di attuare ciò che Klein chiama la «strategia dello shock». Tale processo implica, per le infrastrutture degli alloggi, dell'energia e della distribuzione che sono state distrutte, una riedificazione secondo quelli che sono gli standard liberali, fissare i prezzi dell'elettricità o dell'acqua potabile per i poveri, costringendoli a trasferirsi in dei luoghi ancora più vulnerabili al cambiamento climatico, per incarcerarli quando resistono o tentano di attraversare le frontiere per sfuggire a questa situazione insostenibile. Nei mesi successivi all'uragano Maria, Porto Rico è stata oggetto di nuove privatizzazioni, di un deterioramento delle condizioni lavorative e dell'arrivo di colonizzatori verdi: dei sedicenti benefattori  come Elon Misk che nascondono le loro ultime aziende iper-capitaliste dietro il velo del recupero ambientale. La storia di Flint è simile, con le offerte fatte da Musk per risolvere i problemi infrastrutturali.
Le forze che agiscono nell'interesse dello Stato e del capitale assumono evidentemente più forma. Gli attivisti del Common Ground Collective che fornivano aiuti di emergenza in seguito all'uragano Katrina sono stati intensivamente perseguitati non solo da dei poliziotti razzisti, ma anche da dei bianchi armati locali che hanno colto l'occasione per fare la loro parte nello scenario post-apocalittico, con la tacita approvazione, se non la facilitazione attiva, della polizia.

Sopravvivere aspettando la rivoluzione
Lo studio delle condizioni di vita e degli avvenimenti catastrofici ci insegna che il cambiamento climatico non è semplicemente una conseguenza involontaria della produzione capitalistica, bensì una crisi della riproduzione sociale (un termine che da riferimento alle strutture sociali che si auto-perpetuano e che consentono così la sopravvivenza quotidiana e generazionale mantenendo le ineguaglianza). Riconoscerlo, non solo ci dà un nuovo punto di vista sul problema, ma ci fornisce anche una speranza. È importante ricordare che la vita dei poveri, dei diseredati e dei colonizzati non vengono modellate unicamente dalle catastrofi. Ma implicano, in ogni momento, delle forme di sopravvivenza e di tenacia, spesso sotto forma di conoscenze ed abilità che vengono trasmesse di generazione in generazione.
Come afferma il filosofo Kyle Powys Whyte, mentre i popoli indigeni hanno familiarità con le catastrofi (a causa di aver subito centinaia di anni di tentato dominio coloniale), essi hanno sviluppato nel corso di queste centinaia di anni le competenze necessarie a resistere e a sopravvivere alle catastrofi sia ordinarie che straordinarie. La studiosa femminista marxista Silvia Federici, da parte sua, ha dimostrato come il capitalismo abbia da tempo cercato, senza successo, di sradicare violentemente ogni forma di sopravvivenza non capitalistica. Nel suo saggio del 2001, "Donne, Globalizzazione e il Movimento Internazionale delle Donne", afferma che «se la distruzione dei nostri mezzi di sussistenza è indispensabile per la sopravvivenza delle relazioni capitaliste, allora dev'essere questo il nostro terreno di lotta».
Tale lotta ha avuto luogo dopo il terremoto di Città del Messico del 1985, quando i proprietari terrieri e gli speculatori immobiliari videro l'occasione per poter finalmente espellere delle persone di cui volevano da molto tempo sbarazzarsi. I loro tentativi di demolire gli alloggi a basso costo, per sostituirli con degli immensi edifici molto costosi, sono chiari esempi della dinamica capitalista. Però, gli abitanti di quelle case, membri della classe operaia, reagirono con grande successo. Migliaia di locatari marciarono sul Palazzo Nazionale, reclamando che il governo espropriasse le case danneggiate, per poi venderle agli inquilini. In risposta, vennero espropriate circa 7.000 proprietà immobiliari. Ecco, quindi, che qui vediamo come le catastrofi straordinarie non creino solamente degli spazi attraverso cui lo Stato ed il Capitale possano consolidare il proprio potere, ma che creino anche degli spazi perché si possa resistere loro: si tratta di una «strategia dello shock di sinistra», tanto per riprendere la formulazione di Graham Jones.
Il disastro ordinario consistente nel capitalismo, infatti può essere interrotto da questi incidenti, i quali, per quanto siano orrendi per la vita umana, provocano anche la rovina momentanea del capitalismo. In un suo saggio del 1988, dal titolo "The uses of an earthquake" ["Gli utilizzi di un terremoto"], Harry Cleaver suggerisce che una simile interruzione sia particolarmente probabile quando collassano, in seguito a delle catastrofi straordinarie, quelle che sono le capacità amministrative e l'autorità dei governi. Una tale rottura, potrebbe essere forse ancora più probabile in quei luoghi dove la governance si basa sulla sorveglianza, sugli Smart Data e sulle tecnologie informatiche.
Cleaver sottolinea inoltre l'importanza che hanno, nei quartieri colpiti dal sisma, le storie di organizzazione collettiva. I sopravvissuti acquisiscono dei legami organizzativi, una cultura di mutuo soccorso e dei sentimenti di solidarietà. Grazie alle precedenti relazioni, gli inquilini sapevano che potevano sostenersi vicendevolmente. Questo punti è fondamentale, in quanto ci permette di comprendere la comunità della catastrofe, non semplicemente come se fosse una reazione spontanea a delle catastrofi straordinarie, ma piuttosto come se sulla scena delle lotte quotidiane per la sopravvivenza, irrompessero delle pratiche di mutuo soccorso. Esperire tali pratiche, nei termini di un'organizzazione contro le catastrofi ordinarie del capitalismo, ha fatto sì che gli abitanti si trovassero già ben preparati per poter affrontare una catastrofe straordinaria.
Infatti, le relazioni di mutuo appoggio preesistenti sono state assai efficaci nel supportare le popolazioni colpite dall'uragano Maria. "Centros de Apoyo Mutuo" è una rete di mutuo soccorso decentralizzata che trae la propria forza da dei gruppi, da strutture e pratiche già prestabilite. Questa rete ha distribuito cibo, ha ripulito i detriti ed ha ricostruito l'infrastruttura dell'isola. E lo ha fatto ancora più rapidamente, e con maggiore attenzione ai bisogni degli abitanti, rispetto alle reti di aiuto e logistica internazionali. Attraverso una logica di bricolage, o dell'«arte di accontentarsi di quello che è a portata di mano», i centri di muto soccorso dimostrano che dei non-esperti possono acquisire e condividere rapidamente gli strumenti e le competenze per sopravvivere. Così facendo, essi creano anche delle nuove forme di solidarietà e di vita collettiva che vanno al di là della sopravvivenza.
«Queste tempeste hanno investito tutto il paese e distrutto molte cose» - dice Ricchi, membro della rete americana Mutual Aid Disaster Relief. «Hanno distrutto la rete elettrica, impedendo l'accesso al cibo e all'acqua, ed hanno messo al buio l'isola di Borikén [nome indigeno taïno per Porto Rico]. Ma in questa oscurità, si sono svegliati numerosi Boricuas [Portoricani], e sono rimasti svegli fino a tardi, alzandosi poi presto, facendo il lavoro di riproduzione della vita».
La vita non è solamente una routine: ci sono dei gruppi che organizzano delle feste, dei corsi di danza, delle sessioni di cucina collettiva, in modo che, al di là della disperazione, si possa aprire un orizzonte comune.
In un certo senso, convenzionale e strettamente economico, in queste situazioni si verifica una penuria, benché tale penuria sia controbilanciata da un'abbondanza di legami sociali. Inoltre, le catastrofi straordinarie ci possono spingere a riconoscere come la scarsità sia una relazione sociale, anziché limitarsi alla semplice constatazione di quella che è una mancanza quantitativa: il modo in cui i beni e le risorse vengono distribuite, determina coloro che le possono utilizzare. All'indomani dell'uragano Sandy, venne superata quella che era una «penuria» di utensili, non per mezzo della produzione o dell'acquisizione di altri strumenti, ma attraverso una nuova organizzazione. In alternativa alle relazioni sociali individualizzanti e mercificate, le quali dominano il capitalismo, vennero create delle biblioteche di utensili. Queste cose ci mostrano come non bisogna associare troppo precipitosamente il cambiamento climatico ad un incremento della scarsità.

Migrazione e Catastrofe
Assai spesso, le comunità vengono definite a partire dal loro essere confinate all'interno di un luogo geografico preciso, e tutte quelle cha abbiamo citato fin qui corrispondono di certo a tale definizione: esse reagiscono a delle catastrofi straordinarie che avvengono sui luoghi stessi delle catastrofi. Tuttavia, è chiaro come il cambiamento climatico costringa delle popolazioni a spostarsi da un luogo ad un altro, in modo tale che organizzarsi contro i suoi effetti disastrosi richieda anche delle comunità di solidarietà più ampie. Il numero di persone che vengono attualmente classificate come «sfollati forzati», secondo quelle che sono le cifre fornite dall'ONU, ammonta a 68,5 milioni. L'accelerazione di questa ondata di spostamenti, non può essere ignorata. Entro il 2050, si prevede che 200 milioni di persone saranno «sfollati per motivi ambientali»: costretti a migrare a causa delle catastrofi, ordinarie e straordinarie, seguendo la scia di un mondo che non fa altro che riscaldarsi. Come dire, sottolineando questa cifra, 1 persona su 50, nel mondo.
Attualmente, molte persone si trovano ad essere sfollate all'interno dei propri paesi, e solo una una piccola percentuale di loro è diretta in Europa, nel Nord America o in Australia. Tuttavia, man mano che il clima si destabilizza e che le condizioni di vita si aggravano, molto di quei luoghi che attualmente vengono usati come dei rifugi diverranno inabitabili. Viaggiare nelle zone ad alta latitudine e attraversare le frontiere dei paesi ricchi che le occupano diverrà quindi sempre più essenziale per le popolazioni. Il fatto di viverci rende una persona meno vulnerabile agli eventi catastrofici, soprattutto anche perché le Stati-nazione ricchi sono quelli meglio attrezzati - quantomeno finanziariamente - per mitigarli.  La tendenza globale allo spostamento verso il nord avrà probabilmente l'effetto di intensificare gli sforzi per difendere quelle zone: quello che sorprendentemente auto-proclamatosi come «complesso militare-ambientale-industriale», è già sul punto di pianificare delle nuove forme di violenza per difendere i suoi confini. Gli sforzi comuni volta a combattere tale violenza costituiranno una delle più importanti lotte contro le catastrofi climatiche.
Mentre scriviamo queste righe, negli Stati Uniti ci sono molti servizi doganali e d'immigrazione che vengono bloccati, nel quadro di un tentativo nazionale di disturbare le loro operazioni di rastrellamento e di deportazione. Nel Regno Unito, dei militanti sono riusciti a vanificare i tentativi del governo di estendere alle scuole l'applicazione della legge sull'immigrazione, nell'ambito della sua politica «di ambiente ostile» [politica nata nel 2012, contro gli «immigrati illegali»]. A Glasgow, negli anni '90, un progetto di gemellaggio tra i migranti recenti ed i residenti locali ha avuto un tale successo che le comunità operaie sono intervenute per ostacolare i raid della polizia che volevano deportare i loro nuovi amici e vicini. A nostro avviso, si tratta anche qui di comunità disastrate, ed esse non sono meno importanti di quelle del Messico dopo il 1985 e di New Orleans dopo Katrina.
Queste comunità del disastro, perciò, costituiscono dei barlumi di speranza: microcosmi di una mondo formatosi in maniera differente. Una riproduzione sociale orchestrata non per mezzo del lavoro salariato, le merci, la proprietà privata, e tutta la violenza associata a queste cose, ma attraverso la cura, la solidarietà, e la passione per la libertà. L'ordinario, insistono, non è un dato di fatto.

Il Paradiso contro l'Inferno
Questa speranza è vitale, ma troppo spesso la speranza ci uccide. Noi abbiamo bisogno di qualcosa di più dei microcosmi, soprattutto perché tali esperienze possono essere preziose anche per il capitale. Qui, è importante notare come il capitale non sia affatto omogeneo: ciò che è buono per alcuni capitalisti è cattivo per degli altri, e ciò che è cattivo per dei singoli capitalisti nel breve periodo può essere buono per il capitale a lungo termine. Pertanto, mentre le comunità disastrate possono essere sinonimo di cattive notizie per alcuni capitalisti e per alcuni attori statali, ce ne saranno altri che cercheranno di sfruttarle per trarne profitto. Come ci ricorda Ashley Dawson, il Dipartimento della Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ha lodato"Occupy Sand", un'operazione di salvataggio influenzata dagli anarchici, avvenuta dopo il passaggio dell'uragano a New York nel 2012. Facendo efficacemente ciò che lo Stato e le forze del mercato non potevano fare, il progetto di Occupy ha permesso alla vita sociale di continuare, offrendo a quelle forze di avere qualcosa da recuperare dopo che venisse ristabilito lo status quo. E lo hanno fatto senza che costasse nulla allo Stato.
Una simile narrazione è parziale, ovviamente, e non tiene nessun conto del valore pedagogico delle comunità disastrate. In tutta la sua pienezza, questo valore è simultaneamente sia positivo che negativo: il «» che si sente risuonare nei confronti di questi altri modi di vivere grida «No» a quello che è l'ordinario disastro del Capitale. La riproduzione sociale che è stata adottata costituisce un cambio di direzione: un tentativo di riprodurci in maniera diversa, e di resistere ad un ritorno allo status quo che ci porterà solo all'esaurimento dei nostri corpi e del nostro ecosistema.
Lo vediamo chiaramente in un buon numero di comunità colpite dal disastro e che risorgono in risposta a quelli che sono i confini. Come ha dimostrato brillantemente Harsha Walia con il suo "Undoing Border Imperialism", in cui non si aiutano solamente le persone a contrastare la violenza delle frontiere, ma si resiste al concetto stesso di confine, sommariamente sottolineato dalla rivendicazione, assai diffusa, di abolizione delle frontiere. In effetti, questo slogan arriva addirittura ad evocare simultaneamente sia l'affermazione che la negazione sulle quali insistiamo: opporsi ad un aspetto di questo mondo, nello stesso momento in cui descriviamo quali sono le caratteristiche dell'altro. Questa è un'operazione contro l'inferno, che viene svolta al suo interno.
Una negazione simile avrà indubbiamente bisogno di andare oltre il conforto associato al concetto dominante di comunità. Di fonte ai poliziotti ed ai miliziani razzisti all'indomani dell'uragano Katrina, il Common Ground Collective (GCG) si impegnò nell'autodifesa armata, ispirandosi alle Black Panthers e ad altri gruppi radicali. E i conflitti non esisteranno solo esternamente alla comunità: il GCG ha dovuto anche affrontare dei simpatizzanti che erano più interessati al turismo che al loro sforzo di prestare soccorso. Le comunità disastrate non sono immuni all'accumulazione della violenza, che costituisce un disastro quotidiano: la misoginia, la supremazia bianca, il disprezzo di classe, l'abilismo, il razzismo, e tutte le numerose forme di oppressione che intersecano e che si infiltreranno, purtroppo, nella loro organizzazione. Le comunità disastrate dovranno apprendere a risolvere i problemi in maniera diversa, mobilitando strumenti sociale e processi di responsabilizzazione che molti militanti sviluppano già oggi.

Il Paradiso oltre l'Inferno
Il capitalismo si trova bene, è a proprio agio con la comunità. Troppo spesso, il termine viene usato per etichettare la resilienza di cui il capitalismo stesso ha bisogno per poter sopravvivere ad un catastrofe ordinaria e straordinaria. Viene chiamata comunità, la collettività deprivata di ogni potere trasformativo.
Non possiamo abbandonare del tutto il concetto di comunità: una proposta simile sarebbe inutilmente idealistica, dato la diffusione dell'utilizzo del termine. Ma riferirsi alle comunità del disastro come quelle discusse qui, come se fossero delle mere «comunità»  significa negarne il potenziale, relegandole ad un presente in cui sono eternamente ammirevoli, ma non trasformative. Ragion per cui, continuiamo ad insistere sul comunismo. Laddove il comunismo viene comunemente associato all'abbondanza materiale creata dalla produzione capitalistica, il comunismo dei disastri appare fondato sull'abbondanza collettiva delle comunità disastrate. Si tratta di un esproprio dei mezzi di riproduzione sociale.  Ovviamente, non ci possiamo aspettare che ogni risultato sarà immediatamente comunista (la proprietà privata non è stata abolita in quelle comunità di Città del Messico, per esempio). Il nostro uso del termine indica l'ambizione ed il funzionamento esteso di un movimento oltre le manifestazioni ed i risultati specifici, la sua diffusione nello spazio e la sua esistenza continua al di là delle catastrofi straordinarie. Designa l'ambizione di far sì, niente meno, che il mondo intero penetri l'abbondanza che può essere trovata nella riproduzione sociale della comunità dei disastrati- In quanto tale, corrisponde alla definizione data da Marx: «il movimento reale che abolisce lo stato attuale delle cose.»
Il comunismo del comunismo delle catastrofi è pertanto una mobilitazione trasgressiva e trasformativa senza la quale la catastrofe non può essere, né verrà, arrestata. Si tratta, allo stesso tempo, sia dello smantellamento delle molteplici ingiustizie strutturali che perpetuano e traggono la loro forza dalle catastrofi, e la promulgazione e l'attuazione di una capacità collettiva generalizzata capace di durare e di prosperare su un pianeta che cambia rapidamente. È estremamente ambizioso ed esige - fra gli altri monumentali progetti - una redistribuzione delle risorse a più livelli, richiede delle riparazioni sia al colonialismo che alla schiavitù, l'espropriazione della proprietà privata per le popolazioni indigene e l'abolizione dei combustibili fossili.
Chiaramente, non siamo ancora a questo punto. Ma come ha sottolineato Ernst Bloch, questo «non ancora» fa parte anche del nostro presente. Nelle risposte collettive alle catastrofi, noi constatiamo che esistono già quelli che sono numerosi strumenti per poter costruire questo nuovo monte. Quando Solnit parla di una tale emozione «più seria della felicità», che motiva le persone in seguito ad un disastro, riesce ad intravvedere «chi siamo e che questa nostra società potrebbe diventare qualcos'altro». In mezzo alle rovine, nel contesto della terribile possibilità aperta dalla rottura, trovandosi di fronte le condizioni che producono una tale rottura, e nel momento in cui cerchiamo di capitalizzarle, ci troviamo vicini al cambiamento completo, al generalizzarsi del sapere che tutto - e ciascuno - può ancora trasformarsi. In altre parole, nella risposta collettiva alle catastrofi, riusciamo a intravvedere un movimento reale che potrebbe ancora abolire lo stato attuale delle cose.

- Out of the Woods - Pubblicato su Agitations il 20/11/2019 -

fonte: Agitations





giovedì 28 novembre 2019

Indagini!!

Questa indagine nasce da una serie di indizi curiosi: un refuso rivelatore – Psyche invece di Psycho – nel primo trafiletto che annunciava il nuovo progetto di Hitchcock. Una statuetta di Amore e Psiche di Canova che s’intravede in una scena del film. Una sibillina dichiarazione del regista, che presentò Psycho alla stampa come un’«escursione nel sesso metafisico». Continua con un'ispezione dei luoghi del delitto ormai disabitati: il Bates Motel e la casa arcigna in cima alla collina, che Hitchcock volle allestire come gallerie d’arte o Wunderkammern. E diventa una visita guidata che si svolge, con i brividi di prammatica, fra il bric-à-brac degli arredi cupi, e sotto l’occhio impassibile di uccelli impagliati. Una stanza dopo l’altra, il detective Vitiello – e dietro di lui, lo spirito di un Hitchcock mistagogo e sornione – ci aiutano a vedere la spettrale dimora vittoriana di Psycho come un musée imaginaire dell’erotica misterica, per le cui stanze si inseguono tre cicli mitologici infernali: Amore e Psiche, Orfeo ed Euridice, Demetra e Persefone. È una scoperta sorprendente e a suo modo sinistra, alla quale tutto sommato vorremmo sottrarci. Ma forse è troppo tardi: come avremmo dovuto sapere prima ancora di aprire il libro, infatti, dal regno infero di Norman Bates non si esce con la stessa facilità con cui si entra.

(dal risvolto di copertina di: Guido Vitiello, "Una visita al Bates Motel". Adelphi)

Euridice si perde nel motel di Psycho
- di Aldo Grasso -

    

Esiste anche la cinefilia erudita, e questo è un bene. Una visita al Bates Motel di Guido Vitiello (Adelphi) è un sopralluogo di grande finezza nelle stanze di quella casa in cima alla collina che Alfred Hitchcock volle allestire come camera delle meraviglie, prima di destinarla a luogo del delitto per eccellenza.
Un’indagine che si estende tra la detection e l’erotismo misterico, tra il fremito conoscitivo e la conoscenza stessa come fremito di possessione, e costruisce una fitta rete di rimandi capaci di combinare analisi del film, riferimenti alla cultura classica e a effigi di storia dell’arte. «Prima di Psycho — scrive Vitiello — non era mai accaduto, forse, che un film si identificasse a tal punto con i suoi luoghi. Psycho è il Bates Motel, e il Bates Motel è Psycho. Hitchcock aveva la cattiva abitudine di sminuire i meriti dei collaboratori e i debiti verso le fonti, e per magnificare la sua immagine di demiurgo era pronto a qualunque millanteria. Pur di alimentare la leggenda che nei suoi film nulla fosse lasciato all’improvvisazione, a riprese concluse arrivò a far disegnare falsi storyboard preparatori di Intrigo internazionale. Per Psycho pagò Bloch (Robert Bloch, autore del romanzo, ndr) una miseria, neppure 10 mila dollari, e confidò a François Truffaut, con sufficienza, che del romanzo lo aveva interessato solo la scena della doccia. Nulla di più falso».
Psycho uscì nel 1960 e all’epoca Hitchcock era un regista ormai ampiamente affermato, avendo all’attivo capolavori come La finestra sul cortile, Caccia al ladro, Intrigo internazionale. Il film nasce dall’esperienza televisiva di Alfred Hitchcock Presents (Cbs, 1955-60): lo si capisce dall’uso del bianco e nero e soprattutto dall’utilizzo della stessa troupe che lavorava per i telefilm. Durante la realizzazione della serie, infatti, il regista scrive il film, lo finanzia e lo produce con la Shamley Productions, la casa di produzione da lui fondata.
La famosa sequenza della doccia in cui viene accoltellata la protagonista Marion Crane (Janet Leigh) è una delle scene più iconiche della storia del cinema (dura tre minuti), citata decina di volte in altri film e, come tutte le scene madri, soggetta a mille interpretazioni: 78 singole inquadrature, 52 stacchi di montaggio e un’intera settimana di riprese dedicata solo a quella scena, rispetto alle 4 che ci sono volute per girare l’intero film.

Il quadro che Norman Bates (Anthony Perkins) toglie per poter spiare Marion intenta a fare la doccia è dell’inizio del XVII secolo, s’intitola, Susanna e i vecchioni e tratta una storia di moralità, di adulterio ma anche di voyeurismo. Un tema biblico, ma Vitiello scopre che Susanna, sul set, è circondata da quadri e sculture di Venere, Cupido, Psiche, Orfeo, Demetra, ma anche di animali impagliati, teche, collezioni di libri... Se Hitchcock è famoso per la sua cura maniacale del dettaglio, anche Vitiello dimostra una straordinaria capacità di indagare gli interstizi del film, i vuoti, i piccoli indizi rivelatori, gli avvertimenti insoliti, le corrispondenze, le porte socchiuse, le reliquie, le minuzie disseminate dal regista. Scrive ancora Vitiello: «Il Bates Motel è un museo immaginario dell’eros metafisico, per le cui stanze si inseguono, echeggiandosi l’un l’altro, tre cicli mitologici di catabasi e anabasi, discesa agli inferi e resurrezione: Amore e Psiche, Orfeo ed Euridice, Demetra e Persefone. La casta Susanna — unico motivo biblico — è dovunque assediata, più che dai vecchioni, dai Misteri Pagani». Insomma l’universo di Psycho è un «segreto aperto», un gioco d’incastri a formare sequenze del più radicale e sfibrante sogno, sfuggito all’occhio distratto di critici e accademici che da anni «spolpano» la carcassa del film. In un’intervista con Louella Parsons, il regista aveva affermato che il film sarebbe stato «un’escursione nel sesso metafisico» ( metaphysical sex). Ma chi è allora Hitchcock? Uno dei più grandi registi della storia del cinema? Un metafisico prestato al cinema, secondo la lettura che ne hanno fatti i Cahiers du Cinéma? Un raffinato cultore delle sue ossessioni? Un lettore inopinato di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz?
Vitiello lo definisce un mistagogo, il sacerdote che a Eleusi conduceva la processione degli iniziandi sulla via dei misteri ma anche, secondo Cicerone, una sorta di guida turistica. Vanno bene entrambe le definizioni (il cinema appartiene pur sempre alla cultura di massa), quello che importa è che Hitchcock abbia lasciato così tante orme con un unico scopo: se avete occhi per vedere io vi conduco per mano a scoprire un tracciato astrale e fantasmatico, la grande immagine enigmatica puntellata tra l’Olimpo e il Sunset Boulevard. E il film diventa così un curioso esperimento di mistagogia cinematografica sulle migrazioni del sacro: « Psycho è la sua elegia per la morte del cinema. Quella vorace macchina sacrificale per generare dèi e dee, i cui ingranaggi avevano lavorato a pieno regime per decenni, si era ormai inceppata. E con le Dive in esilio si preparava una nuova, forse lunghissima eclissi dell’eros metafisico. Anni dopo, quando Hitchcock notò la sconosciuta modella Tippi Hedren nello spot televisivo di una bevanda dietetica, gli sembrò forse di poter riacciuffare per un’ultima volta la bellezza classica di Grace Kelly — ma come se avesse intravisto l’ombra di un’Euridice dal destino segnato».
Una visita al Bates Motel è un libro dalla bella prosa, classico, anzi, con un gioco di parole caro a Hitchcock, verrebbe da dire un libro classico, perché non solo ricorda saggi come Il teatro di posa della mente (una lettura vedanica della Finestra sul cortile) o Il guanto di Gilda, ma richiama il lavoro d’intarsio dei libri di Roberto Calasso.

- Roberto Grasso - Pubblicato sul Corriere del 17/11/2019 -

mercoledì 27 novembre 2019

Colpire il Diavolo

La Geopolitica e l'Eurasia riscopre René Girard!!
Questo, tradotto e qui pubblicato, è un documento per comprendere cosa si muove a livello internazionale, dall'altra parte rispetto all'Occidente.

Dopo il momento unipolare, dopo l'incoerenza - uno studio di Collassologia cognitiva
- di Lucien Cerise -

Comincerò descrivendo il sistema globalizzato visto nel suo insieme, prima di passare a quelle che sono le sfumature interne. Il mondo intero sembra soffrire di un'incoerenza generale e crescente. È questo l'effetto principale della globalizzazione, e non c'è niente che sfugga a tale incoerenza. La globalizzazione è l'accelerazione delle comunicazioni e la riduzione delle distanze per mezzo del progresso tecnico. Secondo la definizione cartesiana, lo spazio è «partes extra partes», ma esso diventa  «partes intra partes», le diverse parti penetrano le une all'interno delle altre, e questo provoca un'enorme confusione su scala planetaria. Tutte quante le distinzioni, tutti i confini, i limiti, le differenze e le identità vengono attaccate, gli esseri e le culture precedentemente separate si trovano oggi ad essere fuse, mescolate, diventano meticce, trasformate in delle nuove forme ibride, composite, complesse, ambivalenti, ambigue, androgine, chimeriche. Tutto questo può essere visto come un bene, e voler accelerare ulteriormente questa incoerente unificazione globale: tale è il progetto unipolare e post-nazionale, sostenuto dalle lobby globaliste di ogni tipo. Ma si può anche rimanere vigili su quelli che sono i pericoli di questa incoerente unificazione globale, e cercare di organizzarla in maniera multipolare e coerente, rispettando un minimo di distanza tra gli esseri e l'identità, e quindi anche nel rispetto delle nazioni: si tratta del progetto multipolare anto-globalista che siamo venuti a difendere a Chisinau.
Il nuovo paradigma geopolitico emergente si basa su un conflitto tra coerenza ed incoerenza che sovra-determina tutto il resto. L'atlantismo unipolare, che, come si può vedere in Ucraina, arriva a coniugare il suprematismo bianco con il sionismo, il Jihādismo e l’LGBT [N.d.T.:  Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender] è una rinuncia totale alla coerenza, una cultura del «va bene la qualunque» che cerca di trascinare il mondo intero nel suo delirio di violenza cieca. Per contro, le potenze eurasiatiche (Russia, Cina, Iran, ecc.) si caratterizzano per un realismo sociale ansioso di controllare il suo sviluppo, di frenare gli effetti destrutturanti della globalizzazione e di ristabilire un minimo di coerenza nel mondo globalmente incoerente. La natura del regime politico è del tutto secondaria. Se vince l'atlantismo, se vince l'incoerenza, ci sarà chiaramente l'estinzione di ogni forma di civiltà Come reagire ad una simile minaccia? Attaccare è inutile, basta una buona difesa. Infatti, il progetto atlantista unipolare non è realizzabile e si distruggerà da sé solo collassando sotto il peso delle sue contraddizioni. Qui, il mio scopo è quello di unirmi alla collassologia, lo studio del crollo della civiltà.
Dmytri Orlov distingue quelli che sono i 5 stadi del collasso: finanziario, commerciale, politico, sociale, culturale, a cui possiamo aggiungere il collasso psicologico e quello cognitivo. Un collasso psicologico di massa, lo si può vedere nell'Occidente capitalista a partire dagli anni '70, il quale si è tradotto in una vera e propria esplosione di patologie mentali di ogni sorta. Al giorno d'oggi, si attraversa una nuova fase, quella dell'abolizione - nel giudizio comune - della differenza tra normale e patologico, e più ampiamente di ciò che è normale e ciò che non lo è, in un relativismo generale in cui emerge una nuova gerarchia in cui l'anormale arriva perfino ad essere affermato come superiore al normale.
Fino al XVIII secolo, la norma sociale, la regola da seguire, veniva definita da un consenso maggioritario, e tutti dovevano rispettarla. Il collettivo prevaleva sull'individuo. Da quando Bernard Mandeville e la sua "Favola della Api", pubblicata nel 1714 con il sottotitolo " ovvero vizi privati, pubbliche virtù! ", il liberalismo rovescia questo equilibrio basato sul consenso della maggioranza - denunciato come un'oppressione degli individui e delle minoranze - invertendo la definizione della norma. Non esiste più una regola normativa imposta agli individuie alle minoranze, e ciascun individuo, ciascuna minoranza ha il diritto di emanciparsi e di definire la propria norma, e tutti devono accettare questa nuova regola del gioco, vale a dire che ognuno può seguire la propria regola del gioco. Dopo la società liquida, entriamo in una società allo stato gassoso dove tutte le norme comuni vanno in fumo. La nuova norma, è quella che si allontana maggiormente dal consenso: è l'eccezione, il caso unico, l'invalido, il trasgressivo, il mostruoso. È evidente che questo sistema centrifugo ed entropico non può funzionare, e che il politicamente corretto aggrva ulteriormente la situazione. In nome dell'uguaglianza, della tolleranza, della diversità, vengono portate avanti delle politiche pubbliche e private volte a valorizzare a ad avvantaggiare sistematicamente tutti coloro che sono minoritari, cosa che include anche l'handicap mentale: autismo, sindrome di Down, bulimia e varie dipendenze, transessualismo e problemi di identità di ogni genere, che vengono ribattezzate «identità fluide», ecc. I disturbi mentali diventano così delle scelte di vita che bisogna imparare a rispettare, e che vengono perfino erette a modello di una «discriminazione positiva». In Occidente, l'antipsichiatria, questa corrente filosofica anti-freudiana che si rifiuta di distinguere tra sanità mentale e malattia mentale, ha vinto.
In Francia, le conseguenze di questa inversione dei valori sono drammatiche. Sempre più persone fanno delle affermazioni incoerenti, e sempre più persone non si comportano più normalmente, dando così l'impressione che siano sempre più quelli che impazziscono. Evidentemente, non tutti diventano pazzi in senso clinico, ma quella che è la capacità di fare un ragionamento logico basato su dei fatti sta scomparendo. La pazienza e la capacità di mantenere la concentrazione a lungo termine regrediscono. I disturbi dell'attenzione e l'iperattività si impradoniscono della società nel suo insieme. Ecco perché parlo di collasso cognitivo, oltre al collasso psicologico. Il pensiero razionale viene sopraffatto dal principio di piacere, dalla ricerca tossicomane di sensazioni forti, dall'impulsività, dall'iper-suscettibilità, dall'iper-narcisismo, dall'immaturità emotiva e dalla fuga nella virtualità mediatica, nella realtà post-fattuale e nel mondo della post-verità. La padronanza della lingua, scritta e orale, si perde e tende ad un abbandono progressivo del linguaggio umano e del pensiero articolato. Le capacità intellettuali della popolazione sono in caduta libera, anche in quelle che sono le più alte sfere esoteriche del potere, che non è più un'oligarchia ma una idiocrazia, composta di cretini incapaci di capire che la loro governance per mezzo del caos (Ordo Ab Chao) è sbagliata anche per loro. Il potere passa il suo tempo a cercare di frammentare la società, ma così esso stesso perde la propria unità e si decompone. Tutti i gradini della piramide sociale, senza eccezioni, scivolano lentamente nell'anarchia e nel disordine. L'insicurezza è in costante aumento e colpisce sempre più quelli che sono i quartieri borghesi. L'immigrazione ha la sua parte di responsabilità in questo collasso della civiltà, ma a fare vincere Emmanuel Macron nel 2017 - e lo riconfermeranno nel 2022 - sono stati i francesi. Il completo malfunzionamento del cervello francese colpisce anche l'istinto di conservazione e porta a delle scelte politiche contro natura e suicide.
L'Occidente liberale e il suo progetto unipolare sono sul punto di essere sopraffatti dall'irrazionale. Di fronte a questo sistema malato e fiero d'esserlo, cosa si può fare? In Francia, quelle che sono le persone più o meno lucide chiedono l'aiuto di altri paesi, soprattutto al gruppo di Visegrád e alla Russia. Protetta dal liberalismo fino agli anni '90, la Russia ha sviluppato una visione politica e geopolitica spassionata, basata sulla Realpolitik. DI fronte all'atlantismo, il Cremlino applica una strategia difensiva che consiste nel «curare il malato». Nessun attacco frontale dal momento che l'opposizione dichiarata rafforza l'instabilità del sistema e la sua incoerenza. Non alimentare il delirio. Il globalismo è un troll: « Don’t feed the troll ! »
Per comprendere la geopolitica russa  - ma anche cinese - bisogna abbandonare questa distorsione cognitiva liberale che si chiama individualismo, la cui versione filosofica è l'essenzialismo,e  che porta a vedere le cose in termini di opposizione tra delle essenze individuali, delle monadi sostanziali. Ora, il sistema è più importante dell'individuo. Perciò, bisogna adottare un approccio sistemico, o cibernetico, che porti a vedere le cose in termini di interdipendenza tra le parti del sistema, comprese quelle incluse nel conflitto. Fin dall'era sovietica, la Russia ha una grande scuola di cibernetica, la quale lavora sulla modellizzazione e sulla previdibilità dei fenomeni sociali, soprattutto su questa disciplina derivata dalla teoria dei giochi che si chiama il «controllo riflessivo».
Questo approccio apre quella che è una visione sistemica del conflitto: per neutralizzare il nemico, non ci si pone più nell'opposizione frontale ma nell'integrazione e nella creazione di interdipendenza tra me e lui, moltiplicando i circuiti di retroazione (feedback), in modo che lo si colpisca quando mi colpisce, ed è ciò che la cibernetica chiama contraccolpo (blow-back), ma anche che gli si faccia del bene quando mi fa del bene, principio del «circolo virtuoso». Uno specialista della guerra ibrida, Andrew Korybko, sottolinea nel suo articolo che la Russia cerca di posizionarsi come un fattore di equilibrio generale tra tutte le parti, quindi come un attore imparziale in posizione di arbitro e che occupa il centro della scacchiera geopolitica. Korybko prende come esempio quello delle relazioni diplomatiche tra la Russia, Israele e l'Iran, e in particolar modo il processo di integrazione eurasiatico in cui Mosca vuole coinvolgere Israele, ma anche l'Iran, in un sistema di interdipendenza che li obbligherà meccanicamente a pacificare le loro relazioni. Si parla con tutti, si rimane in contatto con tutti, ivi compreso Netanyahu, in quanto è proprio questo che non vuole Netanyahu! Questa produzione intenzionale di interdipendenza tra gli attori geopolitici è la chiave di comprensione della grande strategia russa, che deve diventare la grande strategia eurasiatica, da Lisbona a Vladivostock, sotto il nome di multipolare.
Per prevenire la guerra, dobbiamo già impedire la creazione di campi nemici tagliati a fette. Per fare questo, bisogna creare un massimo di interdipendenza tra i campi nemici perché essi siano meno separati possibile. Da migliaia di anni,  gli strateghi cinesi parlano di vincere la guerra senza combattere. Ciò non significa non fare niente, ma si tratta di un non agire attivo che agisce a monte del conflitto dichiarato affinché tale conflitto non venga dichiarato. Vincere la guerra senza combattere significa impedire l'emergere di campi netti che si affrontano direttamente, e perciò vuol dire rimanere in contatto con tutti, mantenere un'interdipendenza di tutti gli attori affrinché lo scontro non abbia affatto luogo, o che esso non possa essere diretto, oppure, se malgrado tutto avviene, allora che abbia un impatto su tutti, ivi compreso l'aggressore. È in questo modo, e non altrimenti, che vinceremo la guerra contro l'atlantismo ed il globalismo unipolare. Ci si deve proteggere dal diavolo, ma non bisogna colpirlo. Colpire il diavolo gli fa del bene e lo rafforza. Colpire il diavolo aumenta il livello di violenza generale, aumenta perciò l'instabilità e l'incoerenza generale, ed è ciò che il diavolo vuole. Per fare veramente del male al diavolo, va perdonato di essere quel che è ed integrarlo in un sistema più vasto. Alcuni diranno che questo approccio così freddamente strategico somiglia sul piano strutturale alla carità cristiana, in particolar modo in quella che è l'interpretazione che ne ha dato René Girard. Ed è quello che penso. Concluderei con un appello alla buona volontà per aprire un nuovo capitolo di studi eurasiatici che affrontino questa convergenza tra la saggezza cristiana, la saggezza asiatica e la cibernetica sociale, perché si uniscano in quella che potremmo chiamare un'arte marziale geopolitica.

- Lucien Cerise - Pubblicato su FLUX - Portal National de Stiri il 1° novembre 2019 -
- Questo testo proviene dal Terzo Forum di Chisinau, tenutosi dal 20 al 21 settembre 2019 -


martedì 26 novembre 2019

Maledetto Mito!

Siamo abituati a pensare alla Grecia come alla culla della nostra civiltà: ai greci dobbiamo l’idea di democrazia, la storiografia, la filosofia, la scienza e il teatro. Eppure di questa eredità fa parte anche il modo in cui consideriamo il rapporto tra i generi: un lascito che ha superato i secoli e i millenni con tracce che continuano a pesare sulle nostre vite come macigni.
Nella storia antica c’è stato un momento in cui la differenza tra il genere maschile e quello femminile si è trasformata nell’idea che le donne siano inferiori agli uomini e quindi in una serie di inevitabili, pesanti discriminazioni. Tutto comincia con un mito. Esiodo racconta la nascita della prima donna, mandata da Zeus sulla terra come punizione per la colpa commessa da Prometeo: rubare il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, riducendo così la distanza che li separava dagli immortali. Pandora è “un male così bello” da essere un “inganno al quale non si sfugge”. Rappresenta un’alterità incomprensibile agli uomini, tanto misteriosa da essere paragonabile solo alla morte. Da lei, dice Esiodo, discende “il genere maledetto, la tribù delle donne”.
Eva Cantarella illumina alcuni momenti di una vicenda lunghissima, che dal mito giunge ai medici e ai filosofi che hanno fondato il pensiero occidentale. Attraverso le voci di Parmenide, Ippocrate, Platone e Aristotele vediamo come la differenza di genere viene costruita e codificata, fino a diventare un pilastro dell’ordine sociale e della cultura giuridica greca. Scopriamo l’origine delle “convenzioni sociali, delle teorie filosofiche e delle pratiche giuridiche che ripropongono visioni ‘essenzialiste’ delle diverse identità personali”. Conosciamo una parte molto antica di noi stessi e facciamo esperienza di un passato da cui finalmente possiamo prendere le distanze per realizzare il nostro futuro. L’inferiorità di genere è un’idea antica. Una storia che comincia in Grecia con il mito di Pandora e arriva fino a noi.

(Dal risvolto di copertina di: Eva Cantarella, Gli inganni di Pandora. Feltrinelli.)

Filosofi antichi che non amano le donne: l’origine del pregiudizio
- di Daniela Monti -

Per gli antichi greci le donne erano una razza a sé, inferiore e maledetta, quel tipo di razza di cui nessuno, sano di mente, vorrebbe mai far parte, condividendone il destino: prigioniere di un percorso di vita domestico, cresciute nella totale, assoluta, radicale mancanza di formazione culturale ed educazione alla socialità.
Anche il loro corpo era ritenuto sostanzialmente diverso da quello maschile perché più «poroso», un aggettivo che richiama quanto si dirà nei secoli a seguire del loro cervello: così morbido, spugnoso, piccolo e leggero che cercare di dotarle di istruzione è un’impresa persa in partenza. L’inferiorità di genere, avverte Eva Cantarella nel suo Gli inganni di Pandora (Feltrinelli) è dunque un’idea antica. È nel momento storico che va da Esiodo — il primo utilizzatore del mito in senso filosofico — a Platone che «l’individuazione di una differenza fra il genere maschile e quello femminile è stata tradotta nell’idea di un’inferiorità delle donne, immediatamente seguita da ineluttabili, pesanti discriminazioni».  È greco il percorso che dalla differenza sessuale porta alla differenza di genere, la quale (ora lo sappiamo bene) è costruzione sociale strettamente connessa a gerarchie e relazioni di potere, basata sull’istituzione di modelli — di comportamento, doveri, responsabilità, aspettative — a cui è obbligo adeguarsi. «Il maschio — scrive Aristotele — rispetto alla femmina è tale per natura, l’uno è migliore, l’altra peggiore, e l’uno comanda, l’altra è comandata».
La tradizione europea e occidentale che affonda le proprie radici nel pensiero greco, insieme alla magnificenza della filosofia, della scienza, del teatro, all’idea di democrazia e di diritto, ha ricevuto in eredità dunque anche la mela marcia del primato di un sesso sull’altro, la teoria essenzialista secondo la quale la differenza di genere è un dato naturale, originario e immodificabile. La specificità delle donne dipende dalle caratteristiche biologiche che gli dèi hanno loro attributo, ci dicono gli antichi greci. C’è una differenza fra le virtù maschili e quelle femminili e questa differenza è legata alla biologia. Ci vorranno secoli per rimettere in discussione questo impianto e ci vorrà altro tempo per superare le discriminazioni.
Poteva andare in modo diverso? Il pensiero greco non è un monolite, al suo interno si odono voci che avanzano il dubbio che la differenza fra uomini e donne possa essere più culturale che naturale o divina. Ma queste voci — quella di Socrate, quella dei cinici che ammettevano le donne nelle loro scuole, o quella di Pitagora, che a Crotone discuteva delle capacità politiche femminili — restano minoritarie, soffocate dalle grida di chi recita ciò che Atene vuole sentire.
Solo gli uomini possiedono dunque, nella sua pienezza, il logos, la capacità di deliberare. Le donne detengono una ragione minore e imperfetta, «che non consentiva di controllare la loro parte concupiscibile», scrive Cantarella. Non sono certo donne dotate di logos quelle descritte nel giambo di Simonide di Amorgo, vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C.
Il campionario che mette in versi è stupefacente. Ci sono donne fatte di terra (che non distinguono il bene dal male), altre di acqua (che cambiano umore rapidamente, senza un perché). Altre ancora, racconta il poeta, rappresentano la versione bipede degli animali della fattoria: c’è la donna che deriva dalla scrofa, la quale vive in una casa sporchissima e non si lava mai; la donna-volpe che sa tutto, controlla tutto e si adegua agli eventi, adattandosi; la cagna, che vagola per la casa latrando e non si calma mai; l’asina, paziente e lavoratrice, mangia rincantucciata vicino al fuoco, puoi bastonarla e non protesta, ma poi è pronta a fare l’amore con chiunque; la donna che deriva dalla gatta, che è senza grazia e senza fascino, ruba e si mangia le offerte prima di sacrificarle agli dèi; la donna cavalla, raffinata, curatissima, con una bella capigliatura, ma pigra tanto che preferisce lavare sé stessa, cospargendosi di profumi, piuttosto che spazzare il pavimento. Infine la peggiore: la donna scimmia, così brutta che quando va per la città tutti ridono di lei. E la migliore: l’ape, che ama il marito e invecchia accanto a lui, alleva devotamente i figli, non ama parlare di sesso con le altre donne (ma il poeta specifica che la donna ape, ahimé, non esiste, è solo un sogno ad occhi aperti tutto maschile).
Donne genere maledetto, donne senza logos. Intelligenti, a loro modo, ma di un’intelligenza concreta, non speculativa come quella maschile. E vista la deriva dell’antropocene, forse questa intelligenza «diversa» delle donne, di cui i greci si sono mostrati tanto convinti, potrebbe riservare a loro un ruolo da protagonista, nel secondo tempo della nostra permanenza su questa terra.

- Daniela Monti - Pubblicato sul Corriere del 17 novembre 2019 -

lunedì 25 novembre 2019

Il pianeta dei tecno-zombi

Una recensione de "La Sostanza del Capitale" di Robert Kurz
- Robert Kurz, La Substance du capital, éditions l’échappée, collection « versus », 288 p., 19 € -

I giorni della «società delle merci» sono davvero contati?
Robert Kurz, nel suo aver messo in discussione il «lavoro», e l'insufficienza sistemica del reddito che tale lavoro assicura a fronte del peso morto del «capitale fittizio» che non produce niente, ne era convinto.
Il filosofo tedesco Robert Kurz (1943-2012) non era venuto al mondo per «far carriera» o per ottenere un «posto al sole» ma per scagliare i suoi sanpietrini - tra i quali, "Il collasso della modernizzazione" (1991) e "Il libro nero del capitalismo" (1999) - contro le vetrine di tutto quello che dovrebbe «fare società».
Ma perché mai - si domandava - gli uomini si sacrificano a delle astrazioni come «il lavoro» o «il denaro»? E questo, soprattutto oggi, in una «società del lavoro» in cui non c'è più né «lavoro» (davvero pagato...) né «denaro» da offrire loro? Non dovremmo piuttosto cominciare a liberarci dal «lavoro», anziché immaginare di dipendere da esso, dal momento che non solo non ci permette più di vivere, ma non riesce nemmeno a dare senso all'esistenza - e arriva perfino d ucciderci?
Per tutta la sua vita, Robert Kurz ha individuato ed ha catalogato quelli che erano e sono i vicoli ciechi, che fanno parte tanto del «pensiero della sinistra» quanto del marxismo tradizionale, e che pretendono di «offrire un'alternativa al sistema economico dominante». A lui, il «lavoro» appariva come un «valore» talmente astratto da non poter essere nemmeno toccato. Ma ha scritto in abbondanza sulla questione - cioè sul processo «capitalistico di distruzione del mondo». Non avendo mai voluto intraprendere una «carriera» universitaria, per poter svolgere la propria attività (la critica dell'economia politica), fino alla sua prematura morte avvenuta a causa di un errore medico, ha scelto di fare l'autista di taxi per 7 anni e, soprattutto, presso una tipografia dove lavorava la notte all'imballaggio delle copie del giornale locale.
Oggi, in Francia, le edizioni L’échappée editano "La sostanza del capitale", pubblicato originariamente sotto forma di un articolo in due parti, apparso nei primi due numeri della rivista Exit! (2004 e 2005). Per il filosofo di Norimberga, il lavoro non è nient'altro che la «sostanza del capitale» - cioè, «il lato astratto del lavoro», senza contenuto alcuno, il quale «dà il suo valore alle merci». Nella prefazione, Anselm Jappe ricorda che: «Il valore assume una forma visibile nel denaro. Il fatto, facilmente osservabile, per cui la produzione non serve essenzialmente a soddisfare i bisogni umani, ma ad aumentare la quantità di valore investito - ciò che crea il profitto - non è affatto dovuto innanzitutto alla "avidità" della classe dominante, bensì alla logica del valore mediata attraverso la concorrenza sui mercati».

Il futuro ha bisogno di noi?
Ai suoi tempi, Karl Marx (1818-1883) annunciava: «il collasso del capitalismo» sotto il peso delle sue incongruenze e delle sue contraddizioni. In seguito, più tardi, il verificarsi di alcune «crisi», crolli, depressioni e guerre avrebbero ulteriormente vanificato l'illusione secondo cui la fine dell'«orrore economico» sarebbe avvenuta semplicemente per il collasso del saggio di profitto: «In linea di principio, gli esseri umani avrebbero potuto emanciparsi, senza dover attendere il collasso del capitalismo». In quanto, alla fine, questo crollo così tanto annunciato «in sé non è affatto un inevitabile presupposto dell'emancipazione». Ma piuttosto può avvenire che il perdurare della tregua possa «costituire un ambiente sociale propizio al pensiero e all'azione emancipatrice, nel caso che la trasformazione emancipatrice impieghi troppo tempo a verificarsi, e dia al capitalismo l'occasione di un pieno sviluppo di quelle che sono le contraddizioni interne».
In altri termini, il «capitalismo» ha raggiunto i suoi «limiti assoluti» e sta scivolando lungo una pendenza discendente che nessun altro artificio o «innovazione» gli potrà permettere di risalire - gli unicorni hanno smesso di fantasticare... E pertanto, dobbiamo «continuare a comportarci come se» sostituire il «capitale fittizio» (il credito) all'«economia reale» possa distribuire del redditi reali in modo da assicurare uno sbocco alla produzione di beni e servizi: possiamo prendere in prestito dei soldi dal nostro futuro? E poi, il futuro ha davvero bisogno di noi?
Nel momento il cui il «capitalismo» non è più in grado di realizzare i suoi «profitti», se non per mezzo di una «simulazione», vale a dire per mezzo della speculazione, ecco che allora «il denaro» diventa solo un «anticipo di profitti futuri che ci si aspetta di realizzare» basati sulla «fiducia» per degli «attori economici» che sono troppo numerosi per potersi reggere senza produrre... Basti dire che il prolungamento artificiale di quella che è una «società del lavoro» senza piena occupazione, e di «consumo» senza un reddito reale, non reggerà al prossimo imminente «evento creditizio»... Si può sempre sognare la «Grand Soir» ma finché la «società umana non avrà preso coscienza della propria natura di "associazione di liberi individui" per poter arrivare ad una riflessione collettiva sulle condizioni e le conseguenze del suo agire sociale e decidere liberamente, consapevolmente, sulla realizzazione della sue possibilità, il sistema di ingranaggi continuerà ad irrigidirsi in quelli che sono degli schemi di azione ciechi, nella matrice di una "seconda natura" che si rende autonoma rispetto agli individui ed appare loro come se fosse una "cosa esterna"...».
Facendo uso di un brillante esercizio di alta fedeltà, che ricorda «La fine della politica», Anselm Jappe chiarisce quale fosse il pensiero di Kurz: «In una società che si basa sul feticismo della merce, il polo politico non ha alcuna autonomia rispetto al polo economico»... Quelli che sono gli individui della nostra disincantata postmodernità, non hanno forze interiorizzato gli obblighi capitalistici fino a trovarli «naturali»?
Se è evidente che la tecno-sfera uccide la biosfera, perché tutto questo clamore eco-allarmistico e questo invocare la «morale» ecologica, pur continuando a perseguire, a marcia forzata, «l'estensione dello spazio-tempo gestionale e l'imposizione della sua logica riduzionista a tutte le aree della vita» e la tecno-zombizzazione della specie?
Perché acconsentire alla trasformazione della biosfera e della «civiltà» in un deserto consegnato ad un'«intelligenza artificiale» che domina un mondo «ridotto alle sue proprietà fisico-chimiche»?
Per Kurz: «l'anti-civilizzazione capitalista rivela di essere affascinata dal pianeta Marte fino al punto di renderlo l'obiettivo privilegiato delle sue spedizioni spaziali». Ciò perché il pianeta rosso «rappresenta quel deserto fisico in cui il lavoro astratto ed il suo spazio-tempo stanno per mutare la Terra». Egli ha vissuto abbastanza per essere arrivato a vedere il proliferare di estensioni di terre e di acque morte, ed ha fatto in tempo a poter scrivere la sua parte di quella che è una narrazione di emancipazione, al di là dell'universale difficoltà a poter continuare ad essere vivo e scegliere di vincere, la propria vita - o meno.

- Pubblicato su les Affiches-Moniteur, 18 octobre 2019 -

fonte: la lettre du phenix. Il s'agit de renaître de ses cendres

sabato 23 novembre 2019

Ora, piangi!!

Secolo cruciale per la formazione del soggetto moderno, il «lungo» Settecento francese fu un’epoca segnata dallo sviluppo di un nuovo codice estetico ed etico incentrato sull’esasperazione dell’emozione e su un uso iperbolico del pianto, quale garanzia della sincerità del sentimento provato. Proprio la lacrima, sospesa tra l’immediatezza naturale e l’artificio culturale, è un ottimo banco di prova per indagare le relazioni enigmatiche che legano la dimensione fisiologica e quella psicologica, il «fisico» e il «morale». Sulla scorta delle opere dei grandi pensatori dell’epoca – da Cartesio a Sade, Diderot e Rousseau – l’autore fa emergere l’altra faccia di un secolo che fu detto «della ragione», ma che in realtà avvertì sempre l’impossibilità di limitarsi all’elemento razionale.

(dal risvolto di copertina di: Marco Menin - La filosofia delle lacrime. Il pianto nella cultura francese da Cartesio a Sade. Il Mulino)

È di felicità il pianto degli Illuministi
- Non lacrime di dolore, ma di felicità: gli illuministi usano la ragione piangendo -
di Mario Baudino

Quanto piangevano, gli Illuministi. Ad onta del loro culto per la ragione, seppero portare all’estremo non solo una riflessione filosofica – e fisiologica – sulle lacrime, ma anche ad inondarne il loro lungo secolo, idealmente dalla seconda metà del Seicento a inizio Ottocento: per restare da questa parte delle Alpi, diciamo, fino all’inimitabile Ugo Foscolo, che sapeva piangere come nessuno – e anche minacciare l’immediato suicidio alle dame scontrose. Ma già questa, forse, è un'altra storia. Marco Menin, nell'ampio studio sulla Filosofia delle Lacrime (Il Mulino), ci insegna invece che se vogliamo comprendere davvero la portata di un fenomeno culturale di così ampia e segreta rilevanza storica, dobbiamo guardare non solo all'arco di tempo in cui avvenne una rivoluzione del sapere, ma in particolare a un luogo, la Francia, dove da Cartesio e De Sade non ci si limitò più a piangere e lacrimare, come del resto l'umanità pare non aver mai smesso di fare, ma a cercare finalmente di capirle, le lacrime, in rapporto alla cultura e alla persona.
Menin, storico della filosofia, ricostruisce, con una ricca serie di esempi e documentazione poco frequentate per non dire trascurate, l'ascesa e caduta della cultura della «sensibilità», e del sentimentalismo. E ci ricorda come l'esibire emozioni, le proprie lacrime in particolare, abbia toccato l'apice negli anni frenetici e sanguinosi della Grande Rivoluzione, dalla presa della Bastiglia quantomeno alla fine del Terrore. Non si tagliano solo teste, e contestualmente non si difendeva solo, e duramente, il ribaltamento capitale dell'Ancien Régime: nei grandi momenti politici e anche in quelli minori ci si abbracciava e si piangeva a dirotto, non di paura né propriamente di gioia, ma di commozione. I giacobini (Marat scrisse persino un romanzo lacrimosissimo - e pare pessimo - pubblicato solo a metà Ottocento) erano in primissima linea anche su questo inondato terreno. Il Re Sole pare piangesse a dirotto alla prima di una tragedia di Racine, nel 1671, ma le sue lacrime sono ben poca cosa se comparate a quelle del terribile Joseph Fouchet, destinato a divenire il capo di tutte le polizie politiche fino all'Impero, che più di un secolo dopo si commuove per l'ottimo risultato di una sua feroce repressione (della rivolta lionese del 1793): scrivendo a Parigi spiega che ora «tutti i cittadini si sono ravvicinati e si sono abbracciati» e che «lacrime dolcissime sono colate da tutti gli occhi, perché l'amore per la patria si trova adesso in tutti i cuori».
Non appaia macabro: la domanda sul senso delle lacrime investe quella sul significato della civiltà e della persona, che nel Secolo del Lumi viene posta con particolare insistenza, molto più che in passato nella lunga storia umana. . Sappiamo che Platone le condannava, che Achille e gli eroi antichi ne facevano ampio uso. Virgilio - potremmo aggiungere - ci ha consegnato l'indimenticabile e per certi versi intraducibile sunt lacrimae rerum, intendendo (alla Eraclito) che il pianto è proprio quello della storia umana. I Vangeli hanno tramandato le lacrime di Gesù, davanti a Lazzaro e davanti all'imminente supplizio. Ma tutta queste, spiega Menin, sono lacrime «verticali», in altre parole, e semplificando, non sono alla portata di tutti.
Da Cartesio in poi cambia il paradigma. Non è più questione di gioia o dolore, o del mistico contatto con le potenze celesti, ma di un'ampia serie di emozioni che coinvolgono il nostro essere sociale, prime fra tutte la compassione - e la conseguente commozione, da studiare sia dal punto di vista della fisiologia (del corpo), sia da quello dell'anima - della mente.
Ma se Cartesio è cauto, Rousseau rompe gli indugi. Le lacrime, i «vapori», sono per lui «la malattia delle persone felici», ovvero, come scriveva il ginevrino, «la mia malattia; lagrime versate senza motivo di pianto, instabilità di carattere nella calma della più dolce vita, tutto ciò contrassegnava quella nausea del benessere che, per così dire, fa vagare fuori di sé la sensibilità».
Diderot non è da meno. Nel suo libro più noto, La religiosa, che pure è un romanzo di denuncia e di battaglia, la madre superiora del convento d'Arpajon dice a Suzanne, monacata a forza: «Non temere, mi piace piangere. Il pianto è una condizione deliziosa per un'anima compassionevole. Anche a te deve piacer piangere». Persino Voltaire scrisse una commedia, oggi dimenticata, assai lacrimosa.
Le lacrime sono un aperto segnale di virtù.  E solo con Choderlos de Laclos ed il marchese De Sade, dalle Relazioni pericolose ai libri più o meno proibiti di quest'ultimo, la grammatica delle emozioni finirà per rovesciarsi: il libertino, prototipo dell'uomo razionale, deve usarle sì, ma non caderne vittima. Le lacrime sono per lui un mero strumento. Così, mentre il secolo volge al termine, passando dalla «sensibilità» alla sensiblerie, che ne è l'eccesso ridicolo, il mondo intellettuale quantomeno si affretta a rasciugarle. Non quello della pubblicistica popolare, ricorda Manin, che cita una definizione piuttosto appropriata di Umberto Eco per I misteri di Parigi di Eugéne Sue, pubblicato a partire dal 1841 fra entusiasmi deliranti: «Una macchina strappalacrime che sa raggiungere i limiti dell'insopportabile». Parrebbe utile, a questo punto, ricordare che l'industria dell'intrattenimento continua a produrne in abbondanza. Con alterni risultati.

- Mario Baudino - Pubblicato su Tuttolibri del 16/11/2019 -

venerdì 22 novembre 2019

La motivazione delle forme

«La mia storia d’amore con la rivoluzione è profondamente infelice...» scrive a Gor’kij dalla Finlandia, dov’era fuggito per evitare l’arresto, Viktor Šklovskij. È il 15 aprile 1922. A Mosca si preparava il processo ai «socialrivoluzionari di destra», e Šklovskij aveva militato nelle cellule clandestine del Partito socialrivoluzionario. «Negli allevamenti di cavalli ci sono stalloni che chiamano “ruffiani” ... Il ruffiano monta sulla giumenta, lei prima si rifiuta e scalcia, poi inizia a concedersi. A quel punto il ruffiano viene trascinato via e fanno entrare il vero riproduttore ... Noi socialisti abbiamo “scaldato” la Russia per i bolscevichi...». E mentre attende di poter partire per Berlino, comincia a scrivere nuove – le più ardue, dolorose – memorie del recente passato. Nasce così Viaggio sentimentale, titolo che è un palese e sorridente omaggio a Sterne, lo scrittore da lui «resuscitato in Russia». La prima guerra mondiale, la rivoluzione d’Ottobre e la lotta fratricida che ne seguì – tutto è raccontato da un testimone che, per nostra fortuna, non ha pretesa alcuna di imparzialità. È semmai la scrittura, l’inconfondibile e celebrata paratassi šklovskiana (frasi essenziali, brevi, dai legami sintattici e logici ridotti al minimo), a illuminare di verità il racconto – erratico, digressivo e aberrante come i fatti che cambiarono la storia del XX secolo.
Grande bricoleur, teorico della letteratura e «narratore professionista» che riesce, parlando, raccontando, a confondere anche la polizia politica che gli dà la caccia, Šklovskij ha scritto con Viaggio sentimentale il suo libro più bello, dove alla sapienza nell’organizzare un materiale ancora caldo, grondante stupore, pietà e sdegno, si unisce l’abilità nel fondere due piani – dei fatti e della memoria, della visione e della coscienza morale – sempre intermittenti. E, ancor più, un libro indispensabile per chi voglia assistere dal vivo, quasi in presa diretta, alla «fine dello spettacolo “Russia”».

(dal risvolto di copertina di: Viktor Šklovskij, “Viaggio Sentimentale”. Adelphi.)

Rivoluzione sentimentale
- di Tommaso Munari -

«Sono nato nel 1893, un mio nonno era guardia forestale, l'altro giardiniere, mio padre maestro rurale. Nacqui a Pietroburgo, là terminai il ginnasio, mi iscrissi all'Università, fondai la "società per lo studio della lingua poetica"». Così, Viktor Šklovskij si presentava alla radio italiana il 27 ottobre 1967. La sua fidata traduttrice, Maria Olsoufieva, gli faceva da interprete. In Italia per promuovere tre suoi libri pubblicati da Da Donato (Teoria della prosa, Viaggio sentimentale, La mossa del cavallo), Šklovskij raccontava agli ascoltatori di aver provato invano a diventare scultore, di essersi dedicato allo studio del linguaggio poetico, di aver combattuto sul fronte orientale e, soprattutto, di aver preso parte come aiuto-commissario alla «Rivoluzione socialista»: «Il paese si sfasciava, e Pietroburgo si trovò tagliata fuori dal resto del paese. Un governo autonomo, e straniero, si era formato in Ucraina, un altro in Siberia, un altro ancora in Estonia, la città era bloccata. Esistono i "blocchi cardiaci" quando cessano i flussi nervosi. Ma il nostro cuore continuò a battere».
Quando Šklovskij rilasciò questa intervista, erano trascorsi cinquant'anni dalla Rivoluzione russa. Oggi, che ne sono trascorsi cento, l'Adelphi ripubblica il suo Viaggio sentimentale in una nuova, puntuale e scorrevole traduzione di Mario Caramitti (più fedele allo spirito dell'originale rispetto a quella, pur degnissima, della Olsoufieva del 1966).
Il Viaggio sentimentale di Šklovskij è un viaggio nel tempo e nello spazio. Il tempo è quello che va dal febbraio del 1917 al maggio del 1922, ovvero dalla rivolta degli operai e dei soldati pietrogradesi, che portò al crollo del regime zarista, all'inizio dell'esilio tedesco dell'autore (ricercato dalla Čeka in quanto socialista rivoluzionario), pochi mesi prima della proclamazione dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Lo spazio è quello sterminato dell'impero russo, dalla Galizia alla Persia, attraverso il Caucaso, il Caspio, il Dnepr e la Volga, passando per le città di Kiev, Urmia, Tiflis, Mosca e Pietroburgo, dove queste memorie si aprono e si chiudono.
Memorie o diario? Memorie, come recita il sottotitolo; ma quasi diario, come indica la data di pubblicazione (1923), a ridosso dei fatti narrati. Se è vero infatti che Šklovskij cominciò a comporre il Viaggio due anni dopo l'inizio del racconto («Prima della rivoluzione ero istruttore in un battaglione corazzato di riserva», recita l'incipit), è anche vero che lo concluse facendo convergere il tempo della storia e quello della narrazione («E adesso vivo in mezzo agli émigrés, e anche io mi vado trasformando in un'ombra tra le ombre»).
Come accade in molti diari o memorie, Šklovskij racconta la propria vita - di soldato allo scoppio della rivoluzione, di commissario durante il governo provvisorio, di cospiratore contro la dittatura bolscevica e di professore alla fine della guerra civile - sull'immenso sfondo della Storia. Immenso a tal punto che su di esso egli non ha, suo malgrado, alcun potere, «come un ago senza filo, che passa attraverso il tessuto senza lasciare traccia» (p.273). Un'altra metafora impiegata da Šklovskij  per descrivere la propria irrilevanza rispetto alla Storia è quella della zattera in balìa della tempesta. E un'altra, più inconsueta ma ricorrente, è quella della pietra che cade, impotente contro la forza di gravità.
A un primo sguardo, il Viaggio sentimentale si presenta come una testimonianza. Dei caratteri della testimonianza possiede lo slancio al racconto, lo stile etnografico e l'aspirazione alla verità. L'autore stesso, a p.41, dichiara programmaticamente: «Non voglio essere un critico degli eventi, voglio solo fornire un po' di materiale per i critici. Racconto gli eventi, e di me stesso faccio, per le generazioni a venire, un campione da laboratorio». E infatti le pagine sull'esperienza della trincea (un orizzonte di fili d'erba), sulla ritirata dalla Persia (la Catabasi russa), sulla vita alla Case delle arti (l'arca di Gor'kij contro il diluvio) hanno la forza asciutta e diretta di un documento. Così come hanno la precisione di una perizia quelle in cui l'autore descrive psicologie, motori, armi, cadaveri e ferite, incluse le proprie: lo squarcio prodotto da un proiettile che lo colpì all'addome, le ustioni causate da una bomba che gli esplose tra le mani.
Ma a uno sguardo più attento, queste memorie si rivelano un sofisticato congegno letterario. Abituato per mestiere a smontare e rimontare i grandi classici della letteratura, Šklovskij  ne conosce alla perfezione i meccanismi («la motivazione delle forme»), che applica a sua volta al proprio libro. È lui stesso a dirci, a un certo punto del racconto, che le uniche descrizioni verosimili della guerra a lui note sono quelle contenute nella Certosa di Parma e in Guerra e pace, e che dunque non esiste contraddizione fra verità e romanzo. Oltre che a Stendhal e Tolstoj, Šklovskij  compie il suo Viaggio guardando a Hoffmann, Puškin, Turgenev, Thackeray e soprattutto a Laurence Sterne. Da Sterne prende a prestito non solo il titolo del suo capolavoro incompiuto, ma anche alcuni raffinati espedienti stilistici e narrativi: l'andamento digressivo, lo spostamento temporale, il racconto del racconto. E se nel Viaggio di Šklovskij non c'è traccia del malinconico umorismo che percorre quello di Sterne, entrambi sono pervasi da una fiducia simile nella bontà dell'uomo.
Nel caso di Šklovskij, tuttavia, questa fiducia non nasce da un gusto e un clima culturali, ma è l'esito sofferto di un'esperienza biografica: «Se - scrive a p.132 -, invece di provare a fare la storia, provassimo semplicemente a considerarci responsabili dei singoli atti che la compongono, forse gli esiti non sarebbero così grotteschi. Non la storia bisogna fare, ma la propria biografia».
Per questo, in due sfoghi inaspettati che spezzano il racconto, condanna tra le lacrime un pogrom contro i curdi di cui è stato testimone in Persia e le atrocità commesse da bolscevichi e contadini nella Russia orientale. Per questo, nelle ultime pagine delle sue memorie, commemora col cuore infranto tre uomini che, resistendo ai violenti impulsi della storia, hanno continuato a svolgere il proprio lavoro con coscienza. E per questo si può dire anche di lui ciò che Foscolo scrisse di Sterne nella premessa alla propria traduzione del Sentimental Journey (1813): imparò «che ogni lagrima insegna a' mortali una verità».

- Tommaso Munari - Pubblicato sul Sole del 10/11/2019 -