Siamo abituati a pensare alla Grecia come alla culla della nostra civiltà: ai greci dobbiamo l’idea di democrazia, la storiografia, la filosofia, la scienza e il teatro. Eppure di questa eredità fa parte anche il modo in cui consideriamo il rapporto tra i generi: un lascito che ha superato i secoli e i millenni con tracce che continuano a pesare sulle nostre vite come macigni.
Nella storia antica c’è stato un momento in cui la differenza tra il genere maschile e quello femminile si è trasformata nell’idea che le donne siano inferiori agli uomini e quindi in una serie di inevitabili, pesanti discriminazioni. Tutto comincia con un mito. Esiodo racconta la nascita della prima donna, mandata da Zeus sulla terra come punizione per la colpa commessa da Prometeo: rubare il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, riducendo così la distanza che li separava dagli immortali. Pandora è “un male così bello” da essere un “inganno al quale non si sfugge”. Rappresenta un’alterità incomprensibile agli uomini, tanto misteriosa da essere paragonabile solo alla morte. Da lei, dice Esiodo, discende “il genere maledetto, la tribù delle donne”.
Eva Cantarella illumina alcuni momenti di una vicenda lunghissima, che dal mito giunge ai medici e ai filosofi che hanno fondato il pensiero occidentale. Attraverso le voci di Parmenide, Ippocrate, Platone e Aristotele vediamo come la differenza di genere viene costruita e codificata, fino a diventare un pilastro dell’ordine sociale e della cultura giuridica greca. Scopriamo l’origine delle “convenzioni sociali, delle teorie filosofiche e delle pratiche giuridiche che ripropongono visioni ‘essenzialiste’ delle diverse identità personali”. Conosciamo una parte molto antica di noi stessi e facciamo esperienza di un passato da cui finalmente possiamo prendere le distanze per realizzare il nostro futuro.
L’inferiorità di genere è un’idea antica. Una storia che comincia in Grecia con il mito di Pandora e arriva fino a noi.
(Dal risvolto di copertina di: Eva Cantarella, Gli inganni di Pandora. Feltrinelli.)
Filosofi antichi che non amano le donne: l’origine del pregiudizio
- di Daniela Monti -
Per gli antichi greci le donne erano una razza a sé, inferiore e maledetta, quel tipo di razza di cui nessuno, sano di mente, vorrebbe mai far parte, condividendone il destino: prigioniere di un percorso di vita domestico, cresciute nella totale, assoluta, radicale mancanza di formazione culturale ed educazione alla socialità.
Anche il loro corpo era ritenuto sostanzialmente diverso da quello maschile perché più «poroso», un aggettivo che richiama quanto si dirà nei secoli a seguire del loro cervello: così morbido, spugnoso, piccolo e leggero che cercare di dotarle di istruzione è un’impresa persa in partenza. L’inferiorità di genere, avverte Eva Cantarella nel suo Gli inganni di Pandora (Feltrinelli) è dunque un’idea antica. È nel momento storico che va da Esiodo — il primo utilizzatore del mito in senso filosofico — a Platone che «l’individuazione di una differenza fra il genere maschile e quello femminile è stata tradotta nell’idea di un’inferiorità delle donne, immediatamente seguita da ineluttabili, pesanti discriminazioni». È greco il percorso che dalla differenza sessuale porta alla differenza di genere, la quale (ora lo sappiamo bene) è costruzione sociale strettamente connessa a gerarchie e relazioni di potere, basata sull’istituzione di modelli — di comportamento, doveri, responsabilità, aspettative — a cui è obbligo adeguarsi. «Il maschio — scrive Aristotele — rispetto alla femmina è tale per natura, l’uno è migliore, l’altra peggiore, e l’uno comanda, l’altra è comandata».
La tradizione europea e occidentale che affonda le proprie radici nel pensiero greco, insieme alla magnificenza della filosofia, della scienza, del teatro, all’idea di democrazia e di diritto, ha ricevuto in eredità dunque anche la mela marcia del primato di un sesso sull’altro, la teoria essenzialista secondo la quale la differenza di genere è un dato naturale, originario e immodificabile. La specificità delle donne dipende dalle caratteristiche biologiche che gli dèi hanno loro attributo, ci dicono gli antichi greci. C’è una differenza fra le virtù maschili e quelle femminili e questa differenza è legata alla biologia.
Ci vorranno secoli per rimettere in discussione questo impianto e ci vorrà altro tempo per superare le discriminazioni.
Poteva andare in modo diverso? Il pensiero greco non è un monolite, al suo interno si odono voci che avanzano il dubbio che la differenza fra uomini e donne possa essere più culturale che naturale o divina. Ma queste voci — quella di Socrate, quella dei cinici che ammettevano le donne nelle loro scuole, o quella di Pitagora, che a Crotone discuteva delle capacità politiche femminili — restano minoritarie, soffocate dalle grida di chi recita ciò che Atene vuole sentire.
Solo gli uomini possiedono dunque, nella sua pienezza, il logos, la capacità di deliberare. Le donne detengono una ragione minore e imperfetta, «che non consentiva di controllare la loro parte concupiscibile», scrive Cantarella. Non sono certo donne dotate di logos quelle descritte nel giambo di Simonide di Amorgo, vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C.
Il campionario che mette in versi è stupefacente. Ci sono donne fatte di terra (che non distinguono il bene dal male), altre di acqua (che cambiano umore rapidamente, senza un perché). Altre ancora, racconta il poeta, rappresentano la versione bipede degli animali della fattoria: c’è la donna che deriva dalla scrofa, la quale vive in una casa sporchissima e non si lava mai; la donna-volpe che sa tutto, controlla tutto e si adegua agli eventi, adattandosi; la cagna, che vagola per la casa latrando e non si calma mai; l’asina, paziente e lavoratrice, mangia rincantucciata vicino al fuoco, puoi bastonarla e non protesta, ma poi è pronta a fare l’amore con chiunque; la donna che deriva dalla gatta, che è senza grazia e senza fascino, ruba e si mangia le offerte prima di sacrificarle agli dèi; la donna cavalla, raffinata, curatissima, con una bella capigliatura, ma pigra tanto che preferisce lavare sé stessa, cospargendosi di profumi, piuttosto che spazzare il pavimento. Infine la peggiore: la donna scimmia, così brutta che quando va per la città tutti ridono di lei. E la migliore: l’ape, che ama il marito e invecchia accanto a lui, alleva devotamente i figli, non ama parlare di sesso con le altre donne (ma il poeta specifica che la donna ape, ahimé, non esiste, è solo un sogno ad occhi aperti tutto maschile).
Donne genere maledetto, donne senza logos. Intelligenti, a loro modo, ma di un’intelligenza concreta, non speculativa come quella maschile. E vista la deriva dell’antropocene, forse questa intelligenza «diversa» delle donne, di cui i greci si sono mostrati tanto convinti, potrebbe riservare a loro un ruolo da protagonista, nel secondo tempo della nostra permanenza su questa terra.
- Daniela Monti - Pubblicato sul Corriere del 17 novembre 2019 -
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