domenica 31 maggio 2020

Al di là del Diritto

L'informalità dell'informale: la frantumazione sociale nel Brasile della pandemia
- di Maurilio Lima Botelho -

La pandemia ha sconvolto il tessuto sociale brasiliano e ha messo al sole le viscere di una struttura sociale frammentata, segnata da condizioni economiche estreme e, soprattutto, ha portato alla luce un'esclusione sociale che ora non può più essere ignorata. Tuttavia, questo shock della realtà non servirà a niente, fino a che gli strumenti che ci potrebbero permettere di osservarlo rimarranno sepolti sotto i filtri di quelle che sono delle teorie ammuffite.
Alla fine del 2019, in Brasile, quasi 25 milioni di persone hanno svolto un lavoro come «autonomi», svolgendo attività giornaliere per «proprio conto». Inoltre, erano 11,7 milioni le persone disoccupate e 52,7 milioni quelle che vivevano di previdenza sociale, sotto forma di pensioni e indennità varie, ecc. Vale a dire, una parte considerevole della popolazione brasiliana, più di un terzo, si è trovata al di fuori di qualsiasi rapporto salariale: metà di quella che è l'intera popolazione del Brasile che ha più di 14 anni di età (legalmente idonea al lavoro). Ovviamente. alcune di queste fonti di reddito derivano da un lavoro precedente (per esempio, la pensione), ma altre sono temporanee (come il sussidio di disoccupazione) ed altre ancora si trovano continuamente a rischio di essere sospese, come il sussidio per la famiglia (che dipende sempre da quello che è l'umore politico), o l'alloggio (che dipende dalla congiuntura) oppure ancora le stesse pensioni (soggette ad un costante attacco da parte dell'austerità economica). Mentre una parte enorme della popolazione si trova esclusa da qualsiasi rapporto di lavoro, c’è ancora una parte più piccola, ma non trascurabile, che tenta di ritornare, ma senza successo, in quella posizione precedente: 4,5 milioni di disoccupati, da più di un anno sono alla ricerca di un lavoro e, di questi, 2,9 milioni lo cercano da oltre due anni, senza riuscire a trovarlo.
Ingenuamente, una popolazione di migliaia di persone si affolla davanti alle agenzie della Caixa Econômica, cercando di ottenere un aiuto di emergenza di solo 600 reales brasiliani [poco più di 110 dollari], che il titolare del portafoglio economico federale vuole ridurre a 200 [nemmeno 37 dollari]. Ancora più ingenua appare essere la pressione per il confinamento sociale, volontario o meno, nel momento in cui ci sono decine di milioni di persone che, per il pane, dipendono la loro guadagno quotidiano, senza avere nessuno cui rivolgersi. Quando hanno chiuso i negozi nei sotto-centri commerciali dei quartieri che si trovano più lontano dalla metropoli, una moltitudine di venditori ambulanti, piccoli commercianti e venditori di ogni genere si è affollata nei «calçadões» [strade pedonali], approfittando di un allentamento delle repressione sociale al servizio degli interessi delle reti della grande distribuzione. È stata una fotografia della realtà che però viene ignorata dalle interpretazioni sociologiche: una parte della popolazione, espulsa dalla società del lavoro, vive concentrata sulla propria riproduzione, e lo fa in quella che è una sub-economia, ed ha legami inconsistenti con il grande mercato, i quali scompaiono del tutto nel momento in cui questo si ferma. Una tale realtà dell'esclusione, è dominante in Brasile, dove la maggioranza vive ai margini delle istituzioni ufficiali - siano esse statali o private, politiche o economiche - e molto al di là di qualsiasi diritto, subendo la propria sorte completamente «senza alcuna regola», nell’instabilità economica e nella costante insicurezza sociale.

Con la registrazione per gli aiuti di emergenza, ha avuto inizio la lotta per dimostrare l'esistenza di coloro che per le istituzioni «non esistono». Ottenere certificati, rinnovi delle iscrizioni, regolarizzare il codice fiscale e perfino ottenere per la prima volta un qualche documento ufficiale è stata una vera e propria tortura in un paese dove ci sono 3 milioni di persone che non posseggono alcun documento. La visibilità degli invisibili è diventata una necessità nel momento in cui l'economia si è fermata a causa della pandemia, e molti non sono nemmeno più in grado di riprodursi a partire da quelle che erano le loro attività «autonome» quotidiane. Ma ciò che è venuto alla luce, è stato quello che è il limite della società dell'esclusione, e che ha dimostrato la nostra inadeguatezza teorica: ogni 10 domande di aiuto di emergenza, 4 si sono rivelate «inammissibili». Disoccupati informali e di lunga durata che non sono in grado di dimostrare la propria condizione di esclusione. «Il colmo dell'informalità, consiste nel non poter dimostrare formalmente la propria informalità» (Javier Blank).
L'indifferenza sociale e la freddezza istituzionale delle agenzie statali, sono state superate solo dal sociologismo riduttivo. Negli ambienti della teoria sociale, si continua ad insistere nel ridurre questa drammatica complessità a quello che è il luogo comune delle classi: in fin dei conti, sono tutti lavoratori che stanno lottando per gli stessi interessi. Vale a dire, di fronte all'incapacità di saper rendere conto di quelle che sono  le eterogeneità, le frammentazioni e la disparità inconciliabile esistente tra i disoccupati di lunga durata, i lavoratori autonomi e coloro che dipendono dalla previdenza sociale diretta ecc., si fa rientrare tutto sotto l'astratta etichetta - sempre più ampia - della cosiddetta «classe operaia». Si tratta della dinamica di crisi della società del lavoro, una realtà ovvia per la maggior parte delle persone che dev'essere negata dal sociologismo più grezzo: oggettivamente ignorato dal governo, il processo di declassamento viene inoltre represso teoricamente, trascurando così la maggior parte della popolazione, la quale viene disconnessa da qualsiasi relazione lavorativa.
Per far sì che abbia senso questa ignoranza, è necessario aggrapparsi a quella parte della popolazione che è ancora soggetta alle relazioni lavorative. Ma qui, quella che è la disconnessione tra la teoria e la realtà salta subito agli occhi: sindacati, partiti e intellettuali continuano a mettere in campo tutta la verbosità politica della lotta di classe, e del «punto di vista del lavoro», anche quando il rapporto salariale abbia ben poca identità oggettiva tra coloro che ne costituiscono le diverse componenti. L'inefficacia politica di queste formule teoriche è del tutto evidente: durante la campagna per la riforma della Previdenza, nessuno ha parlato del fatto che una parte considerevole della popolazione occupata (circa il 40%) non versa più alcun contributo, ragion per cui i cosiddetti «collettivi per uno "sciopero generale"» hanno incontrato solo indifferenza, dal momento che la maggior parte della società non può fermare le sue attività economiche quotidiane, perché correrebbe il rischio di dover smettere di mangiare.
Anche tra i salariati, la visione di un'identità collettiva "classista" non riscuote molto credito ed ha poco senso, non solo perché la condizione salariale non è affatto decisiva ai fini di una definizione di classe (così come lo era ai tempi del capitalismo industriale classico), ma soprattutto a causa delle differenze interne tra coloro che sono ancora soggetti ad una relazione lavorativa, per esempio, nell'industria, nei servizi o nel commercio. Tra i salariati, in Brasile, ci sono più di 10 milioni di persone che non hanno alcun contratto di lavoro, e c'è una netta discrepanza tra chi è salariato nelle imprese e chi è un salariato domestico, o tra coloro che lavorano a tempo pieno e quelli che vengono «sottoutilizzati», e quindi non lavorano sufficientemente. Se si tiene conto della dimensione razziale e di quella di genere, la disoccupazione tra i «pretos e pardos» [i neri e i marroni] è superiore al 50%, e gli uomini bianchi percepiscono, in media, quasi il 30% in più di quanto guadagnano le donne e i neri. Per non parlare di quegli strati di reddito in cui la stragrande maggioranza percepisce addirittura un salario minimo, mentre allo stesso tempo ci sono alcuni (pochi) che guadagnano 50 mila reali [8.500 €] netti al mese. Tutto ciò si verifica nel contesto della medesima condizione salariale (ed è qui che la differenza di status, vale a dire, di qual è il genere di consumo, dovrebbe essere determinante per definire i comportamenti sociali).
Quando i teorici della lotta di classe sprecano inchiostro e carta sulle diatribe contro le «politiche dell'identità», fingono che le loro stesse formulazioni non siano delle mere proiezioni, e ignorano quella che è la complessità sociale: in realtà, si basano anche su una minoranza che non è altro che un residuo di una società industriale, e del lavoro, che in Brasile non si è mai pienamente realizzata; e la cosa suona ancora più ridicola nel momento in cui l'equivoco dell'«identità di classe» viene attribuita ad un'«arretratezza» tipicamente brasiliana, poiché qui si manifesta il presupposto che ritiene che esista un percorso di tappe da seguire per arrivare ad uno sviluppo capitalistico che non sarebbe stato ancora realizzato nei territori periferici, e che non avrebbe portato ancora ad una «coscienza di classe» per tutti.
Con la pandemia, l'eterogeneità della struttura sociale brasiliana diventa ancora più complessa. Il boom esplosivo di disoccupazione conferisce maggior drammaticità al quadro generale, ma occorre considerare la differenza quotidiana tra coloro i quali si trovano in cassa integrazione, senza sapere se la settimana successiva avranno ancora un lavoro, e quelli che sono stati esonerati dalle loro attività; tra chi svolge un servizio a domicilio e chi può fare il telelavoro. È qui che cominciano le proteste contro i «privilegiati» che possono starsene a casa, mentre quelli che lavorano nei servizi essenziali devono affrontare i rischi di contagio da parte del nuovo coronavirus. Non è un caso che il discorso cospirazionista dell'estrema destra riscuota sempre più successo: di fronte a quello che è il discorso astratto classista, la denuncia dei «privilegi» dei servizi pubblici (anche se la grande maggioranza dei dipendenti statali percepisce il salario minimo) appare più realistica di quanto lo sia la critica ai «grandi baroni» borghesi; il 70% dei salariati brasiliani lavora in piccole imprese. È ovvio che in Brasile, i centri decisionali dell'economia e della politica siano negli uffici delle grandi imprese che impiegano migliaia di persone, ma la realtà quotidiana di tutto questo è inaccessibile alla grande massa dei brasiliani.
In un contesto di disgregazione sociale come il nostro, non è solo il discorso classista a sembrare totalmente al di fuori della realtà. Anche la lotta politica per i diritti sembra che abbia raggiunto il suo limite, e da questo ne deriva sempre più l'identificazione popolare dei diritti con i privilegi. Per la maggior parte della popolazione brasiliana, i diritti economici o sociali, ormai non esistono più da tempo, ecco perché oggi è facile che venga mobilitato quello che è il diffuso odio neofascista contro coloro che ancora li possiedono. A causa della frammentazione sociale, il conflitto di classe è ormai imploso da tempo, e questo ha portato al diffondersi del conflitto a vari livelli, ovunque e di ogni tipo, in una società  che è sempre più informe. Questi sono i sintomi distruttivi della società del lavoro che è al collasso, dove a livello centrale il rapporto di lavoro ormai non esiste più  ed è sempre più residuale, e laddove ancora appare non ha più alcun supporto legale. Saper comprendere questo processo di crisi costituisce il primo passo per poter riformulare una critica radicale che sappia implicare anche una trasformazione sociale.

- Maurilio Lima Botelho - Pubblicato il 25/5/2020 su  Ensaios E Textos Libertarios -

sabato 30 maggio 2020

Malfattori!!

Fine Ottocento. Una storia che si dipana tra Pisa, Milano, Lugano, Livorno, Rosignano, l’Isola d’Elba, ma anche l’America, sulle tracce di una celebre canzone che dà il titolo al libro, e del suo autore, Pietro Gori: un avvocato, un poeta, un anarchico «socialmente pericoloso», che si trova a vivere una delle stagioni più tormentate della nazione. Un’epoca in cui l’antropologia criminale di Cesare Lombroso – col consenso di psichiatri, giuristi e funzionari di polizia – aveva il compito di costruire una sistematica rete di controllo per ogni tipo di devianza, anche la devianza politica. E soprattutto quella che proclamava patria «il mondo intero» e unica legge la libertà.
«Il libro prende spunto da questa canzone e dall’immagine che gli fa da sfondo: una fredda e nevosa sera d’inverno a Lugano, dove s’intravede in strada un drappello di uomini ammanettati e avvolti nei loro mantelli neri che procedono in fila, stretti l’uno all’altro, a passo spedito. Ad accompagnarli c’è un gruppo di agenti di polizia. Il loro compito è di scortarli fino alla stazione ferroviaria, e da lì controllare che salgano sul treno diretto a nord, a Basilea, al confine con la frontiera tedesca. E che nessuno di loro abbia la malaugurata idea di tornare indietro. Arrestati e sbattuti in carcere come malfattori, su di loro pende come unica accusa quella di essere potenzialmente sovversivi, quindi indesiderabili: una minaccia per la vita ordinata e tranquilla della città. Sono italiani, in gran parte giovani, dei quali non resteranno che un nome e un cognome, senza anima né corpo. Tranne di uno, nato a Messina ma da padre e madre toscani, che da alcuni anni è personalità di rilievo, non ancora trentenne ma già segnalato per la sua pericolosità di agitatore nei dispacci delle prefetture d’Italia e Francia. È Pietro Gori, anarchico, conferenziere di grido, dirigente politico ma anche poeta e drammaturgo, penalista e sociologo. Ed è proprio mentre è rinchiuso nelle carceri ticinesi, alla fine di gennaio del 1895, che compone una delle sue canzoni più celebri: Il canto degli anarchici espulsi, meglio nota come Addio Lugano bella».

(dal risvolto di copertina di: Massimo Bucciantini, "Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani". Einaudi)

L'anarchia a suon di musica
- Storia e retroscena della famosa "Addio Lugano bella" -
- di Massimo Bucciantini -

In via Luigi Lavizzari, a Lugano, è raffigurato un uomo in bicicletta. Te lo trovi di fronte all'improvviso, grande e grosso, in gilet, pantaloni e cappello neri, su una bici piccola piccola. Con la mano sinistra poggiata sul manubrio e l'altra che tiene tra le dita una sigaretta accesa, Pietro è intento a pedalare. Ma la luce che fuoriesce dai fanali non illumina la strada. È un raggio di colore rosso che segue una strana traiettoria ondulatoria che finisce per accecarlo. Il ciclista se ne sta andando, sta lasciando la città, ma il suo cammino è cieco. Ovviamente, quel Pietro non è un Pietro qualunque. Anche dalla sua fisionomia, la somiglianza appare subito evidente. Nonostante Agostino Iacurci - l'artista foggiano che nel 2012 lo ha dipinto - preferisca non rivelare troppi dettagli, alla fine, è costretto ad ammettere che in «Pietro non torna indietro c'è Pietro Gori», l'autore di "Addio Lugano bella".
Cantata fin dai primi del Novecento, è stata riscoperta nel secondo Dopoguerra, tanto da diventare uno dei pezzi più noti del repertorio di tanti cantautori nostrani. Per rendersene conto è sufficiente scorrere la voce in Wikipedia, che comprende un elenco delle incisioni e interpretazioni più famose: da Giovanna Marini e Francesco De Gregori a Daniele Sepe, da Caterina Bueno a Maria Carte, da Milva ai 99 Posse a Vinicio Capossela, e una notissima canzone di Ivan Graziani, dove viene citata. Da non perdere poi il video vintage di cinque distintissimi signori in abito scuro, giacca e cravatta, che comodamente seduti su divani e poltrone e accompagnati dalle loro chitarre intonano quei versi rivoluzionari. Al centro della scena si riconosce un Giorgio Gaber giovanissimo, e accanto a lui un quasi irriconoscibile Enzo Jannacci, insieme a Lino Toffolo, Otello Profazio e Silverio Pisu. Erano i primi anni Sessanta, quando i cantautori non si chiamavano ancora cantautori e quando la canzone di protesta non era ancora diventata di moda. Poco meno di un decennio più tardi sarà uno dei protagonisti di quella felice stagione musicale a richiamarne stilemi e moduli. E lo avrebbe fatto cantando le gesta di un macchinista ferroviere che tutti i giorni vedeva passare per la sua stazione «un treno di lusso», «un treno pieno di signori». La locomotiva è stata scritta «alla maniera di Pietro Gori», ha detto Francesco Guccini, rendendo così omaggio all'autore di "Addio Lugano bella". E non gli occorse molto tempo. In poco più di mezz'ora il testo era già pronto.
Il libro prende spunto da questa canzone e dall'immagine che gli fa da sfondo: una fredda e nevosa sera d'inverno a Lugano, dove si intravvede in strada un drappello di uomini ammanettati e avvolti nei loro mantelli neri che procedono in fila, stretti l'uno all'altro, a passo spedito. Ad accompagnarli c'è un gruppo di agenti di polizia. Il loro compito è di scortarli fino alla stazione ferroviaria, e da lì controllare che salgano sul treno diretto a Nord, a Basilea, al confine con la frontiera tedesca. E che nessuno di loro abbia la malaugurata intenzione di tornare indietro. Arrestati e sbattuti in carcere come malfattori, su di loro pende come unica accusa quella di essere potenzialmente sovversivi, quindi indesiderabili: una minaccia per la vita ordinata e tranquilla della città. Sono italiani, in gran parte giovani, dei quali non resterà che un nome e un cognome, senza anima né corpo. Tranne di uno, nato a Messina ma da padre e madre toscani, che da alcuni anni è personalità di rilievo, non ancora trentenne ma già segnalato per la sua pericolosità di agitatore nei dispacci delle prefetture d'Italia e Francia. È Pietro Gori, anarchico, conferenziere di grido, dirigente politico ma anche poeta e drammaturgo, penalista e sociologo. Ed è proprio mentre è rinchiuso nelle carceri ticinesi, alla fine di gennaio del 1895, che compone una delle sue canzoni più celebri: "Il canto degli anarchici espulsi", meglio nota come "Addio Lugano bella".
Il libro narra le vicende della sua vita, che condussero alla creazione di quella canzone, e al tempo stesso intendono ricostruire una delle stagioni più tormentate e drammatiche della nazione. Inseguire le storie di una generazione di intransigenti in un periodo segnato da una grave crisi economica e da forti conflitti sociali, da scioperi e scontri di piazza, da attentati terroristici e leggi liberticide, sarà un degli scopi di questo lavoro. Ed è anche un modo per tornare a riflettere sulle passioni che li animavano, così come sulle loro illusioni e sconfitte. Ma c'è dell'altro. A un certo punto il lettore forse si sorprenderà di incontrare vite che a prima vista sembrano appartenere a mondi separati - quello della politica e quello della scienza - ma che invece, a ben guardare, finiscono per lambirsi e a volte, come in questo caso, incrociarsi.
Già all'indomani dell'Unità i governi del nascente Stato italiano si erano dati il compito di tracciare nuovi confini tra legalità e sovversione. E non potevano certo assomigliare a quelli assai mobili e incerti presenti durante la lotta per l'indipendenza contro la nemica Austria o quelli dell'epoca garibaldina. Il motivo è semplice: il quadro da allora era cambiato radicalmente. Un nuovo ordine si stava costruendo. Zone di turbolenza e di degenerazione non erano più tollerate, tanto da mettere a rischio le normali regole della convivenza civile e da essere da ostacolo alla fondazione della nazione. All'interno di queste nuove coordinate, spettò a una nuova scienza delineare altre linee di demarcazione. Una scienza - e va subito detto - che non si dimostrò tale, fondata da scienziati che alla fine si rivelarono anch'essi pericolosi perché costruttori di stereotipi di successo più che di teorie scientifiche provate sperimentalmente. Ma che a lungo esercitarono un grande fascino. Per la loro capacità di segnare frontiere invalicabili tra comportamenti giudicati conformi ai nuovi vincoli giuridici e sociali e modi di agire e di pensare ritenuti eccentrici e manifestatamente assurdi. Per la loro capacità di separare biologicamente i buoni dai cattivi, i delinquenti nati o d’occasione, i ribelli fanatici, i pazzi, i semipazzi da uomini e donne dalla condotta morale e sociale segnata da abitudini, tendenze, passioni, pensieri comunemente accettati.
L'antropologia criminale di Cesare Lombroso e della sua «eletta» scuola di medici, psichiatri, giuristi, sociologi ebbe il compito di disegnare queste barriere difensive. Molte di queste vennero fatte proprie da una fitta schiera di governanti e funzionari dello Stato, di magistrati, prefetti, questori che si prodigò a costruire una sistematica rete di controllo e di repressione per ogni tipo di devianza. Rispetto alla parte della società abitata da menti e comportamenti normalmente organizzati, la nuova scienza lombrosiana si occupò dell'altra parte, della società malata, catalogando e classificando un vastissimo campionario delle umane degenerazioni. O considerate tali. Tra le quali rientrò anche il «morbo» anarchico, che colpiva i «malfattori» di nuovo conio, i refrattari ai valori attorno a cui la società borghese stava prendendo forma e che trovavano nelle idee di una rivoluzione sociale il loro nutrimento e la loro ragione di esistere. Sono loro i nuovi barbari, come vennero chiamati. Socialmente pericolosi, com'era appunto Pietro Gori, il cui nome finirà in un album fotografico di oltre duecento anarchici ricercati in tutti i Paesi d'Europa: un antagonista dell'ordine costituito, un ribelle irriducibile e sentimentale che in tutta la sua vita non si accontentò mai del «cattivo presente».

- Massimo Bucciantini - Pubblicato sul Sole del 24/5/2020 -

giovedì 28 maggio 2020

Non essere, è meglio che essere !!

Poeta dotto, che riassume la tradizione elegiaca latina, che si colloca all’insegna di Boezio, e che ha assimilato la cultura biblica e cristiana al punto di utilizzarne espressioni e frasi, Massimiano «recepisce e interiorizza il cosiddetto “pessimismo greco”, che trova la sua espressione nelle parole del satiro Sileno, secondo il quale la cosa migliore per l’uomo è non essere nato e, una volta nato, morire presto. Il non essere è l’unico modo per sottrarsi all’infelicità che appartiene all’essere, anche e soprattutto nella vecchiaia, l’esperienza più tragica della vita». Se le figure femminili – Licoride, Aquilina, Candida e la Graia puella – si situano al centro delle Elegie, è Senectus la vera donna alla quale Massimiano soggiace come un amante alla propria Dama. Realista a oltranza, egli non rifugge dalle immagini più forti e più crude. Scrittore latino nell’Italia ostrogota del VI secolo, Massimiano è il poeta della senescenza: dell’uomo e dell’intero mondo antico. Fra le ultime voci del paganesimo latino, Massimiano (omonimo dell'imperatore) visse nel VI secolo d.C. ma le poche notizie biografiche su di lui provengono dalla sua stessa opera: sei elegie che sono state a lungo attribuite a Cornelio Gallo, amico di Virgilio. Tra le ipotesi ora accreditate, c'è quella che dice che Massimiano fosse amico del filosofo Boezio (l'autore del «De consolatione philosophiae») e che venne inviato come ambasciatore alla corte di Giustiniano per rinegoziare i patti tra Roma e Costantinopoli). Le sei elegie, di argomento erotico, sono ispirate alla tradizione elegiaca augustea.

(dal risvolto di copertina di: Massimiano, "Elegie". Oscar Mondadori)

L'incontro con la "Graia puella" diventa un funerale all'eros che fu
- Divertente e cinico, il poeta latino scrisse sei elegie sui "dolori" degli anziani: corti d'udito, raccontano storie noiosissime, fanno cilecca con le fanciulle -
di Giorgio Ieranò

Massimiano, chi era costui? Se il nome di questo poeta latino vissuto nel VI secolo dopo Cristo vi suona oscuro, non preoccupatevi. Massimiano è un rebus anche per gli studiosi che, ogni tanto, dubitano persino della sua esistenza e s'interrogano da sempre sull'interpretazione delle sei elegie che ci sono state trasmesse sotto il suo nome. Eppure Massimiano è un poeta che vale la pena leggere. Perché nella sua opera c'è il distillato, raffinatissimo, di secoli di poesia antica. C'è l'eco delle voci dei lirici greci, di Orazio, di Ovidio: un eco che risuona ancora in anni in cui tutto il vecchio mondo della civiltà pagana è ormai crollato e sul trono di Roma siede l'ostrogoto Teodorico. Due sono i temi di Massimiano: l'eros e la vecchiaia. Perché questo poeta impertinente, scanzonato e cinico dà il meglio di sé quando racconta, per esempio, la défaillances di un anziano che si ritrova a letto con una giovane disinibita, disavventure così grandiosamente comiche da diventare persino epiche. Ma, al tempo stesso, l'ombra di questo ironico cantore degli amori senili fa capolino dietro i grandi classici della poesia italiana. Per esempio, il celebre inizio di un sonetto di Ugo Foscolo, «Non son qual fui, perì di noi gran parte», è la traduzione letterale di un verso di Massimiano. E, forse, anche l'altrettanto celebre «negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi» della Silvia leopardiana è la parafrasi di un passo delle Elegie. Il paradosso è che né Foscolo né Leopardi sapevano di citare Massimiano. La figura del poeta si era eclissata a tal punto che anche le sue Elegie furono a lungo trasmesse sotto il nome di un altro autore, Cornelio Gallo, amico di Virgilio. L'occasione per riscoprire Massimiano ce la offre ora la Fondazione Valla che pubblica, nella sua collana di classici, un'edizione delle Elegie curata da Emanuele Riccardo D'Amanti. Secondo il quale, le pur scarne informazioni autobiografiche offerte da Massimiano nella sua opera sono attendibili. E, dunque, questo poeta così irriverente fu davvero amico di un pensatore austero come Boezio, l'autore della Consolazione della filosofia. E davvero fu inviato come ambasciatore alla corte di Giustiniano per trattare importanti questioni politiche relative ai rapporti tra Roma e Costantinopoli. Ma, nota giustamente D'Amanti, nella poesia antica il discrimine tra realtà biografica e invenzione letteraria è sempre sottile. E per noi la cosa interessante resta pur sempre la trasfigurazione poetica di queste più o meno realistiche vicende. L'ambasceria a Costantinopoli, per esempio, produce l'irresistibile narrazione sull'incontro erotico con la «ragazza greca» (Graia puella) che seduce il malcapitato poeta. Massimiano si descrive come un novello Ulisse irretito dalle Sirene. La ragazza lo incanta: «Ardevano i miei occhi per il suo seno eretto e sodo / e tale che, serrato, poteva esser racchiuso da una mano». L'età avanzata, però, non gli permette di essere all'altezza della situazione. E qui la ragazza si abbandona ad un vero e proprio inno funebre alla mentula, una lamentazione rituale sull'organo maschile ormai inerte, immaginato come un caro estinto: «Ma quando constatò la morte dell'amato membro / e vide che l'oggetto di sue cure, quasi salma esposta, non sorgeva, / si leva e sul vedovo letto sdraiandosi straziata / con queste parole allevia il lutto e il danno: / "Verga, solerte officiante di festosi giorni, / un tempo mia delizia e mio tesoro, / con quale flutto di lacrime potrei piangerti ora che sei abbattuta?"». Il lamento ha una sua cosmica grandiosità: la scarsa vitalità della mentula diventa addirittura simbolo di un disordine universale, di un generale chaos, come scrive il poeta. Massimiano descrive la vecchiaia come una malattia, indugiando sui suoi sintomi fisici e psicologici. L'anziano è ormai corto di udito, sui suoi occhi «grava la nebbia», nella sua mente «s'insinua l'oblio». «Loda gli anni passati, disprezza quelli attuali» e ammorba tutti con i suoi racconti: «Narrando molte storie, anche se non vuoi, e sempre le stesse ripetendo / suscita spavento e condisce le chiacchiere di sputi». Un realismo quasi comico che riprende motivi antichissimi: si può risalire alla Grecia arcaica e ai lamenti del poeta Mimnermo sulla «vecchiaia dolorosa», che rende l'uomo triste e brutto, disprezzato dai ragazzi e deriso dalle donne. Temi tradizionali, dunque. Ma non per questo Massimiano è meno originale. Perché, come scrive D'Amanti, «per la prima volta l'amore viene osservato dal punto di vista di un vecchio sfiduciato e depresso, che esperisce la morte in vita e vive in esilio dalla vita». Massimiano è, insomma, il primo che ci fa una cronaca dall'interno degli amori senili. Traducendoli in un diario poetico in cui la descrizione realistica, crudele grottesca, dei mali della vecchiaia si intreccia con la nostalgia della giovinezza lontana e con l'angoscia del tempo perduto. E regalandoci così, con il suo malinconico divertimento, con la sua oscena tristezza, una riflessione potente e sempre valida sulla sorte effimera degli umani.

- Giorgio Ieranò - Pubblicato su Tuttolibri del 23/5/2020 -

mercoledì 27 maggio 2020

Dottori in niente

Un altro libro su Debord, il "naufragatore", si dirà. E non si può certo dire che qui si sia "teneri" con i libri su Debord! Ma Afshin Kaveh [*] ha dimostrato, e non solo in questo libro, di aver compreso quale fosse il suggerimento (ché dire qui «insegnamento» susciterebbe di certo una giusta ilarità) di Debord, per cui « fu tracciato il programma che meglio poteva colpire di suspicione completa l’insieme della vita sociale: classi e specializzazioni, lavoro e divertimento, merce e urbanismo, ideologia e Stato, noi  abbiamo dimostrato che tutto era da buttare. E un simile programma non conteneva nessun’altra promessa che quella di un’autonomia senza freni e senza regole. (...) Esisteva sì allora qualche  individuo che si trovava d’accordo con maggiore e minor conseguenza, sull’una o sull’altra di queste critiche, ma per riconoscerle tutte non c’era nessuno; e tanto meno per saperle formulare, e  aggiornare. È per questo che nessun altro tentativo rivoluzionario di questo periodo ha avuto la minima influenza sulla trasformazione del mondo».  Credo sia il motivo per cui, in un periodo come questo, in cui non abbiamo «girato in tondo nella notte», né siamo stati «consumati dal fuoco», vale la pena accostarsi ancora ad un ulteriore lettura di Guy Debord fatta di chi, come Afshin, non abbia gli occhi foderati del «nostro prosciutto», per così dire.

Il libro
« Autodefinitosi ‘stratega’ e ‘dottore in niente’, Guy Debord (1931-1994), tra i fondatori dell’Internazionale Lettrista, dell’Internazionale Situazionista e autore de “La società dello spettacolo”, ha irreversibilmente segnato una tappa fondamentale della critica radicale nel pensiero moderno. Afshin Kaveh cede al pubblico nostrano una monografia che, non solo smentisce una serie di errori biografici presenti in tutte le edizioni italiane a lui dedicate, ma restituisce alla figura di Debord la sua giusta carica rivoluzionaria. »

[*] - Afshin Kaveh, attivista antispecista, ecologista radicale, saggista autodidatta (seppur preferisca la definizione di ‘illetterato’), musicista attivo nella scena hardcore punk e nel movimento straight edge. Nato a Sassari nel 1994 da madre sarda e padre iraniano. Autore di “Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga” (Sensibili alle foglie, 2017) oltre che di articoli e contributi per diverse pubblicazioni e riviste, tra cui L’urlo della Terra, Paginauno e Punto della Situazione.

(dalle note di copertina di: "Le ceneri di Guy Debord", Afshin Kaveh. Catartica.)


  Nella biografia di un «dottore in niente» dedito alle imprese smisurate
- di Alberto Giovanni Biuso -

Il «pensiero furiosamente variegato» di Guy Debord sembra inseparabile dalla sua persona, altrettanto molteplice, disseminata, estrema. Afshin Kaveh gli ha dedicato un libro dal titolo Le ceneri di Guy Debord (Catartica, pp. 164, euro 14) in cui compare in modo plurale.
«Il più grande avventuriero della nostra epoca», capace di crearsi avventure e non semplicemente viverle. Un «accanito e appassionato lettore» in grado di metabolizzare tutto ciò che leggeva in una costante pratica o di disprezzo o di détournement, di deviazione, trasformazione, inglobamento, metamorfosi dentro la propria scrittura ed esistenza. Uno stratega «della rivoluzione, della sovversione, in cui la definizione di strategia è il regno della sorpresa e dell’imprevisto». Un «dottore in niente», avverso all’accademia, all’università, a ogni istituzione culturale.
Un «burattinaio egocentrico», secondo l’accusa che gli rivolsero i situazionisti di Strasburgo quando furono espulsi dall’organizzazione, come accadde a numerosi altri che vennero cacciati prima dall’Internazionale Lettrista e poi da quella Situazionista, tanto che nel periodo dal 1957 al 1969 «fecero parte dell’Internazionale Situazionista 70 persone in tutto – le donne furono sette soltanto – di cui 45 furono escluse e 19 si dimisero».
Debord fu soprattutto un «teppista delle situazioni» che costruiva ambienti momentanei di vita dentro i quali avveniva la metamorfosi dell’esistenza individuale e collettiva, trasformata «in una qualità passionale superiore».
Ambienti e situazioni non escludenti nessuna circostanza, luogo, funzione, istituzione. Strutture dentro le quali il teppistaggio diventa per Debord un modo d’essere, divertirsi, immergersi nel nichilismo consapevole delle risse, dell’alcol, della violenza e nella lucidità strategica della loro trasformazione in azioni irrecuperabili da qualunque polizia, gerarchia, ideologia, dottrina, arte, rappresentazione.
Se quest’uomo/opera contribuì in modo determinante all’inizio e alla tensione del Maggio francese, si pronunciò assai presto contro la sostanza autoritaria e insieme imbelle del Movimento, contro il suo precoce diventare «moda». Legato soltanto alla radicalità del proprio sguardo/azione, Debord riconobbe «l’esaurimento irreversibile del proletariato, del classico movimento operaio o dei movimenti di liberazione terzomondisti» e il dominio dello spettacolare, prima nelle due forme dello Spettacolare diffuso (capitalista-occidentale) e concentrato (burocratico-sovietico), poi convergenti nello spettacolare integrato «ormai imbattibile e penetrato in ogni dove, in ogni spazio, in ogni angolo, dilatazione oggi sempre più manifesta soprattutto negli attuali rapporti sociali di consumo e produzione della realtà digitalizzata e virtuale».
È anche a causa dell’attuale dominio della sostanza spettacolare che Debord può apparire un visionario e «un insolitamente piacevole e armonioso disco rotto», risuonante la canzone di una rivoluzione necessaria e impossibile. Di se stesso Debord disse infatti: «Bisogna dunque ammettere che non c’erano né successo né fallimento per Guy Debord e per le sue imprese smisurate».
Questo avventuriero, lettore, stratega, egocentrico, teppista, è diventato a pochi anni dalla morte (1994) un classico. Sì proprio un autore ufficialmente definito dal governo francese tra i più grandi del suo tempo e il cui archivio personale venne acquistato dallo Stato nel 2010 per la cifra di 2,7 milioni di euro, versati alla vedova Alice Becker-Ho.
Una classicizzazione che sembra confermare il titolo-palindromo di uno dei suoi film: In girum imus nocte et consumimur igni, «‘Giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco’. Che altro si potrebbe aggiungere?» si chiede Kaveh a chiusura del suo libro. Solo questo, forse: si tratta in ogni caso di un fuoco che dà luce.

- Alberto Giovanni Biuso  - Pubblicato sul Manifesto del 26/5/2020 -

martedì 26 maggio 2020

Il « vagabondo delle stelle »

Indio: il Chilometro Zero di Cesare Battisti

Cananéia, nel sud del Brasile. È qui che, serpeggiando tra le isole ricoperte di mangrovie, la laguna contende il suo territorio all'Oceano Atlantico. È qui, lontano dalla frenesia della capitale, che i pescatori cercano di sopravvivere. E è qui che, a volte, si muore. Come è successo a Indio Pessoa, trovato annegato al largo, nella baia. Quest'uomo, era appena arrivato da São Paulo, con le sue valigie. Nella sua stanza d'albergo, sono state ritrovate delle misteriose note su un certo Bacharel, il fondatore di questa che era stata la prima città del Brasile, e che la storia ufficiale sembra avere cancellato... Che cosa era venuto a cercare qui Indio? È questo, ciò che uno dei suoi amici cercherà di scoprire, e sarà ben presto superato dagli eventi, rendendosi conto che il soprannome di Cananéia - «Chilometro Zero» - non è affatto usurpato. Romanzo noir e d'avventura, "Indio" è una radiosa dichiarazione d'amore alla libertà; un storia appassionate sulla riconquista di un ricordo rubato.

(dal risvolto di copertina di: "Indio", di Cesare Battisti. Seuil. Cadre noir. Pubblicazione 28/5/2020 )

Non torneremo qui sui 37 anni della fuga di Cesare Battisti, sulle ignominiose condizioni di quello che è stato il suo sequestro extra-giudiziale in Bolivia, e neppure sul rinvio della pubblicazione del suo ultimo romanzo. Ora il libro è stato pubblicato, sarà nelle librerie il prossimo giovedì, e "Indio" dimostra ancora una volta che abbiamo a che fare con chi è anche un romanziere di grande talento: oggi, affermarlo, contro i suoi detrattori provenienti da ambiti diversi e contro i suoi persecutori statali e mediatici, assume un significato immediatamente politico.
Indio Pessoa è un personaggio misterioso che, lo stesso giorno in cui lo incontra a San Paulo, confida al suo narratore che intende percorrere quei 350 chilometri che lo separano da Cananéia, il chilometro zero delle strade brasiliane. Ed è in quella città costiera che si trova all'estremo sud del Brasile, un lungo isolotto, incastonato tra mangrovie e lagune, che Indio verrà trovato annegato. Incidente? Delitto? La sua scomparsa è forse legata alle ricerche che stava conducendo per dimostrare che il Brasile non sarebbe stato scoperto dai portoghesi, bensì da un pirata ottomano e da uno studioso ebreo, vale a dire, Barberousse e Cosme Fernandes? Oppure all'esistenza di un galeone carico d'oro affondato da quelle parti?
Tra realismo magico sudamericano e romanzo nero all'italiana (con un buon pizzico di gastronomia), tra romanzo storico e viaggio onirico, Battisti ci consegna un romanzo d'avventura che vuole «dare la parola al popolo indio, sempre perseguitato e massacrato nelle proprie terre. E raccontare così anche le ingiustizie inflitte alla generosa comunità di pescatori di Cananéia, che resiste contro la nera ondata di imprenditori senza scrupoli che vorrebbe cancellare da questo mondo qualsiasi umanità».

- Serge Quadruppani - Pubblicato su Lundimatin il 25/5/2020 -

Bonus: partecipare al libro di Cesare Battisti!

In esclusiva per i lettori di Lundimatin, un progetto che potrebbe rivelarsi molto stimolante: aiutare Cesare a scrivere il suo prossimo romanzo. Laddove si trova - alla fine gli è stato concesso di parlare, via Skype, con il figlio brasiliano, ma solo per un quarto d'ora a settimana: «perché soltanto un quarto d'ora», ha chiesto. «Perché sei tu!», gli è stato risposto - continua a non poter vedere nessuno, tranne i suoi guardiani e, sorprendentemente, non ha accesso a Internet. Tuttavia, adesso ha un progetto ambizioso che si muove sulle tracce di due suoi personaggi: Kahled, originario di Rojava, e Zahra, sudanese in fuga dall'Isis, in viaggio dal Nordest della Siria fino in Puglia, passando per il Libano, il Sudan, la Libia... Ragion per cui, Cesare ha bisogno di documentazione.

Ecco le sue richieste:
- Rojava: delle mappe, soprattutto della zona al confine con la Turchia, per poter collocare il villaggio dove è nato Khaled; informazioni sulla vita culturale, sull'abbigliamento, il cibo. Khaled è un animatore, e quello di cui ci sarebbe bisogno è un progetto culturale realizzato dai curdi. Immagini, foto di luoghi e di persone (montagne, pianure, fiumi, laghi); la cosa migliore sarebbero delle testimonianze di persone che hanno percorso queste strade; sa che esiste un percorso migratorio verso il Libano: esistono campi profughi? ci sono informazioni generali su questo? Ha bisogno anche di nomi e cognomi curdi, sia maschili che femminili.
- Libano: stessa cosa: mappe, abbigliamento, cibi, una città sulla costa con una mappa dettagliata, da dove ci si può imbarcare per l'Africa (ha letto qualcosa a riguardo); gli itinerari, i campi, fotografie, nomi e cognomi libanesi.
Sudan e Libia: lo stesso genere di informazioni, mappe, ecc. Ha bisogno di una città sudanese dove inserire i due personaggi principali, con un ospedale dove poter ambientare il parto di Zahra. Ha bisogno di una mappa di una città del genere insieme a delle informazioni sugli edifici pubblici. La cosa migliore sarebbe, come sempre, avere delle storie e delle testimonianze... Sa che in Sudan esiste una versione di Al Qaeda, e gli occorre sapere il suo nome ed alcuni dettagli. E anche i nomi propri delle persone. Per la Libia, ha già del materiale, ma gli mancano informazioni sulla milizia nazista «Alba Dorata» che massacra i migranti.

Mandate il materiale a Lundimatin, che lo inoltrerà.

fonte: Lundimatin

lunedì 25 maggio 2020

Chi ha paura di Giorgio Agamben ?!?

Mai come in questo momento, connotato da una minaccia sempre più pressante e diffusa, la richiesta di immunizzazione sembra caratterizzare tutti gli aspetti della nostra esistenza. Quanto più si sente esposta al rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei, tanto più la vita dell’individuo e della società si chiude all’interno dei propri confini protettivi. Tuttavia, questa opzione immunitaria ha un prezzo assai alto: come il corpo individuale, anche quello collettivo può essere «vaccinato» dal male che lo insidia soltanto attraverso la sua immissione preventiva e controllata. Ciò vuol dire che, per sfuggire alla presa della morte, la vita è costretta a incorporarne il principio. A sacrificare la «forma» del vivente alla sua semplice sopravvivenza biologica. Ormai questo meccanismo dialettico tra conservazione e negazione della vita sembra pervenuto a un punto limite: al di là del quale si apre la drammatica alternativa tra un esito autodistruttivo e una possibilità ancora inedita che ha al centro un nuovo pensiero della comunità.

(dal risvolto di copertina di: Roberto Esposito, "Immunitas". Einaudi)

Che cosa vuole davvero dire la parola “immunità”
- di Roberto Esposito -

Dall’inizio della pandemia non si parla d’altro. Immunità personale o di gregge, naturale o indotta, temporanea o definitiva. Si aspettano test di massa per sapere se si è stati già immunizzati dal virus. Ci si chiede se il sangue di coloro che lo sono possa essere iniettato nei malati per immunizzarli a loro volta. Si aspetta di vedere, in chi è guarito, quanto duri la sua immunità – augurandosi che duri per sempre. Ma l’immunizzazione non riguarda solo la sfera medica. Anche quella sociale e politica. Cosa sono chiusura, confinamento, distanziamento se non dispositiva immunitari trasferiti dal corpo dell'individuo a quello della società? E la mascherina non è la metafora, incollata sul volto di tutti, dell'esigenza dell'immunità? Perfino l'app che molti aspettano, e che qualcuno teme, si chiama "Immuni". Cosa è, da dove nasce, dove ci sta portando questa sindrome immunitaria che sembra unificare tutti i linguaggi del nostro tempo?
Per rispondere a tali domande bisogna arretrare lo sguardo a qualcosa che ci precede di molto, segnando profondamente quella che siamo abituati a chiamare modernità. Che può anche essere intesa come un lungo processo di immunizzazione dai conflitti e dai pericoli che caratterizzavano le comunità precedenti. Se si presta attenzione all'etimologia latina della parola, del resto, ci si accorge che immunitas è il contrario di communitas. Entrambe derivano dal termine munus, che significa ufficio, obbligo, dono nei confronti degli altri. Ma mentre i membri della communitas sono uniti da questo vincolo di donazione reciproca, chi è immune ne è esonerato. E dunque protetto dal rischio che ogni relazione sociale comporta nei confronti dell'identità personale. È così sul piano giuridico-politico, in cui l'immunità diplomatica o parlamentare esautora dagli obblighi della legge comune. Ed è così sul piano medico-biologico, in cui l'immunizzazione, naturale o acquisita, protegge dal rischio di contrarre la malattia. A un certo punto questa esigenza protettiva - che ha al centro la conservazione della vita - si generalizza a tutto il corpo sociale. Lo stesso Stato, come il sistema giuridico, sono dei grandi apparati di immunizzazione dai conflitti che minacciano l'esistenza della comunità. Questa esigenza è dunque tutt'altro che recente. Ciò non toglie che si sia fatta sempre più urgente, per toccare l'apice nel nostro tempo.
Globalizzazione, immigrazione, terrorismo - eventi molto diversi tra loro - potenziano al massimo l'ansia di immunizzazione delle società contemporanee, modificando alla radice i nostri comportamenti. Si pensi, per passare a un altro ambito, agli ingenti, e spesso inutili, sforzi volti a proteggere i sistemi informatici dai virus che li insidiano. O anche alle compagnie di assicurazione, che da sempre lavorano sull'immunizzazione dal rischio. Naturalmente la pandemia porta all'estremo questo bisogno immunitario, facendone l'epicentro reale e simbolico della nostra esperienza.
Mai come oggi - sotto l'attacco del coronavirus - il paradigma immunitario è divenuto  la chiave di volta del sistema, il perno introno al quale sembra ruotare l'intera esistenza. Da qualsiasi lato - biologico, sociale, politico - si interroghi la nostra vita, l'imperativo resta lo stesso: prevenire il contagio ovunque si annidi. Naturalmente si tratta di un'esigenza reale.
Mai come oggi - in attesa del vaccino, cioè di una immunità indotta - l'immunizzazione per distanziamento è l'unica linea di resistenza dietro alla quale ci si può, e ci si deve, asserragliare. Almeno fin quando la minaccia non si allenti. Come nessun corpo individuale, così nessun corpo sociale potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario. Ma non va ignorato il punto limite oltre il quale questo meccanismo può funzionare senza produrre guasti irreparabili. Non solo sul piano economico. Ma su quello antropologico.
L'immunità è una protezione, ma una protezione negativa  - che ci allontana dal male maggiore attraverso un male minore. La stessa vaccinazione - speriamo arrivi al più presto - protegge immettendo nel nostro corpo un frammento, controllato e sostenibile, del male da cui si vuole difendere. Del resto il termine greco "farmaco" significa al contempo medicina e veleno. Ciò vale anche sul piano sociale. Tutto sta a rispettare le proporzioni - il delicato equilibrio tra comunità e immunità. La chiusura è necessaria. Ma fino al punto in cui la negazione non prevalga sulla protezione, minando lo stesso corpo che dovrebbe difendere. È quanto accade nelle malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario cresce al punto di autodistruggersi. Attenzione - questa soglia potrebbe non essere lontana. Oggi, sotto la pressione del virus, l'unico modo delle nostre società di salvarsi passa per la desocializzazione. E anche per il sacrificio di alcune libertà personali. Ma fino a quando ciò è possibile senza smarrire il significato più intenso della nostra esistenza, che è la vita di relazione? La stessa immunità che serve a salvare la vita potrebbe svuotarla di senso, sacrificando alla sopravvivenza ogni forma di vita.

- Roberto Esposito - Pubblicato su Robinson del 23 maggio 2020 -

I Capitalismi!

“La difesa è molto più importante della ricchezza”. Adam Smith segna così i confini dell’economia politica, nel momento della sua nascita. Anche oggi il mercato ha il suo unico limite nella sicurezza nazionale, dominio arcano dei grandi contendenti dell’arena globale, gli Stati Uniti e la Cina. Le due potenze fondono l’ambito economico e quello politico, attraverso le decisioni del Partito comunista cinese e degli apparati di difesa e sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Pechino e Washington vivono un acceso conflitto di geodiritto: una guerra giuridica e tecnologica combattuta attraverso sanzioni, uso politico delle istituzioni internazionali, blocchi agli investimenti esteri. Partendo dalla filosofia, Alessandro Aresu traccia un percorso chiaro che porta il lettore fino alla più recente attualità, descrivendo in dettaglio il conflitto tra diritto ed economia in atto tra Stati Uniti e Cina.

(dal risvolto di copertina di: Alessandro Aresu, "Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina", La nave di Teseo.)

Le sfide del secolo asiatico
- Scenari globali. Nella fase in cui si profila il crescente peso cinese, uno studio si interroga sulla natura del capitalismo, l’equilibrio tra libertà e sicurezza, le evoluzioni del diritto -
Mario Ricciardi

Prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2008, l’atteggiamento diffuso, tra gli osservatori liberali, era che il modello di sviluppo cinese non fosse sostenibile. Chris Patten, il politico Tory che è stato l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, richiamava a questo proposito l’autorità di Margaret Thatcher che, durante una visita in Cina, aveva affermato che non importa se si parte con la libertà economica o con quella politica, perché alla fine le due risultano inseparabili. La tesi di fondo di Patten, o di Will Hutton - autore in quella stagione di un libro sulle prospettive della Cina nel XXI secolo - era che un sistema economico capitalistico, come quello emerso dalle riforme iniziate da Deng Xiaoping, non fosse compatibile, nel medio periodo, con istituzioni politiche non liberali. La classe media che si forma in seguito all’aumento della ricchezza avrebbe prima o poi messo in discussione il sistema di governo autoritario del Partito Comunista Cinese, provocandone l’indebolimento e infine il crollo, come era avvenuto in Russia, e nei Paesi del blocco sovietico, dopo la caduta del muro di Berlino. Di qui il dilemma che si poneva alla leadership cinese: crisi o riforma? Riletti oggi, questi e altri scritti che articolavano il senso comune del liberalismo post 1989 farebbero sorridere, se le condizioni in cui si trova il mondo, in parte anche per responsabilità delle classi dirigenti liberali di diversi Paesi occidentali, non fossero così preoccupanti. Nel giro di poco meno di un decennio, gli Stati Uniti hanno dissipato una larga parte del “capitale morale” su cui poteva ancora far leva la loro pretesa di essere leader tra le democrazie oltre che la potenza egemone del mondo dopo la fine della guerra fredda. L’Europa, cui si affidava la speranza di una forma di egemonia diversa da quelle del passato, basata non sulla forza, ma sulla capacità di diffondere una cultura di diritti, tolleranza e solidarietà, ha superato con grande difficoltà la sfida della crisi finanziaria, uscendone indebolita e divisa. Ha poi gestito nel modo peggiore il problema dei migranti, lasciando che al proprio interno si rafforzassero tendenze autoritarie e persino neofasciste che sembravano consegnate per sempre alla pattumiera delle ideologie. Sta cercando, infine, una via d’uscita dalla crisi sanitaria provocata dall’epidemia di Covid-19, seguendo diverse strategie nazionali, spesso in frizione l’una con l’altra, e faticando a trovare una forte soluzione condivisa per quella economica che si prospetta nei prossimi mesi per via della chiusura di buona parte delle attività produttive e commerciali nella maggioranza dei Paesi del continente.
Nel frattempo, la Cina, che pure era stato il primo Paese colpito dall’epidemia, sta riaprendo l’area di Wuhan, cui era stato imposto uno strettissimo lockdown, e si avvia a recuperare parte del terreno perso in questi mesi sul piano economico. Forte di questo risultato, e di una posizione di sempre più larga influenza internazionale, grazie a una rete capillare di investimenti e iniziative culturali, lo “Stato-civilizzazione” cinese sfrutta con intelligenza gli spazi lasciati vuoti da Stati Uniti ed Europa. Appare sempre più evidente che quello in cui siamo entrati si avvia a essere un “secolo Asiatico” che sarà plasmato, e speriamo non devastato, dalla competizione tra potenze con aspirazioni imperiali. In particolare, la partita si giocherà tra Cina e Stati Uniti d’America.
Questo è lo sfondo su cui si colloca il libro di Alessandro Aresu, un intellettuale dal profilo peculiare per un Paese, come il nostro, che spesso è afflitto da una concezione quasi feticista dei confini disciplinari. Di formazione filosofica, ma laureatosi con un maestro del diritto commerciale, Guido Rossi, Aresu ha un percorso professionale tra istituzioni di ricerca, riviste di geopolitica e ministeri. Un profilo che si trova nelle sue eclettiche letture, che vanno dalla storia, alla politica, all’economia, ma senza mai perdere di vista il dettaglio rivelatore, si trovi esso nella biografia di un funzionario francese, in un romanzo di successo o in un paper accademico. A fare da filo conduttore al libro è il tema della varietà dei capitalismi, un classico del pensiero sociale dei primi del Novecento, da Max Weber a Werner Sombart, che sta tornando, in parte proprio per via dello “scandalo” cinese, di prepotente attualità.
In specie, ciò che interessa ad Aresu è il superamento della distinzione tra modelli teorici dell’economia e analisi sociale, e lo studio dei diversi modi in cui sia il capitalismo con “caratteristiche cinesi” sia quello statunitense hanno una specifica dimensione politica. Per questo egli recupera la felice formula weberiana del “capitalismo politico” basato sulla cooperazione, non sempre priva di problemi, tra la mano invisibile del mercato e quella visibile della potenza, da rintracciare sia negli Stati sia nelle grandi concentrazioni di potere economico in grado di influenzare, in vari modi, i decisori politici.
Uno degli aspetti più interessanti del libro di Aresu, che ha proporzioni mastodontiche, è l’abilità con cui riesce a portare alla luce i conflitti che attraversano le nostre società, che sono stati accuratamente “neutralizzati” (Carl Schmitt è uno degli autori che tornano spesso, anche se per fortuna senza i manierismi degli Schmittologi) da una politica concepita esclusivamente come amministrazione. Si tratta di tensioni che non hanno più la natura dirompente degli scontri che conosciamo dalla storia della prima Rivoluzione industriale. Non ci sono più delle Peterloo, almeno non in Europa. Ma passano piuttosto attraverso l’uso della tecnologia e di forme di controllo morbide (di cui, ironia della sorte, Chris Patten esaltava le potenzialità di liberazione nel suo libro sulla Cina, riflettendo tra l’altro sull’epidemia di Sars) che si diffonderanno inevitabilmente in seguito alla pressione irresistibile delle esigenze della produzione in un mondo sempre più vulnerabile alla diffusione rapida e su larga scala di agenti patogeni che possono rivelarsi molto aggressivi.
Alla fine non c’è un vincitore, o una filosofia della storia. Anzi, credo che il pregio del libro di Aresu sia proprio nelle domande che pone: sulla natura del capitalismo, sul futuro della democrazia, sulla vitalità della socialdemocrazia, sull’equilibrio tra libertà e sicurezza, sulle trasformazioni del diritto in un’economia globale. Ciascuna meriterebbe un approfondimento, che non si trova in un lavoro che si rivolge a un pubblico non accademico, forse a quella “classe dirigente” di cui tanto si lamenta oggi l’assenza. Sfogliandolo, chi vuole andare avanti, trova una straordinaria quantità di riferimenti, molti libri che vale la pena di leggere, come William Dalrymple sulla compagnia delle Indie o Simon Winchester su John Needham, insieme a tanti classici. Questo fa ben sperare per il futuro, perché di persone curiose e dalla mente aperta come Aresu abbiamo bisogno.

- Mario Ricciardi - Pubblicato sul Sole del 3/5/2020 -

domenica 24 maggio 2020

La marcia degli idioti


Tanto per capirci,
in questi ultimi giorni sto pensando in maniera quasi ossessiva ad un libro, e di concerto tremo all'idea che anch'io, a mia volta, mi sia potuto trasformare in un bieco complottista - chessòio, come Agamben, uno di quelli che va per la maggiore. Il libro, è un vecchio tascabile di molti anni fa, uscito su una collana di fantascienza che non esiste più, e l'autore è una sorta di Carneade dei tempi moderni che nessuno ricorda più, neanche per le sue pur pregiate collaborazioni con uno scrittore pilastro della fantascienza cosiddetta sociologica. Ma sto divagando - com'è mio solito - e non ho ancora detto né titolo né libro: "Gli idioti in marcia" (The Marching Morons), in verità un racconto lungo, scritto nel 1951 da Cyril M. Kornbluth. La trama è semplice (sono avvertiti quelli cui pungesse vaghezza di andarsi a leggere il racconto non troppo lungo: occhio allo Spoiler che sta qui di seguito) :

« Nel futuro la stragrande maggioranza della popolazione terrestre è composta da idioti, discendenti degli strati meno colti di popolazione che hanno continuato a moltiplicarsi esponenzialmente. Il pianeta va avanti solo grazie al lavoro dei pochi discendenti di un ristretto gruppo di genetisti che aveva capito la situazione e il destino verso cui l’umanità stava precipitando. Uno di questi trova per caso un uomo in stato di animazione congelata proveniente dal XX secolo che, dopo esser stato istruito circa la situazione in cui versa la Terra, propone il modo di eliminare tutti gli idioti: ucciderli facendo credere loro di andare su Venere… finché non fanno la stessa cosa anche a lui stesso. »

A scatenare questo processo mentale che mi ha portato a tirare fuori dagli scaffali della memoria un vecchio testo, per rileggermelo, è stato, ovviamente l'assessore alla sanità della Lombardia, Gallera, le cui dichiarazioni - basate non tanto sulle informazioni di cui è entrato in possesso, quanto piuttosto da ciò che egli è arrivato a realizzare da sé solo, potendo così venirci a parlare di come per infettare uno ce ne vogliono due (di untori) - si sono andate ad innescare sulle meno recenti performance del suo collega d'oltre-oceano, quello col ciuffo, tutte incentrate sugli effetti taumaturgici della candeggina.
Ciò che sto dicendo, firmandolo e sottoscrivendolo, ha a che fare con il fatto che a mio avviso, indubbiamente, ci troviamo di fronte (ma sarebbe meglio dire: sottoposti) a tutta una classe dirigenziale che riflette, non quella che comunemente viene denunciata come ignoranza, ma proprio quello che è invece il prodotto del quoziente intellettivo sociale di cui tale classe è espressione (vale a dire, di coloro che prima li candidano e li promuovono, e poi li votano).

Ora direte voi: ma il complotto? Ma è ovvio. Il complotto è quello del coronavirus e del Covid-19, il quale ben lungi dall'essere una bufala, un'epidemia inventata, come dicevano alcuni, è invece una vera e propria pandemia concepita e sfruttata per potersi liberare da quegli idioti in marcia che non lesinano la loro presenza su tutti i media. Ma purtroppo, ahinoi, è un complotto che nasce votato al fallimento, ed è proprio per questo che ci dovremo tenere per molto tempo questo virus, rispetto al quale il modo per "contrastarlo" si è rivelato - e continua indefessamente ad esserlo - una vero e proprio festival dell'idiozia. Evito, di fare l'elenco delle minchiate (dalla finta chiusura degli aeroporti, attuata come per scherzo all’inizio della “vicenda”, fino all'impennata di contagi di ieri in quella Lombardia che continua a non essere commissariata). «Chi fa le rivoluzioni a metà si scava la tomba», affermò (in tutti i sensi) Louis Antoine de Saint-Just, e qualcosa del genere credo che potrebbe essere scritto anche per i "Lockdown", oltre che per le rivoluzioni! Ad ogni modo, nemmeno questa volta ci libereremo degli imbecilli!

sabato 23 maggio 2020

Le maschere dell'apocalisse

Questo articolo di Jacques Camatte è stato pubblicato il 1° maggio sul sito della rivista "Invariance" e - tradotto da Gabriella Rouf, per la Rivista "Il Covile" -  si riferisce al futuro dell'umanità dominata dal capitale nel contesto di COVID-19.

Instaurazione del rischio di estinzione
di Jacques Camatte

In un primo approccio, l’importanza eccezionale accordata agli effetti patologici legati all’infezione da coronavirus sembrerebbe un buon modo per mascherare il fenomeno essenziale in atto: la distruzione della natura e la rimessa in discussione del processo di vita organica sulla Terra. Si tratta della scomparsa di migliaia di specie e del blocco di tale processo in atto da quasi quattro miliardi di anni, che conducono ad un’immensa estinzione. Ora la Terra è un corpo celeste eccezionale e nessun altro somigliante è stato scoperto a migliaia di anni luce. Come può la specie escamotare [*] un tale evento, se non a causa della sua follia, rinchiudimento in un divenire, un’erranza, che la fa incapace d’immaginare qualcosa di diverso, in particolare una via d’uscita. Essa si preoccupa solo di se stessa, ignorando che ciò che subisce è una conseguenza della sua dinamica di separazione dalla natura e della sua inimicizia [*1], sia interspecifica, che infraspecifica.
Tale dinamica di mascheramento è vera, evidente, ma questa affermazione non implica una sottovalutazione del fenomeno che stiamo subendo. È ciò su cui vogliamo insistere e non intendiamo separare i due fenomeni, ma al contrario integrare ciò che riguarda la specie nel divenire della totalità del fenomeno vivente.
Il carattere più importante di questa pandemia è il suo contagio fortissimo a causa del virus stesso ma soprattutto a causa della sovrappopolazione e della distruzione della natura che riduce il numero delle specie possibili ospiti. Essa è vissuta come una terribile minaccia.
Ora, in diversi momenti del loro processo di vita uomini e donne si trovano, consciamente o inconsciamente, in presenza della minaccia che in certi casi può manifestarsi come una minaccia ben determinata.
E questo opera tanto a livello individuale quanto a livello di un gruppo più o meno numeroso, a livello di un’etnia, di uno strato sociale, così come a livello di una nazione e, infine, a quello della specie. Quest’ultima si trova ospitata nel suo mondo, nella natura ovvero nel cosmo, come in una matrice dominata dalla minaccia, da essa determinata e strutturata — in relazione a fenomeni naturali distruttivi — nel corso di migliaia di anni, quella del rischio di estinzione [*2]. E non è solo il contagio a determinare la reinstaurazione del rischio, di un rischio corso più di centomila anni fa [*3], ma le misure che vengono adottate per bloccarlo.
Dunque, vengono a sommarsi un rischio per la specie e un rischio per l’insieme del mondo vivente, la sesta estinzione prospettata già diversi anni fa da R. Leakey [*4], il che rafforza ulteriormente in Homo sapiens la minaccia inconscia dell’estinzione, con preponderanza soprattutto nell’immediato del fenomeno che la riguarda direttamente, mentre l’altro è più spesso occultato secondo la sopraindicata dinamica di mascheramento.
Che cosa rivela il contagio, che è alla base di questa pandemia, così come le misure di protezione che essa induce? Si può parlare a questo soggetto di apocalisse, non foss’altro che per segnalare il rigiocamento, poiché questa parola indica proprio la rivelazione di una possibile distruzione ma anche il mezzo per sfuggirne.
Il fallimento dell’uscita dalla natura, poiché la specie non è arrivata a sfuggire alla minaccia e a raggiungere la sicurezza, nonostante una serie di separazioni per proteggersi.
La fine della negazione totale della comunità originaria a seguito della sua frammentazione nel corso dei millenni con la fase finale del processo di separazione e il dispiegamento dell’iperindividualismo che si manifesta come compensazione all’evanescenza dell’individuo. Ai nostri giorni, i rackets e il gregarismo sono i residui aberranti della comunità.
La fine del ricoprimento [*] e la messa a nudo della derelizione [*], e anche la manifestazione del numen, del sacro, di ciò che genera fascino e paura, e la rivelazione della vulnerabilità. [*5]
Dato che l’instaurazione del rischio di estinzione — non si è più di fronte semplicemente alla minaccia, ma al rischio stesso — si presenta come la somma dei due fenomeni precedenti sopra citati, non possiamo trattarli separatamente e notiamo, in primo luogo, che affermare che si tratta di un rischio implica che nella normalità l’estinzione non si verificherà. Tuttavia, nel corso delle migliaia di anni che ci separano dall’evento iniziale, dati imprevisti hanno potuto imporsi e far sì che dal rischio si possa passare alla certezza. Il dato imprevisto, il più importante e difficile da padroneggiare è forse la follia della specie che la rende incapace di prospettare uno sviluppo diverso da quello che ha adottato (rinchiudimento). Da cui la necessità di un ascolto sia storico che attuale per essere veramente presenti a quanto avviene, il che permetta di attualizzare un comportamento adeguato.
Lo studio dell’origine della malattia rivela che ha avuto una «incubazione» piuttosto lunga, fonte di confusione. In effetti è stata preceduta dalla sindrome respiratoria acuta grave SARS sorta in Cina (2002-2003) e che ha colpito 29 Paesi. Il virus Covid-19, il SARS-CoV2, potrebbe derivare da quello che ha causato la SARS. D’altra parte, potrebbe esserci un legame con la Sindrome da Disturbo Respiratorio Acuto, nota da abbastanza tempo e identificata effettivamente nel 1967. Si menziona talvolta anche la Sindrome Respiratoria del Medio Oriente dovuta anch’essa a un coronavirus MERS-CoV, trasmesso dal cammello, e che dal 2012 interesserebbe alcuni Paesi al di fuori dell’Arabia Saudita. Questo suggerisce che la malattia attuale abbia una base profonda e diffusa, tanto più che i coronavirus costituiscono una vasta famiglia di virus che possono causare malattie diverse, che vanno dal comune raffreddore alla sindrome respiratoria acuta grave (SARS). Sta diventando il virus per eccellenza.
Essendo le condizioni di vita quello che sono e similari in tutti i grandi centri urbani, il virus Covid-19 non troverebbe in ciascuno di questi centri la possibilità di emergere a partir da un virus «imparentato» preesistente? Si avrebbe una forma di produzione endogena. Penso a questo a causa della velocità di propagazione della malattia e perché essa rivela lo stato di decadimento [*6] in cui si trova la specie. Ciò non implica, nel caso in cui questa ipotesi si rivelasse corretta, che si debba abbandonare il confinamento, ma ciò imporrebbe di preoccuparsi simultaneamente e ancor di più delle cause profonde di questa malattia al di là del parassitamento da parte del virus. Esso viene ad essere il supporto di ogni male. Si sente dire spesso: non sto bene, devo aver preso un virus. Ma c’è sempre ambiguità all’interno della specie speciosata [*]. Così di qualcuno che si dedica con passione ad una data attività, si dice che ha il virus di... L’aspetto maligno di questo essere si ritrova nel campo dell’artificialità con i vari virus informatici. Assai curiosamente Stephen Hawking, fisico e cosmologo, voleva, sembrerebbe, che li si considerasse come esseri viventi, che mostrano un’ambiguità nella formazione, in unione con un’altra che sarebbe naturale, secondo la rappresentazione vigente, che considera il virus vivente o non vivente a seconda del supporto su cui si trova. Ma per il fatto stesso della demonizzazione di cui è il supporto, il suo ruolo essenziale in seno al processo di vita è totalmente escamotato [*]. Per designarlo, si deve rimontare alle origini di questo processo all’epoca di quello che fu chiamato il brodo primordiale, ove regnava un continuum vitale. Non c’era separazione e la continuità era immediata. Quando le cellule apparvero, le loro membrane imposero separazioni opponentisi alla continuità. I virus furono gli elementi viventi, discreti, che permisero di ristabilire la continuità a partire dal discontinuo, permettendo trasferimenti da certi esseri viventi ad altri, e l’intero processo di vita nella sua totalità potè continuare, perché ciò che si evolve non sono solo specie isolate, ma l’insieme del mondo vivente che deve conservare la sua coerenza. I genetisti hanno evidenziato la presenza di un gran numero di virus integrati nel nostro genoma, segnalando il loro contributo alla costruzione di esso. In altre parole, se c’è continuità essi possono operare senza parassitare. In compenso, se questa è rimessa in causa, possono diventare parassiti. E anche in questo caso bisogna tener conto della totalità per poterlo affermare, perché una miriade di relazioni sono operanti, tra cui in particolare quella che interviene nella dinamica di rivelazione di un dato stato, mentre altre possono sfuggirci. Ora, a causa del suo modo di vita Homo sapiens ha operato varie discontinuità, la più importante delle quali è quella con il resto della natura, da cui la moltiplicazione delle malattie virali. Fare dei virus i supporti del male (le malattie) è ancora sostenere la separazione e l’inimicizia, soprattutto quando li si associa a specie che ne sarebbero i vettori, come nel caso di Covid-19, pipistrelli e pangolini. Ora questi ultimi, come risultato dell’azione umana, sono in via d’estinzione! Ma ciò nasconde un’ambiguità: fare degli altri esseri viventi i responsabili delle nostre malattie implica pensare che siamo passivi, ovvero inessenziali! La specie, virtuosa della manipolazione. si proietta negli altri e considera che il virus la manipoli. Ora, si suppone che la SARS-CoVz, il virus di Covid-19, derivi da una manipolazione in laboratorio, come sostiene Luc Montagner. La stessa affermazione fu fatta per il virus, tuttora sconosciuto, dell’AIDS.
I sintomi di Covid-19 sono molto vari e certi si sono manifestati solo recentemente, come i disturbi cardiaci o le reazioni infiammatorie eccessive come le tempeste di citochine che segnalano disfunzioni del sistema immunitario, i disturbi del comportamento legati a danni cerebrali, l’infiammazione endoteliale sistemica [*7] e ancor più recentemente la formazione di coaguli che non possono essere rimossi, obbligando in alcuni casi ad amputazioni.
Questa grande diversità è legata al fatto che la malattia rivela in realtà disfunzioni antecedenti in seno alla specie, così come la sua obsolescenza, e quelle causate da essa in seno alla biosfera. È più che una malattia perché, come operatore di rivelazioni, essa s’impone come apocalisse. Ma, ripetiamo, la causa non è il virus, ma lo stato della specie.
A seguito dello sconvolgimento legato al maggio 1968, ho imperniato la mia riflessione e la mia indagine, da una parte sul mantenimento di una prospettiva «emancipatrice» con l’affermazione di un’invarianza, all’interno alla specie, di una corrente portatrice di un progetto di riemergenza della comunità umana, dall’altra sulla messa in evidenza della degenerazione della specie legata allo sviluppo del capitale e all’autonomizzazione della sua forma. [*8]
Dieci anni dopo constatavo: «Si è giunti ad uno stadio di esaurimento dell’umanità e della natura; da cui si apre a noi l’era delle catastrofi.» («Precisazioni a distanza di tempo», Invariance, serie III, n°5-6, p. 35) [*9]
A posteriori si constata che l’inizio di questa era è contemporaneo alla fine del movimento proletario degli anni 80. È stata essa stessa una catastrofe immensa ed è del resto così che l’abbiamo vissuta, contemporanea all’accelerazione della distruzione della natura, in particolare delle foreste. In effetti la scomparsa del proletariato ha avuto un effetto paragonabile alla riduzione estrema delle foreste: perdita di ogni regolazione del sistema economico con la crescita indefinita della produzione, paragonabile alla perdita del fenomeno di compensazione che permetta una regolazione del clima [*10]. Ecco perché nel corso di questi anni ho studiato come il divenire della società-comunità in atto avesse per effetto una degenerazione sempre più spinta della specie. A tale divenire sono state essenziali tutte le tecniche di manipolazione che utilizzavano persuasione, seduzione, cosi come la comunicazione, l’informazione, la pubblicità con i media corrispondenti, perché esse hanno avuto un impatto fortissimo sul sistema immunitario che può arrivare fino alla sua deficienza, azione completata da quella delle droghe. E questo ha operato anche nella dinamica di assimilazione e d’integrazione, senza dimenticare la sua costante operatività nel corso dei secoli nell’educazione e nell’insegnamento [*11].
Così possiamo rispondere alla domanda: cos’è che causa la grande pericolosità di questa malattia? È che essa arriva in fine di percorso, come conclusione di un immenso processo d’indebolimento della specie, legato in particolare ad una disfunzione del suo sistema immunitario la cui importanza è notevole, nell’assicurare un processo di conoscenza inconscia complementare a quello cosciente.

Dall’insieme degli articoli di questo numero [de La recherche, n°i77 del maggio 1986 (N.d.T..) ] consacrato a «Le difese del corpo umano», emerge in definitiva che la rete immunitaria non serve unicamente alla difesa dell’organismo, ma sarebbe un sistema d’integrazione, di posizionamento di esso nel continuum vitale, che funzionerebbe del resto in simbiosi con i miliardi di organismi (principalmente i batteri) presenti nel corpo di ogni uomo e di ogni donna [*12].

Si comprende che attacchi multipli a questo sistema possano tradursi in una grande difficoltà ad essere presenti a se stessi e al mondo, che è una componente della speciosi [*13], tanto più che la rottura con il resto della natura ha generato la solitudine della specie e che la distruzione di quella ha per conseguenza l’impossibilità di essere riconosciuti. Per un lungo tempo essa ha potuto diminuire questa solitudine grazie alla sovra-natura ricorrendo ad ogni sorta di divinità e, soprattutto col monoteismo, all’aiuto di Dio. La debolezza di quest’ultimo, la sua evanescenza, rimette la specie in derelizione.
Quindi le cause essenziali della pandemia sono la speciosi sovra citata la cui manifestazione più estrema è la perdita della sensibilità, dell’affettività, causa e risultato della perdita della continuità e la regressione dell’empatia, la sovrappopolazione [*14].
Questa perdita riguarda il rapporto con l’altro in generale, la ripercussione dell’altro su di sé, il che aumenta l’iperindividualismo che esprime bene la rottura di continuità che implica la dimensione della potenza di vita, la scomparsa dell’ascolto.
La diffusione della malattia e le misure volte a ostacolarla, a sradicarla — mettendo in discussione tutto il modo di vita — rivelano tutto ciò che affetta negativamente la specie e mettono in evidenza particolarmente la nocività del separarsi per salvarsi.
Ciò che si rivela prima di tutto e in un modo che si potrebbe dire esplosivo è l’inimicizia, che si presenta nello stesso tempo come un comportamento e come un’affezione, e come un modello di conoscenza [*15]. Fin dall’inizio è stato proclamato: siamo in guerra. In questa proclamazione sbuca la nostalgia per i tempi guerrieri, in cui l’individuo può dare il cosiddetto meglio di sé e quando la vita acquista un senso perché è allora possibile accedere a se stessi. Inoltre, lo stato di guerra permette ai dominanti di giustificare le diverse misure di repressione, di bloccare le possibilità per i dominati di manifestarsi, come si verifica con l’imposizione del confinamento che, prolungato, porta ad una forma di asfissia. A questo proposito comunicherei la profonda osservazione che mi ha trasmesso Cristina Callegaro sui disturbi causati dal Covid-19: « Tutte queste persone che soffocano, che non riescono più a respirare, che mancano di ossigeno, è come una paura radicale, assoluta. Sembra un rivissuto della nascita, di una nascita pesantemente traumatica che a sua volta riassume il terrore dell’annientamento della specie.»
Ciò indica anche la difficoltà, se non l’impossibilità, di operare l’inversione che potrebbe presentarsi ed essere vissuta come una nascita.
Il contagio di Covid-19 e il confinamento che ne segue non riflettono forse il rifiuto inconscio dell’altro, soprattutto in popolazioni che subiscono una troppo grande prossimità forzata, per esempio nei trasporti, nelle strade affollate o anche in appartamenti angusti? Nella normalità non siamo limitati al nostro corpo, ma siamo circondati da una bolla simile a una cavità amniotica limitata, quindi da un’amnios. L’attraversamento ripetuto di questo rende il viverlo assai poco agevole, è come se l’individuo perdesse la sua idiosincrasia, i suoi punti di riferimento e anche la sua traccia. Dove si trova? E si può pensare che i buchi praticati nell’«amnios» siano porte per le quali un virus possa introdursi.
Questa osservazione sull’importanza della cavità amniotica e dell’amnios mi è stata suggerita dalla lettura delle opere di Varenka e Olivier Marc, in particolare Premiers dessins d’enfants Ed. Nathan. Infatti da quanto lei e lui espongono sono giunto alla conclusione che cavità amniotica e amnios sarebbero ricostituiti dalla presenza avvolgente della madre che, nello stesso modo, permetterebbe al bambino di costruire la propria bolla, grazie al cordone ombelicale costituito dalla continuità tra lui e la madre. Si può dire che è un momento importante nella realizzazione dell’aptogestazione [*] [*16]. E tutto ciò, occorre metterlo in relazione con la perdita di ogni comunità che rende gli individui estremamente fragili, e aggiungerei che probabilmente la bolla, e dunque l’amnios, sarebbero i resti della dimensione comunitaria a livello dell’individuo.
Tornando alla manifestazione dell’inimicizia, la proclamazione della Union sacrée — complemento a quella della guerra, equivale alla messa in atto di una forma di repressione, completata spesso da un’auto-repressione, che mira a quelli e quelle che non sono d’accordo. Essa tende ad abolire le differenze, sprofondando la popolazione in uno stato di indifferenziazione che è una forma di cancro [*17].
Ciò permette allo Stato di recuperare una certa importanza facendosi gestore della terapeutica, ovvero terapeuta, il che è logico perché la terapeutica fondamentale è quella che mira a guarire gli uomini e le donne della loro naturalità reprimendola. Ora, le misure che assicurano il confinamento entrano bene in questa dinamica, essendo propizie all’effettuazione di violenze di polizia, come avviene durante le attuali rivolte nelle periferie dovute al confinamento, alla miseria, al non riconoscimento.
Lo stesso vale per altre misure come il distanziamento, che rivela l’inimicizia soggiacente, perché mantenere le proprie distanze è proteggersi. Essa permette anche di evitare la crisi della presenza, la presenza dell’altro che è potenzialmente pericoloso soprattutto se è sconosciuto.
Il distanziamento implica la realizzazione a distanza di processi di vita: telelavoro, teleinsegnamento, videogiochi, cybersesso, e dunque non più tatto. Si deve compiere tutte le funzioni vitali nella separazione, senza alcun contatto, viviamo felici viviamo separati.
Così il Covid-19 apparirebbe come una malattia affettivamente trasmissibile che obbliga a portare la maschera, che implica che mascherarsi crea una certa distanziazione, o conduce ad essa. Così più la specie degenera e più difficilmente può compiere il suo processo di vita senza rischi, l’ultimo dei quali, sommatoria di tutti, è il rischio di estinzione.
Il Covid-19 e le misure per preservarsene rivelano la repressione genitoriale e la esacerbano. Dall’inizio del confinamento c’è stato un incremento di maltrattamenti concernenti i bambini e le donne.
Il fenomeno si ripete nei rapporti di lavoro in cui i datori di lavoro non assicurano le necessarie misure di protezione o approfittano della situazione per aumentare lo sfruttamento, il che ha causato scioperi. Inoltre, all’inizio, certi datori di lavoro hanno negato l’epidemia per non interrompere la produzione.
Poiché l’attività economica non può essere interrotta, s’impone una separazione tra i confinati e coloro che per cosi dire devono servirli: personale sanitario, ma anche lavoratori e lavoratrici in varie imprese come le Poste, ad esempio, e che spesso non sono adeguatamente protetti e protette per esigenze economiche, o per mancanza di mezzi, la cui causa risiede anch’essa in fattori economici, come le restrizioni di bilancio (il caso degli ospedali e del personale ospedaliero è esemplare).
Le disuguaglianze sociali si manifestano apertamente. Così i ricchi han potuto andare in campagna, chi ha una villa con un giardinetto o chi vive in appartamenti abbastanza grandi gode di condizioni di vita molto più favorevoli rispetto a quelli che si trovano in alloggi angusti, luoghi che favoriscono i conflitti.
La sostituzione è il trionfo dell’economia, un approccio caratterizzato dalla predominanza degli oggetti sugli esseri. I primi, grazie all’informatica sono sempre più connessi tra di loro e presto non avranno più bisogno degli uomini per operare. Al limite, uomini e donne appariranno come parassiti che, a causa della loro affettività, turbano gravemente i processi in corso. D’altra parte l’economia assicura il progresso in tutto e deve anche riguardare Homo sapiens nella sua dimensione zoologica, da cui la dinamica dell’uomo aumentato. Inoltre c’è da tener conto del fenomeno dell’oggettivazione, che fa sì che gli esseri umani tendano a comportarsi come oggetti [*18].
La sostituzione crea un divenire all’estinzione per il fatto del rimpiazzo del vivo col non vivo come i robot, esseri che si comportano come se fossero vivi. È il trionfo del come se, della simulazione, della sostituzione di madre natura con madre informatica-internet.
L’epidemia serve a mascherare la distruzione della natura — a operare uno stornamento — ma rivela anche tutti gli orrori umani, cioè essa fa sorgere e non solo svela. A questo proposito notiamo che il velo è una sorta di maschera che, originariamente nell’area islamica, serviva per proteggere le donne. La maschera serve anche, da qualche anno, per proteggersi contro le conseguenze di questa distruzione: proteggersi dall’inquinamento [*19], che può essere percepito come una malattia altamente contagiosa e la cui origine è molto antica, poiché comincia con la costruzione delle città, delimitate da mura [*20] erette in vista di operare una protezione a fronte di altri uomini. Ora, si può considerare che mascherarsi è rinchiudersi in se stessi. È anche esporre un’ambiguità: io non sono pericoloso ma porto una maschera perché sono ambiguo, contengo la possibilità di trasmettere un pericolo. In questo caso, rimuovere la maschera sarebbe escamotare l’ambiguità. Prendendo la pandemia maggiore ampiezza e potendone emergere altre, si può domandarsi se il portare la maschera dovrà entrare nel nostro abbigliamento necessario. Espongo qui la dinamica in atto e ciò che essa implica, e non vuol dire che io sia convinto dell’utilità della maschera o del test.
Mascherare: abbiamo più volte fatto appello a questa parola per indicare il fatto di dissimulare una certa realtà piuttosto che escamotare o scotomizzare che esprimono che si nasconde ma non che si dissimula. Quando ci si maschera si tiene conto di una realtà ma la si nasconde, il che costituisce del resto il contenuto del ricoprimento. Nella situazione attuale, in modo immediato, il portare una maschera permette di proteggersi, ma anche di non contaminare l’altro se egli non ne porta, nel caso in cui si sia portatori di virus senza saperlo. Ma, inconsciamente, altre funzioni possono essere presenti e avere un effetto sulla persona che si maschera, per esempio, cosa è che essa copre? In effetti ci si può mascherare anche per non essere riconosciuti, segnalando ancora la dinamica dell’inimicizia. Da un punto di vista generale, questa pratica è in rapporto con l’incertezza della specie, incertezza di ciò che è e del suo posto nel fenomeno vivente, ma anche con l’insoddisfazione di essere ciò che essa è. Indica anche tutta l’inquietudine e l’immensa perplessità che il rapporto realtà-apparenza genera, contenendo una fondamentale ambiguità [*21].
Questa è legata alla separazione dal resto della natura: siamo naturali o siamo fuori natura? È la domanda che ci si pone da secoli. Una forma di scamotaggio di essa consiste nel porre che l’uomo sia costantemente nella dinamica di separarsi, o sul punto di farlo. L’ambiguità ha la dimensione della dualità, dell’ambivalenza, dell’equivoco (esistenza di due vie, quale prendere?). Tuttavia essa è spesso inconscia e si svela solo attraverso una transcrescenza attraverso la manifestazione di questi tre fenomeni. Come si verifica con la natura madre o matrigna e la madre amorevole o repressiva.
La nocività dell’ambiguità deriva dal fatto che essa genera l’insicurezza, l’indecisione che può trasformarsi in incoazione, lo sgomento, l’installazione di un blocco che, per uscirne, provoca il dispiegarsi di misure estreme gravide di violenze, e dunque il ricorso all’inimicizia. Nel complesso, l’ambiguità genera la crisi della presenza; è perciò che è in generale repressa.
Le misure prese contro il Covid-19 ci forniscono un importante esempio di ambiguità: sono state preconizzate in vista della salute degli individui o mirano a salvare l’economia? Non dimentichiamo che il residuo di naturalità è causa dell’ambiguità. Le esigenze in partenza si presentano così: occorre ben curare la gente perché possa lavorare e dunque far funzionare l’economia, che a sua volta permette di soddisfare i suoi bisogni. Ora, più la pandemia perdura e con essa le misure che mirano a contenerla, più l’ambiguità si dissolve, come abbiamo già detto parlando della sostituzione. Inoltre, ridurre la naturalità permette di uscire dall’ambiguità, e l’artificializzazione s’impone come modo di eliminarla.
Abbiamo anche già segnalato che le disuguaglianze sociali sono ben evidenti e conclamate, e dunque ogni ambiguità circa l’inesistenza di barriere sociali e su un’eguaglianza tra gli esseri umani, scompare.

È con la messa in atto del confinamento che si rivela con più acutezza l’eliminazione di ogni ambiguità [*22]. Così Sylvia Duverger utilizzando dei lavori di Natacha Chetcuti Osorovtz ha dichiarato: non siamo in prigione, ma imprigionate [*23]. È ciò che accade normalmente per tutte le persone che vivono nelle città, soprattutto le grandi città, le megalopoli. È come se scontassero una condanna di cui non conoscono la causa. Essa rivela pure l’esercizio della repressione col pretesto che è per il tuo bene, con il trionfo dell’artificializzazione che si realizza attraverso il telelavoro, il tele-insegnamento già citati a proposito del distanziamento, i quali possono anche essere giustificati in nome della riduzione dell’inquinamento. Provoca una grande disorganizzazione della vita economica e sociale, ma è soprattutto la repressione degli impulsi e dell’affettività degli uomini e delle donne, con escamotaggio delle enormi sofferenze che ciò induce in particolare per gli anziani nelle case di riposo (Ehpad), dunque già isolati dai loro parenti, il che può affrettarne la morte. Confinare è rinchiudere, il che può portare all’asfissia e alla morte come nel Covid-19.
L’inibizione ovvero la negazione della vita affettiva porta all’obsolescenza dell’uomo teorizzata da G. Anders, di cui abbiamo spesso parlato, e alla scomparsa della specie animale Homo sapiens, come ha affermato A. Leroi-Gourhan nel 1965: «Occorre dunque concepire un homo sapiens completamente trasposto e sembra che si assista agli ultimi rapporti liberi dell’uomo e del mondo naturale. Liberato dei suoi strumenti, dei suoi gesti, dei suoi muscoli, della programmazione dei suoi atti, della sua memoria, liberato della sua immaginazione dalla perfezione dei mezzi televisivi, liberato del mondo animale e vegetale, del vento, del freddo, dei microbi, dell’ignoto delle montagne e dei mari, l’homo sapiens della zoologia è probabilmente vicino alla fine della sua carriera.» (Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, t.II, p.266) [*24].
L’altro aspetto non meno pericoloso è, con un controllo costante e più efficiente, una crescente sorveglianza realizzata grazie ai progressi dell’informatica che rendono possibile la tracciabilità — con in un futuro prossimo, la messa a punto dell’identità digitale e l’uso della 5G — a cui sarà difficile sfuggire, e con l’uso dei droni, nonché l’impiego di nuovi mezzi per combattere coloro che si ribellino a questo ordine infernale, impedendo cosi ogni possibilità di scontro con il creare un fenomeno di distanziazione che rivela tutta la sua dimensione d’inimicizia e l’asimmetria nel conflitto: gli uomini al servizio dell’ordine potranno proteggersi e i dimostranti resi incapaci di attaccarli. Insomma la realizzazione di un dispotismo legato a una momentanea riaffermazione dello Stato, che si manifesterà in modo sempre più subdolo grazie all’economia che metterà in atto un’organizzazione repressiva, come del resto è ogni organizzazione sociale, ricercata da millenni. La guerra contro il virus non arriva a mascherare la guerra civile latente.
Il controllo e la sorveglianza, che vanno di pari passo, aumentano in contemporanea alla crescita della quantità della popolazione umana.
Con la dinamica del proteggersi è quindi sempre l’inimicizia a prevalere, come accade in generale nelle relazioni umane, ma finché rimane una certa naturalità, l’ambiguità persiste. Dovrebbe dunque andare fino in fondo per eliminarla, portando l’estinzione della specie.
Questa pandemia è scoppiata in seno ad una crisi economica, che è per cosi dire perpetua con l’instaurazione della forma autonomizzata del capitale, poiché niente fa da ostacolo alla dinamica dell’incremento continuo, e l’ha rafforzata. Da cui il paragone spesso fatto con le crisi storiche come quella del 1929 e anche con le guerre che spesso hanno avuto luogo per risolvere crisi economiche. Si potrebbe anche porsi la questione delle epidemie di guerra, per il fatto stesso che l’epidemia sia vissuta come corrispondente a quella. D’altra parte le misure prese contro la Covid-19 accentuano la crisi mettendo bene in evidenza che uomini e donne sono necessari, il che porterà ancora a tentare di eliminarli, di renderli obsoleti.
Essa ha dato luogo da parte di un gran numero di uomini e donne alla manifestazione di una grande empatia, che per il personale sanitario ha potuto in certi casi portarli alla morte, e di una solidarietà, che indica che la naturalità è ancora operante nella specie ma insufficiente ad eliminare l’ambiguità nella sua totalità. Per questo motivo la specie ne uscirà indebolita e ricettiva ad altre pandemie, artificializzata ad oltranza, iper-controllata, il che ne accrescerà il rischio di estinzione.
Con il confinamento si è rilevata una diminuzione dell’inquinamento atmosferico, del tasso di CO2, un aumento delle manifestazioni di animali che prima erano poco visibili, ma ahimè ancora il mantenimento dei pesticidi e degli insetticidi. Probabilmente ci vorrà un’altra crisi come quella che stiamo vivendo per giungere alla loro soppressione.
Emerge anche che le conseguenze della pandemia e delle misure che essa ha provocato indicano attivamente a Homo sapiens che cosa occorre fare per rigenerare la natura [*25]: la specie dovrà limitare l’entità della sua popolazione e imporsi un contenimento per lasciare più ampio spazio agli altri esseri viventi.
Dopo la fine del confinamento gli individui cercheranno di trovare un posto nel corpo sociale, ma potranno difficilmente ritrovare quello precedente. È quello che in modo analogo si produsse per la specie con la rottura con il resto della natura.
Ciò significa anche che viviamo l’instaurarsi di una grande discontinuità.
Per metterla in evidenza, si può prospettare in modo diverso l’intero fenomeno in corso, in complementarità con quanto detto sopra. Tenendo conto di ciò che abbiamo scritto sulla rivolta della vita col movimento del maggio-giugno 1968 facente seguito al movimento hippie, e tenendo presente che ciò che è fondamentale nel caso della pandemia non è il virus ma lo stato di decadimento in cui la specie si trova dopo migliaia di anni di uscita dalla natura, di conflitti con essa e sua distruzione, che è pure distruzione della naturalità di ognuno, fenomeno accelerato da due secoli e come autonomizzatosi a partire dagli anni 80 del secolo scorso, si può affermare che è come se il corpo della specie significasse che non ne può piu, che non è più in grado di sopportare ciò che gli viene inflitto, che non può più assicurare la guerra, che entra in depressione, che non può più sopportare l’artificializzazione.
È come se uomini, donne e persino bambini fossero entrati «in sciopero» per rifiutare il diktat del meccanismo infernale che li opprime, uno sciopero che ha colto impreparati, sorprende tutti, compresi i dominanti, che, anch’essi, a un grado minore, soffrono della stessa situazione, e come tutti hanno paura della morte (residuo di naturalità comune a tutti). Si tratta, in forma passiva, di un immenso rifiuto. Ora, è a partire da li che si può avviare un’altra dinamica di vita [*26].
Di conseguenza, all’inizio non hanno potuto fare niente, ma appena lo shock iniziale è stato assorbito, si sono dedicati alla manipolazione e ora cercano di far cessare la pandemia con il confinamento ed altre misure dette di protezione — tutte opinabili — perché ciò che è essenziale per loro è procedere nella virtualità che sussegue alla dinamica dell’economia (il dominio del capitale essendo stato rimpiazzato da quello della sua forma autonomizzata), poiché è con questo che essi pensano di poter salvare se stessi e l’umanità. Ora, ciò richiede un controllo e una sorveglianza sempre crescenti sugli uomini e sulle donne che, da se stessi, dato il loro resto di naturalità, non sarebbero in grado di «liberarsi». Si deve reprimerli per salvarli. Inoltre, per controllare gli uomini, si deve controllare la loro salute e anche creargliela artificialmente, ad esempio coi vaccini.
A partire da ciò si può supporre che la pandemia diventi un’entità psichica proprio come la peste per Antonin Artaud: «una specie di entità psichica e non sarebbe collegata a un virus» [*27]. Non posso negare l’esistenza del virus, ma direi che esso riveli l’esistenza di un’entità psichica, manifestantesi inconsciamente, un male interno alla specie da cui essa cerca altrettanto inconsciamente di liberarsi. Questo male include l’insoddisfazione legata al senso di un’incompletezza, l’odio di sé determinato da tale senso d’incompletezza, la messa in dipendenza, l’ambiguità perché parallelamente manifesta una grande megalomania, la solitudine, il tutto determinato dalla separazione dal resto della natura che genera un inconscio senso di colpa.
Questa entità deriva probabilmente anche dalla scissione tra il gesto e la parola e dal fatto che il primo è sempre più assicurato dalle macchine e che la seconda si è autonomizzata in una sorta di compensazione ma non riesce ad eliminare la sofferenza causata dall’obsolescenza che rafforza il male di cui parliamo.
Tale depressione generalizzata può essere il preludio ad un ritorno del rimosso suscitato a causa di questa discontinuità che crea un blocco e favorisce un ritorno del passato. È su quanto noi ci basiamo perché si avvii un’inversione (vedi Inversione e di.svelamento) che permetta di abolire ogni estinzione, soprattutto se simultaneamente si abbandona la dinamica dell’inimicizia che potrebbe sorgere tra i partigiani dell’artificialità e quelli della naturalità.
È solo se si sente, se si vive a fondo il rischio di estinzione, che se ne diventa pienamente consapevoli senza colpevolizzarsi per gli orrori che si è commesso durante la nostra erranza, che si può finirla con essa, operare un’elevazione della vita, e iniziare l’inversione salutare per noi e per la natura, per tutti gli esseri viventi (virus compresi), e proseguire il nostro cammino nel cosmo.

- Jacques Camatte - 30 Aprile 2020 -
- traduzione di Gabriella Rouf, le note sono dell’Autore. -

fonte: Il Covile

NOTE:

[*] - Per questo e altri termini camattiani si veda nel n° 480 di Il Covile del novembre 2018, il Glossario dell’Autore: «Escamotaggio [Escamotage]. Dinamica che fa scomparire un dato importante, dando spesso l’impressione di tenerne conto.». Nella nostra lingua il francesismo escamotage normalmente sta per espediente, sotterfugio, mentre in francese (e in spagnolo) il significato primario del verbo escamoter (sp: escamotear ) è l’azione di far sparire abilmente qualcosa dalla vista; originariamente designava le manovre con carte e oggetti di prestidigitatori e maghi di strada. Escamoter une carte.Lit escamotable = letto a scomparsa. (N.d. T.)

[*1] - Vedi «Inimicizia ed estinzione» , articolo che completa ciò che qui esponiamo [ in Il Covile n° 521 del settembre 2019. Per tutti i successivi riferimenti si può consultare la Bibliografia [ https://www.ilcovile.it/V3_camatte_all_per_Edizioni.html ] ora presente nel sito del Covile, la quale fa menzione di tutte le traduzioni italiane (N.d.T.) ].

[*2] -  Il film Matrix — nella sua trilogia — rappresenta bene questa matrice ove s’impone il meccanismo infernale del rigiocamento. Infatti, ad esempio, Neo si rende conto che ci sono stati altri prescelti e altri tentativi di distruzione e nel finale è chiaramente suggerito che la minaccia persiste: l’eventualità di un nuovo attacco a Sion da parte delle macchine non è eliminata.

[*3] - Cfr. «Sembra che la nostra specie sia passata per una fase di selezione drastica, un collo di bottiglia con una popolazione ridotta a circa 60.000 individui, tra i 100.000 e i 50.000 anni fa». Pascal Picq, «Une évolution buissonnante» (Un’evoluzione ramificata) sulla rivista Pour la Science, ottobre 2002, n° 300. «Quand la mer sauva l’humanité» (Quando il mare ha salvato l’umanità — durante l’era glaciale che è durata da 195.000 a 120.000 anni), articolo di Curtis Marean su Pour la Science, n°396, ottobre 2010. Attualmente si parla di un rischio di estinzione corso circa 13.000 anni fa a causa della caduta di un meteorite in Groenlandia che ha causato la scomparsa della megafauna, una riduzione della popolazione umana che ne ha ricevuto uno shock che vari miti testimoniano. De l’origine des mythes et de la civilisation (Sull’origine dei miti e della civiltà) Casimir Peraud, Médiapart 1 maggio 2020.  Più vicina a noi nel tempo e più localmente un’alluvione marina che colpi il Medio Oriente, la regione di Sumer, sarebbe all’origine del mito del diluvio.  Si dovrebbe tener conto di tutti questi eventi catastrofici legati all’impatto di meteoriti o asteroidi per utilizzare l’industria spaziale non per la conquista dello spazio (dinamica dell’inimicizia), ma in vista di poter distruggere tali oggetti cosmici prima che raggiungano la Terra. Inoltre si dovrebbe riflettere sull’impatto negativo che può avere il frequente attraversamento della magnetosfera che protegge la Terra contro le radiazioni pericolose e che permette la vita sulla Terra.

[*4] - Andreas Loepfe ha ripreso questa tesi in un articolo molto interessante pubblicato sul n. 17 della rivista (Discontinuité., cfr. François Bochet, f.bochet@-free.fr .

[*5] - Abbiamo già messo ciò in evidenza a proposito degli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, in «Gloses en marge d’une réalité VIII». Abbiamo anche insistito sull’importanza dello shock che crea uno stato ipnoide che rende gli individui particolarmente manipolabili, come si verifica di nuovo ai giorni nostri. Questo dato è stato ripreso in occasione dell’analisi del libro di Naomi Klein: La strategie du choc, in Inversione e disvelamento, 2012.

[*6] - Si manifesta in particolare attraverso il grande sviluppo delle malattie autoimmuni dovuto ad una disfunzione del sistema immunitario, la moltiplicazione dei tumori, la depressione (cfr. La fatigue d’être soi. Dépression et société di Alain Erhenberg, Ed. Odile Jacob), all’odio di sé (cfr. «Glose X»), l’aumento delle malattie mentali, all’obesità che si diffonde, cosi come varie malattie legate ad una cattiva alimentazione, o al consumo di droghe, il declino della fertilità maschile, la possibile scomparsa del cromosoma Y, ecc... Ciò spiega perché alcuni sostengono che nessuno è morto a causa del coronavirus, ma con esso. Quest’affermazione viene spesso fatta dopo l’esecuzione di autopsie. Tuttavia resta il problema della presenza del virus. Come comprenderla? Queste persone non danno una risposta effettiva e ho l’impressione che minimizzino il fenomeno, se non altro perché tendono a negare l’esistenza di una pandemia. Altri fanno riferimento ad una cospirazione globale, il che di nuovo non spiega nulla. V. Glossario (N.d.T.).

[*7] - Il virus non attaccherebbe il sistema immunitario attraverso i polmoni, ma attraverso i recettori di superfìcie ACE2 (recettori dell’enzima di conversione dell’angiotensina, sostanza che gioca un ruolo nel mantenimento del volume ematico e della pressione sanguigna) presenti nell’endotelio (membrana interna dei vasi sanguigni), che perde cosi la sua funzione protettiva. Così tutti gli organi possono essere colpiti. In precedenza era stato fatto notare: «Tuttavia, più passa il tempo, più diventa chiaro che l’epidemia non si svolge nello stesso modo in Cina e in Europa, per ragioni legate al contesto sociale, all’evoluzione del virus e forse alla diversa genetica delle popolazioni. Per fare un solo esempio, una manifestazione classica di un’infezione asintomatica in Europa, come la perdita dell’olfatto, non è stata quasi mai descritta in Cina». Mediapart, 6 aprile 2020, Samuel Alizon: «Le confinement ne fera pas disparaître l’épidémie» (Il confinamento non farà scomparire l’epidemia).

[*8] -  Per quel che concerne Invariance si veda l’indice, la home page del sito e il glossario. Per la degenerazione vedi «Erranza dell’umanità» 1973, «Contro la domesticazione» 1973, «Questo mondo che bisogna abbandonare» 1974, «È qui la paura, è qui che bisogna saltare!» 1975. Sono apparsi stampati sulla rivista Invariance Serie II, n°3 le prime due, n°5 la terza e n°6 la quarta.

[*9] - Sul sito cfr. «Précisions après le tempspassé», due paragrafi prima del richiamo della nota 25.

[*10] -  La foresta è essenziale, e la vegetazione in generale, perché attraverso la fotosintesi produce ossigeno. Fornisce habitat e cibo a un gran numero di specie. Protegge i suoli e permette il loro sviluppo grazie alle radici che crescono in simbiosi con funghi e batteri. Permette il prelievo dei sali minerali necessari alla formazione dei frutti e delle verdure. La scomparsa degli alberi dai campi coltivati legati alla monocoltura è la causa di quella di qualsiasi sapore dalla frutta e dalla verdura, anche nel caso dell’agricoltura biologica. L’agroforesteria e la permacultura possono rimediare a tutte le insufficienze in una prospettiva molto lontana di una scomparsa dell’agricoltura quale che sia. Gli alberi esercitano anche un’azione benefica, calmante, atta a rimetterci in continuità. L’importanza fondamentale della foresta comincia a imporsi. Nel novembre 2019 la rivista Science et Vie ha pubblicato un dossier «Arbres. Ilspeuvent nous sauver» (Alberi. Essi possono salvarci). Si, ma per questo, se ne deve piantare a miliardi.

[*11] - Ho affrontato questi temi in vari articoli. Ne indico solo alcuni perché sono numerosi, con qualche citazione per collocarli. In «Gloses en marge d’une réalité I», 1983: «(...) L’unico modo per immunizzarsi (dagli effetti della televisione) è quello di adattarsi al mezzo, ed è quello che succede. L’umanità si robotizza per adattarsi. L’immunizzazione avviene sotto i nostri occhi, è la robotizzazione con la possibile eccezione della Cina...». Marshall Mac-Luan «Des té-tes vides comme des entonnoirs» (Teste vuote come imbuti), sulla rivista Reality. In «Gloses II»: «L’intero divenire del capitale alla rappresentanza autonomizzata è un presupposto al mondo della pubblicità. Una tappa essenziale è stata l’introduzione generalizzata del credito...». «In un articolo della rivista Parents che spiegava come negli USA i genitori avessero creato una lega per aiutarsi a vicenda per poter dire di no ai propri figli — rinunciando alla precedente pratica antiautoritaria — è stata indicata l’osservazione di uno psicologo riguardo alla pratica di questa lega. [L’articolo] sottolineava il pericolo di un aumento della violenza nella pratica della Lega e ha notato come il vero problema non fosse stato affrontato: la distruzione dei legami affettivi stessi. Per illustrare il suo punto di vista, aggiungeva: «Conoscete un paese in cui si possa leggere, esposto sul lunotto posteriore di una macchina, lo slogan <Hai pensato ad abbracciare tuo figlio stamattina?». In «Gloses III« 1986: «Cosi, poiché i fenomeni pubblicitari possono essere interpretati in termini di immunità e poiché i rapporti tra gli individui possono essere interpretati negli stessi termini (cfr. la questione della tolleranza spiegata sopra), si capisce che la pubblicità possa svolgere un ruolo regolatore, proprio come il sistema immunitario. più precisamente, dobbiamo dire che la comunità attuale ha dato vita a un sistema integrativo-regolatorio che è paragonabile per molti aspetti al sistema immunitario che opera nell’organismo dei vertebrati superiori». In «Emergenza e dissolvimento» 1989: «Il dissolvimento tocca il livello cellulare con la disorganizzazione della cellula provocando la separazione di elementi che si erano uniti più di un miliardo di anni fa, durante la formazione delle cellule eucariote. In questo modo l’Homo sapiens diventa una specie inutile e pericolosa per l’insieme del processo vitale, che tende a eliminarlo attraverso l’attività dei batteri e dei loro ausiliari: virus, prioni ecc.» Questa idea è stata espressa anche in altri testi. Si può formularla in modo più preciso cosi: tutto avviene come se l’insieme degli esseri viventi tendesse ad eliminare Homo sapiens. In «Comunità e divenire» 1994: «Tuttavia, come abbiamo indicato, la mediazione autonomizzata che si pone come realtà immediata (come si verifica con virtualità) abolisce la rappresentazione. Così facendo, si ha evanescenza del processo di conoscenza basato su quest’ultima; da qui l’escamotaggio della specie stessa, cosi come la scomparsa della terra (cultura fuori terra), della donna (fecondazione in vitro con la prospettiva di produrre bambini in provetta), del cervello (intelligenza artificiale), dello spettacolo senza attori reali, ecc. Questa eliminazione della specie separata da ogni realtà concreta porta alla sua degenerazione che si esprime al meglio nella perdita dell’innato che, a sua volta, segnala la perdita di basi, radici, fondamenta».

[*12] - Cfr. «Gloses en marge d’une réalité» III, 1986.

[*13] - Cfr. «14.2.2. Struttura della speciosi» in: «Punto attuale di sbocco dell’erranza».

[*14] -  Un secolo fa, durante l’influenza spagnola, che fece tra i 50 e i 100 milioni di morti, eravamo 1,8 miliardi d’individui, ora 7,7, cioè 6 miliardi in piu, un aumento quadruplo in questo breve lasso di tempo. Da allora si comprende la giustificazione della necessità del confinamento. Dal momento in cui si intraprenderà l’inversione, ci vorranno alcune migliaia di anni perché il numero di esseri umani oscilli tra i 250 e i 500 milioni, come probabilmente fu il caso prima della grande separazione operata con la pratica dell’agricoltura e dell’allevamento, permettendo a tutte le forme di vita di prosperare.

[*15] - Non insisterò su questo dato, avendo già scritto a riguardo in «Gloses IX», dove cito dal libro di James Hillman "Un terribile amore per la guerra", e più in dettaglio in «Inimicizia ed estinzione».

[*16] -  Vedi in particolare L’imagedu corps, [Paul Schilder 1973] PP- 83-86.

[*17] - Ho già segnalato che il cancro è una malattia legata allo sviluppo del capitale. In effetti la cellula tumorale è una cellula indifferenziata e il movimento del capitale produce l’indifferenziazione degli uomini, delle donne, rendendo sempre più impossibile la dinamica di riconoscimento. Inoltre essa li rende inutili. L’iperindividualismo, un tentativo per essere identificabili, apparirebbe come una reazione a questo divenire.

[*18] - Ciò si verifica nelle psicosi in cui l’individuo non riconosciuto si serve dell’oggetto al fine di esserlo. Vedi: Harold Searles, L‘environnement non humain (L’ambiente non umano) Ed. Gallimard, cosí come l’approccio globale proposto in Inversione e disvelamento 2012.

[*19] -  Si è sempre in una problematica in cui l’inimicizia è operante, com’è il caso anche delle maschere antigas messe a punto nel 1916, durante una guerra reale.

[*20] - F. Renggli ha fatto notare che la città realizzava un utero ed era considerata come una madre, e il fatto curioso che la parola enceinte designi un sistema di protezione e caratterizzi lo stato di una donna che aspetta un bambino.

[*21] - Poiché non intendo, nel contesto di questo articolo, trattare a fondo la questione della maschera, riporto una citazione — le cui affermazioni sono notevoli — che permette di farsi un’idea della sua portata: «Oggetto universale di tutte le società arcaiche o moderne, la maschera occupa un posto sorprendente nella storia della civiltà e il suo uso risale alla più alta antichità, quando, già fatta per essere portata, è spesso ideata in materiali leggeri e il suo valore iniziatico rimane oscuro e paradossale. Simulacro facciale, dissimula, nasconde, e camuffa. Facendo parte del regno dell’apparenza, la maschera permette all’uomo, dotato di una dualità originale, di accedere alla metamorfosi del suo essere, alla rivelazione del suo inconscio. Le sue caratteristiche, dapprima esclusivamente rituali, conservano per tutto il corso della sua storia il principio di trasgressione che è alla base di ogni forma di travestimento. Dotata di un potere soprannaturale, essa permette di sfuggire temporaneamente alla vita quotidiana, dando libero corso agli istinti più repressi e facendo venir fuori gli aspetti dell’uomo che la vita sociale normalmente nasconde; talvolta essa rivela anche certe sfaccettature sconosciute». «(•••) Grazie alla maschera, la comunicazione s’instaura in modo più libero e più familiare. L’uomo si dà l’illusione di abbattere le barriere e le distanze sociali». Celine Moretti-Maqua Le masque et Ihistoire (La maschera e la storia). Il desiderio di metamorfosi deriva dall’insoddisfazione, dalla percezione di essere incompiuto. Oggi è sostituito dal desiderio di essere aumentato. Tutte le tecniche che permettono ciò mirano in partenza a mascherare l’essere naturale, poi ad eliminarlo. D’altra parte, accrescersi non è trasgredire? Il fenomeno non era operante nelle popolazioni che vivevano nude e usavano le maschere, e non è anche il caso della pratica delle pitture corporali, del tatuaggio? Si può andare oltre e porsi la questione della funzione, probabilmente polivalente, della custodia penica. Infine, sempre per quanto riguarda il sesso maschile, tale può essere la base inconscia dell’uso del preservativo. D’altra parte, con l’uso generalizzato della maschera, l’«illusione di abbattere le barriere e le distanze sociali» potrà realmente imporsi? Cosa si significa in profondità quando si parla di maschere mortuarie? L’individuo non è più che un’apparenza, non ha più essere ma conserva qualcosa in rapporto con la vita, attivando il desiderio e la nostalgia che viva ancora? Infine, sarebbe opportuno esaminare il rapporto che si può avere tra maschera e travestimento, ma ciò non può essere trattato nell’ambito di questo testo.

[*22] -  In Positionnement ho trattato la possibilità di fare un’affermazione senza ambiguità non essendo nella dinamica dell’inimicizia. Per quanto riguarda il confinamento, molti hanno fatto notare che è una misura estrema e si sarebbe potuto operarla in modo meno draconiano. In realtà, soprattutto in Francia, ciò è dovuto ad una volontà di organizzare e ad un’incapacità di attuare altre misure come lo screening (molto contestato) effettuato in Corea del Sud o in Germania.

[*23] -  L’ho trovato nel Club di Médiapart: si parla di donne, ma vale anche per gli uomini.

[*24] - Trasposto, cioè realizzato in organi artificiali; si potrebbe anche dire trasferito. Abbiamo già citato e commentato questo testo in «Gloses I».

[*25] - Non si può dimenticare che la salute del pianeta va di pari passo con quella della specie; non si può separarle.

[*26] -  Ho trattato questo tema in «La separazione necessaria e l’immenso rifiuto», 1979.

[*27] - In Il Teatro e il suo doppio, commentato in «Gloses III».