Il dopo-coronavirus: una nuova Bretton Woods?
- di Sandrine Aumercier -
Via via che gli Stati si imbarcano nel de-confinamento, si comincia sempre più a parlare dei progetti che accompagneranno la crisi e che viene convenzionalmente chiamato rilancio economico. E questo, d'altronde, senza che nessuno abbia la benché minima idea se in autunno ci sarà una risorgenza del virus Sars-CoV-2 sotto forme eventualmente mutate. Sulle note di un falso «Grande cambiamento» (rilocalizzazione delle attività essenziali, sostegno ad un'economia senza carbone, ecc.), non si tratta solo di riprendere il più rapidamente possibile la «vita normale», ma di darsi un gran da fare, e mettercela tutta per tamponare una recessione che recentemente la Commissione europea ha paragonato a quella del 1929. I governi liberali che, di fronte ad un futuro incerto ed in nome della salvezza di vite umane, si sono indebitati per miliardi sono ora sul punto, spesso con enormi precauzioni, di presentare il conto facendo marcia indietro su alcune delle promesse fatta troppo alla leggera quando il processo di confinamento si trovava al suo apice. Ma ci si può aspettare altro da loro, intrappolati come sono in una contraddizione irrisolvibile tra l'imperativo della sicurezza e quello della crescita?
Ancora più istruttivo è volgere la propria attenzione ai discorsi della sinistra che fanno appello ad un «mondo a venire» che sarà veramente libero da tutti i difetti di quello precedente. A tal fine, leggiamo l'edificante dialogo, pubblicato sul sito del "Guardian" il 6 maggio 2020, tra due economisti autoproclamatisi di sinistra, Yanis Varoufakis (ex ministro del governo Tsipras che si definisce marxista libertario, cosa che è tutto dire) e David McWilliams (economista irlandese senza nessuna appartenenza). Entrambi fanno parte del Movimento per la Democrazia in Europa 2025 (DiEM25), un movimento trans-nazionale che propone una rifondazione democratica delle istituzioni europee, vicino all'alter-globalismo, all'eco-femminismo, all'ecologia sociale e alla critica della crescita. Un movimento talmente rivoluzionario da essere stato riconosciuto dalla maggioranza dei partiti di sinistra francesi, da numerose personalità di sinistra in Europa e dai «radicali» logorroici che vanno da Chomsky à Žižek, passando da Naomi Klein o da Julian Assange, i quali fanno parte del suo comitato di consulenza.
In questo dialogo, i due interlocutori concordano sul fatto che anche se, durante la fase di confinamento, il capitalismo è stato (secondo loro) messo in pausa, le regole del gioco sono rimaste le stesse. E questo (sempre secondo loro) avrebbe causato un «errore di categoria» generalizzato, che McWilliams descrive così: «Se si basa la propria politica economica sulla disposizione di persone che sono troppo traumatizzate e malate per contrarre prestiti - che è la logica fondamentale alla base del "quantitative easing" - ciò significa si ha un problema molto serio. Un'immagine diffusa di che cosa sia il "quantitative esasing" è quella di un tubo: un enorme tubo monetario, da dove sgorga dell'acqua che spegne il fuoco della crisi. Ma il tubo della politica monetaria viene limitato da quella che è una piccola valvola chiamata "Banche", da una piccola valvola chiamata il Comitato di Credito, una piccola valvola chiamata "volontà delle aziende di prendere denaro in prestito". E alla fine, quel getto di denaro diventa un rivolo, e anche quel rivolo finisce molto più nelle tasche dei ricchi, piuttosto che in quelle dei poveri.» Ed ecco che, di conseguenza, abbiamo un problema perché gli investimenti rischiano di essere sbagliati.
La soluzione sarebbe perciò una nuova Bretton Woods, così come vorrebbe la banale analogia tra la crisi del coronavirus ed un'economia di guerra. Secondo i nostri due interlocutori, questo rappresenterebbe lo scenario veramente alternativo che riuscirebbe a far pendere le sorti della crisi dal lato di un grande rinnovamento. Abbiamo tutto per quel che serve a questo grandioso e ambizioso programma: la lotta contro la povertà, la trasformazione ecologica... (è affascinante vedere come, tanto più crescono le disuguaglianze globali e tanto più si aggrava la crisi ecologica, più si parla dell'avvenire radioso e sempre più roseo che ci attenderebbe «se solo» si investisse finalmente con saggezza). Entrambi gli economisti sono lieti di vedere finalmente la Germania essere diventata economicamente piatta così come gli altri paesi europei, e vedono l'ostacolo ad un simile positivo scenario negli «ordoliberisti europei», i quali, in mancanza di investimenti virtuosi, diverrebbero fautori del neofascismo e ci farebbero entrare (scenario negativo) in un'economia globale «hobbesiana: malvagia, brutale e che impoverirebbe la maggior parte delle persone».
Il che vorrebbe dire che fino ad oggi abbiamo vissuto in un'economia dolce e clemente? Rimpiangendo il periodo - apparentemente favoloso - nel quale l'Irlanda è uscita dalla povertà grazie alla realizzazione della struttura europea, qui presentata come una «buona globalizzazione» che attrae capitali e permette alla gente di viaggiare, McWilliams versa una lacrima sul triste avvenire dei suoi figli, qualora tutto ciò non dovesse mai più tornare (dacché è noto che la globalizzazione è un bene fino a che va a beneficio della nazione, o dell'area commerciale che io rappresento; al contrario, la globalizzazione diventa ripugnante quando, nel gioco della concorrenza internazionale, sono io il perdente della storia!) Yanis Varoufakis - più a sinistra di me si muore –, che dice di essere d'accordo sull'essenziale, invece rispetto al suo interlocutore dissente su un dettaglio, vale a dire: «L'apertura che descrivi è sempre andata di pari passo con delle severe restrizioni: il Nafta ed il confine tra gli Stati Uniti ed il Messico; la libertà di circolazione in Europa ed il Frontex lungo le coste del Mediterraneo. Non si tratta di una contraddizione, ma è la logica di un sistema che privilegia la circolazione dei capitali a discapito della libertà degli esseri umani». L'ultima parola è inappellabile: «Se non riusciremo ad unirci subito, ora, intorno ad una nuova Bretton Woods, se non riusciremo a realizzare gli investimenti di cui l'umanità ed il pianeta hanno così disperatamente bisogno, temo che questo sistema non potrà fare altro che accrescere dell'altro la sua logica crudele. Surfando sulla liquidità che verrà liberata da delle politiche come il quantitative easing, il settore finanziario finirà per accrescere ancora di più la sua influenza sull'economia mondiale; i banchieri sono molto bravi ad arricchirsi a partire da questa instabilità. È quindi tempo per noi, tanto in Europa così come nel resto del mondo, di mobilitarsi a sostegno di questa visione comune di un nuovo ordine mondiale. Dal momento che senza di essa, i muri che ci separano non faranno altro che aumentare di spessore e di altezza: potranno essere attraversati solo dal denaro». Ovviamente, è questo il progetto al quale stanno lavorano i diversi membri del Movimento per La Democrazia in Europa nel 2025. E ci hanno avvertito in anticipo che ancora una volta sarà tutta colpa dei banchieri.
Questo dialogo non è certo una sorpresa, visto che già nel 2008 era stata chiesta una nuova Bretton Woods, però ora enuncia abbastanza chiaramente quali sono le alternative che vengono presentate dalle sinistre di tutte le tendenze (a volte in maniera meno esplicita, di quanto avvenga in questo saggio di bravura): si tratta innanzitutto di promuovere un ritorno nostalgico a quell'ordine economico keynesiano che venne messo in atto dagli Alleati alla fine della seconda guerra mondiale. Qui sembra che ci si sia completamente dimenticati del fatto che, invocando gli Alleati alla conferenza di Bretton Woods, gli Stati Uniti intendevano consolidare quello che era la loro posizione di prima potenza economica mondiale di fronte alle potenze europee esangui, e mettere in piedi un sistema monetario stabile che avrebbe dovuto evitare una nuova crisi del 1929. Il sistema del Gold Standard aveva mostrato quella che era la sua instabilità durante il periodo tra le due guerre, e con l'accordo di Bretton Woods le valute nazionali erano state definite in relazione al dollaro, con un tasso di cambio fisso che veniva garantito dalle istituzioni che venivano create in quell'occasione (il particolar modo, il Fondo Monetario Internazionale - FMI ). Allora solo il dollaro era convertibile in oro. Non di meno, per poter porre fine all'inflazione galoppante del dollaro degli anni '60, dovuta alle spese militari e spaziali, e per evitare di dover rimborsare in oro quelli che erano i dollari eccedenti, Nixon, nel 1971 mette fine alla convertibilità del dollaro in oro. Da quel momento, a poco a poco si sviluppò un "regime dei cambi fluttuanti" che prevale ancora oggi e che venne teorizzato dalla Scuola di Chicago.
Da tutto ciò, si può trarre la conclusione che nell'ultimo secolo nessuno dei sistemi monetari sperimentati è stato in grado di evitare delle gravi crisi globali. La prima cosa da fare, in maniera drasticamente empirica, dovrebbe essere perciò quella di domandarsi come si possa continuare a fare affidamento in un sistema che - quali che siano le sue configurazioni istituzionali - non ha mai smesso di trovarsi sull'orlo del fallimento. L'argomentazione è la solita ed è del tutto scontata: se le cose si mettono sempre male, ciò è dovuto alla mancanza di buona volontà da parte degli Stati e all'avidità degli investitori. Insomma, l'intero sistema economico si basa su una psicologia rudimentale, dove sarebbe sufficiente applicare la volontà alla politica e la morale all'economia, per far sì che questa possa funzionare a meraviglia (si noti che, a questo punto, è sufficiente fare un passo in più, per arrivare a dichiarare incurabile la «natura umana»; salvo forse organizzare e monitorare implacabilmente il «parco umano», oppure intervenire geneticamente sulla specie umana in modo da migliorarla moralmente, come propongono alcuni trans-umanisti). Simili soluzioni, si possono trovare contenute nelle premesse della psicologia utilitaristica, che vede in ogni essere umano solo un individuo egoista e calcolatore. Logicamente, una volta stabilite, queste premesse di auto-conferma permanente non possono essere risolte solo con degli interventi drastici su questa «natura umana». Poiché i buoni moralisti appaiono sempre più come delle pallide figure idealiste a fronte di quella che è una crisi sempre più profonda.
Quando si tratta di cambiare le regole del gioco, la cosa avviene sempre nel contesto delle categorie fondamentali del capitalismo. Il «barlume di speranza», al quale McWilliams e Varoufakis pretendono di aggrapparsi per testimoniare la loro cieca ed incrollabile fede nelle virtù del capitalismo, a condizione però che essa venga messa in delle «buone mani» desiderose di fare solo «buoni investimenti». Gli occhi puntati sulle crisi cicliche, causate semplicemente da una cattiva gestione, ed escludendo quindi di parlare della crisi fondamentale del capitalismo che accompagna tutte le differenti tappe del suo sviluppo storico. Robert Kurz aveva evidenziato il fatto che la diminuzione inesorabile della massa totale di valore, dovuta all'automatizzazione del lavoro (che sostituiva il lavoro vivente), non poteva fare altro che sfociare nella soluzione «neoliberista» di quella che è la crisi finale del capitalismo. Il neoliberismo non è un problema attribuibile solamente a degli attori corrotti e disonesti, bensì è una tappa logica della contraddizione in processo del capitalismo. Offrire una soluzione di tipo keynesiano come se si trattasse dell'antidoto alla malattia neoliberista, non è solo un puro anacronismo, ma è anche la prova di quello che finisce per essere un ripiegamento verso delle ricette familiari che non sono meno disastrose a causa del fatto che rimangono intrappolate in una matrice capitalista. Non abbiamo dubbi circa il fatto che la rabbia, che ribolliva già prima della crisi del coronavirus, si intensificherà nei prossimi tempi, quando la crisi sanitaria sarà alle nostre spalle, e nel momento in cui le persone dovranno scegliere tra la peste neoliberista ed il colera socialdemocratico, che formano il quadro insuperabile della politica dei partiti (quanto meno in periodi che sono sufficientemente solidi da un punto di vista economico). Di fronte alla crescente disperazione popolare, si avrà ancora una volta buon gioco nell'accusare le forse politiche razziste e populiste di sfruttare la situazione. In questo modo, si potrà ancora una volta risparmiare ogni critica al capitalismo senza smettere di continuare a portare acqua al suo mulino.
- Sandrine Aumercier - 8 maggio 2020 -
Pubblicato su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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