mercoledì 20 maggio 2020

La Trappola del Debito

Il dilemma del debito
- di Michael Roberts -

Molte volte, ho accennato su questo blog a come l'aumento del debito globale riduca la capacità delle economie capitalistiche ad evitare collassi e a trovare un modo rapido per poter recuperare . Come ha spiegato Marx, il credito è una componente necessaria per oliare le ruote dell'accumulazione capitalistica, rendendo possibile il finanziamento relativo a progetti più ambiziosi e più ampi, nel momento in cui solo i profitti riciclati non sono più sufficienti; e a fare circolare il capitale in maniera più efficiente per gli investimenti e la produzione. Ma il credito diventa debito, e per quanto esso aiuti ad espandere l'accumulazione di capitale, se i profitti non si materializzano in una maniera che sia sufficiente a soddisfare quel debito (vale a dire, a ripagarlo insieme agli interessi per i finanziatori) ecco che allora il debito diventa un fardello che comincia a rosicchiare i profitti e la capacità di espandersi del capitale).
Per il resto, sono due le cose che accadono: per far fronte a quelli che sono gli obblighi per il debito esistente, le imprese più deboli sono costrette a chiedere più prestiti per coprire i servizi del debito, di modo che così il debito si impenna a dismisura. Inoltre, il ritorno per quello che è il rischio sul prestito per i creditori, ora può sembrare ancora più elevato, rispetto all'investimento in capitale produttivo, soprattutto se il beneficiario è il governo, un debitore molto più sicuro. In questo modo, la speculazione sulle attività finanziarie, fatta sotto forma di obbligazioni e di altri strumenti di debito, aumenta. Ma se c'è una crisi nella produzione e negli investimenti, questa forse è in parte causata dagli eccessivi costi dei servizi di debito, ed ecco che allora la capacità delle imprese capitaliste di riprendersi, e di dare inizio ad un nuovo boom, viene indebolita dall'onere del debito.
Nell'attuale corona-crisi, il collasso si accompagna ad un elevato indebitamento globale, tanto pubblico, quanto imprenditoriale e domestico. L' Institute of International Finance, un ente che si occupa di commercio, stima che il debito globale, sia pubblico che privato, alla fine del 2019 abbia superato 255 mila miliardi di dollari. Si tratta di 87 mila miliardi di dollari in più, rispetto a quanti erano all'inizio della crisi del 2008 ed è senza dubbio destinata a diventare molto più alto a causa della pandemia. Come ha detto Robert Armstrong sul Financial Times: «la pandemia comporta dei rischi particolarmente grandi per le aziende con bilanci fortemente indebitati, un gruppo questo che ora include gran parte del mondo delle imprese. Eppure l'unica soluzione praticabile a breve termine è quella di indebitarsi ancora di più, per poter sopravvivere fino al superamento della crisi. La conseguenza: le aziende arriveranno alla prossima crisi con una montagna di debiti ancora più a rischio.»
Come sottolinea Armstrong,: «negli Stati Uniti, all'inizio della crisi, il debito delle imprese non finanziarie ammontava a circa 10 mila miliardi di dollari. È arrivato ad essere il 47% del prodotto interno lordo e non è mai stato così grande. In condizioni normali, questo non sarebbe stato un problema, poiché i bassi tassi di interesse hanno reso il debito ancora più facile da sopportare. I dirigenti delle imprese, facendovi ricorso, non hanno fatto altro che seguire gli incentivi che venivano loro offerti. Il debito è a buon mercato ed è deducibile dalle tasse, di modo che utilizzarne una maggiore quantità fa crescere i guadagni. Ma in una crisi, qualunque sia il suo prezzo, il debito diventa radioattivo. Con il precipitare delle entrate, il pagamento degli interessi comincia ad incombere. Le scadenze si trasformano in minacce mortali. La possibilità di fallimenti contagiosi cresce, e il sistema comincia a scricchiolare.» E continua,: «questo sta succedendo ora e, come fanno sempre, le aziende stanno cercando ancora più debito per poter restare a galla. Nel mese di aprile, le aziende americane hanno venduto 32 miliardi di dollari in titoli spazzatura, il maggior ammontare in tre anni. » Armstrong ammette di non sapere che cosa si debba fare. «Anche contenere il debito aziendale attraverso la regolamentazione dei finanziatori, è improbabile che possa funzionare. Dopo la crisi finanziaria, i requisiti patrimoniali richiesti dalle banche per i prestiti, sono diventati più rigidi. La leva finanziaria non ha fatto altro che sgattaiolare fuori dai bilanci delle banche ed è risbucata fuori in quello che è il sistema bancario ombra. Un approccio più promettente sarebbe quello di porre fine alla deducibilità fiscale degli interessi. Privilegiare un gruppo di fornitore di capitale (finanziatori) a scapito di un altro (azionisti) non ha mai avuto senso ed incoraggia il debito.»
Martin Wolf, il guru dell'economia del Financial Times, ritiene di avere una risposta. Vedete, il problema è che nel mondo c'è troppo risparmio, e non c'è abbastanza spesa. E questo «eccesso di risparmio» significa che i debitori possono contrarre prestiti a tassi d'interesse molto bassi, in una spirale infinita verso l'alto. Wolf basa la sua analisi sul lavoro degli economisti mainstream Atif Mian e Amir Sufi, i quali hanno scritto un libro qualche anno fa dal titolo "House of Debt" e che stato ritenuto dal guru keynesiano Larry Summers come «il miglior libro di questo secolo»! Per gli autori, il debito è il problema principale delle economie capitalistiche, e perciò non ci rimane altro da fare che risolverlo. Quel che c'è di strano nella loro argomentazione è che, pur riconoscendo che il debito del settore pubblico non sia stato la causa della Grande Recessione - come cercano di dimostrare gli economisti neoliberisti dell'austerità - non assegnano tale causa né  al debito delle imprese né al panico finanziario, bensì all'indebitamento delle famiglie. Sostengono che «sia la Grande Recessione che la Grande Depressione sono state precedute da un'enorme rincorsa a quello che è stato il debito delle famiglie.» A partire da una serie di studi empirici, Mian e Sufi dimostrano che, in un'economia, quanto più grande è l'aumento del debito tanto è più brusca la caduta della spesa dei consumatori. Ma non riescono a notare che si tratta di un calo degli investimenti delle imprese che annuncia una crisi della produzione capitalistica, e non un crollo nella spesa delle famiglie. Io ed altri abbiamo fornito prove a riguardo.
Nel loro libro, Mian e Sufi non affrontano i motivi della crescita inesorabile del debito, sia delle imprese che delle famiglie, a partire dai primi anni '80 in poi. Ora, nei nuovi studi citati da Martin Wolf, Mian e Sufi offrono una spiegazione. La spirale del debito (familiare) è stata causata dal fatto che i ricchi diventano più ricchi e risparmiano di più, mentre in quello che è il fondo della scala del reddito diventa sempre più povero, e quindi risparmia meno. I ricchi non hanno investito i loro guadagni extra in investimenti produttivi, ma li hanno accumulati, o li hanno usati nella speculazione finanziaria, o le hanno prestati ai poveri attraverso i mutui. In questo modo, l'indebitamento delle famiglie è cresciuto a dismisura a causa dell'eccesso di risparmio da parte dei ricchi. I ricchi si sono arricchiti ed hanno risparmiato ancora di più, mentre gli investimenti in attività produttive sono diminuiti fino a scomparire. Quindi l'«eccesso di risparmio» dei ricchi è la causa dei bassi investimenti e della scarsa crescita di produttività delle principali economie capitalistiche.
Mian e Sufi sostengono nel loro secondo lavoro che dal momento che le famiglie più povere hanno preso più prestiti, costretti dal loro basso reddito ed incoraggiate di bassi tassi di interesse resi possibili dell'eccesso di risparmio dei ricchi, l'indebitamento delle famiglie è cresciuto a tal punto da ridurre la «domanda aggregata», facendo rallentare la crescita economica e trasformandola così in una sorta di «stagnazione secolare». Questa teoria della «domanda indebitata» sostiene che questo avviene quando «la domanda è sufficientemente indebitata, l'economia rimane bloccata in una trappola di liquidità a causa del debito, o trappola del debito». Sarebbe stato questo il costo del servizio del debito, se i tassi di interesse non fossero scesi dopo gli anni '80. Wolf cita un'altra versione dello stesso argomento, secondo la quale un debito eccessivo viene causato da un eccessivo risparmio ed è la causa di una crisi del capitalismo. Questo argomento proviene dalla scuola post-keynesiana di Minsky. David Levy, che è a capo del Jerome Levy Forecasting Center, sostiene in un suo articolo, «Bubble or Nothing» ["Bolla o Niente"], che «il debito aggregato è cresciuto più velocemente del reddito aggregato» rendendo così «l'attività finanziaria sempre più pericolosa e rischiosa». Il rischio, Levy non lo vede tanto nell'entità del debito quanto nella sua crescente fragilità, come sostiene Minsky. Ma a differenza di Mian e Sufi, tuttavia Levy sottolinea correttamente l'importanza del debito delle imprese, rispetto al debito delle famiglie. Il rapporto tra debito e PIL del settore delle imprese non finanziarie si avvicina ad un nuovo massimo storico.


«Inoltre, escludendo il 5% delle società quotate in borsa, il grafico che mostra il livello di indebitamento delle imprese diventa più estremo e preoccupante (grafico 45). Un indicatore del rischio associato a questo incremento della leva finanziaria è il forte aumento, negli ultimi 10 anni, della percentuale di compagnie con un rating appena al di sopra del livello di spazzatura.» Ancora una volta, Levy dimostra che «dalla metà degli anni '80, l'economia degli Stati Uniti è stata travolta da una serie di cicli sempre più dominati dal bilancio, ed ogni ciclo ha comportato in qualche misura prestiti sconsiderati e speculazioni che hanno portato a crisi finanziari, pressioni deflazionistiche e ad una prolungata debolezza economica.» In altre parole, piuttosto che investire in attività produttive, le società sono passate alle fusioni e alla speculazione finanziaria, al punto che una parte sempre maggiore di profitti proviene dai guadagni da capitale piuttosto che dai profitti derivanti dalla produzione. La redditività relativa al valore in borsa delle azioni delle compagnie è diminuita in maniera drastica; o più precisamente, il valore in borsa delle aziende è aumentato in maniera esponenziale rispetto ai dividendi annuali provenienti dalla produzione.
Levy conclude dicendo che «senza l'espansione del rendiconto finanziario (cioè, l'acquisto di attività finanziarie), diventa estremamente difficile realizzare i profitti necessari al funzionamento dell'economia. Inoltre, una vota realizzati questi profitti, anche impedire alle famiglie e alle imprese di rispondere prendendo a prestito ed investendo - riaccelerando in tal modo l'espansione delle attività finanziarie e vanificando gli obiettivi -  è estremamente difficile.»
Cosa impariamo da tutto questo? Mian e Sufi sottolineano le crescenti disuguaglianze degli anni '80, che è consistita in uno spostamento del reddito dai più poveri al top 1%, cosa che ha portato così ad un in indebitamento delle famiglie e ad un eccesso di risparmio. Però non spiegano il perché ci sia stata tale crescita delle disuguaglianze avvenuta negli anni '80, e ignorano la crescita del debito delle imprese, il quale, per l'accumulazione del capitale e per l'economia capitalista, è sicuramente assai più rilevante . L'indebitamento delle famiglie è aumentato a causa dei mutui ipotecari e dei tassi più bassi, ma a mio avviso è stato il risultato del cambiamento che c'è stato nella natura dell'accumulazione capitalistica a partire dagli anni '80, e non la causa. Ed attualmente anche Mian e Sufi fanno accenno a questo. Essi notano come l'aumento delle disuguaglianza, a partire dagli anni '80, abbia «riflettuto quelli che sono stati i cambiamenti avvenuti nella tecnologia e nella globalizzazione, che i quegli anni ha avuto inizio.» Esattamente. Cosa è successo all'inizio degli anni '80? La reddittività del capitale aveva raggiunto un nuovo minimo nella maggior parte  delle principali economie capitalistiche.
Il profondo collasso del 1980-2 aveva decimato i settori produttivi del nord del mondo e per una generazione aveva indebolito i sindacati. Vennero gettate le basi per le cosiddette politiche neoliberiste, per cercare di aumentare la redditività del capitale per mezzo di una crescita del tasso di sfruttamento. E questa fu la base per un re-orientamento del capitale, dai settori produttivi del "nord globale" al "sud globale" e verso il capitale fittizio del settore finanziario. Rastrellare i profitti ed il denaro prestato trasformandolo in obbligazioni ed in partecipazioni, servì a fare scendere i tassi di interesse e a far salire i rendimenti dei capitali ed i prezzi delle azioni. Le aziende avevano lanciato un programma infinito di riacquisto delle proprie azioni al fine di aumentarne i prezzi, ed aumentare così il volume dei prestiti che venivano fatti per acquistarle.
Ma tutto questo non aveva ridotto la "domanda complessiva"; al contrario, i consumi delle famiglie erano saliti fino a raggiungere nuovi record. Ciò che mise fine a questo boom di credito speculativo è stato il crollo della redditività del capitale, avvenuta alla fine degli anni '90, che portò nel 2001 allo scoppio di una piccola bolla "high-tech", e successivamente al collasso finanziario e alla Grande Recessione del 2008. Da un lato, un «eccesso di risparmio» consiste in una «carenza di investimenti». La bassa redditività delle attività produttive diventava una bolla speculativa alimenta dal debito attinente alle attività fittizie. Le crisi non sono il risultato di un deficit di "domanda indebitata"; ma sono causare da un deficit di redditività. Ma come fa il capitalismo ad uscire da questa trappola del debito? È questo il dilemma del debito.
Wolf e Mian e Sufi ritengono che si esca per mezzo di una redistribuzione dei redditi. Wolf cita Marriner Eccles, capo della Federal Reserve statunitense durante la Grande Depressione degli anni '30. Nel 1933, Eccles disse al Congresso: «È nell'interesse del bene fare ... che noi si prenda da loro una quantità sufficiente del loro surplus in modo che si possa permettere a consumatori di consumare e alle imprese di operare con profitto.» Come potete vedere, è nell'interesse dei ricchi lasciare che il governo si prenda un po' dei loro soldi per aiutare i poveri ad aumentare il loro consumo. Mian e Sufi dicono: «Per sfuggire alla trappola del debito, è necessario che si prendano in considerazione delle politiche macro-economiche meno convenzionali, come quelle incentrate sulla redistribuzione o come quelle che riducono le cause strutturali di una disuguaglianza così elevata.» Dobbiamo perciò ridurre l'elevata disuguaglianza, affrontando le «cause strutturali». A mio avviso, ciò significa affrontare caratteristiche strutturali quali la crescente concentrazione, e centralizzazione, dei mezzi di produzione e della finanza, e non solo quella che è una crescente disuguaglianza di reddito.
Infatti, Wolf sembra avere un punto di vista più radicale: «Oggi, con il Covid-19 abbiamo un'opportunità enorme per sostituire i prestiti governativi alle imprese con l'acquisto dei titoli azionari delle società stesse. Infatti, con gli attuali bassissimi tassi di interesse, i governi potrebbero creare degli istantanei fondi sovrani a bassissimo costo!» In questo modo lo Stato potrebbe intervenire ed acquistare le azioni di quelle società che hanno grossi debiti che non possono onorare. Ma in realtà, ciò potrebbe significare che i governi comprano le aziende deboli, che sono già «zombie», mentre quelle che sono le aziende potenti e redditizie rimangono intatte. Questo è un governo che punta a salvare il capitalismo, e non a sostituirlo. Qui Wolf segue da vicino quella che è la linea del Financial Times, per cui «Durante la pandemia, i liberi mercati devono essere protetti attraverso un intervento statale sensato e mirato, che possa aiutare il capitalismo a sopravvivere nella crisi.» Al contrario, Levy è pessimista circa il fatto che possa esistere una qualsiasi soluzione per evitare i crolli: «Non esiste alcun insieme realistico di politiche federali in grado di risolvere in maniera indolore il Grande Dilemma dell'Economia di Bilancio, e non esiste nemmeno un progetto di quali dovrebbero essere le politiche ottimali.»
Marx sarebbe d'accordo sul fatto che l'unica via d'uscita da questa crisi è attraverso la crisi. L'ex capo del FMI, il (famigerato) Dominic Strauss Kahn ritiene che gli strateghi del capitale devono limitarsi esclusivamente alla liquidazione degli zombie e a lasciar crescere la disoccupazione, poiché così «la crisi economica, distruggendo il capitale, potrà fornire una via d'uscita. Le opportunità di investimento che sono state create dal collasso di una parte dell'apparato produttivo - come l'effetto avuto sui prezzi delle misure di assistenza - possono riavviare il processo di distruzione creativa descritto da Schumpeter».
Per mettere fine alla spirale de debito e del capitale fittizio, sarà necessario molto più che tassare più i ricchi, o comprare le aziende più deboli pagandole con il debito pubblico. Come dice Wolf: «Dovremo adottare alternative più radicali. Una crisi è un eccellente momento per poter cambiare rotta. Cominciamo subito.» Naturalmente, quel che intende fare è cambiare il capitalismo, non sostituirlo.

- Michael Roberts - Pubblicato il 10/5/2020 su Michael Roberts Blog -

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