martedì 12 maggio 2020

Pagare le bollette! - Ovvero, piccola storia del Covid-19

Cosa ci sta succedendo?
- di Jérôme Baschet -

Forse non è sbagliato dire che il Covid-19 è una malattia del Capitalocene e che ci fa entrare a pieno titolo nel 21° secolo. Probabilmente, è la prima volta che ci fa toccare con mano la vera portata delle catastrofi globali che ci aspettano [*1]. Eppure, anche così, dobbiamo cercare di comprendere, ancora con maggiore precisione, cosa ci sta capitando, sia per quel che concerne l'epidemia provocata dalla SARS-Cov-2 sia per le politiche sanitarie adottate per contenerla, messe in atto al costo di una stupefacente paralisi economica; dal momento che senza un simile presupposto, non possiamo sperare di individuare quali sono le opportunità che potrebbero emergere in queste circostanze in gran parte inedite. Tuttavia, non c'è alcuna garanzia che ciò possa avvenire. Risucchiati in un vortice di informazioni, ogni giorno sempre più sorprendenti o sconcertanti, che l'evento provoca, noi barcolliamo. A volte non si riesce nemmeno a credere ai propri occhi e alle proprie orecchie, né a nessuno degli altri sensi. Meglio ammettere che molte certezze vacillano. Così come anche molte ipotesi. Eppure, bisogna tentare di cominciare a fare qualcosa, in attesa di migliori elaborazioni collettive.

La malattia del Capitalocene ed il capitalismo come malattia
In che misura, l'attuale pandemia può essere collegata alle dinamiche del capitalismo? La questione è - e sarà - al centro delle lotte politiche a partire dalla crisi del Coronavirus. Logicamente, le forze sistemiche faranno di tutto per cercare di naturalizzare la pandemia, e tenteranno di imporre una sua comprensione profondamente a-storica. È questo l'esercizio cui si è dedicato, fregiandosi paradossalmente dell'autorità di storico, l'autore del best-seller mondiale "Sapiens. Da animali a dèi", Yuval Noah Harari [*2]. Nella sua argomentazione si può vedere in atto la quintessenza dell'ideologia, quale si conviene alle élite del mondo dell'Economia, e di come ci si sforzi di diffonderla nel contesto di quella che è la crisi attuale. Per Y. Hararu, l'esistenza di antiche pandemie basterebbe a dimostrare come la globalizzazione sia stata messa sotto accusa a torto, come la sia voluta rendere responsabile - innocente - dell'epidemia di Covid-19. Di conseguenza, sarebbe assolutamente sbagliato, una volta che fosse stato superato il picco sanitario, prendere delle misure che andrebbero contro le dinamiche della globalizzazione; al contrario, bisogna plaudire ai progressi trionfali della scienza, i quali rafforzano in maniera permanente le barriere interposte tra il mondo degli uomini e quello dei virus, e dobbiamo avere fiducia negli specialisti della sanità e nelle autorità politiche, per proteggere efficacemente la popolazione ed assicurare, nel quadro della cooperazione e della fiducia reciproca, il buon funzionamento dell'ordine mondiale. In questo stupefacente saggio di bravura ideologica, si rimane particolarmente colpiti dal legame che viene stabilito tra la naturalizzazione dell'epidemia e la legittimazione del mondo dell'Economia. E ciò dimostra quanto appaia necessaria una contro-lettura che sia propriamente storica.
Va da sé che le pandemie non hanno certo aspettato il capitalismo per esistere e per causare dei disastri a volte ben peggiori del Covid-19. Ma ci vuole molta più ignoranza, o malafede, per poter arrivare a concludere, sulla base di una tale evidenza, che queste pandemie costituiscano dei semplici fenomeni «naturali», con i quali l'umanità si è dovuta confrontare in ogni epoca alla stessa maniera e per le stesse ragioni. Le pandemie sono fenomeni che trasgrediscono la moderna dissociazione tra natura e società, e che in gran parte dipendono da interazioni tra ambiente naturale e società e modalità di organizzazione dei collettivi umani. In tal modo, pertanto, il sorgere ed il diffondersi delle principali malattie infettive che hanno afflitto la specie umana è strettamente legato ad una delle più grandi trasformazioni della storia: il passaggio a delle società agrarie, ed in parte sedentarie [*3]. Quella che possiamo continuare a chiamare - malgrado la lentezza non lineare del processo e in considerazione della profondità dello sconvolgimento - la «rivoluzione neolitica» ha creato le condizioni per una promiscuità del tutto nuova tra gli esseri umani, gli animali domestici e quei commensali (roditori, insetti, ecc.) attratti dalle riserve di cibo. È stato tutto questo che ha favorito la trasmissione all'uomo di agenti patogeni, fino ad allora specifici di alcune specie animali, provocando così l'emergere delle grandi malattie infettive, che da allora in poi hanno afflitto l'umanità: colera, vaiolo, parotite, morbillo, influenza, varicella, ecc. Si tratta quindi di un importante cambiamento della storia umana: il passaggio dalle società di cacciatori-raccoglitori alle società agrarie (anche se andrebbe evitata un'analisi che sia troppo semplice ed evolutiva di questa dualità), che è stato la causa diretta di un incremento massiccio di malattie infettive, a carattere endemico o epidemico. E non è vietato stabilire un parallelo tra quel momento, proprio del cambiamento neolitico, e quello che viviamo oggi, in relazione all'accumulo esponenziale degli effetti letali  del capitalismo diventato globale. Certamente, nel periodo intercorso tra questi due momenti chiave, si sono sviluppate altre pandemie, senza che appaia possibile collegarle in maniera altrettanta chiara a delle modificazioni qualitative del rapporto tra organizzazione sociale e ambiente naturale. È questo il caso della peste bubbonica (Yersinia pestis) che ha imperversato in tutto il Mediterraneo e l'area eurasiatica dal 6°, 8° secolo fino a tutto il 18° secolo, con il suo più drammatico episodio, la Peste nera, che, a partire dal 1348, decimò tra un quarto e la metà della popolazione, a seconda delle città e delle regioni europee. Recentemente, è stato dimostrato che la diffusione della Peste nera, trasmessa agli esseri umani dalla pulce del ratto, potrebbe essere stata collegata ad un cambiamento climatico - evidentemente non antropico [*4]. Si tratta della fine di quello che è stato il massimo climatico medievale (11° - 12° secolo), la quale, provocando delle perturbazioni al precedente equilibrio e soprattutto un aumento dell'umidità, avrebbe determinato una moltiplicazione dei roditori e ad una crescita dell'attività dei loro parassiti, con un conseguente salto di specie verso l'uomo. Tutto questo si sarebbe prodotto nella regione dell'altopiano del Qinghai, vicino al Tibet, probabilmente negli anni 1270. Più tardi, le carovane dei mercati trasportarono l'agente patogeno verso le regioni del Kirghizistan dove viene segnalato nel 1338. In seguito, nel 1346, raggiungeva le rive del Mar nero, da dove le navi che allora commerciavano tra la parte occidentale e quella orientale del Mediterraneo lo avrebbero portato a Messina e a Genova, Da lì, si era poi diffuso molto rapidamente in tutt'Europa. Al di là delle superficiali somiglianze con il Covid-19 (l'origine cinese del focolaio iniziale della zoonosi e la sua trasmissione verso l'Europa lungo le rotte commerciali), vanno soprattutto sottolineate quelle che sono le importanti differenze, a cominciare dalla grandissima lentezza della diffusione dell'epidemia (70 anni per percorre i 2.000 chilometri che separano il Qinghai dal Kirghizistan, e in totale 80 anni per unire la Cina all'Europa, laddove alla SARS-Cov-2 è bastata qualche settimana). Questo ci dà un'idea della differenza di scala tra l'attuale globalizzazione e quella che talvolta viene definita, senza sufficienti precauzioni, come la prima globalizzazione (a partire dal 18° secolo, poi, più palesemente, dal 16° secolo). Inoltre, l'epidemia di peste del 14° secolo è rimasta limitata all'Europa, al Medio Oriente e alla zona mediterranea, cosa che non è in alcun modo paragonabile alla pandemia realmente planetaria del Covid-19. Va notato tuttavia che anche se il cambiamento climatico che sembra essere all'origine dell'espansione della Yersinia pestis non debba niente all'azione umana, rimane comunque significativo constatare che si tratta di una modificazione dell'equilibrio del vivente ad aver favorito il salto di specie da parte dell'agente patogeno.
Un altro momento importante di espansione epidemica, viene associato alla conquista europea del continente americano. Si sa ed è noto che quelli rimasti isolati dal blocco afro-euro-asiatico a partire dalla fine delle grandi glaciazioni, le popolazioni native americane, non hanno avuto la medesima storia infettiva comune agli altri gruppi umani, e si sono trovate prive delle difese immunitarie nei confronti degli agenti patogeni che verranno portati dagli europei, in particolare nei confronti del virus del vaiolo (mentre in cambio venne data agli europei una malattia che era loro sconosciuta: la sifilide). Questo shock microbico ha contribuito a quella che è stata una drammatica mortalità, e che ha decimato circa il 90% della popolazione dei nativi americani residente nelle regioni colonizzate (per quel che riguarda la sola regione mesoamericana, vale a dire la metà meridionale del Messico ed una parte dell'America Centrale, gli storici stimano che la popolazione nativa sia passata, in meno di un secolo, da venti milioni ad un milione di abitanti). Questo momento di accelerazione in quella che è stata la diffusione planetaria delle pandemie, si trova chiaramente associato ad un importante fenomeno storico, il quale ha modellato ampiamente il futuro del mondo negli ultimi cinque secoli: la colonizzazione europea che, gradualmente e salvo rare eccezioni, ha esteso il dominio occidentale a tutto l'insieme del pianeta. Ci sono altri importanti episodi in quella che è stata la diffusione delle grandi epidemie verso l'Africa, che possono essere associati a questo medesimo contesto sociale. Infine, dev'essere segnalato il ripetersi di epidemie influenzali, la più mortale delle quali è stata la cosiddetta «spagnola» nel 1918-1920: avendo avuto la sua probabile origine negli Stati Uniti, nel Kansas, venne portata in Europa dalle truppe nord-americane, e da lì, soprattutto via mare, nelle regioni colonizzate o dominate dagli europei, in Africa, in Asia ed in Oceania. Oltre agli Stati Uniti e all'Europa occidentale, sono state l'India e la Cina a pagare il prezzo più alto a quest'epidemia, questa volta veramente mondiale (analogamente alla prima delle guerre mondiali e ad un dominio europeo diventato anch'esso globale). Si stima che possa aver causato la morte di 50 milioni di persone. Altre epidemie influenzali, si sono manifestate nel corso della seconda metà del 20° secolo, segnando così il ripresentarsi di un virus, noto da molto tempo ma frequentemente mutato in forme più gravi. È stato il caso dell'influenza Asiatica, nel 1956-1957, che uccise tra 1 E 4 Milioni di persone in tutto il mondo, e poi dell'influenza di Hong Kong, nel 1968-1970, che fece i milione di vittime, di cui 32.000 solo in Francia. Va notato che queste due epidemie, assai vicine a noi nel tempo, non hanno dato luogo a severe misure di contenimento, e non sono state oggetto di molta attenzione da parte dei media [*5].
Successivamente, si verifica una nuova rottura, e a partire dagli anni '80 e ancor più dall'inizio del 21° secolo, si constata un aumento incontrollato di quello che è i tasso delle nuove zoonosi: HIV, influenza aviaria H5N1, che è riemersa periodicamente a partire dal 1997 e soprattutto nel 2006, SARS nel 2003, influenza suina nel 2009, MERS nel 2012, Ebola nel 2014, fino al Covid-19 (lista non è esaustiva). Ma stavolta la causalità antropica gioca un ruolo decisivo. Un primo fattore riguarda il fenomeno, iniziato negli anni '60, dell'allevamento industriale, in particolare quello che concerne i maiali e i polli, le due carni più consumate su scala mondiale (al punto che le ossa di pollo sono, insieme alla plastica e alle radiazioni nucleari, uno dei tre marcatori geologici più sicure dell'Antropocene). Le sua abietta forme concentrazionaria, basata su delle logiche di economia di scala e di integrazione nei mercati mondiali, fatta di monocoltura, di massiccio ricorso a sostanze chimiche, di artificializzazione e di indebitamento, ha anche delle conseguenze sanitarie disastrose che favoriscono  il salto di specie da parte delle infezioni virali [*6]. Il secondo fattore, è l'espansione dell'urbanizzazione e soprattutto l'esplosiva crescita delle grandi metropoli. In combinazione con quelle che sono le altre cause di deforestazione e di artificializzazione degli ambienti naturali, spinge i cacciatori che sono alla ricerca di animali selvaggi ad avventurarsi in delle zone che erano fino ad allora in gran parte non toccate dall'intervento umano; ma soprattutto, riducendo quello che è l'habitat degli animali selvaggi, li costringe ad avvicinarsi alle zone occupare dall'uomo. È stato questo il caso dell'HIV, un virus che ha avuto origine tra le scimmie che si spostano a causa delle deforestazione, ed è stato anche il caso di Ebola, un virus che ha avuto la sua origine nei pipistrelli che vengono cacciati nelle foreste dell'Africa occidentale e centrale. Ragion per cui, sono le trasformazioni indotte dalla smisurata espansione dell'economia globale, con la sua logica di mercificazione e con la manifesta mancanza di attenzione per quelli che sono gli equilibri della vita, favorendo così l'attuale moltiplicarsi delle zoonosi.
E qual è invece il caso del SARS-Cov-2? È ancora troppo presto per dirlo, dal momento che non si ha alcuna certezza per quanto riguarda la catena iniziale di trasmissione del virus. La tesi che viene generalmente ammessa mette sotto accusa il mercato di Wuhan, il ruolo svolto dal pipistrello (tanto più probabile, a partire dal fatto che questa specie è una formidabile riserva virale) e forse altri animali selvaggi che in quel mercato sarebbero stati venduti. Ma questi dati potrebbero non essere così certi come sembrano [*7]. Il mercato di Wuhan potrebbe essere stato il luogo a partire dal quale si è diffusa l'epidemia, ma non necessariamente il primo punto in cui è comparso. Data quella che è la posta in gioco, politica e geopolitica, della questione, e tenuto conto delle informazioni che le autorità cinesi non hanno fornito, potrebbe benissimo darsi che non si potrà mai disporre di dati affidabili riguardo questo soggetto [*8]. Si può solo suggerire che, in questo caso, non ci debba per forza essere necessariamente un legame tra la diffusione del SARS-Cov-2 e lo sviluppo dell'allevamento industriale (a meno che il virus non sia stato trasmetto con l'intermediazione degli immensi allevamenti di suini d Hubei [*9]. Non è nemmeno chiaro se possa essere stabilito un legame con l'espansione urbana (sebbene Wuhan sia una metropoli di 12 milioni di abitanti). Per contro, esiste un terzo fattore che è qui decisivo: l'intensificazione dei flussi mondiali associati alla produzione di merci e alla circolazione delle persone. È evidente che il coronavirus non si sarebbe diffuso alla stesso modo se Wuhan non fosse diventata una delle capitali mondiali dell'industria automobilistica. La causalità è di fatto duplice: è dovuta alla crescita della Cina, diventata la seconda potenza economica mondiale (il 16% del PIL mondiale, contro solo il 4% del 2003), ma anche l'enorme espansione del traffico aereo (in 15 anni, il numero dei passeggeri è raddoppiato). Di fatto, la diffusione del coronavirus corrisponde esattamente alla mappa della densità del traffico aereo mondiale: nel giro di poche settimane, si è diffuso dalla Cina e dalle principali potenze vicine verso l'Europa e il Nord America, mentre in America Latina è arrivato un po' più tardi, mentre l'Africa è rimasta per molto tempo indietro. Ad essere state colpite per prime sono proprio le zone più interconnesse e più «centrali» del capitalismo globalizzato. Ma prima d'ora si era vista un'epidemia che si diffonde in maniera così ampia e veloce su scala mondiale (perfino l'influenza di Hong Kong ha impiegato quasi un anno per arrivare dalla Cina in Europa).
In questo contesto di esplosione di zoonosi, lo scenario di una drammatica pandemia su scala planetaria è stata a lungo temuta e studiata [*10]. La Cina e i suoi vicini si stanno preparando a questo, in maniera attiva, fin dal 2003. Gli Stati Uniti avevano istituito (quanto meno fino a quando Trump vi ha messo fine, nel 2019) il "Predict Program", al fine di sorvegliare quei virus animali suscettibili di essere coinvolti nell'espansione delle attività umane e, quindi, di attuare un salto di specie. È di pochi mesi prima della comparsa del SARS-Cov-2, nel mese di ottobre del 2019, la notizia che la Johns Hopkins University, di Baltimora, aveva organizzato insieme alla Fondazione Gates e al World Economic Forum un simposio chiamato "Event 201 Scenario", il cui fine era quello di simulare una pandemia globale causata da un coronavirus, con lo scopo di elaborare delle raccomandazioni per i governi di tutto il mondo [*11]. Nello scenario adottato, avveniva che il virus, originatosi nei pipistrelli e trasmesso agli esseri umani nel contesto degli allevamenti di suini del Brasile, causava in un anno e mezzo circa 65 milioni di morti. La SARS-Cov-2 è sicuramente venuta per eseguire uno spartito che era stato in qualche modo scritto in anticipo (cosa questa che ha alimento le letture cospirative che a volte sono state fatte dell'incontro di ottobre 2019). Va tuttavia notato che il suo moderato tasso di mortalità, pari circa all'1%, ha consentito, per diverse settimane, che si nutrissero dubbi sulla gravità dell'economia, alimentate ad esempio da infelici paragoni con l'influenza stagionale, che sono stati fatti propri dai sostenitori dell'«ordinaria amministrazione». Oggi, la serietà delle forme più gravi dell'epidemia ed il sovraffollamento dei servizi di emergenza che essa provoca, hanno imposto una valutazione del tutto diversa. E la traiettoria attuale lascia presagire quale sarà l'ordine di grandezza della mortalità che provocherà da qui a qualche mese (un ordine di grandezza di circa 500.000 o 1 milione di morti, se non più, questo a seconda della scala di ampiezza che la pandemia potrebbe assumere nei paesi più vulnerabili, ed in particolare in Africa). Per quel che riguarda la mortalità che sarebbe stata raggiunta in assenza di qualsiasi seria misura di contenimento, può essere stimata - in base alle proiezioni realizzate per la Gran Bretagna e per gli Stati Uniti [*12] - nella misura di circa 40 milioni di morti in tutto il mondo.
Resta il fatto che anche se il confronto del Covid-19 con la mortalità dovuta all'influenza stagionale è poco pertinente, metterla in relazione ed a confronto con le altre cause di mortalità non è però ingiustificato. Ragion per cui, ci sono state voci provenienti dal Sud del mondo che hanno sottolineato che una malattia come la malaria colpisca ogni anno 200 milioni di persone, uccidendo 400.000 persone, senza che questo causi troppe emozioni. Del resto, si può far valere la tesi che esistono molte altre cause di morte causate dal produttivismo capitalistico, che sono anch'esse assai lontane dal suscitare una mobilitazione così generalizzata come quella relativa all'attuale pandemia. Si pensi al collasso della biodiversità (quante sono state le specie estinte o decimate) o all'olocausto di un miliardo di animali in quelli sono stati recentissimamente, nel 2019, i mega incendi australiani. E anche attenendoci solo alla mortalità umana, la lista è lunga e dolorosa: il moltiplicarsi dei tumori legato all'utilizzo dei pesticidi o a quello di altre sostanze tossiche; i disturbi causati dagli interferenti endocrini; la sindrome metabolica (sovrappeso, diabete ed ipertensione) associata all'alimentazione industrializzata ed al modo di vita moderno che colpisce ormai un terzo dell'umanità (e che è del resto la maggior concausa che interviene nel decesso di un considerevole numero di pazienti colpiti dal Covid-19); la resistenza batterica legata all'eccessivo consumo di antibiotici (che si stima provochi 30.000 morti l'anno in Europa); oppure, ancora, le morti premature associate all'inquinamento atmosferico (9 milioni l'anno solo per le polveri sottili), ecc. Riguardo quest'ultimo punto, va sottolineato come la crisi del coronavirus abbia avuto anche degli effetti positivi, il più visibile dei quali è la diminuzione dell'inquinamento industriale ed urbano [*13]. Si può stimare che, nei primi mesi del 2020, ciò abbia consentito di evitare ben 53.000 morti in Cina [*14], cosa che compensa ampiamente la mortalità attribuita al Covid-19 (quanto meno secondo quelle che sono le cifre ufficiali, assai probabilmente sottostimate). Naturalmente, i due tipi di dati non possono essere comparabili direttamente: le particelle sottili non sono affatto l'unica causa direttamente constatabile dei decessi, e l'eccesso di mortalità ad esse attribuito è solo un calcolo statistico , ben diverso da quello dei contagiati dal Covid-19, che sommergono in maniera drammatica quelli che sono i servizi di emergenza. Rimane tuttavia legittimo evidenziare che, in contrasto con la natura brutale e spettacolare della pandemia provocata dal SARS-Cov-2, le altre cause di morte non ricevono l'attenzione che richiederebbero, dal momento che sono più continue e meno visibili. Ragion per cui, bisogna insistere in maniera particolare sulla resistenza batterica, la quale non potrà altro che aumentare nel prossimo decennio. Non mancano le ragioni per considerare che si tratterà di una delle più drammatiche potenziali cause di mortalità del prossimo secolo. Insieme ai virus, i batteri non vanno dimenticati come i principali attori non umani dei tempi a venire.
Nel complesso, si può affermare che ole infezioni virali sono dei fenomeni «naturali», nel senso che i  virus hanno comportamenti ed inclinazioni proprie; ma il divenire ed il futuro di alcuni di essi è in gran parte orientato dalle trasformazioni dell'ambiente provocate dalle attività umane. Due momenti della storia umana sono stati segnati da una significativa moltiplicazione di quelli che sono stati dei salti di specie, e dalla conseguente espansione delle pandemie che ne è derivata - dapprima con l'emergere delle società basate sull'attività agricola, all'inizio del neolitico, poi con la generalizzazione e l'intensificazione del produttivismo capitalista e con la brutale disorganizzazione del vivente che ne consegue. Se la storia delle epidemie ci invita ad approfondire questi due momenti di rottura storica, è chiaro che il secondo, parte integrante dell'Antropocene-Capitalocene, si caratterizza a partire da un intervento umano attuato su una scala dirompente incomparabilmente maggiore.


Sono 3 le caratteristiche associate che possono essere considerate inedite, e direttamente legate alle condizioni sistemiche del Capitalocene: 1) - il ritmo accelerato della comparsa delle nuove zoonosi (praticamente, ormai quasi una ogni due anni), e il che significa che le barriere di specie stanno diventando sempre più deboli: 2) - il fatto che un buon numero di queste zoonosi coinvolgono ed interessano delle specie selvagge, cosa che in passato avveniva raramente (cosa che segnala quelli che sono gli effetti di una distruzione illimitata di ambienti naturali precedentemente salvaguardati); 3) - infine, la diffusione generalizzata ed estremamente rapida della pandemia, cosa che fa del Covid-19 la prima pandemia veramente globale del mondo globalizzato. Tutto ciò ci porta anche ad affermare  che, a prescindere da quale possa essere la mortalità, più o meno elevata, che avrà alla fine causato, il Covid-19 non sarà l'ultima della grandi pandemie dei 21° secolo, e senza dubbio non sarà nemmeno la più disastrosa.
I Covid-19 è una malattia grave, e non sarebbe opportuno che venisse minimizzato il suo carattere letale. Ma è comunque legittimo ritenere come questa mortalità  non sia che un aspetto di quella che è una forza distruttiva ancora più ampia: quella di un capitalismo patogeno, che è allo stesso tempo sia ecocida che umanicida. Finora non c'era mai stata nessuna civiltà che avesse prodotto così tanti fattori di moltiplicazione e di generalizzazione delle malattie gravi, insieme ed in concomitanza alla distruzione degli ambienti viventi. A partire da queste precisazioni, si può asserire che il SARS-CoV-2 è, insieme a numerose altre cause di morte di distruzione, una patologia de Capitalocene. E se possiamo dire che il 21° secolo comincia nel 2020, ciò è perché il Covid-19 ci fa toccare con mano, per la prima volta su scala così globale e con una brutalità così brusca, quali saranno le catastrofi proprie di un'epoca segnata venuta a riscuotere le esose e gravose bollette de Capitalocene. Perciò, affermare che il SARS-CoV-2 è una patologia del Capitalocene vuol dire anche, senza minimizzare quella che è la sua specifica pericolosità, puntare il dito contro un agente patogeno assai più letale, dal quale è responsabilità dell'uomo dover liberare il pianeta: il capitalismo stesso.

Pandemia, strategie statali ed imperativi economici
Anziché descrivere ancora una volta in dettaglio, quella che è la sequenza della crisi sanitaria e della crisi finanziaria ed economica, ci si focalizzerà su quali sono le misure prese dai diversi Stati e sulle analisi che di queste si possono proporre. Il confinamento generalizzato che viene imposto su scala planetaria e che sta sconvolgendo massicciamente le nostre esistenze, verrà perciò messo al centro dell'attenzione. I contributi su questo tema abbondano  e, senza dover entrare nei dettagli, bisogna quanto meno insistere sul carattere altamente ineguale del confinamento: L'epidemia fa da cartina di tornasole ed accentua le disuguaglianze già esistenti; e la disuguaglianza è duplice, sia di fronte alla malattia sia di fronte alle condizioni di confinamento. Sono molte le duplicità ad essere state ampiamente descritte e denunciate [*15]: tra le categorie professionali più privilegiate che si dedicano al telelavoro e quelle che, al contrario, sono costrette a lavorare nei soliti posti, in condizioni insufficienti di protezione e per dei salari che sono assai spesso tra i più bassi; tra i confinati nel verde delle loro seconde case e confinati rimasti ad essere sfruttati nelle città; tra i confinati che dispongono di appartamenti confortevoli e di risorse consistenti e i milioni di persone che soffrono una promiscuità ancora più difficile di quanto lo sia solitamente, assai poco favorevole a qualsiasi misura di prevenzione, per non parlare della situazione dei senzatetto, dei carcerati, delle persone che si trovano nei centri di accoglienza i delle donne e dei bambini che devono subire le violenze domestiche. Assai spesso, quelle che sono le disuguaglianze razziali intersecano e si sommano, rafforzandole, alle scissioni sociali, come ad esempio dimostrato della palese sovra-rappresentazione, tra le vittime del Covid-19 negli Stati Uniti, degli afro-discendenti (il 70% dei decessi, in molti Stati nei quali rappresentano solo un terzo della popolazione). È stata evidenziata anche la sovra-esposizione delle donne all'epidemia, anche se in definitiva le forme più gravi e la mortalità toccano più gli uomini (con proporzioni percentuali tra i sessi che variano molto da un paese all'altro). Su scala internazionale, le disuguaglianze sono ancora maggiori: molti paesi del Sud del mondo hanno sistemi sanitari fragili, se non del tutto inadeguati; i quartieri sono insane baraccopoli; l'importanza del settore informale e l'inadeguatezza degli aiuti pubblici, via via che il confinamento si generalizza, lasciano una parte considerevole della popolazione senza alcuna risorsa. C'è da temere che un'ampia diffusione della malattia in questi paesi, soprattutto in Africa, si trasformi in un'ecatombe, ancora più che altrove. Va sottolineato il fatto che, in queste regioni, il Covid-19 viene spesso percepito come se fosse una «malattia dei ricchi». È così che l'ha descritta Miguel Barbosa, governatore dello Stato di Puebla, in Messico (il quale aggiungeva, secondo una prospettiva vicina al messianesimo "lopezobradorista", «a noi poveri, la malattia non farà niente, poiché siamo immuni» [*16]). In maniera più giustificata, numerose voci del Sud del mondo hanno criticato quella che viene ritenuta un'eccessiva medicalizzazione del coronavirus, relativamente a quella che è stata la sua iniziale diffusione al Nord, e confrontandola con le malattie più frequenti al Sud, le quali non interessano a nessuno. Anche in Africa,  il Covid-19 è apparso come una malattia delle élite, dal momento che i primi contagiati sono stati propri quelli abituati ai viaggi in aereo e che sono integrati nel jet set trans-nazionale (in alcuni paesi, il numero di ministri, alti funzionari e generali colpiti è stato sconcertante [*17]). Tutto ciò è in netto contrasto con l'Ebola, una malattia che ha origine nelle zone rurali dei paesi interessati, e che colpisce soprattutto i più poveri. Va dunque sottolineato quello che è un contraltare alla constatazione, peraltro inconfutabile, di un'accentuazione delle disuguaglianze sociali dovute al Covid-19, in quanto va anche constatato che questa pandemia colpisce in alto. Da questo punto di vista, si tratta in effetti di una malattia della globalizzazione: essa ha raggiunto per prime quelle che sono le regioni più integrate nella globalizzazione, ed ha colpito fortemente fin dall'inizio le élite dirigenti. È emblematico il caso di Boris Johnson, ma va ricordato che molti altri capi di Stato o di governo, a cominciare da Angela Merkel e Donald Trump, sono stati in contatto con i portatori del virus e potrebbero aver benissimo contratto la malattia; in definitiva, il numero di ministri contagiati, in Francia come in altri paesi, e tutt'altro che aneddotico. È un aspetto di cui bisogna tener conto, anche se, man mano che la pandemia si generalizza, la sua diffusione ed i suoi effetti si conformano sempre più a quelle che sono le gerarchie sociali in vigore (ad esempio, uno dei primi decessi causati dal Covid-19 in Brasile, è quello di una collaboratrice domestica costretta a continuare a lavorare per il suo capo, il quale era tornato contagiato da un viaggio turistico in Italia [*18]). Analizziamo ora le misure adottate dai governi dei vari Stati per far fronte alla diffusione della pandemia. Questo va visto come un passo ulteriore nell'attuazione dello stato di emergenza, come un'apoteosi del controllo biopolitico della popolazione, o come la semplice perpetuazione di quelle che sono le liturgie della religione economica, oppure si tratta di tutte queste cose insieme [*19]? A tal scopo, potrebbe essere utile cominciare da una descrizione più precisa e da una sommaria cartografia delle reazioni statali. In primo luogo, diciamo che le strategie sanitarie per affrontare un'epidemia virale in rapido sviluppo - per la quale non esiste né un trattamento sicuro né un vaccino - sono essenzialmente tre (con, ovviamente, molteplici varianti): 1) lasciare che l'epidemia si propaghi in attesa che prevalga l'immunità di gruppo, come venne fatto nel caso dell'influenza di Hong Kong, nel 1968-1970; 2) optare per un contenimento rigoroso (con un confinamento generalizzato e con il blocco della maggior parte delle opportunità di riunirsi in gruppi e con il fermo della attività economiche), al fine di bloccare l'ondata epidemica il più velocemente possibile, e tenerla così al di sotto di quella che è la capacità del sistema ospedaliero, cosa che tuttavia lascia intatto il problema che si verifichi una seconda ed una terza ondata; 3) la mitigazione, che consiste nell'adottare delle misure più flessibili incentrate sulla prevenzione sanitaria, sulla parziale restrizione delle attività  e sull'isolamento di coloro che si ammalano, in modo da attenuare così la prima ondata, lasciando tuttavia che ci sia una più ampia circolazione del virus, cosa che permetterebbe così di essere meglio preparati all'arrivo delle successive ondate [*20]. Detto più concretamente, le politiche adottate possono essere suddivise in tre aree principali:

a) Il confinamento iper-autoritario, che ha, senza alcun dubbio, come paradigma centrale la Cina. Sappiamo quale può essere la brutalità del confinamento che viene imposto da un giorno all'altro, a partire dal 22 gennaio, a Wuhan e alla regione di Hubei (60 milioni di abitanti), e poi ad altre città e regioni, con un massiccio effetto paralizzante sul funzionamento della fabbrica del mondo. Le modalità di confinamento sono state molto rigide, ed hanno impedito che si uscisse di casa per qualsiasi motivo, ivi compreso anche quello di fare la spesa, e dove le brigate del Partito sono state incaricate di prendersi cura di portare ad ogni famiglia i rifornimenti necessari. Il rigore del controllo e della repressione non poteva essere paragonabile con ciò che è avvenuto in Europa, e chiunque diffondesse messaggi che mettevano in discussione  la buona gestione governativa (per esempio, attraverso dei video che mostravano una situazione disastrosa negli ospedali) veniva immediatamente arrestato e rischiava di scomparire. Oggi, proprio nel momento in cui, dopo due mesi e mezzo di reclusione, gli abitanti di Wuhan cominciato ad uscire dalle loro case, la Cina sta mettendo in campo tutte le risorse della sua propaganda per apparire, agli occhi della sua popolazione e a quelli del mondo intero, come un modello di efficacia nei confronti dell'epidemia. E tuttavia, al di là delle polemiche sul numero dei decessi (si parla di 40.000 o di 80.000, anziché dei 3.000 ufficialmente riconosciuti), sarà difficile riuscire a far dimenticare quelli che sono stati i fallimenti iniziali della gestione dell'epidemia. Si conosce il caso del Dr. Li, che aveva lanciato l'allarme circa un nuovo coronavirus, e che era stato messo in prigione dalla autorità di Hubei e dopo la sua morte era perciò diventato un eroe popolare. Ma il fallimento è ancora più profondo. Dopo l'episodio della SARS del 2003, la Cina aveva messo in piedi un impressionante sistema per la diagnosi precoci dei rischi infettivi: il Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, che impiega 2.000 persone, aveva il compito di identificare il prima possibile qualsiasi malattia emergente, in modo da bloccarne la diffusione. Ma le autorità di Hubei hanno impedito che i segnali di allarme arrivassero a Pechino [*21] e, nonostante che, già a metà dicembre, il moltiplicarsi dei casi si trovava in rapido aumento, il direttore del centro nazionale ne è venuto a conoscenza, in maniera indiretta, solo il 30 dicembre. E la tendenza a minimizzare l'epidemia, ha continuato a prevalere fino al 22 gennaio, giorno in cui è stato annunciato il confinamento di Hubei. E quattro giorni prima, a Wuhan, era stato organizzato un immenso banchetto di 40.000 persone, per il capodanno lunare e per la gloria di Xi Jin Ping [*22]. Si stima inoltre che, tra l'annuncio del confine e la sua effettiva attuazione, diversi milioni di persone abbiano lasciato la regione, con le conseguenze per l'espansione dell'epidemia che si possono immaginare. Pertanto, il malfunzionamento degli ingranaggi locali  dello Stato cinese [*23] e la corruzione generalizzata che lo affligge, così come la volontà di preservare a tutti i costi la vita di Partito, hanno causato una diffusione dell'epidemia che avrebbe potuto essere ridotta del 95%, se non fossero andate perdute tre preziose settimane. Al momento di giudicare l'efficienza della gestione autoritaria della crisi da parte della Cina, non va dimenticato questo disastro iniziale che ha reso inefficace un sistema di rilevamento che avrebbe dovuto impedire lo scatenarsi di una vasta epidemia. Ci si può perfino chiedere se la forza, per non dire la brutalità, della risposta dello Stato non sia stata direttamente proporzionale agli errori che ha dovuto cercare di nascondere o di minimizzare. Oltre tutto, tale ipotesi potrebbe essere applicata anche a tutti gli altri paesi.

b) I draghi asiatici, in particolare Hong Kong e la Corea del Sud, sembrano essere riusciti a mettere in atto delle misure di contenimento e di mitigazione che hanno permesso, quanto meno inizialmente, di controllare l'epidemia senza bloccare radicalmente l'economia. Ma è un insieme di combinazioni molto particolare quello che ha reso possibile una simile risposta: specifiche caratteristiche geografiche, con territori poco estesi ed in una situazione di insularità o di quasi insularità; una preparazione scrupolosa, ottenuta soprattutto grazie all'esperienza della SARS del 2003, che ha consentito loro di agire in una fase assai precoce dell'epidemia; importanti mezzi materiali che hanno permesso soprattutto l'uso generalizzato della mascherina, una capacità assai elevata di fare dei test ed una pratica di massa della disinfettazione urbana (a Seul, la metropolitana viene interamente disinfettata dopo ogni viaggio); un sistema sanitario efficiente (7 letti per la terapia intensiva ogni 1.000 persone, vale a dire un po' di più che in Germania e più del doppio che in Francia); ma anche l'uso immediato di tecniche di controllo della popolazione (tracciamento dei contagiati e dei loro contatti tramite un'app) [*24] . In questo modo, coniugando il potere economico con l'efficienza statale, la Corea del Sud viene citata come esempio per essere riuscita ad «appiattire» la curva dell'epidemia, senza compromettere troppo la macchina produttiva.

c) Gli iper-liberisti darwiniani e i populisti illuminati, hanno rifiutato ormai da tempo di sacrificare l'economia alle esigenze sanitarie. Boris Johnson è stato il difensore dell'atteggiamento un tempo dominante, che consiste nel lasciare che la malattia si diffonda fino a quando non si sia generalizzata un'immunità sufficiente a far sì che l'epidemia non finisca per fermarsi da sé sola. Tuttavia, ha dovuto fare anche lui marcia indietro - prima ancora che fosse il virus a mandarlo in terapia intensiva - nel momento in cui era diventato chiaro che il costo umano dovuto alla mancanza di intervento sanitario avrebbe superato quello socialmente sopportabile (le proiezioni dell'Imperial College prevedevano che in Gran Bretagna ci sarebbero stati mezzo milione di decessi dovuti a Covid-19). Anche Donald Trump, con i colpi di scena che lo caratterizzano, ha tentato di minimizzare, il più a lungo possibile, la gravità dell'epidemia e di limitare le misure di contenimento per non creare nuove difficoltà economiche. La sua dottrina era chiara: «Non possiamo far sì che la cura sia peggiore del problema», poiché «il blocco economico ucciderà la gente». Com'è suo solito, D. Trump racconta quella che è la nuda e cruda verità sull'economia: è l'economia che dev'essere salvata, e questo deve avere precedenza su qualsiasi altra considerazione. Su questo terreno dove egli regna sovrano, è stato però il vicegovernatore del Texas a prendere su di sé tutti i riflettori, dichiarando che gli anziani, a cominciare da lui stesso, devono accettare di sacrificare la propria vita per il buon andamento dell'economia e per il bene del paese. Jair Bolsonaro ha espresso la medesima negazione della gravità dell'epidemia, gli stessi atteggiamenti nei confronti delle misure sanitarie, il medesimo rifiuto di adottare provvedimenti che potrebbero provocare la paralisi del paese. A tutto questo, nel suo caso, si aggiungeva la necessità che le classi popolari lavorino per poter sopravvivere, insieme ad una giustificazione più esplicitamente collegata alla religione: «Mi dispiace, la gente morirà, ma questa è la vita»; «dobbiamo lavorare . Ci saranno dei morti, ma tutto ciò dipende da Dio; noi non possiamo fermare tutto». Tuttavia, proprio come Trump, che, senza prendere tutte le decisioni che ci si potevano aspettare dal capo dell'esecutivo federale, alla fine ha accettato le misure sanitarie raccomandate dai suoi consiglieri. Bolsonaro ha perso la partita. Ha pestato i piedi a tutti i senatori ed è perfino riuscito a perdere l'appoggio dell'esercito, come testimonia l'episodio piuttosto plateale nel corso del quale i generali del suo gabinetto gli hanno impedito di licenziare il ministro della Sanità, dimostrando così che Bolsonaro ha perso il controllo sulle decisioni del governo [*25]. In tal modo, quelli che sono i più cinici seguaci di un'economia pura, che non hanno nessun timore a confessare la loro totale indifferenza alla vita umana, hanno finito per doversi «mangiare il cappello» ed unirsi alla tendenza globale al confinamento generale. A questa categoria va aggiunto il caso, sebbene diverso, del presidente messicano, Andrés Manuel Lopez Obrador, considerato da alcuni come un araldo della sinistra progressista, il quale ha comunque eguagliato Trump e Bolsonaro per il modo in cui ha manifestato disprezzo per le direttive della prevenzione, continuando a fare de raduni, in cui abbraccia i suoi ammiratori e ostenta di rifiutare l'utilizzo del gel idroalcolico che viene offerto ai suoi ministri. Le sue dichiarazioni non sono stati meno sorprendenti (secondo lui, il virus non potrebbe fare niente al Messico, dal momento che stiamo parlando di un grande paese di cultura, e perché la lotta contro la corruzione permette che ci siano dei solidi budget sanitari), fino al giorno in cui, scordandosi del carattere laico dello Stato, ha brandito le pie immagini che tiene nel suo portafoglio presentandole con le sue vere «guardie del corpo» contro il virus [*26]. Analogamente, si è rifiutato, malgrado i continui avvertimenti, di adottare misure che rischiavano di influire sull'attività del paese. Indubbiamente, Lopez Obrador non è l'uomo dell'Economia pura, ma è comunque la perfetta incarnazione dello «sviluppismo», del quale lui è la versione progressista [*27]. Basta guardare, nel momento in cui si trova finalmente sul punto di far entrare in vigore il confinamento, all'urgenza che continua a riservare alla realizzazione dei suo grandi progetti infrastrutturali, come il tanto discusso «Treno Maya» [*28]. In sintesi, Lopez Obrador, Trump e Bolsonaro, mostrano come il fanatismo dell'economia (visto nelle sue diverse varianti) ed il fanatismo della religione si fondano e si mescolino perfettamente. L'ipotesi benjaminiana del capitalismo come religione non è mai stata così comprovata [*29].
E i paesi europei, e la Francia in particolare? In larga misura, hanno prevalso l'esitazione e l'improvvisazione, e questo in un contesto di impreparazione, sia a medio termine sia di fronte all'imminenza della pandemia annunciata. Contro ogni evidenza, ciascun governo sperava che il proprio paese venisse risparmiato (com'è avvenuto nel caso della Francia, sebben l'Italia fosse già stata gravemente colpita). Nell'impreparazione e nell'incapacità di prevedere in anticipo, c'è un tratto eminentemente "presentista" che, soprattutto in Francia, raggiunge delle dimensioni criminali, ma si tratta anche, semplicemente, di una forma di negazione, legata alla volontà di credere che si potrà evitare di prendere delle misure che potrebbero impedire il buon funzionamento dell'economia. In Francia, l'inversione di tendenza è avvenuta tra il 12 ed il 16 marzo, vale a dire, tra i due interventi di Emmanuel Macron, il secondo dei quali annunciava il confinamento generale del paese [*30]. Si dice volentieri che anche in questo caso le proiezioni dell'Imperial College avrebbero avuto un ruolo determinante: la portata della mortalità prevedibile ha fatto improvvisamente lievitare il costo politico dell'inazione o del deficit dell'azione pubblica; il primato della preoccupazione economica non è più sostenibile. Quel che resta da vedere, è perché sia stata poi adottata l'opzione a), piuttosto che la b). Gli è che non è stata soddisfatta nessuna delle condizioni necessarie al ricorso a quest'ultima (la via coreana). L'impreparazione era troppa, ed era ormai troppo tardi per agire in tal senso. Soprattutto, mancavano tutti i mezzi materiali necessari: niente maschere, niente test, non c'erano abbastanza letti, nessuna cultura della prevenzione. E qui la responsabilità dei precedenti politiche della sanità si è dimostrata considerevole: sarebbe stata possibile un'altra strategia, ma nelle condizioni di impreparazione di penuria materiale in cui versa la Francia, la quale, come la maggior parte dei suoi vicini, appare vittima della «terzo-mondializzazione» provocata da decenni di neoliberismo. Una volta ammessa la necessità di limitare la diffusione di un virus sconosciuto e subdolamente letale, non c'era altra soluzione credibile se non quella del confinamento generale. Rimangono tuttavia i casi di alcuni paesi europei, a cominciare dalla Germania, di cui, curiosamente, si parla assai poco. Organizzazione efficiente, mezzi materiali notevoli e qualità del sistema ospedaliero (il doppio di posti letto per abitante, rispetto alla Francia) spiegano indubbiamente quello che è un livello di mortalità più basso, sebbene le misure di contenimento siano più flessibili (come anche in Svezia). Lo status di eccezione della potenza dominante in Europa, spiegherebbe la possibilità di una strada in qualche modo intermedia tra quella dei suoi vicini e quella della Corea del Sud?
Nel complesso, le decisioni degli Stati si possono suddividere in uno spazio ordinato secondo tre poli principali: 1) il minimalismo sanitario libera-darwinista; 2) la minimizzazione, messa in atto da Stati ben preparati e dotati di potenti mezzi materiali e di tecniche; 3) le misure di confinamento generalizzato, attuate in maniera più o meno autoritaria. A tutto questo, va aggiunto che ci sono stati molti governi che hanno dimostrato esitazione molto a lungo, presi in mezzo tra le esigenze sanitarie e la preoccupazione di dover fare il meno possibile per non danneggiare l'economia; ma hanno poi finito tutto, con più o meno fretta e o con più o meno ritardi, per schierarsi a favore del contenimento, che orami riguarda più di 4 miliardi di persone nel mondo.
Colpisce vedere come dei governi, che sono tutti, in maniera diversa, dei piccoli soldatini del mondo dell'Economia, abbiano finito per optare, quanto meno inizialmente, per delle strategie assolutamente differenti. Ragion per cui, devono essere tenuti in considerazione anche altri fattori rispetto a quello della sola sottomissione agli imperativi dell'economia: il grado di preparazione ed il livello di potere materiale (in altri termini, il posto che hanno nella gerarchia dello sviluppo capitalistico): le differenti tradizioni politiche e le modalità variabili di articolazione esistente tra Stato ed economia che ne derivano. Ma, alla fine, quella che è la via coreana, l'unica che consente di conciliare esigenze sanitarie ed imperativi economici, si è rivelata accessibile sono ad un piccolo numero di eletti. Quanto alla via iperliberale-darwinista, essa incarna la verità stessa dell'economia che viene imposta a spregio di qualsiasi considerazione sanitaria e di ogni preoccupazione per la vita; ma non è stata in grado di reggere di fronte all'ampiezza della mortalità che veniva annunciata, ed è stata costretta a cedere dappertutto. Ragion per cui non è rimasta altro che l'opzione a), quella del confinamento generalizzato, che, per bloccare la diffusione dell'epidemia, ha paralizzato anche l'economia mondiale. Ecco qual è stata la cosa più incredibile. Con la difesa dei loro corpi, e certamente con tutti i ritardi di cui si sono resi colpevoli che vogliamo e con tutte le ambiguità che non possono essere ignorate (tra un discorso marziale sul rigoroso rispetto del confinamento e gli sforzi fatti per mantenere in attività certi settori economici, evidentemente non essenziali). Ma tuttavia, nondimeno, lo hanno fatto. Hanno fatto l'impensabile e hanno praticamente fermato l'economia mondiale, causando così una recessione - e comunque una crisi economica - molto più grave di quella del 2008, e che impone ora, secondo lo stesso FMI, il paragone con quella del 1929. Come lo si può comprendere? Improvvisamente l'economia ha smsso di regnare? Perché queste misure? Solamente per il fatto che è evidente che la priorità è quella di «salvare delle vite», come vorrebbe il discorso sanitario? Ma tutte le vite che non sono state salvate in quello che è stato il corso ordinario del mondo dell'Economia, sono lì a ricordarci che non c’é alcuna prova di una cosa del genere? Il fatto che tutto questo non sia avvenuto durante le grandi epidemie del secolo scorso, rafforza ulteriormente l'assenza di qualsiasi prova. Come fare allora a sfuggire sia all'ingenuità di una lettura «umanista» che alla denuncia dogmatica di un primato sempre e comunque assoluto di quelli che sono gli imperativi economici?
A che cosa risponde l'esigenza, ampiamente condivisa dall'azione pubblica, di «salvare delle vite»? Si tratta dell'apoteosi della governamentalità biopolitica? Il Leviatano statale ha intravvisto quella che era la migliore occasione per poter imporre un rafforzamento dei suoi dispositivi di sorveglianza e di controllo, sotto la copertura dello stato di emergenza sanitario permanente in atto? E questo perché, nelle condizioni attuali, ad essere in gioco è la «capacità degli Stati di garantire la riproduzione dei rapporti sociali», attraverso i servizi pubblici di base? [*31] O più banalmente si tratta di salvaguardare le «risorse umane» minacciate dal virus?

Forse non sarebbe una cattiva idea interessarsi a quello che si profila come un discorso ufficiale che emerge nel tempo del coronavirus. L'articolo, che sul Daily Telegraph del 3 aprile hanno co-firmato la direttrice del FMI, Kristalina Georgieva, ed il suo omologo dell'OMS, Tedros Adhnom Ghebreyesus, ne costituisce sicuramente un pezzo fondamentale [*32]. Il punto centrale è quello di tentare di riassorbire la contraddizione esistente tra le preoccupazioni sanitarie e gli imperativi economici: «tutti i paesi si trovano davanti alla necessità di contenere la diffusione del virus al costo di una paralisi della loro società e della loro economia», affermano, ancor prima di negare che si tratti di un dilemma: «Salvare delle vite oppure salvare i mezzi di sussistenza? In ogni caso, il controllo del virus è una precondizione per il salvataggio dei mezzi di sussistenza»; «la traiettoria della crisi sanitaria globale ed il destino dell'economia mondiale sono legate ed intrecciate in maniera indissolubile. Combattere la pandemia è una necessità se si vuole che l'economia si riprenda». Certo, è difficile capire cosa possa voler dire un messaggio condiviso da questi due organismi internazionali, se non affermare nient'altro che questa bella unità di intenti e di esigenze sanitarie ed economiche. E non è meno significativo il fatto che le misure derivanti dalla lotta alla pandemia non vengano presentate come se fossero un ostacolo al funzionamento dell'economia, ma piuttosto come una condizione per un pieno ritorno al suo corretto funzionamento. Bill Gates, molto attivo in quelle che sono le questioni sanitarie e co-organizzatore dell'«Event 201 Scenario», aggiunge alcuni chiarimenti: «Nessuno può continuare a fare come se niente fosse. Qualsiasi confusione in proposito, servirebbe solo ad aggravare le difficoltà economiche e ad aumentare le probabilità che il virus ritorni e provochi ancora più decessi»; «se prendiamo le decisioni giuste, sulla base di quelle che sono le informazioni scientifiche, i dati e l'esperienza dei professionisti sanitari, potremo salvare delle vite umane e far sì che il paese ritorni al lavoro». Dietro la combinazione di esigenze sanitarie ed economiche, si delinea (come si percepisce dalle dichiarazioni di Y. Harari) la triplice alleanza tra capitale, potere politico illuminato ed esperti della scienza.
Questa ideologia, posta in essere a livello globale e che sottende l'articolazione che viene presunta come non conflittuale tra preoccupazione sanitaria ed imperativi economici, è sicuramente destinata a prendere slancio nei tempi che stanno per arrivare. Offrirà sicuramente alle grandi aziende un vasto campo di comunicazione, in cui il lavaggio sanitario potrà concorrere con il lavaggio-verde, in voga finora, lanciando la moda: «come vedete, mettiamo la vita davanti al profitto» [*33]. Nell'immediato, esclude che si possa continuare ad ignorare le conseguenze della pandemia in termini di mortalità e di disorganizzazione (tanto sociale, quanto politica che direttamente economica). Nel mondo dell'Economia, non è possibile mostrare davanti a tutti l'aperto esplicito disprezzo per milioni di vite umane; ma «salvare delle vite» di per sé vale meno, in quanto non si tratta di una necessità per l'economia stessa. Gli Stati sono, ancora e sempre, degli ingranaggi essenziali del macchinario economico globalizzato. E questo fatto viene talvolta sottaciuto, dal momento che per il suo funzionamento normale prevale quella che è l'integrazione crescente, se non funzionale, della sfera politica ed economica. Ma non appena si acuiscono le difficoltà, ecco che allora gli Stati riacquistano un ruolo che è solo apparentemente più autonomo: a fronte dei fattori di crisi economica, agiscono come i garanti finali del mercato, come stanno facendo con forza in questo stesso momento; a fronte delle crisi sociali, devono invece agire coniugando promesse di cambiamento e forme sempre più intrusive di controllo e di repressione; a fronte della crisi sanitaria, devono invece agire per preservare la vita e la salute della popolazione. Se non viene fatto tutto questo, o se viene fatto male, ci si espone ad un crescente discredito: in un contesto in cui la credibilità dei governanti è già ovunque gravemente compromessa, se non addirittura vacillante. Del resto, come già suggerito, a volte l'intensità delle misure adottate sembra essere proporzionata agli errori commessi, all'impreparazione ed ai colpevoli ritardi che i governanti hanno cercare di nascondere, o di fare dimenticare, di fronte alle manifestazioni di rabbia, rispetto alle quali le iniziative giudiziarie in corso, o a venire, sono solo un aspetto secondario. Infine, bisognerebbe tener conto di un ulteriore fattore supplementare che rafforza il rischio di disorganizzazione politica ed economica determinata dalla pandemia di Covid-19. Come abbiamo visto, si tratta di una malattica che per prima cosa colpisce la testa: si è immediatamente diffusa nelle aree più centrali del mondo globalizzato e si è poi rapidamente diffusa tra le cerchie dei dirigenti (capi di Stato o di governo che sono stati colpiti, o a rischio di esserlo, ministri e parlamentari, generali e alti funzionari, uomini d'affari, ecc.). È possibile che il rischio di disorganizzazione delle catene di comando, in caso di diffusione incontrollata della pandemia, sia stato molto alto: salvare delle vite, quindi, significa anche salvare il buon funzionamento del mondo dell'Economia. La reazione sarebbe stata la stessa se la pandemia si fosse diffusa esclusivamente tra le popolazioni povere dei paesi del Sud?

d) Prima di concludere questa parte, dobbiamo menzionare un caso significativamente diverso che potrebbe rivelarsi anche illuminante. Nel mentre che il presidente messicano continuava, giorno dopo giorno, a negare la gravità dell'epidemia ed il suo rifiuto di ogni seria misura di prevenzione e di protezione, gli zapatisti del Chapas sono riusciti a sorprendere per la precocità e per la chiarezza della loro reazione. Nel suo comunicato del 16 marzo, l'EZLN ha dichiarato l'allarme rosso  nei territori ribelli, ed ha raccomandato ai Consigli del Buon Governo, e ai Comuni Autonomi, di chiudere i  Caracoles (centri regionali) ed ha invitato tutti i popoli del mondo a tener conto della gravità dell'epidemia e ad adottare delle «misure sanitarie eccezionali», senza tuttavia abbandonare le lotte in corso [*34]. Quest'annuncio è tanto più degno di nota se si considera che le autorità dello Stato federale non erano le uniche voci che a quel tempo stavano minimizzando il pericolo dell'epidemia (in realtà, allora poco diffusa in Messico). Motivati dalla loro diffidenza nei confronti delle imposizioni statali (e anche, in maniera specifica, dalle osservazioni come quella di Giorgio Agamben circa l'«invenzione dell'epidemia» vista come leva dello stato di eccezione, o sulla miseria di una nuda vita deprivata di ogni contatto fisico), sono stati molti quelli che, in ambito critico, tendevano a rifiutare in anticipo le misure di distanziamento sociale, o di confinamento, opponendo ad esse un dovere alla resistenza. Nei giorni successivi al comunicato, i responsabili della sanità autonoma zapatista hanno prodotto dei messaggi audio per condividere quelle che erano le informazioni disponibili riguardo i sintomi della malattia e le sue modalità di contagio; raccomandando delle misure di prevenzione e di contenimento, come la sospensione delle riunioni o la quarantena per le persone di ritorno da altre regioni [*35]. Ma spettava alle comunità stesse prendere le decisioni pertinenti, in funzione della particolare situazione di ciascun luogo. Quest'esperienza - che non è certo l'unica nel suo genere e che è stata indubbiamente replicata in molte regioni dove le tradizioni comunitarie amerinde rimangono forti - fornisce un quadro migliore di ciò che potrebbe essere un'organizzazione di sanità popolare e di base. Questo inoltre ci consente di comprendere meglio il fatto come misure così drastiche e stressanti, quali il confinamento o l'impossibilità di toccarsi e di abbracciarsi, diventano veramente odiose solo se imposte dallo Stato, attraverso un intervento della polizia e per mezzo di misure repressive. Ma ci possono essere anche forme di confinamento che vengono decise collettivamente, ed auto-organizzate, al di fuori delle regolamentazioni statali.

La pandemia provocata dalla SARS-CoV-2 ha aperto una faglia tra l'esigenza sanitaria di protezione della popolazione e il proseguimento del funzionamento del macchinario economico. Il percorso che permetteva di conciliare queste due preoccupazioni nel modo più agevole possibile, si è rivelato inaccessibile per la maggior parte dei paesi, a causa della mancanza di preparazione e di mezzi materiali: qui si sono combinati gli effetti del presentismo [convinzione che esista solo il presente], del neoliberismo e di quelle che sono le asimmetrie globali). La via cinica, quella di un sacrificio dichiarato di vite umane al dio Economia, si è rivelata come politicamente insostenibile. Le drastiche misure ci contenimento e di confinamento, che perciò sono state dovute adottare, hanno portato ad un blocco considerevole dell'economia mondiale. Anche se la nuova versione dell'ideologia globalizzata dominante si affanna ad affermare che non c'è contraddizione tra misure sanitarie e preoccupazione per l'economia - essendo la lotta contro la pandemia la precondizione per tornare al buon funzionamento della seconda - è chiaro che le politiche adottate globalmente sono arrivate, nel breve periodo, a scontrarsi con gli imperativi strettamente economici, al punto da innescare la più grave crisi economica da almeno un secolo.  In un simile contesto, appare evidente che gli Stati cerchino di trarre il massimo vantaggio possibile da una situazione di emergenza sanitaria che impone un rigoroso controllo sulla popolazione: rafforzamento del controllo di polizia (perfino militare), perfezionamento delle tecniche di sorveglianza e di controllo, in particolare attraverso il tracciamento digitale dei contatti, misure eccezionali che tendono a perpetuarsi, deroghe al diritto del lavoro, generalizzazione del telelavoro e della formazione a distanza, isolamento in grado di spezzare la solidarietà e impedire la mobilitazione collettiva emergente, ecc. La «strategia dello shock», descritta da Naomi Klein e che consiste nel giustificare l'imposizione di misure impopolari dettate dalla necessità di rispondere alla gravità della crisi in corso [*36], è in atto più che mai (e va combattuta in quanto tale); ma limitarsi a questa analisi significherebbe vedere solo una parte della realtà: la crisi sanitaria è ben reale ed obbliga la maggior parte dei governi a prendere delle misure che vanno contro quelle che sono le solite priorità. Comprendere questa inversione di marcia - certamente provvisoria e giustificata in nome dell'economia stessa dal nuovo discorso globalizzato dominante - dovrà dare luogo a delle analisi più approfondite.  Ma siamo già in grado di trarne la seguente conclusione: piuttosto che considerare unicamente le misure di confinamento come se fossero l'espressione astratta del carattere autoritario dello Stato,  come se fosse la quintessenza del controllo biopolitico della popolazione o come il semplice perpetuarsi dell'onnipotenza dell'economia (tutte analisi, queste, senza dubbio necessarie), bisognerebbe forse ammettere che le misure drastiche di contenimento della pandemia sono, per gli stessi dominanti, ricche di tensioni e di contraddizioni; così come lo è anche la sfida della revoca del confinamento. Malgrado il carattere opprimente delle forme di dominio e la loro tendenza a rafforzarsi sempre più, non bisognerebbe dimenticare che i governanti e le élite del mondo agiscono sotto la costante minaccia di un livello di discredito, di perdita di fiducia, di insoddisfazioni e di rabbia che, nel corso degli ultimi due anni, hanno portato a delle rivolte popolari di un'ampiezza del tutto inaspettata, le quali probabilmente non potranno che essere esacerbate a partire dalla crisi del coronavirus.

Pandemia e Mondi a venire: tendenze e opportunità
In questi tempi piuttosto deprimenti di emergenza sanitaria, di una continua macabra contabilità e di confinamento imposto, ci sono alcuni preoccupati di quello che si può fare ora, e molti speculano su quali saranno le opportunità del post-confinamento. Su questo punto, di particolare importanza, è senza dubbio preferibile fare riferimento alle elaborazioni collettive in atto, o a venire. E non bisognerebbe trascurare di cominciare a cercare di individuare le tendenze che sembrano già in atto, e che lo saranno ancora di più in futuro. Queste tendenze sono in gran parte avverse, senza escludere però delle possibilità più favorevoli che starà a noi sfruttare al meglio. Anche se molti sognano che ci sarà il profondo esame di coscienza fatto da una civiltà che alla fine affronterà davvero i suoi limiti e i suoi effetti mortiferi, bisogna riconoscere che le forze sistemiche che hanno portato il sistema mondo globalizzato al punto in cui si trova non sono ora magicamente scomparse, solo in virtù di un virus vendicatore. Sono sempre all'opera, e sempre dominanti. È quindi assai più probabile che, nel momento in cui le condizioni sanitarie lo permetteranno, esse imporranno una ritorno all'«ordinaria amministrazione», se possibile anche più in sicurezza di prima. Naturalmente, tutto quanto dipenderà dalla gravità della crisi economica, che si aggraverà rapidamente negli Stati Uniti, a partire da un probabile vertiginoso innalzamento della disoccupazione (che potrebbe arrivare a colpire 30 milioni di persone in più), con il default delle famiglie indebitate, e la crisi bancaria che probabilmente seguirà ed annuncerà tutta una serie di fallimenti aziendali. Ma una volta passati quelli che sono questi episodi estremi, la tendenza a riprendere il corso ordinario dell'economia dovrebbe prevalere, giocando sulla necessità di ripresa, e forse anche su un consumismo ritardatario di riallineamento. È assai probabile che l'urgenza della ripresa economica - unita agli imperativi dei vincoli di bilancio, nuovamente anteposti e giustificati dai deficit e dagli esorbitanti indebitamenti causati dalla crisi sanitaria - releghi in secondo piano le questioni climatiche ed ecologiche, rimandando così a più tardi i modesti progressi raggiunti o attesi [*37]. Del resto,  sulla strategia dello shock , quello in corso e quello a venire, che permette e che permetterà di rafforzare le misure eccezionali, gli attacchi alla libertà fatti sotto copertura dello stato di emergenza, e sull'intervento permanente e discriminante delle forze di polizia, sulle forme di sorveglianza e di controllo, ecc. [*38] è già stato detto tutto o quasi. Tuttavia, se la crisi sanitaria è una buona occasione per rafforzare queste tendenza, va ricordato che esse erano già ampiamente presenti anche in precedenza. Ovviamente, per dirne una, il regime cinese non aveva affatto bisogno del coronavirus per imporre un controllo generalizzato e brutalmente repressivo della sua popolazione,  controllo da tempo basato su tecniche digitali [*39].
Tuttavia, la crisi del coronavirus potrebbe segnare un certo cambiamento nel dispiegamento delle forze sistemiche? Su questo ci sono due punti che sembrano essere quasi unanimi, anche in quelli che sono i circoli dirigenziali e mediatici. Si tratta innanzitutto della necessaria rilocalizzazione di alcune produzioni, delle quali la crisi ha rivelato il carattere vitale, soprattutto per quel che concerne l'industria farmaceutica, per non dire delle maschere di carte, che sono state elevate a criterio decisivo della sovranità delle più grandi potenze mondiali (immuni, quanto meno, al senso del ridicolo!). Secondo Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, questa rilocalizzazione a venire è già in atto. Ma evidentemente sarebbe azzardato concludere che si tratterà di una conversione deglobalizzante: si tratterà solamente di riadattare le catene di produzione, nel contesto di una globalizzazione continuata. In secondo luogo, si parla volentieri di un rivalorizzazione dei servizi pubblici, persino di un ritorno allo Stato sociale. Ma si dovrebbe forse credere all'improvvisa conversione di quelli che, come Emmanuel Macron, dopo essere stati i fedeli esecutori dei diktat dell'economia neoliberista, parlino improvvisamente il linguaggio dell'intervento pubblico dello Stato, a beneficio dell'interesse collettivo? Dobbiamo credere a quelli che, secondo un ritornello che si ripete da più di dieci anni, annunciano la fine del neoliberismo? Il legame è troppo spesso e la faccenda è già stata ben spiegata: le politiche (neo)liberali hanno sempre avuto bisogno dello Stato, sia per essere attuate (nel caso del neoliberismo, durante gli anni '80) sia come garante di ultima istanza, in modo che in caso di crisi sia lo Stato ad essere chiamato in soccorso per socializzare le perdite, mentre quando la macchina riparte, si disimpegna nuovamente per lasciare libero corso alla privatizzazione dei profitti. È questo quello che è successo nel 2008-2009, e non c'è motivo perché questa volta debba essere diverso. Resta il fatto che, anche se i parametri fondamentali del neoliberismo non sono stati quasi mai toccati, le turbolenze del dopo 2008 sono state segnate da degli interventi mirati dello Stato, di certo assai meno in ambito sociale che non dall'accentuazione della sua dimensione poliziesca e repressiva. È assai probabile che si accentuerà una tale evoluzione verso ciò che è stato descritto come (neo)liberismo autoritario [*40]. Tuttavia, dal momento che nella crisi del coronavirus, il sistema sanitario ha svolto il ruolo che sappiamo, difficilmente sarà possibile, dopo avere così tanto celebrato l'eroica dedizione del personale sanitario, non dare l'impressione di fare almeno qualcosa di significativo per loro. Né vediamo come sarà possibile restare del tutto sordi di fronte a quella che è una domanda sociale in materia di cura e di assistenza sanitaria. Un aumento della spesa in tal senso non potrà essere evitata facilmente, anche se è certo che per evitare di mantenere le promesse che sono state fatte in un contesto di urgenza, e della necessità assoluta di contenere la rabbia del personale sanitario, verranno messi in campo tutti gli stratagemmi possibili per cercare di dare priorità - piuttosto che all'indispensabile aumento delle risorse e dei posti - a quelle stesse misure di riorganizzazione e di razionalizzazione che hanno portato ai fallimenti e alle carenze portate alla luce dalla crisi del coronavirus. In maniera generale, quel che si sta delineando è piuttosto ambivalente. Non esiste alcuna dinamica unilaterale, bensì delle tendenze eminentemente contraddittorie. Da un lato, possiamo anticipare quelli che sono alcuni aggiustamenti in seno alle continue dinamiche dell'economia globalizzata (con un'accentuazione delle sue debolezze, e soprattutto del suo deficit di crescita e del suo colossale sovra-indebitamento), ma anche un'accentuazione delle pulsioni autoritarie e liberticide, accompagnate da un nuovo giro di vite nella generalizzazione dello stato di eccezione e dall'amplificazione delle tecniche di controllo e sorveglianza. Ma tutto questo non può essere dissociato da un'altra tendenza, già presente precedentemente e che potrebbe essere accentuata dell'altro dalla crisi del coronavirus: un potente movimento di delegittimazione sia delle élite al potere che delle politiche neoliberiste che tali élite applicano [*41].
Qui confluiscono tre dimensioni: una perdita di credibilità da parte dei governanti, insieme ad una crescente insoddisfazione per una democrazia rappresentativa senza fiato (essendo le cause profonde di questo processo legate direttamente alla subordinazione strutturale degli Stati alle forze dell'economia trans-nazionale [*42]); un accentuarsi delle disuguaglianze sociali che ha finito per renderle sempre più inaccettabili; e, infine, la cresciuta consapevolezza, soprattutto tra le giovani generazioni, dei danni ecologici causati dalla produttività capitalistica. Al di là delle caratteristiche e delle motivazioni specifiche di ciascuna di queste tre dimensioni, le rivolte globali degli ultimi due anni testimoniano la portata della delegittimazione delle élite e delle politiche neoliberiste. Dopo quarant'anni di onnipotenza del «pensiero unico» neoliberista, ormai questo accumula solo delusioni e sconfitte, quanto meno sul piano ideologico. Si tratta di un aspetto importante, che determina indubbiamente in larga misura le azioni di coloro che sono al potere, i quali sanno di essere minacciati di venir spazzati via, o da una qualche ondata populista, o da una vera e propria sollevazione popolare. È lecito pensare che la crisi del coronavirus, nel suo corso e nel suo proseguo, non possa fare altro che accentuare questa tendenza. Infatti, essa fornisce le basi per una condanna senza appello delle politiche neoliberiste applicate al settore della sanità, dal momento che sono esse la causa diretta di una mancanza di risorse e di un'impreparazione, le cui dimensioni criminali sono sotto gli occhi di tutti. Viceversa, si è reso evidente un immenso bisogno di servizi pubblici, per rispondere alla richiesta di assistenza sanitaria, di solidarietà e di protezione dei più deboli e vulnerabili. Inoltre, il livello di disuguaglianze che sono state generate da decenni di neoliberismo sono apparsi con ancor maggiore violenza, mostrandosi attraverso il prisma delle situazioni create dalla crisi sanitaria: ciò vale in particolare per le classi popolari costrette a lavorare per dei salari che sono diventati doppiamente indecenti, in considerazione dei rischi e dei decessi nel campo del lavoro, ma anche del carattere di necessità che viene improvvisamente riconosciuto a dei compiti fino a prima disprezzati o poco considerati. Inoltre, non si può escludere che l'assoluta urgenza della crisi sanitaria possa dare maggior consistenza sensibile alla minaccia del riscaldamento climatico, questa «emergenza lenta» ma più temibile ancora del Covid-19. Infine, la gestione governativa della crisi del coronavirus è stata sufficiente a convincere del carattere menzognero della presunta necessità dell'austerità di bilancio e dell'imperiosa sottomissione alle costrizioni della concorrenza globale: in pochi giorni, i governi hanno messo a disposizione centinaia, persino migliaia di miliardi per aiutare l'economia, mostrando quindi che, di fronte ad un pericolo ritenuto serio, si poteva agire senza che ci fosse più nessuna preoccupazione contabile («whatever it takes» [«costi quel che costi»]). Non c'è motivo di pensare che, nel mondo dell'Economia, somme di denaro comparabili a queste possano essere mobilitate per far fronte ai pericoli meno tangibili e più lontani del riscaldamento climatico, ma una tale differenza sarà sempre più difficile da giustificare a fronte di un innalzamento delle preoccupazioni ecologiche.
In sintesi, l'accentuazione del movimento di delegittimazione dei governanti e delle politiche neoliberiste è più che probabile. Ma questa non è in alcun caso una predizione della fine del neoliberismo, né tanto meno un affermazione del fatto che la crisi del coronavirus offrirà un terreno fertile per una rinascita delle politiche keynesiane, ad esempio sotto forma del Green New Deal così caro alla sinistra del Partito Democratico negli Stati Uniti. Si tratta piuttosto di sottolineare la doppia tendenza, sia alla crescente delegittimazione delle politiche neoliberiste, sia anche al perseguimento di queste stesse politiche, nella misura in cui esse corrispondono alla logica strutturale di un capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il risultato di questi due movimenti implica una tensione sempre più esplosiva tra, da un lato, l'imposizione di politiche rischiose per le forze dominanti del mondo dell'Economia, se necessario con metodi sempre più autoritari, e, dall'altro lato,  un'insicurezza del dominio ed una crescente probabilità di esplosioni sociali. Il rafforzamento delle tecniche di controllo e di repressione, ora portate avanti in nome della sanità e della tutela della vita, potrà di certo essere impiegato per contrastare questo rischio; ma di certo non li eliminerà. Potrà perfino darsi che questo rafforzamento sia dovuto solo a questo rischio, il quale in realtà potrebbe essere aggravato dai tentativi di contenerlo. La risoluzione di una simile tensione è altamente incerta. È questa la posta in gioco, sia dal punto di vista del dominio che da quello di chi lo sfida. È in questo contesto che si può cercare di reperire una qualche opportunità per far crescere delle possibilità che sono già all'opera. Ci si limita qui solo a qualche nota telegrafica, in attesa di quelli che saranno i tentativi di elaborazione collettiva in corso e a venire.

- «Non riuscirete a confinare la nostra rabbia». La rabbia, per ora contenuta, comincia a traboccare. Rabbia per la natura criminale delle azioni dei governanti che hanno sottoposto la sanità pubblica ad una cura di austerità continua e ripetuta, e sono rimasti del tutto sordi alle insistenti rivendicazioni del personale sanitario. Rabbia causata dall'impreparazione di fronte al rischio epidemico (smantellamento del'«L'établissement de préparation et de réponse aux urgences sanitaires» (EPRUS) che era stato creato nel 2007; incapacità di ricostruire le scorte di maschere e di test a fronte dell'avvicinarsi della pandemia, ecc.). Rabbia per la mancanza di mezzi e di organizzazione che potesse consentire di contenere la diffusione del virus nelle EHPAD [Établissement d'hébergement pour personnes âgées dépendantes (Struttura ricettiva per anziani non indipendenti)] Quanti contagi e quanti decessi tra medici e operatori sanitari, in città o in ospedale, «partiti per il fronte senza equipaggiamento»? Quanti contagi e quanti morti tra i candidati alle elezioni municipali e tra gli scrutatori dei seggi elettorali il 15 marzo scorso? Quanti contagi e quante morti provocate dai controlli di polizia svolti in maniera non protetta e senza tanti complimenti? Quanti contagi e quanti decessi tra le cassiere ed i commessi dei supermercati, obbligati a lavorare senza un'adeguata protezione? Nelle fabbriche, nei trasporti, nei magazzini di Amazon o tra i fattorini che consegnano a domicilio? Le ragioni per essere incazzati neri non mancano. Ci sono dei medici che chiamano ad uina «insurrezione generale di tutti i professionisti della sanità» [*43]. Altri sono impegnati a cercare di fare arrestare i membri del governo. Le azioni in corso, e quelle che si attendono sono legioni. Sotto il rigore del confinamento, spumeggia un'ondata di rabbia. Una rabbia che non è per niente cieca e che invece, al contrario si trova impegnata a cercare di vedere ciò che i governanti tentano di mascherare. Una rabbia giusta. Una «digne rage», come dicono i zapatisti. Magari, forse, riaccenderà la fiamma della rivolta dei Gilet Gialli. Quanto meno, avremo qualche motivo per ipotizzare un "gilet-giallizzazione" dell'uscita dal confinamento; malgrado tutti i giri di vite che il governo si prepara a dare, proprio per questo scopo.

- «Fermiamo tutto, se ci pensiamo su ci rendiamo conto che non è per niente triste», ha detto Gébé. La versione Covid-19 de L'anno 1 somiglia piuttosto a: loro fermano tutto, non è propriamente una festa, ma almeno possiamo ragionare. Certo, il tempo libero della grande introspezione e dell'esame di coscienza non viene condiviso da tutti allo stesso modo. Riguarda in primo luogo le classi medie e i benestanti,  comodamente confinati; per altri, al contrario, il carico di lavoro è addirittura più del solito, le condizioni di sopravvivenza sono più precarie e le preoccupazioni quotidiane più pressanti. Ciononostante, i ritmi imposti dal macchinario economico si sono in gran parte allentati; la pressione accelerazionista ed immediatista si è allentata. In Francia, otto milioni di salariati sono parzialmente disoccupati e ricevono una significativa parte del loro salario senza dover lavorare. Un bel po' di tempo è stato liberato, anche se ci sono condizioni che stabiliscono un limite draconiano al suo utilizzo. Resta il fatto che le esperienze di un'esistenza rispetto alla quale le costrizioni lavorative si attenuano, costituiscono altrettante porte aperte verso delle opportunità che la routine quotidiana iper-satura di attività non viene più vista. Se la mancanza di tempo è una delle principali patologie dell'homo oeconomicus, il confinamento crea allora la situazione inversa di un'enorme disponibilità di tempo, anche se, il più delle volte, non si sa bene con che cos'altro occuparlo se non picchiettare freneticamente sul proprio cellulare o aumentare l'audience dei canali di informazione. Eppure, malgrado tutti questi limiti, la combinazione tra la rabbia contro uno stato di fatto sempre più screditato e una rottura della temporalità che sconvolge le abitudini più radicate, si fa portatrice di un non trascurabile potenziale critico, in grado di mettere in discussione e, forse, di aprire verso molteplici ed infinite biforcazioni. La crisi del coronavirus può aiutarci a vedere un po' meglio che cos'è che non vogliamo più e forse anche quello che potrebbe essere un mondo in cui si produce meno, o dove si lavora meno, dove si inquina meno, o dove si ha meno fretta e meno impegni. Questo contesto di crisi, in cui oltretutto la questione della morte è meno occultata di quanto lo sia di solito, lascia uno spazio singolare a domande quali: cos'è veramente importante? A cosa teniamo veramente? Si tratta senza dubbio di uno fattori potenzialmente creativi dell'attuale situazione.

- Arrestare l'economia: in molti l'hanno sognato, il virus c'è riuscito! Da quel momento in poi, diventa logico pretendere di rifiutare qualsiasi riavvio e qualsiasi forma di ritorno alla normalità. Rimangono da trovare quali sono i mezzi per opporvisi concretamente. Ma non di meno va sottolineato che la crisi del coronavirus offre una sperimentazione a tutto campo di quello che un blocco generalizzato dell'economia (35% dell'attività globale e 44% dell'attività industriale). Certo, si tratta in parte di un auto-blocco, ma non va trascurato l'impatto causato da un massiccio ricorso al diritto di recesso, e da altre forme di pressione da parte dei salariati, e perfino allo sciopero, in Italia per esempio, ma anche altrove. L'ipotesi di una pratica generalizzata di blocco, che allo stesso tempo riguarda la circolazione, la produzione, il consumo, la riproduzione sociale, la gestione del territori, che era già stata riattivata dal movimento dei Gilet Gialli, ne potrebbe uscire rafforzata. L'attuale episodio di auto-blocco dell'economia sotto vincolo sanitario potrebbe quindi consentire di mostrare meglio quali sono i settori produttivi meno utili e molto dannosi, il cui blocco duraturo, se non l'eliminazione, non avrebbe alcuna conseguenza nefasta e sarebbe, al contrario, assai efficace per poter attenuare e mitigare le possibili future catastrofi annunciate.

- Le pratiche di assistenza e di auto-organizzazione non hanno dovuto attendere la crisi del coronavirus per (ri)emergere ed apparire come la base concreta per dei mondi desiderabili e nuovamente abitabili. Ma le condizioni di esistenza imposte dalla pandemia e le misure prese dall'alto per contenerla, non possono fare altro che accentuarne la necessità e la rilevanza [*44]. L'esperienza dell'epidemia ha fatto apparire, in primo luogo, la necessità di pratiche sanitarie auto-organizzate: centri sanitari autonomi, una rete di competenze condivise o qualsiasi altro modo organizzativo possibile in questo campo, come hanno potuto fare i zapatisti, per fare emergere collettivamente le misure sanitarie necessarie per affrontare l'epidemia, anziché lasciare allo Stato il compito di imporcele coercitivamente. La situazione creata dalla pandemia pone altresì, con un rigore che ha cessato di essere solo teorico, la questione dell'autoproduzione, soprattutto alimentare, e quella delle reti di approvvigionamento auto-organizzate, che si stanno rivelando cruciali a causa della minaccia latente di penuria, innanzitutto nelle città. Infine, il tessuto rafforzato delle pratiche di assistenza e di auto-organizzazione dovrebbe portare abbastanza logicamente ad aumentare il desiderio di fare emergere delle forme di autogoverno comunale, permettendo ai collettivi di abitanti di prendere da sé soli le decisioni derivanti da scelte di vita auto-determinate.

Il coronavirus può essere considerato come un rivelatore ed un amplificatore delle tendenze già presenti in precedenza. Non può essere l'unico operatore di un cambiamento o di un'inversione storica radicale; non è il Messia che condanna al collasso finale una civiltà perversa. Tuttavia, la crisi provocata dalla SARS-CoV-2 è un vero e proprio avvenimento che ha costretto i governanti del pianeta ad invertire temporaneamente le gerarchie del mondo dell'Economia, per assicurarne la riproduzione a lungo termine. Ponendoci per la prima volta in una scale di questo tipo, e con degli effetti palpabili anche per quel genere di catastrofi caratteristiche del secolo a venire, il virus funziona anche come un acceleratore del tempo storico. Da questo punto di vista, anche se la crisi immediata è sanitaria, e non climatica, essa ci fa esperire quanto sia esorbitante il costo del Capitalocene. Essa ci rende tangibile quello che si profila all'orizzonte; anche se non dobbiamo aspettarci degli effetti immediati, visto che è probabile che prevalga la lettura naturalizzante dell'epidemia.
Dire che il coronavirus non fa altro che amplificare le tendenze già presenti in precedenza, non significa in alcun modo che tutto ricomincerà come prima. Accentuare quelle che sono le tendenze già presenti, ed in particolare rafforzare gli antagonismi e le tensioni che da tali tendenze derivano, crea, in una situazione caotica nella quale prevale un'estrema instabilità, una maggiore apertura verso nuove possibilità. Mentre allo stesso tempo amplifica quelle che sono le tendenze precedenti, la crisi del coronavirus apre quindi delle opportunità in parte nuove: la musica è cambiata; molte certezze sono crollate; degli equilibri si sono modificati e dei divieti sono stati tolti, almeno provvisoriamente. Le possibilità del passato stanno diventando un po' più possibili di prima. Naturalmente, tutto ciò vale tanto per il rafforzamento delle forme di dominio - che potrebbero benissimo aggiungere al loro armamentario già esistente anche lo stato di eccezione sanitario permanente - quanto per tutti coloro che sono pronti ad impegnarsi seriamente per conquistare mondi vivibili, liberati dalla tirannia dell'Economia.

- Paris (confiné), 12 avril 2020 [mise à jour, le 19 avril 2020] - Jérôme Baschet -

NOTE:

[*1] -  https://lavoiedujaguar.net/Le-vingt-et-unieme-siecle-commence-maintenant (version complète d’un texte publié initialement dans Le Monde).
[*2] - https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/04/05/yuval-noah-harari-le-veritable-antidote-a-l-epidemie-n-est-pas-le-repli-mais-la-cooperation_6035644_3232.html  (texte initialement publié dans Time).
[*3] - James C. Scott, Homo Domesticus. Une histoire profonde des premiers États, La Découverte, 2019.
[*4] - Bruce Campbell, The Great Transition. Climate, Disease and Society in the Late Medieval World, Cambridge University Press, 2016.
[*5] - Pierre Veltz, https://www.telos-eu.com/fr/societe/covid-19-meme-en-temps-de-crise-un-peu-de-recul-ne.html.
[*6] - Rob Wallace, Big Farms Make Big Flu, Monthly Review Press, 2016.
[*7] - https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)30183-5/fulltext .
[*8] - Aggiornamento: le informazioni più recenti parlano di sospetti riguardo l'origine della diffusione della SARS-CoV-2 proveniente dall'Istituto di virologia di Wuhan. L'ipotesi di un virus creato artificialmente in laboratori viene respinta dalla maggior parte degli scienziati, ma è del tutto possibile un difetto nella sicurezza che avrebbe portato accidentalmente alla contaminazione iniziale. Va sottolineata l'estrema importanza dell'Istituto di virologia di Wuhan: è il primo laboratorio P4 (di altissimo livello e di altissima sicurezza) in Cina. Costruito nel 2015 e riconosciuto nel 2017, è stato inaugurato in presenza del primi ministro francese Bernard Cazeneuve. È dedicato in particolare allo studio dei virus emergenti al fine di controllare i rischi epidemici ed uno dei suoi programmi riguarda il coronavirus dei pipistrelli. Se l'ipotesi di un legame tra l'istituto di virologia e lo scatenarsi dell'epidemia venisse confermata (ma si disporrà mai di una prova affidabile?), rimarrebbe comunque l'importanza delle causalità summenzionate: e questo perché le trasformazioni indotte dall'uomo provocano una moltiplicazione delle zoonosi, cosa che rende necessari i laboratori come quello di Wuhan per studiare i virus potenzialmente emergenti.
[*9] -  L'Hubei è una delle prime cinque regioni per l'allevamento di suini in Cina. Si può anche notare che un'epidemia di coronavirus (SADS) ha devastato gli allevamenti di suini nella regione del Guangdong tre anni fa. https://www.grain.org/fr/article/6441-de-nouvelles-recherches-suggerent-que-l-elevage-industriel-et-non-les-marches-de-produits-frais-pourrait-etre-a-l-origine-du-covid-19 .
[*10] - Frédéric Keck, https://lundi.am/Des-chauve-souris-et-des-hommes-politiques-epidemiques-et-coronavirus .
[*11] - http://www.centerforhealthsecurity.org/event201/scenario.html .
[*12] - https://www.imperial.ac.uk/media/imperial-college/medicine/sph/ide/gida-fellowships/Imperial-College-COVID19-NPI-modelling-16-03-2020.pdf .
[*13] - http://www.esa.int/Applications/Observing_the_Earth/Copernicus/Sentinel-5P/Coronavirus_lockdown_leading_to_drop_in_pollution_across_Europe .
[*14] - http://www.g-feed.com/2020/03/covid-19-reduces-economic-activity.html .
[*15] - si veda il testo di Françoise Vergès, https://www.contretemps.eu/travail-invisible-confinement-capitalisme-genre-racialisation-covid-19/ .
[*16] - https://www.jornada.com.mx/ultimas/estados/2020/03/25/los-pobres-estamos-inmunes-de-coronavirus-barbosa-7821.html .
[*17] - https://www.lemonde.fr/afrique/article/2020/04/03/en-afrique-le-covid-19-met-en-danger-les-elites-dirigeantes_6035384_3212.html .
[*18] - https://www.redebrasilatual.com.br/cidadania/2020/03/coronavirus-domesticos-em-casa-salarios-em-dia/ .
[*19] - Non è questo il luogo per discutere le prese di posizione di Giorgio Agamben: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia ; così come i suoi ulteriori interventi che possono essere letti su Quodlibet: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-contagio .
[*20] - È oggetto della modellizzazione matematica: si veda ad esempio Samuel Alizon, https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/050420/le-confinement-ne-fera-pas-disparaitre-l-epidemie .
[*21] - https://www.lemonde.fr/international/article/2020/04/06/il-ne-faut-pas-diffuser-cette-information-au-public-l-echec-du-systeme-de-detection-chinois_6035704_3210.html .
[*22] - Vincent Brossel et Marie Holzman, https://www.liberation.fr/debats/2020/04/05/un-banquet-officiel-au-coeur-de-la-pandemie-en-chine_1784085 .
[*23] - Sui problemi della struttura dello Stato cinese, si veda «Social Contagion», Chuang, http://chuangcn.org/2020/02/social-contagion/ .
[*24] - https://www.scmp.com/week-asia/health-environment/article/3075164/south-koreas-coronavirus-response-opposite-china-and .
[*25] - https://www.pagina12.com.ar/257988-bolsonaro-no-pudo-echar-a-su-ministro-de-salud-por-el-veto-m . Aggiornamento: il 16 aprile, Bolsonaro alla fine ha licenziato il suo ministro, approfittando di alcune sue dichiarazioni imprudenti che ha indebolito il sostegno che aveva ricevuto dai militari.
[*26] - https://www.jornada.com.mx/2020/03/19/politica/005n3pol .
[*27] - Si noti che il regime di Daniel Ortega, in Nicaragua, ha raggiunto picchi di demenza tali da negare la gravità dell'epidemia. Il discorso «progressista» è diventato esplicitamente classista ed anti-imperialista, tingendosi allo stesso tempo di millenarismo. https://blogs.mediapart.fr/kassandra/blog/140420/dans-le-deni-face-au-covid-19-le-regime-du-nicaragua-mise-sur-l-intervention-divine [*28] - Aggiornamento: assistiamo ad un'inversione della situazione. In realtà, il governo messicano propugna delle misure di distanziamento sociale e di sospensione delle attività non indispensabili; ma negli ultimi giorni, ispirata senza dubbio dalla situazione degli Stati Uniti, è stata la comunità imprenditoriale ad avere apertamente invocato a non rispettare le direttive del governo. https://www.proceso.com.mx/626362/tv-azteca-llama-a-ya-no-hacerle-caso-a-lopez-gatell .
[*29] - Walter Benjamin, Le capitalisme comme religion, Payot & Rivages, 2019.
[*30] - Pierre Dardot et Christian Laval, « L’épreuve politique de la pandémie », https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/190320/l-epreuve-politique-de-la-pandemie .
[*31] - http://tempscritiques.free.fr/spip.php?article420 .
[*32] - https://www.telegraph.co.uk/global-health/science-and-disease/protecting-healthandlivelihoods-go-hand-in-hand-cannot-save/ .
[*33] - https://www.edelman.com/research/edelman-trust-covid-19-demonstrates-essential-role-of-private-sector .
[*34] - http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2020/03/16/por-coronavirus-el-ezln-cierra-caracoles-y-llama-a-no-abandonar-las-luchas-actuales/ .
[*35] - https://www.proceso.com.mx/624397/ezln-avala-cuarentenas-a-migrantes-que-regresan-a-comunidades-de-base .
[*36] - Naomi Klein, La Stratégie du choc. La montée d’un capitalisme du désastre, Actes Sud, 2008.
[*37] - François Gemenne sottolinea come e fino a che punto la crisi del coronavirus costituisca una brutta notizia per la lotta contro il riscaldamento climatico. https://plus.lesoir.be/290554/article/2020-03-28/pourquoi-la-crise-du-coronavirus-est-une-bombe-retardement-pour-le-climat .
[*38] - https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/03/24/raphael-kempf-il-faut-denoncer-l-etat-d-urgence-sanitaire-pour-ce-qu-il-est-une-loi-scelerate_6034279_3232.html .
[*39] - https://www.mediapart.fr/journal/international/180818/l-enfer-du-social-ranking-quand-votre-vie-depend-de-la-facon-dont-l-etat-vous-note?onglet=full .
[*40] - Per i precedenti del liberalismo autoritario:  Grégoire Chamayou, La société ingouvernable. Une généalogie du libéralisme autoritaire, La Fabrique, 2018.
[*41] - Un segnale, per quel che vale: alla domanda se «il capitalismo così com'è oggi faccia più male che bene al pianeta?», la risposta è positiva al 56% (ed al 69% in Francia; ed è per lo più negativa solo nei seguenti paesi: Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, Corea del Sud e Hong Kong). Si tratta di una ricerca su 34.000 persone di 28 paesi (barometro della fiducia di Edelman, pubblicato in occasione del World Economic Forum di Davos, nel gennaio 2020). https://www.edelman.com/trustbarometer .
[*42] - Su questo punto, così come su alcuni altri aspetti menzionati in questa sezione, mi riferisco al mio «Une juste colère. Interrompre la destruction du monde», Divergences, 2019  (liberamente scaricabile su https://www.editionsdivergences.com/une-juste-colere-de-j-baschet-pdf ) .
[*43] - https://acta.zone/coronavirus-confinement-et-resistances-suivi-en-continu/ .
[*44] - https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/210320/face-la-pandemie-retournons-la-strategie-du-choc-en-deferlante-de-solidarite .

- Pubblicato su lundimatin#238, le 13 avril 2020 -

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ottimo articolo. Molto esauriente.