venerdì 15 maggio 2020

Enigma

Ancora il nuovo coronavirus e il nostro enigma civilizzatore
- di André Márcio Neves Soares -

Il divulgatore scientifico, e autore del libro "Spillover. L'evoluzione delle epidemie", David Quammen, un materialista darwiniano dichiarato, è assai chiaro a proposito di ciò che questa pandemia rappresenta: «Nella storia della Terra, gli esseri umani sono più numerosi di qualsiasi altro grande animale. E questo rappresenta una forma di squilibrio ecologico che non può continuare per sempre. Ad un certo punto, in qualsiasi momento, si verificherà una correzione naturale. Avviene con molte specie: quando sono troppo numerose per gli ecosistemi succede qualcosa. Restano senza cibo, o si evolvono dei nuovi predatori per divorarli, o vengono ridotti da pandemie virali. Per esempio, le pandemie virali interrompono le esplosioni di quelle popolazioni di insetti che parassitano gli alberi. Qui esiste un'analogia con gli esseri umani.» Gli è che, visto che siamo più di 7 miliardi di persone, nessun animale è paragonabile al nostro grado di evoluzione sulla Terra. Ma in un momento di pandemia, questo diventa un problema enorme. La straordinaria capacità riproduttiva della nostra specie, sia per i vantaggi biologici acquisiti sia per i progressi scientifici raggiunti nel corso della nostra esistenza, offre a questa ondata pandemica maggiori e migliori opportunità di auto-riproduzione. Di fatto, è avvenuto che quando siamo passati da un mero «essere er più» nella natura, al trovarci in cima alla catena alimentare tra tutti quelli che sono gli essere viventi, abbiamo innescato una sorta di bomba ad orologeria, senza però dotarci di un pulsante di «disattivazione» di tale bomba. In questo processo, la scienza ha la sua parte di colpa. È più che noto che la globalizzazione ha accelerato il ritmo del pianeta a tutti i livelli, anche quando ci si trova in tempi difficili come questi.
In tal senso, è poco intelligente immaginare che i grande scienziati, i grandi istituti di ricerca, i principali paesi sviluppati e l'élite che comanda la catena del sistema globale di produzione capitalistica non sapessero dell'imminenza di una pandemia come questa. Non occorre un indovino per sapere che è così, e che lo sapevano. Varie pubblicazioni (libri, articoli, rapporti prodotti dalle organizzazioni ecologiche e sanitare, ecc.) sono a disposizione di coloro che desiderano comprendere almeno un po' di quelle che sono le dinamiche di questo evento di proporzioni ancora poco conosciute. Salta inoltre agli occhi, poi, l'incapacità, o meglio ancora, l'inoperatività e l'inerzia di tutti coloro che sono stati citati nel tentativo di trovare la miglior forma di prevenzione possibile. Ora, non si tratta di parlare di quali siano gli strumenti per poter mitigare questa pandemia, cosa di cui parleremo più avanti, ma di quanto poco un simile tema sia stato trattato. In realtà, aspettarsi che un sistema economico come il capitalismo - nel quale l'avidità è sinonimo di fortuna, e la fortuna è sinonimo di successo - prestasse attenzione alla grave crisi sanitaria che si stava avvicinando, significa ignorare la famosa favola dello scorpione, il quale aveva bisogno di attraversare il fiume e convinse il traghettatore (fosse egli un pesce, una rana, o chiunque altro) ad aiutarlo e, nel bel mezzo del fiume, lo punse, pur sapendo che così sarebbe morto insieme a lui. L'istinto aveva avuto il sopravvento. Così avviene anche nel capitalismo: pur sapendo che nel lungo periodo sarà morto, si rinnova ogni giorni, per poter durare un po' di più.
Il pensatore francese Bruno Latour (antropologo, sociologo e filosofo) è uno dei maggiori critici di questo sistema parassitario. In uno suo breve testo, intitolato «Immaginare gesti-barriera contro il ritorno alla produzione pre-crisi», egli registra, sbalordito, quella che è la capacità del nuovo coronavirus, di riuscire a fare quello che nessuna ideologia, o lotta di classe, è mai riuscita a fare, vale a dire, a far rallentare fino a quasi fermare, sospendere, reindirizzare il sistema economico capitalistico. Effettivamente, non c'è mai stata nessuna critica, e nemmeno nessuna azione ecologica che sia stata capace di rovesciare il dogma neoliberista della locomotiva del progresso. Poi continua col dire - ancora affascinato dalla scoperta - che questo coronavirus ha indicato a tutti quale fosse la leva del freno, che si trova nelle mani di ogni capo di Stato, in grado di fermare questa locomotiva del progresso, ma che a noi, esseri umani ordinari, è sfuggita (nascosta?).
In definitiva, la globalizzazione ha come sceneggiatura finale la fuga totale dalle restrizioni planetarie. Il nuovo coronavirus, nonostante quello che è il discorso ufficiale generalizzato, può offrire ai proprietari di capitale un'occasione unica per poter neutralizzare qualsiasi ostacolo che si frapponga all'atto finale della deregolamentazione di ciò che rimane dello stato sociale, insieme alle briciole offerte dalla rete di protezione ai meno favoriti in quei paesi che non hanno mai conosciuto questo modello socialdemocratico del dopoguerra. In altri termini, l'eccesso di persone è pernicioso per il sistema capitalistico. Come dice Latour (2020): « Non dobbiamo dimenticare che ciò che rende i globalizzatori così pericolosi è che sanno evidentemente di aver perso, che la negazione del cambiamento climatico non può durare all’infinito, che non esiste più possibilità di conciliare il loro “sviluppo” con le varie sfere del pianeta in cui sarà necessario finire per inserire l’economia. Questo è ciò che li rende pronti a tentare qualsiasi cosa per ottenere, un’ultima volta, le condizioni che permetteranno loro di durare un po’ più a lungo, di proteggere se stessi e i loro bambini. Il “blocco del mondo”, questa frenata, questa pausa inaspettata, offre loro l’opportunità di fuggire più velocemente e più lontano di quanto abbiano mai immaginato. I rivoluzionari, al momento, sono loro.»
Qui, faccio un'importante critica al testo di Latour, vale a dire alla sua esplicita mancanza di riflessione sulla contraddizione tra il concetto di protezione dei capitalisti e dei loro figli, da una parte, e l'esplicita incapacità, da parte dell'economia, a continuare così com'è. Sono sicuro che ci ha pensato. Alla fine, nel dire che gli adepti della globalizzazione stanno per «costruire fortezze che possano garantire i loro privilegi, bastioni fortificati di privilegi che devono rimanere inaccessibili a tutti coloro che è bene lasciare in disparte», Latour riconosce che i capitalisti «non sono abbastanza ingenui da credere nel grande sogno modernista della condivisione universale dei "frutti del progresso"». Tuttavia, quando fa riferimento all'azione, ecco che questo teorico cade nel pozzo comune delle risposte che sono già state date da altri, nella lotta ai dettami dell'ordine capitalista. Per meglio spiegare, la retorica dell'emancipazione umana a fronte degli errori del vigente sistema economico è già scaduta.
Sotto questo aspetto, non basta più dire che dovremmo cominciare a pensare, o perfino che dovremmo trasformare il sistema produttivo ecc. È evidente che dobbiamo fare tutto questo, ma come? Come fare a cambiare, ipso facto, il nostro destino storico del quale «non abbiamo mai imparato a morire» (Mbembe, 2020)? Di fatto, questo pensatore camerunense, filosofo, teorico politico, storico, intellettuale e professore universitario, e forse uno dei grandi architetti di quello che potrei chiamare l'attuale «neoumanesimo», fa questa impressionante affermazione nel suo ultimo articolo dal titolo «Il diritto universale di respirare». Achille Mbembe sa che questa pandemia non metterà fine all'essere umano. La sua preoccupazione è riservata ai danni generali che il nuovo coronavirus causerà alla nostra specie, e di conseguenza alla biosfera, in un momento di propagazione esponenziale concomitante di un altro virus, quale è il neoliberismo brutale, o «Brutalismo», che non a caso è il titolo del suo più recente libro (ancora non tradotto in italiano). Infatti, se il peggio deve ancora venire, diventa allora interessante che egli commenti che molti non passeranno per la cruna dell'ago. Mi domando se Mbembe non abbia letto Robert Kurz, il filosofo tedesco originario della Scuola di Francoforte. Se così non è, si tratta di una grande coincidenza quando, nel suo articolo dal titolo «La commercializzazione dell'anima», Kurz scrive che: «È passato il tempo in cui le persone osavano ancora pensare, vergognandosene, a qualcosa di diverso da quella che era la propria venalità e quella del loro prodotto. L'individuo si trasforma sempre più in quel "homo oeconomicus" che una volta era una semplice immagine dell’economia politica classica. Con l’economizzazione di tutti gli ambiti della vita, anche l'economizzazione della coscienza ha raggiunto un livello inconcepibile fino a non molto tempo fa ;  e questo grazie alla globalizzazione allargatasi ai quattro angoli del mondo, e non solo nei centri capitalisti. Quando perfino l’amore e la sessualità, tanto nella scienza quanto nella vita quotidiana, vengono pensati in quanto categorie economiche, e valutate secondo criteri economici, "commercializzazione dell’anima" appare irresistibile.» Ora, Mebmbe dice la medesima cosa nel momento in cui definisce il nostro tempo «un tempo senza garanzie o promesse, in un mondo sempre più dominato dall’ossessione della fine.» In altre parole, la vulnerabilità di noi tutti è sempre più esposta ad una distribuzione sempre più disuguale, la quale, in questo processo di esaurimento fisico e psicologico, può portare solamente a nuove forme di brutale violenza. Arriva ad affermare che  nello «stadio estremo della nostra breve storia sulla Terra, l’essere umano potrebbe finalmente trasformarsi in un dispositivo plastico. La strada è stata spianata per il completamento del vecchio progetto di estensione di un mercato infinito.»
Con tutto ciò,  anche il teorico camerunense non ci fornisce una risposta concreta su come evitare questo nuovo ordine globale fatto di irrazionalità e di crisi sanitaria. Il massimo che arriva a mettere in evidenza, è il pericolo che questi due parametri del nuovo ordine rendano impossibile la continuazione di ogni e qualsiasi forma di vita. Ragion per cui, si rammarica del fatto che la nostra salvezza si collochi a metà strada tra il trasferimento della coscienza nelle macchine e la  nostra prossima prossima mutazione in quanto specie. E conclude dicendo: «Se, infatti, il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasse planetaria nella quale l’umanità si trova, allora si tratta, né più né meno, di ricomporre una Terra abitabile che ci possa offrire tutte la possibilità di una vita respirabile.»
Bene, abbiamo parlato di molte cose ma non abbiamo ancora detto niente sulle forme di mitigazione disponibili per contrastare questa pandemia, quanto meno per limitarne la diffusione. Forse sarebbe importante comprendere un po' la logica del capitale attraverso un approccio - diciamo - più avanzato dal punto di vista tecnologico. A tal fine, passiamo a far ricorso al filosofo bielorusso Evgeny Morozov. Nel suo ultimo articolo sul Guardian, dal titolo «The tech ‘solutions’ for coronavirus take the surveillance state to the next level» [«Le "soluzioni" tecnologiche per il coronavirus, ci portano al prossimo livello dello stato di sorveglianza»] mette in evidenza qualcosa di estremamente inquietante, vale a dire il fatto che questo circolo vizioso, il «Soluzionismo», creato nella Silicon Valley da quegli stessi che hanno accelerato il capitalismo classico, per trasformarlo in neoliberismo, ora puntano a degli innesti di tecnologia per evitare la politica. Si tratta di misure post-ideologiche che - senza spendere un centesimo - servono a mantenere in funzione la gigantesca ruota del capitalismo senza frontiere. Infatti, se il «Soluzionismo» è intrinsecamente legato al neoliberismo, al punto da lasciare intravvedere l'esistenza di un punto in comune in quello che è il loro cammino, allora non ci rimarrebbe altro da fare che aspettare che gli anticorpi presenti all'interno del sistema capitalistico stesso producano una specie di immunità nei confronti di questo sistema schiavista, della sua esistenza e della sua funzionalità. Proprio allo stesso modo in cui questa pandemia è arrivata a devastare l'intera umanità e, soprattutto, i meno privilegiati.
A tal fine, Morozov si interroga su qualcosa di sorprendente: se queste due ideologie, neoliberismo e soluzionismo, sono così interconnesse, come può la tecnologia diventare un ostacolo? La risposta, breve ma non semplice, consiste nel fatto che in un mondo dove c'è cosi tanta sovrabbondanza, la ricchezza può essere solo condivisa, e non ci se ne può appropriare. In altre parole -  nel mondo del capitalismo 24/7, della fine del sonno, che non si disconnette mai - l'appropriazione effettiva della ricchezza materiale potrebbe essere pericolosa per il mercato fisico, nel caso che che questo mondo virtuale si dovesse scollegare da ciò che conta realmente per il mercato: il consumo. La soluzione escogitata dai portatori di potere, secondo questo teorico, è stata semplice anch'essa: restringere e rimpicciolire l'immaginario collettivo. Vale a dire, vietare qualsiasi esperienza tecnologica che abbia sostanza politica. In questo modo, si evita che quei gruppi considerati più «sovversivi» possano far decollare una qualche forma di economia solidale, o delle nuove alternative di organizzazione sociale. Le democrazie tecno-autoritarie, così dipendenti da questo nuovo universo digitale, se non possono più nascondere il nuovo coronavirus (e ancor meno potranno nascondere la prossima pandemia), ecco che allora sovvertono l'ordine ponendolo sotto vigilanza totale.
Tuttavia - sebbene io consideri il testo suddetto come un'importante fonte di esposizione di quelli che sono i fili che connettono ciò che era già in atto, il neoliberismo, e ciò che si trova in fase di implementazione, il soluzionismo - ritengo che anche il teorico in questione non offra una via d'uscita pratica al problema che ora stiamo affrontando. Tutt'al più, egli arriva ad avvertire quella che è la necessità urgente di un nuovo pensiero «post-soluzionista», che miri a salvare la sovranità pubblica a fronte delle piattaforme digitali. In tal senso, l'enigma emancipatorio rimane e, nonostante quelli che sono qui tutti i tentativi frustrati di risolverlo, continuiamo a fallire. Tuttavia, rimangono possibili alcune forme di mitigazione e contenimento. [...]

- André Márcio Neves Soares - Pubblicato il 12/5/2020 su Ensaios e textos libertários -

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