Fine Ottocento. Una storia che si dipana tra Pisa, Milano, Lugano, Livorno, Rosignano, l’Isola d’Elba, ma anche l’America, sulle tracce di una celebre canzone che dà il titolo al libro, e del suo autore, Pietro Gori: un avvocato, un poeta, un anarchico «socialmente pericoloso», che si trova a vivere una delle stagioni più tormentate della nazione. Un’epoca in cui l’antropologia criminale di Cesare Lombroso – col consenso di psichiatri, giuristi e funzionari di polizia – aveva il compito di costruire una sistematica rete di controllo per ogni tipo di devianza, anche la devianza politica. E soprattutto quella che proclamava patria «il mondo intero» e unica legge la libertà.
«Il libro prende spunto da questa canzone e dall’immagine che gli fa da sfondo: una fredda e nevosa sera d’inverno a Lugano, dove s’intravede in strada un drappello di uomini ammanettati e avvolti nei loro mantelli neri che procedono in fila, stretti l’uno all’altro, a passo spedito. Ad accompagnarli c’è un gruppo di agenti di polizia. Il loro compito è di scortarli fino alla stazione ferroviaria, e da lì controllare che salgano sul treno diretto a nord, a Basilea, al confine con la frontiera tedesca. E che nessuno di loro abbia la malaugurata idea di tornare indietro. Arrestati e sbattuti in carcere come malfattori, su di loro pende come unica accusa quella di essere potenzialmente sovversivi, quindi indesiderabili: una minaccia per la vita ordinata e tranquilla della città. Sono italiani, in gran parte giovani, dei quali non resteranno che un nome e un cognome, senza anima né corpo. Tranne di uno, nato a Messina ma da padre e madre toscani, che da alcuni anni è personalità di rilievo, non ancora trentenne ma già segnalato per la sua pericolosità di agitatore nei dispacci delle prefetture d’Italia e Francia. È Pietro Gori, anarchico, conferenziere di grido, dirigente politico ma anche poeta e drammaturgo, penalista e sociologo. Ed è proprio mentre è rinchiuso nelle carceri ticinesi, alla fine di gennaio del 1895, che compone una delle sue canzoni più celebri: Il canto degli anarchici espulsi, meglio nota come Addio Lugano bella».
(dal risvolto di copertina di: Massimo Bucciantini, "Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani". Einaudi)
L'anarchia a suon di musica
- Storia e retroscena della famosa "Addio Lugano bella" -
- di Massimo Bucciantini -
In via Luigi Lavizzari, a Lugano, è raffigurato un uomo in bicicletta. Te lo trovi di fronte all'improvviso, grande e grosso, in gilet, pantaloni e cappello neri, su una bici piccola piccola. Con la mano sinistra poggiata sul manubrio e l'altra che tiene tra le dita una sigaretta accesa, Pietro è intento a pedalare. Ma la luce che fuoriesce dai fanali non illumina la strada. È un raggio di colore rosso che segue una strana traiettoria ondulatoria che finisce per accecarlo. Il ciclista se ne sta andando, sta lasciando la città, ma il suo cammino è cieco.
Ovviamente, quel Pietro non è un Pietro qualunque. Anche dalla sua fisionomia, la somiglianza appare subito evidente. Nonostante Agostino Iacurci - l'artista foggiano che nel 2012 lo ha dipinto - preferisca non rivelare troppi dettagli, alla fine, è costretto ad ammettere che in «Pietro non torna indietro c'è Pietro Gori», l'autore di "Addio Lugano bella".
Cantata fin dai primi del Novecento, è stata riscoperta nel secondo Dopoguerra, tanto da diventare uno dei pezzi più noti del repertorio di tanti cantautori nostrani. Per rendersene conto è sufficiente scorrere la voce in Wikipedia, che comprende un elenco delle incisioni e interpretazioni più famose: da Giovanna Marini e Francesco De Gregori a Daniele Sepe, da Caterina Bueno a Maria Carte, da Milva ai 99 Posse a Vinicio Capossela, e una notissima canzone di Ivan Graziani, dove viene citata. Da non perdere poi il video vintage di cinque distintissimi signori in abito scuro, giacca e cravatta, che comodamente seduti su divani e poltrone e accompagnati dalle loro chitarre intonano quei versi rivoluzionari. Al centro della scena si riconosce un Giorgio Gaber giovanissimo, e accanto a lui un quasi irriconoscibile Enzo Jannacci, insieme a Lino Toffolo, Otello Profazio e Silverio Pisu.
Erano i primi anni Sessanta, quando i cantautori non si chiamavano ancora cantautori e quando la canzone di protesta non era ancora diventata di moda. Poco meno di un decennio più tardi sarà uno dei protagonisti di quella felice stagione musicale a richiamarne stilemi e moduli. E lo avrebbe fatto cantando le gesta di un macchinista ferroviere che tutti i giorni vedeva passare per la sua stazione «un treno di lusso», «un treno pieno di signori». La locomotiva è stata scritta «alla maniera di Pietro Gori», ha detto Francesco Guccini, rendendo così omaggio all'autore di "Addio Lugano bella". E non gli occorse molto tempo. In poco più di mezz'ora il testo era già pronto.
Il libro prende spunto da questa canzone e dall'immagine che gli fa da sfondo: una fredda e nevosa sera d'inverno a Lugano, dove si intravvede in strada un drappello di uomini ammanettati e avvolti nei loro mantelli neri che procedono in fila, stretti l'uno all'altro, a passo spedito. Ad accompagnarli c'è un gruppo di agenti di polizia. Il loro compito è di scortarli fino alla stazione ferroviaria, e da lì controllare che salgano sul treno diretto a Nord, a Basilea, al confine con la frontiera tedesca. E che nessuno di loro abbia la malaugurata intenzione di tornare indietro. Arrestati e sbattuti in carcere come malfattori, su di loro pende come unica accusa quella di essere potenzialmente sovversivi, quindi indesiderabili: una minaccia per la vita ordinata e tranquilla della città. Sono italiani, in gran parte giovani, dei quali non resterà che un nome e un cognome, senza anima né corpo. Tranne di uno, nato a Messina ma da padre e madre toscani, che da alcuni anni è personalità di rilievo, non ancora trentenne ma già segnalato per la sua pericolosità di agitatore nei dispacci delle prefetture d'Italia e Francia. È Pietro Gori, anarchico, conferenziere di grido, dirigente politico ma anche poeta e drammaturgo, penalista e sociologo. Ed è proprio mentre è rinchiuso nelle carceri ticinesi, alla fine di gennaio del 1895, che compone una delle sue canzoni più celebri: "Il canto degli anarchici espulsi", meglio nota come "Addio Lugano bella".
Il libro narra le vicende della sua vita, che condussero alla creazione di quella canzone, e al tempo stesso intendono ricostruire una delle stagioni più tormentate e drammatiche della nazione. Inseguire le storie di una generazione di intransigenti in un periodo segnato da una grave crisi economica e da forti conflitti sociali, da scioperi e scontri di piazza, da attentati terroristici e leggi liberticide, sarà un degli scopi di questo lavoro. Ed è anche un modo per tornare a riflettere sulle passioni che li animavano, così come sulle loro illusioni e sconfitte.
Ma c'è dell'altro. A un certo punto il lettore forse si sorprenderà di incontrare vite che a prima vista sembrano appartenere a mondi separati - quello della politica e quello della scienza - ma che invece, a ben guardare, finiscono per lambirsi e a volte, come in questo caso, incrociarsi.
Già all'indomani dell'Unità i governi del nascente Stato italiano si erano dati il compito di tracciare nuovi confini tra legalità e sovversione. E non potevano certo assomigliare a quelli assai mobili e incerti presenti durante la lotta per l'indipendenza contro la nemica Austria o quelli dell'epoca garibaldina. Il motivo è semplice: il quadro da allora era cambiato radicalmente. Un nuovo ordine si stava costruendo. Zone di turbolenza e di degenerazione non erano più tollerate, tanto da mettere a rischio le normali regole della convivenza civile e da essere da ostacolo alla fondazione della nazione. All'interno di queste nuove coordinate, spettò a una nuova scienza delineare altre linee di demarcazione. Una scienza - e va subito detto - che non si dimostrò tale, fondata da scienziati che alla fine si rivelarono anch'essi pericolosi perché costruttori di stereotipi di successo più che di teorie scientifiche provate sperimentalmente. Ma che a lungo esercitarono un grande fascino. Per la loro capacità di segnare frontiere invalicabili tra comportamenti giudicati conformi ai nuovi vincoli giuridici e sociali e modi di agire e di pensare ritenuti eccentrici e manifestatamente assurdi. Per la loro capacità di separare biologicamente i buoni dai cattivi, i delinquenti nati o d’occasione, i ribelli fanatici, i pazzi, i semipazzi da uomini e donne dalla condotta morale e sociale segnata da abitudini, tendenze, passioni, pensieri comunemente accettati.
L'antropologia criminale di Cesare Lombroso e della sua «eletta» scuola di medici, psichiatri, giuristi, sociologi ebbe il compito di disegnare queste barriere difensive. Molte di queste vennero fatte proprie da una fitta schiera di governanti e funzionari dello Stato, di magistrati, prefetti, questori che si prodigò a costruire una sistematica rete di controllo e di repressione per ogni tipo di devianza. Rispetto alla parte della società abitata da menti e comportamenti normalmente organizzati, la nuova scienza lombrosiana si occupò dell'altra parte, della società malata, catalogando e classificando un vastissimo campionario delle umane degenerazioni. O considerate tali. Tra le quali rientrò anche il «morbo» anarchico, che colpiva i «malfattori» di nuovo conio, i refrattari ai valori attorno a cui la società borghese stava prendendo forma e che trovavano nelle idee di una rivoluzione sociale il loro nutrimento e la loro ragione di esistere. Sono loro i nuovi barbari, come vennero chiamati. Socialmente pericolosi, com'era appunto Pietro Gori, il cui nome finirà in un album fotografico di oltre duecento anarchici ricercati in tutti i Paesi d'Europa: un antagonista dell'ordine costituito, un ribelle irriducibile e sentimentale che in tutta la sua vita non si accontentò mai del «cattivo presente».
- Massimo Bucciantini - Pubblicato sul Sole del 24/5/2020 -
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