venerdì 30 luglio 2021

Stereometria superiore

Da dentro e a partire da un romanzo il cui protagonista è un morto che ritorna (Chabert, il colonnello di Napoleone), Jacques Austerlitz recupera - fisicamente, materialmente - una sua fotografia appartenente a un'altra vita, all'infanzia, da un mondo che non esiste più (di un tempo in cui i suoi genitori, e tanti altri milioni di genitori, erano ancora vivi). Vale la pena ricordare che, nella novella di Balzac, il corpo di Chabert ritorna dai morti - da sotto una montagna di cadaveri - attraverso la neve («Finalmente vidi la luce, ma attraverso la neve, signore.») E questo potrebbe riferirsi alla storia che chiude la prima parte de "Gli Emigrati", quando il narratore legge sul giornale che i resti del corpo dell'alpinista Johannes Naegeli, scomparso dal 1914, sono stati scoperti sul «ghiacciaio dell'Oberaar» (W.G. Sebald,”Gli emigrati”. Adelphi).

«È così dunque che ritornano, i morti.», scrive il narratore di Sebald ne "Gli emigranti" - facendo di Naegeli, l'alpinista, un anello della catena che unisce Austerlitz, Chabert, Hunter Gracco, il cacciatore del racconto di Kafka (evocato in "Vertigo" e anche lui inserito in quella «superiore stereometria» che unisce i vivi e i morti), ma anche il fissarsi di Stendhal sulla mano di Metilde (il calco in gesso della mano sinistra della donna sulla sua scrivania, anticipazione di quel «sex appeal dell'inorganico» di cui Benjamin parlerà in futuro), e la fissazione - letterale e metaforica - di Nabokov per le farfalle e le «ninfe» (l'uomo che caccia le farfalle è un personaggio che attraversa tutti i racconti de "Gli emigranti"; e "L'autobiografia" di Nabokov era uno dei libri preferiti di Sebald, che la commenterà poi in "Campo Santo").

Come ritornano i morti, come possono ritornare, come possono sopperire - per quanto indirettamente - alla mancanza che causano, ai compiti che hanno lasciato in sospeso? Un insieme di domande, questo,  che Sebald trae e assume a partire da Kafka e Benjamin in egual misura - e che trasferisce anche nella sua lettura di Nabokov, per esempio: quando commenta l'autobiografia di Nabokov, Sebald individua il momento che più di tutto lo emoziona: Nabokov bambino vede suo padre che viene lanciato in aria dai contadini, in festa - la visuale è dall'interno della casa, attraverso la finestra, di modo che il padre sembra apparire e scomparire, come per magia (a partire da tale evocazione, Nabokov cerca di conservare una potenza di ritorno della figura paterna, cancellata poi dalla distanza e dal carattere prematuro e brusco del suo assassinio, avvenuto nel marzo 1922, a Berlino).

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 29 luglio 2021

«Giorgio Gambe» e i fascisti

Per Agamben sono tutti fascisti tranne chi è fascista davvero
- di Raffaele Alberto Ventura -

Nell’ultimo quarto di secolo il nome di Giorgio Agamben ha indicato non soltanto uno dei filosofi italiani più letti al mondo, non soltanto un punto di riferimento per una certa sinistra libertaria, ma anche una delle esperienze intellettuali più esaltanti della contemporaneità. La prosa di Agamben si legge come un feuilleton, con le sue invenzioni, i suoi effetti, i suoi colpi di scena, e naturalmente anche i suoi cliché, i suoi manierismi e le sue scorciatoie (per una disamina severa, si veda il breve saggio che gli ha dedicato l’italianista Claudio Giunta). Gli autori che il filosofo ha contribuito a promuovere fanno oggi parte del bagaglio culturale di un’intera generazione, quella stessa generazione che oggi si scopre imbarazzata di fronte alle sue esternazioni sulla pandemia di Covid-19 — secondo lui, niente meno che un’invenzione.
Si fosse limitato a scrivere che è stata mal gestita o strumentalizzata, magari esagerata, sarebbe stato più vicino al vero, ma di certo non avrebbe fatto tanto scalpore. Nel deserto di altre autorevoli voci critiche, tanto è bastato a fare del filosofo un punto di riferimento per aperturisti e antivaccinisti, in misura eguale e contraria allo scandalo del suo lettorato progressista. La fama del filosofo presso un pubblico più ampio, forse mal udente, è testimoniata dai suggerimenti di ricerca di Google, tra i quali qualche tempo fa primeggiava la chiave “Giorgio Gambe”. Ma sarebbe un errore attribuire le sue posizioni sulla pandemia a una svolta tardiva o a una doppia personalità, dottor Giorgio e mister Gambe.
Al contrario esse sono del tutto coerenti con l’impianto teorico sviluppato nel corso degli anni, all’insegna di una critica radicale della modernità nella sua triplice veste statuale, capitalistica e scientifica. Il lettorato progressista, per stupirsene con tanto ritardo, deve essere anche molto disattento.

Scintille di nazismo
In un post di pochi giorni fa, Agamben ha paragonato il pass vaccinale alla stella gialla portata dagli ebrei durante il nazismo. Immagine tristemente scontata che nel frattempo era già stata messa in scena in varie manifestazioni di piazza in tutta Europa. Non era la prima volta che il filosofo ricorreva a un paragone storico del tutto sproporzionato e vagamente osceno, avendo già sostenuto un anno fa che i professori che si prestano alla didattica a distanza sono della stessa pasta di quelli che si erano piegati al fascismo. Eppure questo genere di paragoni non sono una novità per Agamben, che ricorre spesso e volentieri alla “reductio ad Hitlerum” — anzi questa è la sua vera cifra poetica, la sua firma, la carta che già più volte ha tirato fuori per descrivere la contemporaneità. Lettore attento di Hannah Arendt, il filosofo sembra impegnato da vent’anni in una radicalizzazione della sua teoria del totalitarismo al fine d’includervi dentro l’intera modernità. Con esiti ultimamente sempre più paradossali, che mostrano i limiti di questo approccio antistorico, che riesce nella duplice impresa di confondere il presente e falsificare il passato.
Se la figura del campo di concentramento era già centrale in un suo saggio del 1998, è con la sua celebrata analisi dello “Stato di eccezione” come paradigma utile a capire gli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 che Agamben realizza la sua più apprezzata reductio. Ma scintille di nazismo Agamben le vede in ogni forma di uso e abuso del principio di necessità, le trova persino nella Repubblica di Weimar affermando che «la Germania aveva già smesso d’essere una democrazia parlamentare ancor prima del 1933» — così diluendo il nazismo in una lunga notte in cui tutti sono bruni, sia prima che dopo, in quanto la “vera democrazia” non esiste. Ma l’esercizio è periglioso, perché considerare Auschwitz come espressione di una catastrofe più generale chiamata modernità avvicina Agamben alla lettura revisionista che del nazismo avevano dato i suoi stessi attori, a partire da Carl Schmitt e Martin Heidegger.

Fascisti non fascisti
In effetti a rendere ancora più stridente questa reductio universale c’è un fatto ulteriore: per Agamben sono tutti fascisti… tranne i fascisti. Sulla temporanea adesione al nazionalsocialismo di Heidegger esiste una letteratura sterminata, che divide gli storici e apre infinite questioni: tuttavia la scoperta recente dei suoi quaderni inediti, detti Quaderni neri, dovrebbe ormai lasciare pochi dubbi sul suo antisemitismo. Stupisce quindi che Agamben, tanto attento alle tracce di fascismo nella didattica a distanza, abbia potuto dichiarare che quei quaderni non hanno nulla di scandaloso in quanto Heidegger «vede nel giudaismo l’elemento dello sradicamento della cultura» (registrazione del 5 aprile 2019 presso l’Istituto italiano di cultura di Parigi). Ulteriori espressioni di questa medesima forza che sradica i popoli, precisava in quell’occasione Agamben parafrasando il filosofo tedesco, erano l’americanismo e il socialismo sovietico.
Ma questo è appunto un classico argomento revisionista, che non assolve Heidegger ma semmai segnala che non si trattava di un sanguinario razzista biologico bensì di un esponente di un “antisemitismo spirituale” alla Julius Evola. Nulla di cui andare granché fieri, ad ogni modo. Discorso simile vale per Ezra Pound, il grande poeta americano che abbracciò con fervore il fascismo proprio in virtù delle proprie idee politiche, culturali ed economiche: cioè non per caso, non per distrazione, non per opportunismo.
Il posto di Pound nella storia della letteratura del Novecento è fuori discussione e possiamo essere grati a Giorgio Agamben di aver curato nel 2016, per Neri Pozza, la pubblicazione di un’antologia di suoi scritti — per quanto controversi (alle teorie di Pound si ispira, come noto, una delle più vivaci realtà dell’estrema destra italiana). Tuttavia appare un poco stridente, sulla quarta di copertina del libro, affermare che «nessuno come lui ha attraversato con assoluta lucidità» l’Europa del suo tempo. Agamben, serio: davvero non possiamo trovare nessuno di più lucido di un poeta folgorato da Mussolini? La prefazione agambeniana dell’antologia è vaga e allusiva, piena di sottintesi, come a suggerire che preoccuparsi dell’ideologia politica di Pound (e delle sue “illusioni sui popoli latini e sul fascismo”) sarebbe una volgarità non degna di un intellettuale che, come il poeta e come Heidegger dopo di lui, è capace di misurare la “catastrofe della cultura occidentale”. Ma qual è di preciso questa catastrofe di fronte alla quale persino il fascismo viene derubricato a dettaglio? Questo è concesso saperlo soltanto agli iniziati.
Qualche indizio: si tratta di «una frattura senza precedenti nella tradizione dell’occidente» in quanto «il nesso tra passato e presente si era spezzato». Come, quando, perché? La prefazione ci lascerà nell’ignoranza, anche se la lettura dei recenti interventi sul Covid-19 ci fa capire che il nuovo mondo che si prepara non è altro che la realizzazione di quell’antica catastrofe. Possiamo supporre che Agamben evochi dei temi nicciani della rivoluzione conservatrice d’inizio Novecento, e con ciò rinvii alla catastrofe costituita dalla rivoluzione francese o dal trionfo della ragione calcolante; ma al filosofo forse conviene starsene sul vago per non scandalizzare la sua fan-base di sinistra.
Forte del suo bottino di capitale reputazionale, in quelle pagine Agamben poteva ancora permettersi il lusso di appoggiare la denuncia contro “avarizia”, “usura” e “denarolatria” di un antisemita notorio poiché, citando il poeta, «gli artisti sono le antenne della razza». Termini tutto fuorché neutri, visto il contesto; non a caso questa stessa identica citazione, sulla quarta di copertina degli Scritti di Pound, diventerà un più inoffensivo «antenne della specie». Non sia mai che a qualcuno venga il sospetto che per Agamben la più alta forma di lucidità intellettuale negli anni Trenta fosse il fascismo, ovvero l’ideologia variamente espressa dai suoi amati Pound, Heidegger e Schmitt; anche perché il vero fascismo, ormai lo sappiamo, sono la didattica a distanza e il pass vaccinale, estreme conseguenze di quella catastrofe dalla quale gli intellettuali fascisti, che però non sono davvero fascisti, volevano metterci in guardia. Lo avevamo detto che l’arte di Giorgio Agamben sta tutta nei colpi di scena.

- Raffaele Alberto Ventura - Pubblicato su Domani del 29/7/2021 -

mercoledì 28 luglio 2021

Asini & Uccellini

Lettere agli amici (da Guattari a Foucault) su vita, musica e mondo animale, saggi ripudiati, disegni. Una raccolta di scritti di Gilles Deleuze (che non voleva conservare la “corrispondenza”)

Libro: "Lettere e altri testi", di Gilles Deleuze. Editore: Giometti & Antonello. 34€

Indago la filosofia non da uccellino ispirato ma come un asino che si frusta da solo
- di Ugo Cornia -

Lettere e altri testi completa la pubblicazione degli scritti del filosofo Gilles Deleuze. Il volume raccoglie tre differenti tipi di testi: le lettere indirizzate a alcuni corrispondenti (Foucault, Guattari, Klossowski e altri); cinque disegni; gli scritti pubblicati in vita e non inclusi nei due volumi postumi già usciti (tra i quali un corso su Hume del 1957-1958); quattro saggi antecedenti al ’53, ripudiati da Deleuze, ma dei quali, preso atto che è impossibile evitare che questi testi circolino a volte in forma imprecisa, la moglie e la figlia hanno deciso di autorizzare la pubblicazione. Le lettere occupano all’incirca un centinaio di pagine. Le prime risalgono alla fine degli anni ’60, le ultime agli anni ’90 e coprono quindi uno spazio temporale di quasi trent’anni. Che cosa ci troviamo dentro? Ci troviamo molte cose. Possiamo dunque seguire varie linee per affrontare e apprezzare questi materiali. Scegliamo per esempio alcune lettere in cui si nominano in vario modo gli animali.

Il 28 novembre 1983 Deleuze scrive a Clément Rosset: «Mi dia un’informazione, per piacere, Clément. Mi diceva tempo fa che il canto degli uccelli aveva un ruolo importante nella musica del Medioevo (?) o del Rinascimento (?). È vero anche per il galoppo del cavallo, gli zoccoli …? Durante il manierismo, ci sono forse molte danze modellate sul galoppo? Mi risulterebbe molto utile se si potesse fare della galoppata e del ritornello due complementari. Anzi, mi sarebbe del tutto necessario».

L’anno precedente, il 23 febbraio, aveva scritto a Arnauld Villani: «L’uso immanente, secondo lei, sarebbe il rizoma o la ragnatela.
Questo mi ha fatto tornare in mente uno psicologo, di nome Tilquin, che si era specializzato con una tesi molto interessante sul tema delle ragnatele. Mi ha fatto venire voglia di rileggerlo, per vedere se per caso non ci siano ragnatele modellate sul rizoma o sull’albero, molto più centralizzate, nei ragni considerati (a torto) superiori o trascendent
i».

E sempre a Arnauld Villani, accennando alle sue solite vacanze nel Limousin, il primo agosto, dice: «Sono arrivato qui stanco, ma vedere le vacche al pascolo mi riposa e mi rigenera».


Nel ’90 invece scrive a Jean-Clet Martin: «Proseguo con la versione definitiva di Che cos’è la filosofia?, ma più come un asino che si frusta da solo che come un uccellino ispirato».

Oppure potremmo seguire i malumori di Deleuze e le sue fughe dalle attività filosofico-mondane; verso la fine degli anni ’70 scrive a Guattari: «Sono contento di quello che ha vissuto a Bologna.
Mi auguro che non si sia stancato troppo. Io invece ho l’impressione di vivere come una casalinga, da poco ho anche smesso di fumare
»; il 21 ottobre ’81 scrive a Rosset «Le discussioni filosofiche sono tediose» e nel febbraio ’82 scrive a Villani: «Ormai è tanto che non vado più ai convegni e non faccio conferenze. È uno dei privilegi che sono riuscito a guadagnarmi. Non si tratta della cattiva salute … Il mio sogno è quello di smettere completamente di parlare e scrivere soltanto». Sogno che viene manifestato anche in altre lettere: incontrarsi, ma non incontrarsi per parlare, incontrarsi per ascoltare musica insieme.

Ascoltare la musica insieme, a distanza o in presenza, anche questo ritorna spesso in questa corrispondenza, si tratta di una specie di esperienza per sentire mondo e vita in un modo che ti metta al riparo: «Curioso come le nostre esistenze (intendo la mia e la tua) si proteggano dal loro stato di crisi permanente trovando riparo in ciò che vi è di più violento e tremendo in arte. Il fatto è che quel terrore lì sradica l’abiezione di questo mondo (non c’è giorno che non porti con sé il suo lotto di comicità abietta e non ci costringa a odiare la nostra epoca, non tanto in nome di un compianto passato, ma nel nome del presente più profondo). E tremendi sono quei canti mongoli che mi hai mandato, la loro voce così incavata, così tremendamente cava che tutte le altre vorrebbero colmarla. Due sono le cose che abbiamo: la violenza dell’arte e la violenza della grazia dei bambini» (a André Bernold, nel maggio del ’94).

Alcune lettere invece ci possono mostrare lo strano e forte interesse, così diverso da quello di altre tradizioni filosofiche del novecento, che Deleuze ha sempre intessuto tra pensiero e tecnologia e tra pensiero e oggetti tecnici; per esempio nel novembre ’90 scrive a Jean-Clet Martin: «Ciò che ha scritto alla fine della lettera, sul cervello, mi ha fatto fantasticare. Lei dice, per l’esattezza: “ciò che è più piccolo del minimo pensabile cade nelle sinapsi; esso può divenire sensibile per intensificazione, come nella regolazione dello schermo televisivo, dove le intensità rendono sensibile ciò che sfugge al grado di definizione”. Mi dia più particolari non appena può: sono sincero, ho bisogno di quest’idea, e di renderle omaggio in un mio prossimo scritto. C’è qui la chiave di qualcosa d’importante, che vorrei capire meglio».

Come ci viene detto nella Presentazione del volume, Deleuze non conservava la sua corrispondenza e non considerava il proprio epistolario come un prolungamento della sua opera. Nonostante questo, chi ama gli scritti di Deleuze potrà trovarvi moltissime cose degne del più grande interesse.

- Ugo Cornia - Pubblicato su Tuttolibri del 3/7/2021 -

martedì 27 luglio 2021

Napoleonicamente parlando …

Nel porre la novella di Balzac - Il colonnello Chabert - al centro del suo romanzo “Austerlitz”, Sebald non solo aggiunge strati e strati di significato alla traiettoria specifica del protagonista, ma utilizza anche un altro ingranaggio, nel sistema generale di riferimenti della sua opera vista nel suo complesso: «Balzac» funziona come metonimia di tutto un mondo perduto (e Chabert è uno di quei cinquantacinque volumi lussuosamente rilegati dietro una vetrinetta), vale a dire, il mondo borghese organizzato del XIX secolo, oggetto di studio non solo di Jacques Austerlitz, ma anche di Walter Benjamin; oltre ad essere il paesaggio affettivo ed efficace di autori come Adalbert Stifter, Gottfried Keller e Eduard Mörike; tutti autori questi, letture costanti di Sebald. 
Va anche notato che entrambi i libri assumono come titolo il nome del protagonista - e che, inoltre, abbiamo a che fare con quelli che sono tutt’e due protagonisti impegnati nel compito di sottrarre alla «morte» (all'oblio, alla sepoltura) una vita vissuta precedentemente (l'infanzia di Austerlitz, la gloria napoleonica di Chabert).
Napoleonicamente parlando, Chabert costituisce per Sebald la possibilità di rafforzare le connessioni sotterranee con un capitolo di "Vertigo" (la sua prima opera in prosa mai pubblicata), quello dedicato a Stendhal, romanziere napoleonico per eccellenza del XIX secolo: in futuro, questi due punti napoleonici nell'opera di Sebald - Balzac/Chabert in Austerlitz, Stendhal in Vertigo - convergeranno poi nell'opera incompiuta dedicata alla Corsica, "Campo Santo", dove il narratore visita la casa di Bonaparte e commenta il daltonismo dell'imperatore, che gli impediva di distinguere il rosso dal verde: più sangue versava, più freschezza vedeva nei prati.
Con Chabert, Balzac anticipa Marx e postula che ci sia uno spettro che si aggira nel presente di una Francia che vuole essere «restaurata» (e usando Balzac e Chabert, Sebald, a sua volta, amplia una simile tesi, e postula che in ogni e qualsiasi spazio ci saranno sempre degli spettri che si aggirano: «A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animop. 182, subito dopo l'apparizione del libro di Balzac - non a caso).

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 26 luglio 2021

Tecnicamente

La nuova normalità è un susseguirsi di fatti imprevedibili. Nei primi vent'anni di questo millennio il mondo ha già vissuto tre grandi crisi: quella terroristica del 2001; quella finanziaria del 2008; quella della pandemia da Covid-19 nel 2020. Dobbiamo e possiamo imparare a conviverci. Iniziamo da subito. Siamo entrati in un'era di turbolenza in cui le vicende dell'economia si mescolano con quelle della politica, con quelle militari, con le malattie, con i disastri ambientali e tanto altro, per formare una miscela esplosiva di cui è difficile capire sviluppi e conseguenze. Se abbiamo vissuto tre crisi epocali in vent'anni, è molto probabile che ne vivremo altre nei prossimi anni e che il nostro futuro sarà un succedersi di crisi che si sovrapporranno e interromperanno il corso della storia per reindirizzarlo verso nuove tendenze, senza mai raggiungere una fase di equilibrio, ma sempre transitando da un evento a un altro. Non dobbiamo preoccuparci di sapere in anticipo se e quale sarà la prossima crisi. Non lo possiamo sapere, perché tante possono essere le cause scatenanti e molte di esse possono non avere molto a che fare con l'economia. Ma sappiamo per certo che, se avremo rafforzato il nostro paese e se avremo a disposizione servizi pubblici adeguati e di buona qualità, qualunque sarà la prossima crisi, sapremo gestirla meglio e superarla per riprendere a vivere il più rapidamente possibile. È questa la nuova normalità del futuro.

(dal risvolto di copertina di: "La nuova normalità. Istruzioni per un futuro migliore", di Innocenzo Cipolletta. Laterza, €16)

Liberi dalla schiavitù del dover fare
- L'automazione realizza la nostra piena umanità e apre la strada all'era del welfare digitale -
di Maurizio Ferraris

Mai sprecare una crisi, diceva Churcill citato qualche giorno fa da Michela Serri. Aggiungerei: soprattutto, mai pensare che una crisi alieni la nostra umanità. È più facile che la riveli. Il lockdown ci ha insegnato che una forma di vita umana può svolgersi, sia pure con limitazioni, attraverso la mediazione di apparati tecnici. Quello su cui è necessario riflettere è che senza tecnica non ci sono esseri umani, ma solo animali particolarmente svantaggiati. Ecco perché il mondo ipertecnologico del lockdown era all'orizzonte da sempre, dal primo nostro antenato che abbandonando la condizione puramente animale, si dedicò a una attività tecnica, quella dello scheggiare una selce per trarne quello che gli antropologi chiamano, un po' curiosamente, «ascia da pugno».
Quel gesto antidiluviano, preceduto probabilmente dall'uso di un bastone, che però non si è conservato, diede avvio all'epopea dell'Homo faber, ossia dell'uomo che produce. Un'epopea che precede di molto quella dell'Homo sapiens, senza dimenticare che quest'ultima è punteggiata da enormi macchie di imbecillità, ossia, non dimentichiamolo, di mancanza di bastone, cioè di tecnica, giacché imbecillis viene da in-baculum, senza bastone. Se la vicenda dell'Homo sapiens non si è chiusa (c'è ancora molto lavoro da fare), probabilmente stiamo assistendo alla fine dell'Homo faber. Il mondo del lockdown ha rappresentato l'accelerazione di un processo di cui non abbiamo ancora preso le misure, e che va anzitutto compreso e governato, perché avvia una rivoluzione invisibile e silenziosa.
L'automazione ha fatto sì che noi umani non siamo più l'appendice delle macchine a cui forniamo energia e obiettivi, bensì semplicemente il loro destinatario. Riflettiamoci un istante: posso utilmente creare una macchina per produrre sushi, così come posso creare una macchina per distribuire sushi. In entrambi i casi, il vantaggio è evidente, perché le macchine non si stancano, non muoiono, non hanno diritti. Ma se inventassi una macchina per consumare sushi avrei creato la migliore approssimazione della macchina inutile. Perché le macchine esistono solo in funzione degli umani, dei loro bisogni, della loro mortalità, e questo vale in primo luogo per quella macchina universale che è l'intelligenza artificiale.
Questa «intelligenza» non ha nulla di diabolico né mai prenderà il potere, limitandosi ad archiviare e a elaborare forme di vita umane per capitalizzarle a fini di automazione, che altro non è se non il processo che abilita una macchina a comportarsi come un umano. Così era nell'ascia da pugno, che si limitava a potenziare la forza della mano, e così è, a molto maggior ragione, per il sistema di dettatura che adopero in questo momento. Tuttavia, diversamente dall'ascia paleolitica, dalla falce o dal martello, l'intelligenza artificiale non ha più bisogno della nostra forza; diversamente dagli aerei o dai fucili, non ha bisogno della nostra attenzione o perizia. Ciò di cui ha bisogno assoluto, pena la scomparsa istantanea (cosa sarebbe una intelligenza artificiale senza intelligenza naturale?) è la nostra umanità, le nostre astuzie e le nostre imbecillità, i nostri bisogni e i nostri sprechi, e tutto ciò che si condensa in una parola che ci sembra ovvia, e deprecabile, ma non è né l'una né l'altra cosa: ossia appunto «consumo».
Senza il consumo, cioè senza la molla della mobilitazione umana, quella che spingeva i nostri antenati a cacciare, poi a coltivare, poi a produrre industrialmente, e oggi a passare la vita sul web sia per rispondere ai bisogni sia per tenere a bada quel mostro delicato e squisitamente umano che è la noia, tutta la storia che ho descritto fin qui non avrebbe avuto luogo. Tranne - ecco l'evento che non dobbiamo lasciarci sfuggire - che i web ha introdotto un salto qualitativo: tradizionalmente, il consumo non lasciava tracce tolte le bucce, le ossa o le scatolette. Oggi, invece, il consumo, non solo materiale ma spirituale, ossia l'insieme delle forme di vita umana riversate sul web, è registrato, e produce valore: dati che vengono raccolti e sistematizzati dalle piattaforme che li trasformano in automazione, distribuzione, conoscenza, ricchezza.
Ed è proprio da questo salto ontologico, perché tocca la sostanza delle cose, che bisogna prendere l'avvio per la ripartenza. Non si tratta tanto di rimpiangere lavori che nella pandemia si sono rivelati fragili, ma di riconoscere l'implacabile produzione di valore, cioè l'enorme lavoro invisibile, che l'umanità esercita connettendosi al web, arricchendo le piattaforme invece che sé stessa, semplicemente perché non è consapevole di lavorare. Di qui la proposta politica: invece che sognare tasse sui patrimoni o biasimare le piattaforme per la loro ricchezza (è ovvio che una fabbrica che non paga i propri operai non può che arricchirsi) cerchiamo di ridistribuirla attraverso una tassazione equa, avviando un welfare digitale di cui la pandemia ha posto le premesse in termini di accelerazione tecnologica, ma che va preso concettualmente e orientato politicamente.
Le condizioni storiche sono favorevoli. Invece di lamentarci a vuoto del «capitalismo di sorveglianza» (il capitalismo non è interessato a noi e alle nostre idee, ma ai nostri soldi), osiamo immaginare l'enorme welfare che può derivare da una tassazione delle piattaforme, che - diversamente da ciò che è avvenuto nella Cina comunista, che le ha nazionalizzato decantando il suo miracolo economico e politico - resterebbero commerciali, cioè disinteressate alle nostre idee, ma ridistribuirebbero il loro plusvalore. E per farlo, come europei, non limitiamoci ad accettare la timida tassa di Biden, che ha per scopo la creazione di un'area anti-cinese, ma procediamo a una tassazione delle piattaforme più severa perché più motivata, giacché non si tassa la ricchezza, ma si retribuisce il lavoro che l'ha prodotta. Una tassazione, dunque, capace di far ripartire l'umanità come umanità, sostenendola nei suoi bisogni e facendola fiorire nella educazione e nella invenzione. Ecco ciò che per millenni è stato impossibile, e che si può e si deve fare, oggi, mettendo in soffitta, insieme all'homo faber, la più triste delle leggi della scienza triste, l'economia: quella che recita che «nessun pasto è gratis».

- Maurizio Ferraris - Pubblicato sulla Stampa del 22/6/2021 -

domenica 25 luglio 2021

per caso …


In Austerlitz, W.G. Sebald posiziona strategicamente una menzione alla novella di Balzac, Il colonnello Chabert, che funziona come una sorta di dispositivo che permette il ritorno di fantasmi e spettri del passato - così facendo, Sebald propone e fornisce un commento su Balzac che costituisce anche un uso del testo, una performance e un'attualizzazione fatta a partire da un testo del passato (che diventa a sua volta parte della dinamica di un testo del presente, esemplificando in questo modo l'idea sebaldiana - difesa in diverse sfaccettature in tutto Austerlitz - che passato e presente sono sempre in un dialogo, in costante relazione tra di loro). Vera porge ad Austerlitz «due fotografie di piccolo formato», scoperte «per caso la sera precedente in uno dei cinquantacinque volumi rosso carminio delle opere di Balzac, capitatole in mano non sapeva nemmeno lei come»; trova le fotografie «mentre sfogliava le pagine dedicate alla storia del colonnello Chabert, la quale tratta com’è noto di una grande ingiustizia», ma «In che modo le due foto fossero finite tra quelle pagine rimaneva per lei un mistero»; questi artefatti hanno «una imperscrutabilità», «propria di foto come quelle, emerse dall’oblio»: l’impressione «che in esse si agiti qualcosa, ci sembra di udire lievi sospiri di disperazione», «quasi le immagini avessero anche loro una memoria e si ricordassero di come allora eravamo noi, i sopravvissuti, e di com’erano quegli altri che adesso ci hanno lasciato.» (p.178-180).

Il romanzo di Balzac costituisce così sia un elemento scenico - che occupa un determinato spazio nella trama, il quale contribuisce a offrire informazioni che fino a quel momento non si avevano - sia un complesso cristallo in cui si condensano temporalità e idee (il colonnello morto che ritorna, l'infanzia sepolta di Austerlitz che ritorna). A partire da Balzac, Chabert diventa pertanto questa entità del passato che ha una «memoria propria» e che ricorda com'erano i sopravvissuti e i non sopravvissuti, soprattutto Napoleone; in Sebald, questa potenza dell'entità che viene dal passato viene resa come se fosse diffusa e incanalata in un commento sull'aura ambigua della fotografia - una dimensione diffusa, che tuttavia è resa palpabile e forte attraverso il ricorso al libro come artefatto e oggetto, trovato «per caso». 

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 24 luglio 2021

Il tempo della nostra vita …

Il lavoro: definisce la nostra posizione nella società, determina dove e con chi passeremo gran parte della nostra giornata, è il mediatore della nostra autostima e un mezzo per trasmettere i valori in cui crediamo. Se gli economisti moderni profetizzavano la progressiva scomparsa del giogo del lavoro, oggi siamo sempre più indaffarati e sempre più occupati, a discapito del tempo dedicato a noi stessi. Ma lavorare fa davvero parte della nostra natura?
Per rispondere, James Suzman ripercorre la storia dell’umanità dalle origini ai nostri giorni, spaziando tra antropologia e zoologia, fisica e biologia evolutiva, economia e archeologia. Se è vero che oggi troviamo una realizzazione e uno scopo nel lavoro, i nostri antenati concepivano in modo molto diverso se stessi e il tempo a loro disposizione. Il mito odierno dell’occupazione, considerata quasi una virtù, è un’evoluzione relativamente recente nella nostra storia millenaria, che ha avuto origine con l’avvento dell’agricoltura e con la nascita delle città, con la domesticazione degli animali e, successivamente, con la comparsa delle macchine. Lavoro racconta come nei secoli si siano trasformati radicalmente non solo la nostra capacità di produzione e il nostro impatto sull’ambiente, ma anche i concetti stessi di noia, ozio e tempo libero, seguendo i mutamenti dettati da ideologie, religioni e scoperte scientifiche.
A lungo abbiamo faticato per noi stessi e per gli altri – talvolta fino a morirne –, ci siamo chiesti se ne valesse la pena, abbiamo lottato per ricavare qualche ora di libertà da dedicare alle persone e alle cose che ci piacevano. Oggi, alle soglie di un’era che promette di automatizzare gran parte delle nostre attività, James Suzman ci invita a riflettere sui valori e desideri cui vogliamo dare spazio nell’uso che facciamo del tempo della nostra vita.

(dal risvolto di copertina di: James Suzman, "Lavoro. Una storia culturale e sociale". pagine: 384 € 36,00)

IL LAVORO E L’OSSESSIONE DELLA SCARSITÀ
Antropologia. Una lettura che schiude orizzonti più vasti di quelli economici: all’elogio del buon selvaggio si associa la sfida di un futuro diverso nell’era dell’intelligenza artificiale
- di Alberto Orioli -

Sappiamo bene che il lavoro è qualcosa di più di un argomento per l’osservazione economica. È ciò che definisce il nostro essere cittadini, la nostra misura dell’autostima, il confine etico segnato da valori accatastati nei secoli dei secoli, un po’ dal pensare laico un po’ dalle religioni. È per questo che non basta mai immaginare il lavoro come frutto di domanda e offerta in un equilibrio chiamato retribuzione. Né è bastante l’odierna “guerra civile” sui blocchi dei licenziamenti o sulla iperprotezione del posto di lavoro prima ancora che dei lavoratori. C’è sempre qualcosa di più. Di ancestrale, di recondito quando si chiama in causa il lavoro. James Suzman, antropologo sudafricano che vive a Cambridge, lo spiega nelle 378 pagine di Lavoro (Il Saggiatore) ed è come se a scrivere fosse uno sciamano. Perché ci porta in una carrellata della storia dell’umanità e parte dall’epoca, l’inizio del tutto, dove a muovere i comportamenti non era ancora l’ossessione della scarsità. Il problema economico per eccellenza: studiare le azioni razionali di chi cerca di soddisfare bisogni e desideri sempre superiori alle risorse disponibili. Il limite della scarsità diventa il tabù da superare. E si supera con il lavoro e, soprattutto, con la ricchezza. È qui che nasce l’angoscia esistenziale di una società fondata sul terrore della scarsità. Tutti condividiamo la bolla della cultura occidentale che vede (e vive) la scarsità nelle materie prime, nell’acqua, nelle infrastrutture, nel lavoro, nei redditi disponibili . Non è un’illusione ottica. È la realtà del nostro quotidiano contemporaneo. Ma poi arriva Suzman ed entriamo in un mondo più largo e più lungo (nel tempo). La lettura dell’antropologo schiude orizzonti più vasti di quelli dell’economista, anche se più rischiosi e certo non riportabili con una derivata o un’equazione. Suzman ci avverte che il problema della scarsità «si basa su una valutazione negativa della nostra specie», portato evolutivo dell’homo sapiens quando crea la cultura agricola lasciando quella del cacciatore-raccoglitore. L’antropologo sudafricano sa bene come la controdeduzione immediata a questa tesi sia che le società primitive sono sempre state una incessante battaglia esistenziale di sopravvivenza contro la fame, le malattie, le aggressioni.
Che solo il progresso, pur nelle sue imperfette declinazioni, ha consentito di mitigare prima e di superare poi. Suzman sostiene che si tratta di una lettura sbagliata e pregiudiziale: non è affatto vero - sostiene - che quelle popolazioni fossero sempre sull’orlo della fame. Anzi, in genere erano molto meglio nutriti e vivevano più a lungo dei membri delle società agricole, lavoravano 15 ore a settimana e per il resto si riposavano o si svagavano. L’ennesimo elogio del buon selvaggio. Che stavolta nasce da prove: come i resoconti della vita degli ju/hoan, ad esempio, una delle popolazioni dei boscimani del Khalari, nell’Africa australe. Suzman racconta di un boscimano che, tornato a casa dalla caccia, gli dice: «Il cuore è felice, le gambe pesanti e la pancia piena». C’è un’intera visione del mondo in quelle poche parole. L’abbondanza è la bussola esistenziale, la noncuranza della ricchezza la rotta sociale e morale. Ciò che conta, ci spiega Suzman, è che i nostri antenati «hanno cacciato e raccolto cibo per il 95% dei 300mila anni di storia dell’homo sapiens e, dunque, il problema della scarsità, e dei nostri atteggiamenti verso il lavoro, risalgono alla nascita dell’agricoltura».
Certo, l’orizzonte di 300mila anni di storia rende le nostre attuali percezioni molto relative e questo impedisce di liquidare le osservazioni di Suzman come banali provocazioni. E di conseguenza ci pone in una prospettiva “laica” nell’accettare anche la domanda chiave del libro: perché per noi oggi il lavoro è molto più importante di quanto non fosse per i nostri progenitori che cacciavano e raccoglievano cibo? Perché, in un’era di abbondanza senza precedenti, siamo ancora tanto preoccupati dalla scarsità? La risposta la dà l’antropologia sociale, scienza derisa per molti anni dagli economisti, fino a quando non è diventata una delle discipline di complemento usate anche dai banchieri centrali per affinare la capacità di lettura del mondo contemporaneo per il quale l’economia da sola non basta più.
Non si tratta di immaginare un salto quantico all’indietro per la società di oggi, ma di non restare schiavizzati dall’ideologia della scarsità che altro non è se non il frutto della prevalenza, in un tempo lungo, della società agricola. Un mondo di angosce (tra cui l’idea del duro lavoro come virtù e dell’ozio come vizio) amplificate dalle repentine migrazioni verso le città. Per Suzman il salto quantico va immaginato verso un futuro diverso, ai limiti dell’utopia, soprattutto adesso che l’era dell’intelligenza artificiale schiude scenari inimmaginabili per il post-capitalismo.
La civiltà dei robot e dell’Industria 4.0 può creare le condizioni per una diffusione su larga scala dei paradigmi del lusso oggi appannaggio delle élite. E può anche indurre un riflessione generale su quali siano gli scopi ultimi del nostro vivere sociale. Il primo a farlo forse sarebbe stato proprio John Maynard Keynes che si prendeva gioco degli antropologi che ficcavano il naso nell’economia. Era il primo però a non eludere il problema della diseguaglianza e invitava a «rivalutare i fini sui mezzi e preferire il bene all’utile». In ogni caso, e su questo Suzman è carente, è proprio la possibilità/volontà di scegliere a fare l’homo sapiens. Con tutto il tormento e la responsabilità che questo comporta. Fino a scoprire che la scarsità non è fuori, ma dentro ciascuno di noi.

- Alberto Orioli - Pubblicato sulla Domenica del 13/6/2021 -

venerdì 23 luglio 2021

«L’assessore alla sicurezza di Voghera ha ucciso un uomo in piazza» !!

TUTTO CIO' CHE C'E' DA SAPERE SU ADOLF EICHMAN

- di Leonard Cohen -

OCCHI: .....................................................Medi

CAPELLI: .................................................Medi

PESO: ........................................................Medio

STATURA: ...............................................Media

SEGNI PARTICOLARI: .........................Nessuno

DITA DELLE MANI: ..............................Dieci

DITA DEI PIEDI: ....................................Dieci

INTELLIGENZA: ....................................Media

Che cosa vi aspettavate?

Artigli?

Incisivi enormi?

Saliva verde?

Follia?

- Leonard Cohen -

giovedì 22 luglio 2021

Cospirazioni portatili …

Quando Enrique Vila-Matas scrive "Storia abbreviata della letteratura portatile", sceglie di usare una frase di Paul Valéry, da Monsieur Teste: «L'infinito è una questione di scrittura. L'universo esiste solo sulla carta» (è curioso pensare come questa frase, tratta da un romanzo degli anni ‘80, evochi la frase scritta da Derrida in Della Gramatologia, « il n'y a pas de hors-texte » [«non esistono fuori-testo», frase che a sua volta già evocava indirettamente Valéry). Con tale epigrafe, Vila-Matas prepara il terreno che proporrà  per la sua riconfigurazione scherzosa della storia della letteratura e dell'arte del XX secolo - dal momento che l'universo «esiste solo sulla carta», è possibile proporre una sua evocazione portatile come se fosse qualcosa che allo stesso tempo accade e non accade contemporaneamente (Crowley, Duchamp, Picabia, Walser...).

Il gioco di scale che Duchamp propone nel suo "Boîte-en-valise" serve a Vila-Matas come slogan per proporre, a sua volta, una cospirazione portatile, mostrando come alla fine esista anche il "fuori-testo" (vale a dire, esso  riguarda il movimento dei corpi nello spazio, nelle strade, nei caffè, nei luoghi segreti: è fondamentale creare un'opera portatile affinché essa possa essere spostata, cosicché possa essere parte della città, dello spazio, della comunità). Questa traccia sotterranea di Storia Abbreviata tornerà a riemergere in superficie solo dopo quasi vent'anni, con "Parigi non finisce mai", del 2003, un libro in cui Vila-Matas dichiara la sua appartenenza immaginativa al situazionismo e alla sua teoria dell'occupazione dello spazio urbano.

In "Suicidi esemplari", Vila-Matas cita Pessoa: «viaggiare, perdere paesi» (come il salvataggio di Valéry fa pensare a un Derrida che non esisteva ancora, l'evocazione di Pessoa fa pensare a un Debord che non era ancora nato). A seconda del percorso scelto per leggere la Storia abbreviata (sempre in chiave parodica, per esempio), ecco che il Valéry dell'epigrafe, da parte sua, può essere anche un'evocazione di Borges e Pierre Menard: parlando del « Borges francofobo », Juan José Saer difende l'idea secondo cui sarebbe Valéry la figura che dà sostanza a Menard, servendo sia da modello che da bersaglio parodico, esaltando e dissolvendo nello stesso movimento la sua «opera visibile» (pertanto, ecco che proprio come avviene nel Menard di Borges, l'evocazione di Valéry fatta da Vila-Matas può essere non solo celebrativa, ma costituire nascostamente un accenno alla vanità degli "uomini di lettere").

fonte: Um túnel no fim da luz

mercoledì 21 luglio 2021

Il soggetto e la rappresentanza

« Quella greca, è una società in cui non c'è alcuna soggettività e, quindi, nessuna rappresentanza.
Si distingue a partire dal fatto che è una società che contiene conflitti e ingiustizie, ma che è sostanzialmente libera e, quindi, il conflitto e l'ingiustizia rimangono trasparenti e intellegibili.
Nella società greca solo alcuni vengono riconosciuti liberi, ma questa libertà è concreta e realizzata. Coloro che non sono liberi vengono identificati come schiavi, e in tal modo il conflitto tra sfere sociali ugualmente valide viene riconosciuto da tutti.
Nelle società successive tutti vengono ripresentati come se fossero liberi, ma in questo modo la libertà non si realizza per nessuno, e pertanto la mancanza di libertà non viene riconosciuta.
»

- da Gillian Rose - "Hegel Contra Sociologia". Verso Editor - p. 125-126 -

già pubblicato sul blog il 29/4/2012

martedì 20 luglio 2021

Fuori i dati: ché dobbiamo reinventare il capitalismo !!

Negli ultimi vent'anni i colossi del settore digitale sono progressivamente riusciti a concentrare sui loro server una quantità di dati impressionante. Questi monopoli di informazioni, se possono far bene agli azionisti di Facebook, di Amazon e di Google, fanno invece male al progresso. Che si tratti di sconfiggere il coronavirus, di far funzionare i treni in modo puntuale o di combattere con successo la povertà, è indispensabile che i dati siano accessibili a tutti: dagli scienziati ai cittadini che lavorano, dalle startup innovative alle aziende tradizionali, da chi si occupa di politiche sociali alle ong. È arrivato dunque il momento di obbligare le superstar digitali a condividere il loro tesoro, e di ripensare la protezione dei dati tanto strenuamente difesa, soprattutto in Europa. I dati hanno infatti una qualità sorprendente: dal punto di vista economico sono un «bene non rivale», che si trasforma in valore solo quando viene utilizzato e il cui valore aumenta anzi a ogni uso aggiuntivo. Non si tratta dunque di espropriare le Big Tech, visto che in senso strettamente legale i dati non possono essere «posseduti» e nemmeno scompaiono se più soggetti li usano. Semplicemente è assurdo lasciare che poche grandi piattaforme ricche di dati limitino il valore e la conoscenza che la società nel suo complesso può ottenere da essi. I tempi sono insomma maturi perché il Regolamento generale sulla protezione dei dati, tanto necessario per difendere i diritti individuali, lasci il posto a un nuovo Regolamento generale sull'uso dei dati, ancor più necessario per la democrazia e la prosperità di tutti noi, in qualsiasi Paese del mondo. "Fuori i dati!" è un libro molto acuto dal punto di vista dell'analisi economica, tanto tecnologicamente documentato quanto politicamente controverso.

(dal risvolto di copertina di: Thomas Ramge e Viktor Mayer-Schönberger, "Fuori i dati!". (Egea, pp. 160, euro 17)

Diamo al popolo il potere dei Big Data
-La provocatoria proposta di due studiosi inglesi: “Rompiamo i monopoli dell’era digitale”-
di Massimiliano Panarari

È l’«oro del Terzo Millennio», in grado di produrre immense fortune private, e di dare formidabili strumenti conoscitivi ai poteri pubblici. Come pure – il dark side del «totalitarismo soft» del Tecno-Leviatano illiberale e del capitalismo della sorveglianza – di mettere occultamente a repentaglio le libertà individuali e la sfera privata dei cittadini. Il traffico per streaming e serie tv ha cominciato a calare, come mostrano i flussi sulla rete Internet nazionale – segnale del ritorno alla vita (seppure nella formula new normal) – ma la «caccia ai dati» prosegue, con ben altra portata strategica. Ed è diventata una questione che investe la stessa qualità della democrazia, intorno alla quale si moltiplicano studi e strumenti di indagine (come la Rivista di Digital Politics, diretta da Mauro Calise).
Un ambito della riflessione si sta concentrando su quello che rappresenta un fattore economico essenziale della rivoluzione digitale: il gigantismo inarrestabile delle imprese che traggono i loro profitti dallo sfruttamento dei dati. L’acquisizione di una taglia oversize da parte dei colossi di Big Tech deriva da plurime cause, sottolineano gli studiosi (dividendosi sulla «bontà» della destinazione finale del processo): il conseguimento del traguardo delle economie di scala e l’ottimizzazione attraverso la diversificazione interna. Chi controlla le infrastrutture distributive vuole possedere i contenuti da farvi transitare e si interessa a quelli che rispetto al loro core business vengono classificati come old media (e che piacciono anche per simboliche ragioni di blasone). L’umana, troppo umana tentazione – antitetica alla dottrina liberale di mercato e alle ragioni della concorrenza e della convenienza per i consumatori – di sbarrare la strada ai competitor, «meglio» ancora se in via preventiva.
Tutte tendenze che conducono al monopolio (o all’oligopolio) quale direzione di marcia obbligata (e incontrastata) dell’egemonia delle corporation delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ovvero, quella che con il titolo del libro di Tim Wu (docente della Columbia Law School e già advisor presso la Federal Trade Commission e funzionario dell’Amministrazione Obama) si può etichettare come La maledizione dei giganti (Il Mulino, pp. 152, euro 14).
Una minaccia per la stabilità finanziaria, come pure, giustappunto, per la libertà politica e la coesione sociale delle democrazie liberal-rappresentative determinata dall’accumulo di diseguaglianze che accompagna questa tipologia di capitalismo digitale. Da cui l’esigenza – inderogabile, come sostiene Wu – di rinverdire le tradizioni antimonopolistiche del passato per spezzettare i colossi high-tech, ripristinando le condizioni di competitività e concorrenza. Oppure, come propone un altro libro, rompendo il loro monopolio nella materia prima di cui sono gli inesauribili e inesausti accaparratori (anche, talvolta, al di là della legalità). Una risorsa, quella dei dati, che risulta cruciale per il controllo di quell’altra (e accelerata) rivoluzione che risponde al nome di Intelligenza Artificiale. Questa ricetta suggestiva (e «provocatoria») sta al centro delle tesi del volume Fuori i dati! (Egea, pp. 160, euro 17) di Thomas Ramge (ricercatore presso il Center of Advanced Internet Studies di Bochum e collaboratore dell’Economist) e Viktor Mayer-Schönberger (professore di Internet Governance
and Regulation
all’Università di Oxford e componente del Digitalrat, l’organo consultivo del governo tedesco sulle tematiche digitali).
La loro idea di fondo è che per fare ripartire il progresso autentico – perché, come insegna molta teoria economica, lo status monopolistico riduce le possibilità di produrre innovazione (uno degli incubi di Joseph Schumpeter) – si debba disarticolare il possesso esclusivo delle informazioni. E che i dati vadano, pertanto, assimilati a un «patrimonio dell’umanità», entrando anche nella disponibilità degli altri operatori economici: start-up e piccole e medie imprese, ma anche Ong e soggetti che si occupano di innovazione. L’Occidente si ritrova difatti sprofondato in quello che i due studiosi definiscono «un periodo di frenetica stasi dell’innovazione», in cui gli incrementi di produttività risultano tra i più scarsi della storia contemporanea e la registrazione dei brevetti avviene a opera di un numero sempre più limitato di aziende. Mayer-Schönberger e Ramge notano che i dati raccolti nella fase odierna si rivelano circa sette volte superiore a quelli effettivamente impiegati anche solo una volta, con i relativi problemi di costi di conservazione come di violazione (potenziale o reale) della privacy. Dovrebbe, quindi, scoccare l’ora della condivisione, senza per giunta che ciò comporti alcun «esproprio proletario» (o, per meglio dire, «cognitario») di Big Tech, visto che in un’accezione propriamente legale i dati non possono essere posseduti.
A farsi promotrice di questa «rivoluzione gentile» non potrebbe che essere l’Europa, inventandosi una terza via tra l’anarcocapitalista Silicon Valley e l’autocratica Cina, nel nome della spesso evocata sovranità digitale.
Per combattere il «colonialismo dei dati» e dare vita a un libero ed equo ecosistema digitale le istituzioni comunitarie dovrebbero, però, procedere alla realizzazione di un «vasto programma». Vale a dire, il superamento del Gdpr e la sua integrazione con un diverso regolamento generale sull’uso dei dati, rendendo facilmente accessibili tutte le informazioni che non risultano sottoposte a vincoli di riservatezza. Non «i soviet più i Big Data» (al posto dell’elettrificazione), come potrebbe affermare qualche agit-prop dell’Ideologia californiana bensì, più opportunamente, il potere dei Big Data al «popolo», alle pmi e alla società civile.

- Massimiliano Panarari - Pubblicato sulla Stampa del 13/6/2021 -

lunedì 19 luglio 2021

Domani !

Una vecchia foto. Otto uomini camminano per le strade di Barcellona. In cammino, e non già in marcia, ché non c'è niente di marziale nell'atteggiamento di questi otto uomini che hanno appena fatto a pezzi un intero esercito. C'è aria nuova per le strade di Barcellona, il venti luglio del 1936.

Il primo, da sinistra, si chiama José Perez Ibanez, ma tutti quelli che lo conoscono lo chiamano "El Valencia". Veste la tuta blu degli operai e ha sulla spalla una mitragliatrice Hotchins. Quello piccolo, alla sua sinistra, è Severino Campos. E' disarmato, ed è l'unico ad esserlo. E' quasi schiacciato fra "El Valencia" e Ricardo Sanz che a causa dello straccale che gli sega il torace appare quasi grasso. Mezzo passo indietro c'è Garcia Oliver, che fuma e sembra quasi guardarlo preoccupato. Aurelio Fernandez, invece sembra stia passeggiando distrattamente. Accanto a lui, Jover, detto "il cinese"; l'unico ad aver passato i quarant'anni. Guarda da un'altra parte. In abito da pescatore, Miguel Garcia Vivancos. A destra, chiude il gruppo Augustin Souchy, una borsa, forse di cuoio, nella mano destra.

Di questi uomini, di loro tutti, si può dire che sono abituati alla violenza  e prima di questi tre giorni hanno già ucciso. Hanno ucciso «pistoleros» e uomini della Falange, hanno fatto fuori industriali e anche religiosi. Hanno ucciso, ma non sono violenti. Hanno ucciso e hanno rapinato banche per poter pagare gli avvocati dei tanti finiti in galera, e per sé non hanno mai tenuto neanche un centesimo. Tutti e otto questi uomini, nei mesi a venire, comanderanno divisioni o brigate, e lo faranno senza mai diventare soldati di mestiere. Del resto il loro lavoro è sempre stato quello di meccanico, ebanista, manovale, operaio tessile, panettiere. Quasi tutti loro moriranno vecchi e dopo aver lavorato tutta una vita.

In queste poche ore di una giornata di cui la foto testimonia il culmine, senza rendersene conto sono diventati gli uomini più potenti di tutta la Catalogna. Di lì a pochi mesi, commetteranno degli errori che poi si riveleranno terribili, e quella rivoluzione - l'ultima del movimento operaio - affogherà nel sangue anche per colpa dei loro errori. Nei decenni successivi che verranno - dopo quel giorno e da quel giorno in poi - anche fra di loro ci sarà inimicizia, malevolenza e rancori che dureranno per tutto il resto della loro vita. Ma questo momento - che nella foto si è fermato come per magia - è il loro trionfo. Questo è il loro giorno. Perché hanno vinto, o forse solo perché sono ancora vivi!

Uno di loro, Garcia Oliver, tre giorni prima, poco prima di scendere in strada, era stato chiamato dal padrone del «Ritz», il quale gli aveva comunicato di avere scelto lui, tra i tanti dipendenti, per diventare il maitre di quell'albergo. Lui aveva accettato, fingendo riconoscenza, poi aveva salutato ed era uscito. Fuori, per strada, lo aspettano tre compagni. Uno gli porge un'Astra 9 mm.. Lui controlla che non abbia il colpo in canna, e poi tutti e quattro si avviano. Quattro giorni dopo, il Ritz verrà trasformato in una mensa popolare per gli operai, i mendicanti, le puttane ...


già pubblicato sul blog il 15/3/2010

domenica 18 luglio 2021

Istruitevi !!


 « La scuola pubblica è sempre stata, fin dagli inizi, territorio sovrano di un’amministrazione lontana, un luogo di oppressione (…). I suoi edifici erano e sono architettura autoritaria (…). Lo si vede a prima vista che, come i manicomi e gli istituti di rieducazione, sono stati costruiti per custodire uomini e imporre loro una disciplina. Quei locali da tecnocrati, fusi in cemento armato, sono assolutamente inadatti per lo studio. Il vandalismo dei bambini, che rivela una sorprendente forza di resistenza, non è altro che un imprescindibile tentativo di sbarazzarsi di questi ambienti che costituiscono un pericolo pubblico. (…) Ben raramente capita di sentire di bambini che imbrattano la loro abitazione, o vi appiccano il fuoco (…). Evidentemente (…) non pensano affatto a fracassare il frigorifero o a gettare dalla finestra il televisore. (…) Le costruzioni scolastiche migliori potrebbero forse essere utilizzate come case di riposo per anziani o come asili per i senzatetto. La stragrande maggioranza si dovrà invece farli saltare in aria. »

- Hans Magnus Enzensberger - da "In difesa del precettore" - 1982 -

venerdì 16 luglio 2021

Dentifricio & Banconote

E. G. de la S. (1928-1967)
- di  Hans Magnus Enzensberger - 

Ci fu un tempo quand'erano in diecimila a portare in capo il suo berretto,
in centomila a portare per le strade, del suo ritratto
grandi ritratti, a gridare il suo nome a perdifiato.
Irreali sembrano ora quei cortei attraverso la città, quasi
quanto la terra e la classe in cui egli era nato.

Lontana dai mattatoi e dalle baracche e dai bordelli
si sgretolava sul fiume la villa del padre. Il denaro era svanito,
ma la piscina fu tenuta. Un bambino timido, allergico,
spesso sul punto di soffocare. Lottò col proprio corpo,
fumò sigari, divenne (per ciò che vuol dire) un uomo.

Sotto il cuscino teneva Jules Verne. La sua prima sortita,
la sua prima fuga nella realtà: Tristi Tropici.
Ma i lebbrosi sotto la decrepita veranda lungo il Rio delle Amazzoni
non capivano ciò che diceva, e continuavano a morire. Fu solo allora
che trovò il nemico che gli rimase fedele fino alla fine,
e il nemico del nemico. Poche vittorie trascorsero, e a lui
l'Uomo Nuovo, una vecchia idea, parve una novità. Eppure l'economia
non ascoltava i suoi discorsi. Mancavano sempre gli spaghetti.
Inoltre non c'era più dentifricio, e di che cosa è fatto il dentifricio?
Le banconote ch'egli firmava non valevano nulla.

Lo zucchero sulla camicia era vischioso.
Le macchine, pagate con valuta pregiata,
arrugginivano sul molo. Un ronzìo di si dice sommergeva La Rampa.
Inchini a Mosca, nuovi crediti. Il popolo aspettava in fila,
era irresponsabile, faceva battute fameliche. Ovunque delatori,
intrighi ch'egli non afferrò mai. Un eterno forestiero.

Voleva moralizzare i Russi. Il filantropo invocava
"l'odio inesorabile che avrebbe trasformato gli uomini
in una violenta, efficace, fredda macchina omicida
". In realtà
era una mimosa: preferiva leggere poesie. (Baudelaire
lo conosceva a memoria). Un delicato infingardo, pane per i servizi segreti.

E allora corse alle armi e rimase lì, dove tutto era chiaro
e distinto: nemico il nemico e tradimento il tradimento, nella giungla.
Solo lui stesso pareva spento. "Gonfio, senza barba, con le tempie grigie,
occhiali dalle lenti spesse, come un salesman, in montgomery
", così
camuffato si avviò a Ñanccahuazú al suo ultimo lavoro.

Non parlava in quechua né il guaraní. "Il silenzio degli indios
era assoluto, come se venissimo da mondi diversi". Insetti,
liane, boscaglia. "I contadini come pietre". Coliche, attacchi di tosse,
edemi. Dosi eccessive di cortisone. Adrenalina.
Anelante l'ultima iniezione: "Ave María purísima!"

Già "la leggenda si diffondeva come una schiuma. Siamo tutti
Supermen, invincibili
". (Sempre questa micidiale ironia,
inavvertita dai compagni). "Un relitto umano", un idolo.
"Lo avremmo impiegato", annunciarono tra i suoi nemici mortali
i più progressisti. Invece spiegarono il suo cadavere
con le mani mozzate. "Un'avventura mistica", anzi,
"una Passione che irresistibilmente ricorda l'immagine di Cristo":
così scrissero i seguaci. Lui: "Les honneurs, ça m'emmerde".
E' stato non molto tempo fa, ed è stato dimenticato. Solo gli storici
si annidano come tarme nella stoffa della sua uniforme.

Buchi nella guerra del popolo. Ormai nella metropoli di lui parla
soltanto una boutique, che gli ha rubato il nome.
In Kesington High Street ardono i bastoncini d'incenso;
accanto alla cassa siedono gli ultimi hippies, fiaccati,
irreali, come fossili, e senza quesiti, e quasi immortali.

Il testo si tronca, e quiete continuano a marcire le risposte.

- Hans Magnus Enzensberger -  da "Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso" - Einaudi

già pubblicato sul blog il 23/8/2006

giovedì 15 luglio 2021

L’enigma e la decifrazione

« La verità dell'indagine non è l'indagine della verità. Non vogliamo indagare il mondo com'è, ma inventarlo come non è. Il termine 'inventare' non deve essere inteso in senso tecnologico; non significa unire positivo con positivo, suono con suono, pezzo con pezzo come se l'invenzione fosse una fabbricazione tra gli altri. Inventare significa piuttosto: essere presenti nella rottura del guscio positivo dell'esistente; partecipare all'introduzione del reale nel gioco delle perle di vetro, sperimentare come il non ancora emana dal sempre, come il non sentito si stacca dal sempre sentito per apparire come per la prima volta. (...) Mentre la ricerca positivista, estremamente ignorante e spocchiosa, si basa sull'ipotesi che il mondo non è sufficientemente conosciuto, la coscienza-composizione sa che il mondo non è sufficientemente sconosciuto. Si presenta ai nostri occhi e alle nostre orecchie troppo rivelato, e infatti non si tratta di decifrare gli enigmi, ma di proteggerli dai loro decifratori. »

- Peter Sloterdijk, "Mobilitazione copernicana e disarmo tolemaico" -

mercoledì 14 luglio 2021

Predestinati !!

I critici contemporanei dell'economia si lamentano a proposito della fede nei liberi mercati - si gli economisti che i cittadini comuni - e affermano che si tratta di una forma di religione. Si scopre così, che in un senso più profondo e storicamente fondato, in quest'idea c'è qualcosa di vero. In contrasto con la visione storica convenzionale dell'Economia, che viene vista come un prodotto assolutamente secolare dell'Illuminismo, Benjamin M. Friedman dimostra che la religione ha esercitato fin dall'inizio una potente influenza. Friedman rende evidente come la fondamentale transizione riguardo il pensare quello che noi chiamiamo economia, a cominciare dal 18° secolo, sia stato plasmato in maniera decisiva dalle linee di conflitto di un pensiero religioso nel contesto del mondo protestante di lingua inglese. La fede in un Dio dal carattere umano, sull'Aldilà e sullo scopo della nostra esistenza, nel mondo in cui vivevano Adam Smith e i suoi contemporanei, veniva messa in discussione. Friedman esplora come quei dibattiti possano spiegare l'enigmatico comportamento di così tanti nostri concittadini e il fatto che loro punto di vista circa le politiche economiche - e il loro comportamento rispetto al voto - sembra essere così in netto contrasto con quello che dovrebbe essere il loro vantaggio economico. Gettando una luce sulle origini della relazione tra pensiero religioso e pensiero economico, insieme a quelle che sono le conseguenze attuali, Friedman fornisce preziose intuizioni relative ai nostri dibattiti di politica economica, e mostra quale sia la strada per delle politiche funzionali per tutti i cittadini.

(dal risvolto di copertina di: "Religion and the Rise of Capitalism", di Benjamin Friedman. Alfred A. Knopf, pagg. 544, € 31,20)

Le origini «religiose» dell'economia
- di Gianni Toniolo -

Da chi è nata la scienza economica moderna basata sul primo teorema del benessere, secondo il quale persone che, in un quadro competitivo, agiscono nel proprio interesse migliorano non solo la propria condizione ma anche quella degli altri? La risposta ovvia è Adam Smith. Ma perché proprio lui, perché proprio nella Scozia della seconda metà del Settecento? Per rispondere a queste domande, Benjamin Friedman, noto macroeconomista di Harvard, dice che non basta rifarsi alla cultura scientifica dell’illuminismo scozzese del quale Smith era autorevole esponente. Per una risposta più completa si può trovare rifacendosi a Einstein secondo il quale «il pensiero scientifico è lo sviluppo del pensiero prescientifico».
Su questa premessa Friedman ha imbastito, in 281 pagine chiare e splendidamente illustrate nell’edizione di Knopf, una ricostruzione dell’evoluzione del pensiero protestante sulle due rive dell'Atlantico, alla ricerca di quel “pensiero prescientifico”, delle credenze diffuse, che – più dell'alta cultura illuminista – spiegherebbero il clima nel quale fiorirono le origini smithiane della scienza economica moderna. Gli storici del protestantesimo arricceranno forse il naso di fronte a un economista teorico ebreo impegnato a rubare loro il mestiere. Ma farebbero male, perché la tesi, magari provocatoria, è interessante. In estrema sintesi si tratta di questo: perché si creasse un pensiero prescientifico diffuso coerente con la nascita della moderna economia “scientifica”, era necessario che la religiosità diffusa, il sentire dell’uomo comune, superasse la visione pessimista della natura umana insita nel pensiero luterano e, soprattutto, calvinista. Se tutti gli umani sono intrinsecamente cattivi, se il loro destino è “predestinato” sin dall’origine del mondo, se la sola ragione di esistenza umana sulla terra è il dare gloria a Dio, perché affaticarsi per migliorare noi stessi e la terra in cui viviamo?
Nel mondo della Riforma, questa visione del rapporto tra Creatore e creature cominciò a essere messa in discussione sin dall’inizio del diciassettesimo secolo (per esempio da Jacob Armenius in Olanda, da Carlo I che vietò alla Chiesa d’Inghilterra di predicare la predestinazione). L’Atto di Tolleranza di William e Mary (1688) aprì la strada a una maggiore libertà di discussione, alla creazione di accademie, all’accettazione dei non conformisti nelle università. John Locke scrisse sulla compatibilità della fede con la ragione, riconoscendo che quest’ultima è una grazia di Dio concessa a tutti. Venne progressivamente crescendo la consapevolezza di un Dio benigno, che gode della felicità delle sue creature e le incoraggia a cercare la felicità propria e quella degli altri. Su queste basi si sarebbe consolidato, secondo Friedman, l’humus culturale, il pensiero prescientifico diffuso che, in una società ancora profondamente religiosa, avrebbe ispirato a un uomo sostanzialmente agnostico come Adam Smith dapprima la Teoria dei sentimenti morali, poi la Ricchezza delle Nazioni, opera quest’ultima incomprensibile senza la prima. In sostanza: se gli esseri umani sono ragionevoli, se la loro natura è intrinsecamente buona, come sostenevano i Moderati scozzesi, allora essi hanno la capacità di fare scelte morali e di agire in modo virtuoso. Senza un superamento del pessimismo della predestinazione, il pensiero di Smith non avrebbe trovato il clima culturale diffuso necessario al proprio fiorire.
Il titolo weberiano del libro, forse voluto dall’editore, trae un po’ in inganno. Friedman non vuole spiegare le origini religiose del capitalismo ma quelle del pensiero economico moderno, dei principi fondamentali che tuttora reggono la scienza economica. Questa avvincente storia intellettuale e sociale lascia necessariamente in ombra il suo intreccio con la (ri)nascita del capitalismo, adombrata invece nel titolo. Già nel tredicesimo secolo, l’emergente economia capitalista di mercato delle città italiane si era accompagnata all’opera di riconciliazione tra fede e ragione condotta da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, a riprova di un intreccio complesso tra storia dei fatti e storia del pensiero. Allo stesso modo, non possiamo evitare di chiederci quanto la grande stagione sei-settecentesca del capitalismo commerciale abbia influito sulla formazione del pensiero prescientifico all’origine di quello scientifico di Smith. Ma questo è il tema per un prossimo libro. Possiamo, invece, seguire ancora Friedman nei suoi  ultimi capitoli che tracciano la sorprendente continuità di minoritarie, ma non trascurabili, culture prescientifiche, come quelle di segmenti del protestantesimo evangelico statunitense, che sarebbero alla base di comportamenti, che un economista può solo definire irrazionali, come scelte elettorali opposte agli interessi stessi di chi le compie. Una prova, a contrario, della forza delle credenze prescientifiche.

- Gianni Toniolo - Pubblicato sulla Domenica del 6/6/2021 -

martedì 13 luglio 2021

Movimenti

A Cuba si muovono
- di Floréal - 12/7/2021

Da domenica, a Cuba, sono in corso delle manifestazioni che vedono un'ampia partecipazione.
Partita da San Antonio de los Baños, la protesta si è estesa in molte città di quello che è un paese sprofondato in una situazione disastrosa, soprattutto sul piano sanitario e alimentare. A questo si aggiunge la totale assenza di libertà, che oramai caratterizza da più di sessant'anni quest'isola a regime totalitario.
In alcune località, le manifestazioni pacifiche sono state represse in maniera brutale dalle truppe speciali del Ministero dell'Interno (MININT), dalle cosiddette Forze armate rivoluzionarie (FAR), dai gruppi paramilitari e da altri scagnozzi del Partito comunista e della Gioventù comunista.
Il presidente Diaz-Canel - il pallido burattino che ha sostituito Raoul Castro alla guida dello Stato -  ha già intonato in televisione il solito ritornello sui delinquenti e gli altri personaggi manipolati dagli stranieri, un motivetto che è già stato cantato molte volte e che non mancherà di essere ripreso qui. con accenti più o meno stalinisti, dai soliti squallidi imbecilli e da altri farabutti.
Il popolo cubano si sta svegliando! Viva Cuba libre!

- Floréal -  Pubblicato il 12/7/2021 su Le blog de Floréal -

lunedì 12 luglio 2021

Breviàri

Nel suo libro "Caratteri filosofici. Da Platone a Foucault" (2010, Raffaello Cortina) - identificato nel sottotitolo dell'edizione portoghese come un «breviário», sebbene la parola non appare nell'originale –, Peter Sloterdijk fa uso della formula del breviario per comprendere un insieme di vite: cosa che gli permette di includere il suo progetto in quella linea associativa che comprende le Vite degli Artisti di Vasari, Le vite immaginarie di Marcel Schwob, la Storia Universale dell'Infamia di Borges, la Sinagoga degli Iconoclasti di Wilcock, la Letteratura Nazista in America di Bolaño, Vite minuscole di Pierre Michon, e così via. L'attenzione alla forma, vista come veicolo specifico del pensiero, non è estranea a Sloterdijk: parlando di Hegel, in questo libro sui «temperamenti» (nell'originale tedesco: "Philosophische Temperamente. Von Platon bis Foucault". Diederichs, Munich, 2009) scrive che la sua figura preferita del pensiero è la conclusione (la quale corrisponde a un ritmo e a una catena di idee, visto come se fosse la forma breve della «vita»). Ciò che Sloterdijk cerca, è stabilire una sorta di modulazione instabile tra soggetto ed epoca, tra il posizionamento specifico di un pensiero individuale nel flusso del tempo e l'iscrizione generalizzata di quello stesso tempo/epoca nella capacità di scrittura del soggetto.

Se qualcosa funziona da filo conduttore, per i commenti che Sloterdijk fa a proposito di  figure così diverse, questo è allora il tentativo di descrivere criticamente il modo in cui i soggetti sono e non sono in sintonia con il loro tempo (il modo in cui Wittgenstein, per esempio, sollecita un ricorso alla figura medievale dell'eremita, allo stesso tempo in cui simultaneamente rifiuta la forma testuale completa a favore dell'aforisma; o come Schelling sorprende i suoi contemporanei in quelli che sono stati almeno due momenti: in gioventù, con la sua brillantezza inaspettata; in maturità, con il suo stile tardivo che lo rende incline all'incompleto e al malinconico).

Le posizioni occupate dai filosofi commentati da Sloterdijk non si risolvono mai in una sorta di pura appartenenza al passato, o in un puro rimando al futuro (quando l'opera verrà finalmente compresa in tutte le sue possibilità). La riscoperta di Pascal, per esempio, viene esaltata come una conseguenza dell'educazione ricevuta a partire dalle Affinità elettive, con Goethe e Nietzsche; Schopenhauer, a sua volta, sarà sempre necessario per coloro che decidono di avvicinarsi alla «rinuncia» («la parola più difficile del mondo» per i moderni); Leibniz, infine, può essere una delle principali fonti di ispirazione per le generazioni future che cercano di «rigenerare» un principio di «ottimismo» o, quantomeno, di «non pessimismo».

fonte: Um túnel no fim da luz

domenica 11 luglio 2021

Gilda, ti amo, e abbasso il lavoro !

Scritta a Sochaux, sul muro di una fabbrica nel maggio 1968, questa frase è a dir poco scioccante. Fatto sta che essa precede un grido, quello degli operai della Pechiney Noguères che, nell'estate del 1973, scrissero in un volantino: « In questa azienda, insieme alle loro illusioni, sono entrati dei lavoratori giovani e sani. Ora, dopo quindici anni, si ritrovano sfiniti, svuotati, menomati, disillusi ».

In fabbrica, in ufficio, ci vanno tutti. A fare cosa? A morirci lentamente, poco a poco. Ma comincia a farsi sentire una certa disobbedienza. Il lavoro non gode più dello stesso rispetto. Nascono nuovi slogan: «Per potersi guadagnare la vita, bisogna perderla?». È la malattia del secolo! Contro di essa, un nuovo desiderio di esistere, che si sta manifestando. È come se si trattasse di un risveglio...

 ( "Gilda, je t'aime, à bas le travail !", di Jean-Pierre Barou. Gallimard La France sauvage - 2018 )

sabato 10 luglio 2021

Genova 2001: Odissea nel sogno del soggetto automatico…

[su "Impero"] Hardt/Negri devono perciò edulcorare la costituzione, e la conformazione dei soggetti in quanto soggetti della valorizzazione del valore e della concorrenza; il processo di valorizzazione - in quanto sostanza della soggettività - viene da loro assunto del tutto positivamente, come potenziale della "auto-realizzazione" dell'uomo, mentre la logica di azione immanente a questa soggettività, ossia la concorrenza universale, è praticamente assente. Ne risulta che il processo di valorizzazione viene interpretato come sostanza della soggettività, in maniera del tutto positiva, come potenza dell'auto-realizzazione umana. E la logica immanente a questa soggettività agente non compare in quanto concorrenza universale (una vera e propria prodezza, in un'opera sul capitalismo che pretende di aprire delle nuove prospettive!). (...) Incapaci di formulare una "critica", si vedono obbligati a scegliere un'alternativa che l'Impero in crisi impone loro in maniera immanente, e si indovina quale essa sia: l'immanenza della barbarie reinterpretata positivamente. (...) nel caso di "Impero", non si tratta più di un'esternalizzazione - di un «laggiù fuori nella steppa» - ma dell'interiorità dello stesso "Impero".

I "barbari" sono immanenti (...), si tratta di un di per sé già positivo che li porta a concludere (appoggiandosi a un'errata interpretazione di Walter Benjamin): «I nuovi barbari distruggono con una violenza affermativa e, nella materialità della loro esistenza, tracciano nuovi percorsi di vita.» Questi nuovi barbari non sono, secondo Hardt/Negri, prodotti dalla crisi della valorizzazione mondiale del capitale; ma sono al contrario (del tutto conformemente all'ideologia del culturalismo postmoderno e dell'economia istituzionale) all'origine della crisi; intesi non negativamente, ma positivamente, come "soggettività ribelle". In quest'ideologia fantasmatica del soggetto, la valorizzazione del capitale viene indossata a meraviglia, il negativo non risiede in essa, ma nel dominio corrotto che la governa.

E c'era da aspettarselo: non ci sarebbe nessuno "inutile", nessun "superfluo": « L'Impero ha lavoro  per tutti! Più il lavoro è deregolamentato e più ce n'è. » (pag.371) Anche se si tratta di un lavoro "sfruttato" e dominato dalla corruzione. Dal momento che il capitalismo postmoderno sarebbe riuscito a trasformare tutto in lavoro e in creazione di valore (cosa che Hardt/Negri ritengono non ci sia nessun bisogno di dimostrare), non si può avere né crisi reale né limite interno assoluto alla valorizzazione del capitale. Anche l'individuo che fa i suoi bisogni nell'intimità del suo cesso, in una qual certa maniera, "valorizza il capitale": eccolo qua bel bello il sogno del "soggetto automatico", se mai esso avesse potuto sognare, ma questa visione delle cose costituisce un'impossibilità logica e pratica.

da: Robert Kurz, "Impero (Hardt/Negri): il mondo in crisi visto come la Disneyland della Moltitudine

venerdì 9 luglio 2021

Tra l’incudine e il martello

Imperativi del valore e collasso ecologico
- di Moishe Postone -

« Tra le considerazioni ecologiche e gli imperativi del valore - sia in quanto forma di ricchezza che di mediazione sociale - si viene a creare una tensione di fondo. Ciò implica anche che nel quadro della società capitalista, ogni tentativo di rispondere veramente alla crescente distruzione ambientale, facendo ricorso alla moderazione del modo di espansione di questa stessa società, a lungo termine finirebbe probabilmente per rivelarsi inefficace; e questo non solo a causa degli interessi dei capitalisti o dei capi di Stato, ma anche a causa del fatto che l'incapacità ad aumentare il plusvalore comporterebbe delle gravi difficoltà economiche e degli enormi costi sociali. In Marx, nella società capitalista, la necessaria accumulazione di capitale e la creazione di ricchezza sono intrinsecamente legate. Inoltre [...] dal momento che sotto il capitalismo il lavoro viene fissato come mezzo necessario alla riproduzione individuale, i lavoratori salariati rimangono dipendenti dalla "crescita" del capitale, persino quando le conseguenze, ecologiche o meno, del loro lavoro sono dannoso per loro stessi o per gli altri. La frizione tra le esigenze della forma merce e le necessità ecologiche si accentua nella misura in cui la produttività aumenta e pone un serio problema, soprattutto durante i periodi di crisi economica e di disoccupazione di massa. Questo dilemma e la tensione in cui esso si radica, sono immanenti al capitalismo; la loro definitiva risoluzione continuerà a essere impossibile per molto tempo, finché il valore continuerà a essere la forma determinante della ricchezza sociale. »

(da: Moishe Postone, "Temps, travail et domination sociale. Une réinterprétation de la théorie critique de Marx", Paris, Mille et une nuits, 2009 (1993), p. 459-460 )

giovedì 8 luglio 2021

Risposte !

E' la fine degli anni '70 quando in America va in onda uno dei rarissimi filmati in esterno del "Saturday Night Live". S'intitola "Don'Look Back In Anger" - parafrasando il titolo del dramma di Osborne - ed è in bianco e nero. Nel film, possiamo vedere un vecchio con cappotto e cappello scuro, baffoni bianchi e occhiali da vista, che cammina nel cimitero di Brooklyn reggendo una corona di fiori.

Mentre cammina, borbotta: « Tutti credevano che sarei stato io, il primo ad andarsene...E invece... ».
E mentre bofonchia queste parole, passa, una via l’altra, vicino alle tombe di un cimitero coperto di neve. La telecamera inquadra le lapidi. Gilda Radner, Chevy Chase, Bill Murray, Dan Aykroyd. Qualcuno di loro è morto di overdose, qualcun altro di chirurgia estetica, altri ancora di eccesso di velocità.

« Perché sono rimasto proprio io? Perché io ho vissuto così a lungo, mentre loro sono morti tutti? » - si chiede il vecchio. Poi rivolge uno sguardo in macchina, molto sornione ...

« Perché io sono un ballerino! »

Stacco. Parte la musica, ed ecco che, in campo lungo, le braccia tese, il vecchio John Belushi comincia a ballare in mezzo alle tombe…

già pubblicato sul blog il 23/1/2009

mercoledì 7 luglio 2021

Convergenza e Plagio !!

Non appena pubblicato, "Essere e tempo", il capolavoro di Martin Heidegger, fu ritenuto una vera e propria rivelazione filosofica. Pochi, però, conoscevano allora il libro del giovane ebreo italiano Carlo Michelstaedter. Le sue pagine sembrano precorrere fin nei concetti lo scritto rivoluzionario di Heidegger. In quest'avvincente inchiesta filosofica Thomas Vasek, oltre a delineare le singolari corrispondenze tra i due pensatori, getta nuova luce sul testo di Heidegger, il quale ha ignorato a lungo quella fonte preziosa.

(dal risvolto di copertina di: Thomas Vasek, "Heidegger e Michelstaedter. Un'inchiesta filosofica". Mimesis, pp. 320, € 24 )

Il plagio di Heidegger, quasi un thriller
- Le tesi più importanti di “Essere e tempo” ispirate dal giovane goriziano Michelstaedter -
- di Donatella Di Cesare -

Heidegger sarebbe ricorso al plagio? E la sua grande opera Essere e tempo non sarebbe poi così autentica come in genere si crede? A instillare il dubbio è il saggio di Thomas Vašek, Heidegger e Michaelstaedter. Un’inchiesta filosofica, che arriverà domani in libreria per Mimesis nell’ottima traduzione di Fulvio Rambaldini. Pubblicato in tedesco nel 2019, da Matthes & Seit a Berlino, questo volume si inserisce nell’acceso dibattito, tuttora in corso, che intorno al pensiero e alla figura di Martin Heidegger ha preso avvio dopo l’uscita dei Quaderni neri.
Giornalista e filosofo austriaco, autore di numerosi saggi, Vašek è apprezzato dal grande pubblico di lingua tedesca anche come caporedattore della famosa rivista Hohe Luft, il bimestrale che ha il merito di aprire discussioni politiche, etiche, culturali sui grandi temi dell’attualità. Non sorprende allora che abbia usato i suoi mezzi affinati per questa inchiesta, quasi un thriller. L’idea nasce quando, dal fondo dimenticato di Argia Cassini, pianista morta ad Auschwitz nel 1944, viene fortunosamente alla luce una prima, parziale traduzione tedesca del libro di Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pubblicato postumo nel 1913. Provato da avversità, dissidi e delusioni profonde, sfinito da quell’impegno di scrittura intensissimo, il giovane Michelstaedter si era ucciso con un colpo di rivoltella alla tempia la mattina del 17 ottobre 1910. Aveva solo ventitré anni. Quell’evento tragico, che allora sembrò del tutto inatteso e inspiegabile, mise fine alla sua vita e a una promettente carriera di intellettuale, poeta, pittore e filosofo.
Noto in Italia grazie alla casa editrice Adelphi, che ne ha pubblicato gli scritti, e all’interpretazione che ne hanno offerto, tra gli altri, Massimo Cacciari, Gianni Carchia, Franco Fortini, purtroppo Michelstaedter è un nome quasi sconosciuto in Germania. E ciò malgrado la traduzione completa del suo capolavoro, che risale al 1999, nonché il romanzo di Claudio Magris Un altro mare, del 1991, e quello dello scrittore austriaco Egyd Gstättner, Der Mensch kann nicht fliegen. Der letzte Tag des Carlo Michelstaedter, entrambi ispirati alla sua figura e alla sua drammatica storia.
Si spiega così l’entusiasmo di Vašek per quella che, a tutti gli effetti, è quasi una riscoperta. La tesi centrale del suo libro è sintetizzata così: «a mio parere il meglio di Essere e tempo è già in Michelstaedter». Sebbene più volte ammetta che non esiste alcuna prova storica, pure Vašek è persuaso che Heidegger abbia avuto tra le mani le pagine del giovane genio goriziano e ne abbia tratto spunti e idee per la sua grande opera. Certo, non mancano le differenze già nello stile e nei toni: da un canto l’urgenza esistenziale, la fantasia artistica, la dimensione onirica, dall’altro la potenza del linguaggio e la profondità filosofica. Per il resto si deve riconoscere che le convergenze – già notate da più di un critico negli anni Trenta – sono eclatanti: dal tema dell’angoscia a quello della cura, dall’esigenza di autenticità al desiderio di sottrarsi alla «rettorica», ovvero alla «dittatura del si», come la chiama Heidegger, cioè al conformismo del «si pensa», «si dice», dalla finitezza dell’esistenza alla paura della morte.
Ma com’è finito quel primo dattiloscritto nelle mani di Heidegger? Chi lo ha fatto giungere oltre confine? È qui che comincia il thriller. Vašek ricostruisce, non senza suspense, tutte le piste che collegano due personaggi solo apparentemente così lontani. A parlare già di Michelstaedter sarà stato forse il filosofo Franz Brentano, dopo una breve visita a Firenze, oppure l’accademico austriaco Oskar Ewald, che ne aveva ascoltato una conferenza a Gorizia e ne era rimasto impressionato.
Ma non si può escludere che addirittura Albert Einstein abbia portato a Friburgo una copia del libro La persuasione e la rettorica. Le ipotesi si affastellano. Quella verso cui Vašek sembra propendere è legata al nome di Julius Evola, l’esoterico filosofo protofascista, di cui forse Heidegger ha letto qualcosa, e che a sua volta nella propria autobiografia ammette il debito verso Carlo Michelstaedter. Singolari nessi, sorprendenti collegamenti. Finché, però, l’archivio in cui si conservano le carte, i documenti, la corrispondenza e gli scritti ancora inediti di Heidegger, resterà chiuso ai ricercatori per volere degli eredi, sarà impossibile rispondere a questa come ad altre domande.
Il libro di Vašek è comunque un tentativo che va oltre la ricostruzione storica e che sembra quasi rinviare a ciò che il grande «monarca» della filosofia tedesca può aver ripreso dalle correnti della cultura ebraica che sarebbero state annientate di lì a poco. Un tentativo analogo è quello di Susanne Möbuß, che ha pubblicato nel 2018 una imponente monografia in tedesco, dove mostra ciò che Heidegger, senza menzionarlo, ha ereditato dal pensiero del grande filosofo ebreo tedesco Franz Rosenzweig.
Per noi sarà forse l’occasione per rileggere Michelstaedter, in questi anni un po’ dimenticato, per riscoprire il fascino di questa figura di confine, figlio per parte di madre di un’antica famiglia ebraica, i Coen Luzzatto, esponente della cultura austroungarica, italiano per vocazione. E chissà, se non si fosse suicidato, sarebbe finito anche lui ad Auschwitz, come la madre, la sorella maggiore e quell’amica, amante, Argia Cassini, il cui lascito ha ispirato l’inchiesta di Vašek.

- Donatella Di Cesare - Pubblicato sulla Stampa del 7/7/2021 -