Impero (Hardt/Negri): il mondo in crisi visto come la Disneyland della Moltitudine
di Robert Kurz
Il problema per cui la critica sociale si vede confinata nelle categorie dell'ontologia capitalista, peggiora ulteriormente quando le idee del marxismo tradizionale vengono rivestite con gli orpelli della post-modernità. Dieci anni dopo il libro di Rufin, "L'impero e i nuovi barbari", Michael Hardt e Antonio Negri pubblicano "Impero", il loro opus magnum, il quale pretende descrivere il "nuovo ordine del mondo" ed il suo superamento futuro nel quadro di una vasta teoria della storia della modernità (e, più in generale, del suo sviluppo). Benché gli autori procedano largamente sulle tracce di Rufin, fino a prenderne in prestito il riferimento a Polibio, Rufin non viene mai citato, e neppure menzionato nella bibliografia. Eppure si dovrebbe trattare, nella prospettiva di una riformulazione di una teoria sociale emancipatrice, non di prendere in prestito - alla chetichella - degli elementi da Rufin, ma di operare la critica immanente delle sue argomentazioni, per poter fare un passo avanti decisivo. Hardt e Negri non riescono a farlo, se non altro perché non possono, più di quanto possa Rufin, concettualizzare in modo soddisfacente i fondamenti della società capitalista e le sue conseguenze. Per loro, la forma di riproduzione sociale totalitaria del mercato (il problema dello "sviluppo economico", per Rufin) va da sé, fino al punto di non essere neppure menzionato come concetto da mettere in discussione. Le categorie del sistema di produzione di merci, così come Marx le ha tematizzate, o non appaiono, oppure vengono utilizzate in maniera positiva ed acritica. Soprattutto quando si tratta delle categorie del valore, della valorizzazione capitalista e del "lavoro astratto". Hardt e Negri, così facendo, non sono affatto all'altezza della loro ambizione. Perché voler fare la critica del capitalismo senza fare la critica della forma valore e della sua valorizzazione, è più o meno come voler fare la critica della religione senza voler criticare il concetto di divinità. Ed è proprio a tale assurdità che Hardt e Negri si attengono: per loro, la forma valore (la forma feticista che fa del prodotto una merce) è semplicemente un dato ontologico in cui l'umanità si realizza; di più: "creare valore", appare loro seriamente come qualcosa di eminentemente positivo. Per cui sembra che "la conoscenza e l'esistenza, nel mondo biopolitico, consistano sempre in una produzione di valore". Il capitalismo soffrirebbe solo della negatività per cui "il valore che deriva dalla cooperazione collettiva del lavoro viene deviato, confiscato, espropriato ...". Nient'altro, insomma, che il marxismo tradizionale più piatto, ed in profonda regressione, non solo al di sotto di Marx, ma perfino al di sotto di certi marxisti che ritengono che la forma feticcio del valore, e della sua valorizzazione, sia qualcosa da superare, fosse pure ad uno stadio ulteriore del loro "socialismo proletario". Quelli, almeno, hanno una concezione della forma-valore (la forma-merce totalitaria della riproduzione) vista non come semplice condizione ontologica dell'umanità, ma come formazione sociale-storica, e dunque suscettibile di avere una fine. Non c'è quindi da stupirsi se Hardt/Negri non sviluppano alcuna critica della categoria del "lavoro". Anche in questo, si muovono sulle tracce del marxismo tradizionale più usurato, come quando, ad ogni piè sospinto, fanno l'elogio della "forza lavoro vivente", definita "semplicemente come il potere di agire", come attività autonoma degli individui che cooperano ( e che non vengono "sfruttati" se non in maniera esterna) e non come una forma di attività specifica al capitalismo; come una fonte di desiderio e non come contaminazione capitalista del desiderio, ecc.. Così, quello che a loro importa, come importa al marxismo tradizionale, è ancora e sempre "la liberazione del lavoro" e non l'abolizione di tale categoria, la liberazione di un'attività ridotta ad economia e determinata solo in rapporto al capitale. L'operaismo italiano, da cui Negri proviene e che non è mai riuscito a superare, ci aveva già venduto a suo tempo una superficiale "critica del lavoro", ingannandosi sulla merce nella misura in cui non formulava questa critica come critica categoriale di una forma sociale di attività, ma solo come critica secondaria e fenomenologica di un regime di produzione, che supponeva capitalista solo in maniera incidentale. Dietro tale critica, si poteva continuare a sentire - alla maniera archeo-protestante e archeo-borghese - l'eterno elogio del "lavoro vivente". Nonostante prendano abbondantemente in prestito una fraseologia postmoderna, Hardt/Negri rimangono dentro un marxismo volgare; riverniciando il vecchio concetto del capitale, del lavoro e della lotta di classe, per resuscitare la vecchia costellazione conflittuale presumibilmente scomparsa da dei lustri con l'avvento della "postmodernità". Senza che se ne rendano conto, la vecchia forma della critica, divenuta esangue, si trasforma in loro in pura affermazione. Alla stregua di qualsivoglia cronista economico, magnificano, in maniera del tutto aconcettuale, il "passaggio all'economia dell'informazione" e tessono le lodi del lavoro "immateriale" insieme alle sue forme di cooperazione, nel contesto del passaggio all'informatica, a Internet, ai nuovi media, ecc.. Ci vedono una "possibilità [per il lavoro] di valorizzare sé stesso"; un'idea, questa, che Negri propone da tempo. E' il colmo, l'ultimo grido in fatto di tecniche sociali e di gestione, di cui il capitalismo si è servito per la gestione della crisi (esternalizzazione, flessibilità, ideologia dell'uomo che si fa da sé, ecc.), viene elevato al rango di forza liberatrice. I nuovi grandi padroni del "piccolo lavoro" per i tempi di crisi, formalmente "indipendenti" ma, a dire il vero, ridotti allo stato di paria del mercato, vengono presentati da Hardt/Negri come la punta più avanzata di una nuova libertà. Una cattiva interpretazione dei nuovi fenomeni sociali direttamente legata alla propaganda neoliberista. Il fatto che le nuove forze produttrici della microelettronica siano incompatibili con la forma-valore dell'economicismo reale della nostra epoca, viene confuso con una forza che libererebbe da questo feticismo, anche nella forma che il feticismo prende nella crisi. Quello che già costituiva una vecchia illusione del movimento operaio - ossia la volontà di perpetuare in maniera autonoma il processo di valorizzazione del valore in una logica di "classe sociologica", cioè riprodurre il capitale come "capitale senza capitalisti", pretendendo di farlo per i bisogni del movimento operaio e sotto la sua direzione, senza toccare, attraverso il cambiamento della forma sociale, la qualità del capitale - ecco che Hardt/Negri ce lo riconsegnano in una versione postmoderna e niente affatto migliore. Anche considerandolo da un punto di vista immanente al sistema, "Impero" è apparso giusto in tempo perché queste idee si ritrovino completamente ridicolizzate: proprio nel momento stesso in cui la "nuova economia" del capitalismo via Internet rende quell'anima di cui essa difettava. Ponendosi in modo acritico e aconcettuale rispetto alle forme categoriali del sistema moderno di produzione di merci, Hardt/Negri non possono che mancare la nuova crisi mondiale. Per loro - e in questo senso sono del tutto dentro la tradizione della socialdemocrazia e del leninismo - non siamo davanti ai limiti storici oggettivi di questo sistema, e neppure davanti ad una crisi delle categorie delle forme sociali corrispondenti. Certo, parlano incessantemente di "crisi", ma mai nel senso preciso di un'analisi fondata su una teoria dell'accumulazione. Evocano solo vagamente il suo contenuto, ed in un modo così puerile da essere quasi ridicolo; per esempio quando affermano che "il potere imperiale funziona per rottura (...) La società imperiale è sempre e dappertutto in rottura, ma senza che questo la possa portare a breve alla rovina." Che tutto questo non significhi niente, diventa chiaro quando Hardt/Negri cercano di negare perfino l'evidenza empirica della crisi: "Ebbene, nel momento in cui stiamo scrivendo questo libro, alla fine del ventesimo secolo, il capitalismo è miracolosamente ancora vivo e vegeto e la sua accumulazione è più gagliarda che mai". Così come, a partire dalla loro idea puramente illusoria di una sostanza-valore (ontologizzata, del resto) della "nuova economia", deducono un presunta nuova soggettività dei produttori che "si valorizzano da sé stessi", l'affermazione secondo cui la "accumulazione è più gagliarda che mai" si fonda sull'illusione che il capitale possa emanciparsi dalla legge del lavoro astratto e, generalmente, dalla sostanza-valore; passano così ad una definizione arbitraria della "creazione del valore" dove, letteralmente, tutto "il lavoro" - e non importa quale ed in quale maniera - è "creatore di valore" (ivi compresa, lo dicono molto seriamente, la disoccupazione e perfino le emozioni umane). Il vero sfondo sociale di questa fantasmagoria economica, del tutto inconsistente in termini di argomenti e di analisi, è semplicemente la bolla finanziaria del capitalismo mondiale degli anni 1990, di cui la "nuova economia" non costituisce altro che la bolla secondaria. Hardt/Negri qui si smascherano, non solo in quanto ideologhi arcaici di un marxismo tradizionale, volgare ed anacronistico - versione pop e postmoderna, è vero - ma anche, e contemporaneamente, come i piatti teorici - "da sinistra" - del nuovo capitale finanziario che, cosa imbarazzante, si è anch'esso scontrato con i suoi limiti empirici - così come ha fatto la "nuova economia" - nello stesso momento in cui è comparso il loro libro. Con gli occhi accecati dal "folle anno" 1999, e dalla sua scalata di tutte le borse al mille per cento del valore fittizio, attribuiscono a questo capitalismo finanziario, alla stessa stregua degli analisti e dei vecchi cantori dell'investimento borsistico - diventati poi molto discreti, è vero - un potenziale di valorizzazione illimitato. Non criticano affatto questo capitalismo nel quadro di una costruzione teorica, ma si sforzano di nuovo - fedeli seguaci della religione del lavoro - e in un modo paleo-leninista pericolosamente vicino ad un'economia politica dell'antisemitismo, di denunciarlo piattamente in quanto "parassitario": "Come diceva sant'Agostino: i grandi regni non sono nient'altro che grandi proiezioni di piccoli ladri. Agostino di Ippona, così realistico nel formulare questa concezione pessimistica del potere, sarebbe sbalordito alla vista dei piccoli ladri che sono oggi a capo dei poteri finanziari e monetari." Allo stesso modo in cui il piccolo speculatore, dopo essersi fatto spennare come si deve, spara invettive moralizzatrici contro i grossi speculatori e contro "gli ebrei", così anche Hardt/Negri inveiscono contro i "grandi ladri" dei mercati finanziari, visto che essi stessi non sono altro che gli ideologhi della "sinistra pop" e postmoderna del "capitale fittizio", che viene innalzato entusiasticamente al rango di "nuova ontologia" della postmodernità. Invece di analizzare il rapporto intrinseco esistente fra i limiti storici dell'accumulazione reale, i fenomeni di crisi a livello mondiale ed il nuovo capitalismo delle bolle finanziarie, vanno ad unirsi al fronte di quelli che del processo di disgregazione sociale danno una pseudo-spiegazione culturalista, secondo la quale tale processo sarebbe imputabile alla "corruzione"; una teoria che non diventa affatto migliore se viene rivolta a tutto il capitalismo, e non solo alle sue pecorelle smarrite. Invece di spiegare la corruzione attraverso la crisi del rapporto capitalista, questo viene platealmente ridotto a "corruzione": "Nell'Impero, la corruzione è dappertutto: è la pietra angolare e la chiave del dominio. Si mostra in svariate forme: nel governo supremo dell'Impero e nelle sue feudali amministrazioni periferiche; nelle forze più raffinate dell'amministrazione poliziesca e in quelle più marcescenti; nelle lobby delle classi dirigenti; nelle mafie dei gruppi emergenti; nelle chiese e nelle sette; negli autori degli scandali e in coloro che li perseguono; nelle grandi organizzazioni finanziarie e nelle transazioni economiche quotidiane. Con la corruzione, l'Impero ricopre il mondo con uno schermo oscuro. In questo modo, il capitalismo dell'Impero "è immediatamente corrotto. Le sequenze sempre più astratte del suo procedere (dall'accumulazione del plusvalore alla speculazione monetaria e finanziaria) scandiscono la sua marcia trionfale verso uno stato di corruzione generale." L'interpretazione culturalista dello spietato processo sociale ed economico della crisi, porta Hardt/Negri a delle conclusioni già soggiacenti al vecchio operaismo italiano, che ritornano non solo ricollocate in maniera postmoderna, ma anche sotto una forma concettualmente degradata. Le loro conclusioni riposano su una base filosofica che lascia molto a desiderare; ed è ciò che Hardt/Negri cercano di dissimulare, attingendo alla storia delle idee e facendone mostra (nel loro libro, tutti i battaglioni del grande pensiero occidentale sfilano in ranghi serrati). Il substrato del loro pensiero, arricchito di grandi nomi celebri, tuttavia non è altro che un soggettivismo, volgare e pomposo, che fa dell'evoluzione della società un puro rapporto di volontà. Tutto ciò, naturalmente, non è affatto nuovo; è solo la tendenza di un certo "marxismo del fattore soggettivo" e, più generalmente, di una corrente permanente del pensiero borghese moderno, il quale si oppone da sempre all' "oggettivismo", suo fratello nemico, senza essere in grado di criticare il terreno comune di questa polarità, né di farla finita con essa. Scivolando continuamente verso la posizione che era quella della sinistra tradizionale, e in modo diverso, dell'antisemitismo, questo modo di vedere le cose non si collega alle sofferenze e alle crisi delle forme feticizzate del sistema, ma punta il dito contro le "macchinazioni" volontarie da parte dei "soggetti ostili" (originariamente mal definiti); l' "oggettivismo", che è parte integrante della coscienza capitalista, non viene superato. Ci sono sempre due momenti, o due poli, della stessa falsa immanenza affermativa. E' la natura del sistema feticista moderno, cioè a dire la produzione totalitaria di merci, orientata all'accumulazione - priva di senso - dell'astrazione-valore, a dividersi nella polarità soggetto/oggetto, come già sapeva Marx quando constatava che gli uomini "fanno certamente da sé stessi la loro storia, ma non secondo la loro volontà". E' proprio questo che caratterizza la struttura paradossale di un rapporto feticista: la società si impone una legge cieca e coercitiva al punto tale che essa genera, per mezzo di atti di volontà (che rimangono sconsiderati in rapporto all'insieme delle strutture sociali), una pseudo-naturalezza della sua propria riproduzione, che è il risultato degli atti volontari che portano la società a conseguenze distruttive ed autodistruttive. Sebbene, in maniera immediata, tutto avvenga in seguito ad atti volontari, questi sono però predeterminati da un principio-forma antecedente alla volontà individuale (e alla volontà istituzionale). Nella modernità, è la legge della forma-valore o della produzione di merci su scala mondiale, quale risulta in modo cieco ed incosciente dal processo storico, a dargli la sua forma.
Fare una critica radicale, con l'aiuto del Marx "esoterico" critico del feticismo, significherebbe affrancarsi da questa pseudo-naturalità della società, per pervenire ad un quadro societario che sarebbe cosciente di sé stesso e non più guidato dal feticcio di una "mano invisibile"; dove i membri della società regolerebbero direttamente i rapporti fra loro e determinerebbero l'utilizzo delle loro risorse comuni in funzione dei loro bisogni e delle loro ragioni, in tanto che individui sociali, senza un principio-forma cieco a loro anteriore e senza mediazione reificata, autonomizzata. I teorici che non arrivano a mettersi al livello del problema - ed Hardt/Negri ne fanno senza dubbio parte - sono paradossalmente costretti a rinchiudere l'emancipazione sociale all'interno di questa polarità soggetto/oggetto, e perciò a fallire. A partire da questo fallimento, esistono sempre due possibilità, ciascuna delle quali rivendica una mezza verità affermativa; ovvero, precisamente quella di uno dei due poli che si trovano situati dentro alla cosiddetta "gabbia di ferro" (Max Weber), insuperabile da parte della società feticizzata della modernità. La prima posizione, oggettivista, considera l'emancipazione sociale come la realizzazione conseguente alle "leggi storiche" e non come rottura cosciente con la pseudo-naturalità reale del sistema di produzione di merce. Questa rottura con la falsa "seconda natura" della società feticizzata rimane ignorata, la società che si ritiene "liberata" va di nuovo a far funzionare essa stessa le sue strutture secondo delle leggi cieche, invece di essere determinata collettivamente dalla coscienza dei suoi membri. Inversamente, la posizione soggettivista agisce come se questa "seconda natura" cieca, costituita da leggi sociali di struttura e di sviluppo che funzionano sotto l'impero dell'agente autonomizzato rappresentato dal valore/denaro, semplicemente non esistesse (o che nen esistesse in "maniera effettiva"). Come se il feticismo della modernità non fosse una "illusione reale" (Marx) ma piuttosto un epifenomeno della coscienza che, oggi, non è più valido; come se l'insieme dei legami sociali non fosse un contesto-forma a priori, realmente reificato e non fosse in realtà costituito che da una somma di decisioni e di atti volontari coscienti (Hardt/Negri costituiscono in qualche modo la punta di diamante di tale posizione che dagli anni 1960 ha sempre dominato il "pensiero contestatario"). Appare ironico, e del tutto conseguente, che queste due posizioni rigettino il concetto marxiano della costituzione feticista delle società moderne produttrici di merce, anche se per ragioni opposte: proprio perché questo concetto non permette la dissoluzione unilaterale della polarità in una falsa immanenza affermativa, che sia quella della soggettività pura o quella della pura oggettività. Così, per Hardt/Negri "l'Impero" non è un fenomeno della crisi del capitalismo che strangola sé stesso, non è il prodotto della decomposizione della modernità capitalistica né uno stato di urgenza globalizzata: è una costituzione volontaria dei "potenti", quella della "corruzione generalizzata". La corruzione qui non appare più come nell'ideologia ufficiale, come un ostacolo alla "mano invisibile" ed ai suoi benefici, ma come un regime di autorità che si troverebbe direttamente nelle mani di élite corrotte, dove anche la "mano invisibile" sembra scomparsa. Perché il denaro - l'incarnazione della forma-valore e delle sue leggi feticiste -, così come appare ad Hardt/Negri in una completa ignoranza della realtà dominante del mondo, si presenta come privato di ogni autonomia e di ogni dinamica propria; appare loro come sottomesso ad una "economia di autorità": "Il controllo imperiale si dispiega mediante tre strumenti globali e assoluti: la bomba, il denaro e l'etere. (...) Il denaro è il secondo mezzo globale per realizzare il controllo assoluto. (...) Nel momento in cui tutte le strutture monetarie tendono a perdere qualunque titolo di sovranità, emerge l'ombra di un'unica e unilaterale riterritorializzazione monetaria concentrata nelle città globali, vale a dire i centri politici e finanziari dell'Impero. (...) si tratta, invero, di una costituzione monetaria determinata unicamente dalle necessità politiche dell'Impero." Un'ombra, innalzata da Hardt/Negri al rango di sostanza onnipotente, di "potere di controllo senza limiti" in mano a dei "soggetti corrotti". Secondo logica, allora bisogna reinterpretare il declino reale ed il processo di decomposizione della politica, che ha luogo nella mondializzazione, come l'avvento di una nuova potenza politica, precisamente quella dell' "Impero". Ogni soggettivismo di questo genere, l'ignoranza della costituzione feticista della società e della sua "seconda natura" cieca, si trasforma così necessariamente in "politicismo" ed ipostasi del "potere". Da realtà di gestione globale dello stato d'urgenza, "l'Impero" si trasforma così, in modo fantasmatico, in una costituzione politica positiva, autonoma, perfino in "ontologia" postmoderna di un "potere d'autorità" al servizio immediato del capitale finanziario - come Hardt/Negri non smettono di sottolineare. Il potere assoluto dell' "Impero", in senso positivo, persino glorificato negativamente, appare come quasi "monarchico": "In primo luogo, l'elemento monarchico della costituzione imperiale applica il proprio potere sull'unità del mercato mondiale". Qui la teoria finisce per trasformarsi in mitologia, una mitologia invero ben miserabile. Nella sua versione postmoderna, il soggettivismo "di classe" operaista è ancora più primitivo di quanto già lo fosse nella sua vecchia versione "proletcult": L'oggettivismo ed il soggettivismo, questi poli ipostatizzati, unilateralità di un rapporto feticista comune (frainteso e, pertanto, non critico), vengono fatalmente recuperati dalla Nemesi dei loro rispettivi alter ego, e si trasformano l'uno nell'altro. L'oggettivismo socialdemocratico e stalinista di una realizzazione delle "leggi sociali indipendenti dagli uomini" (di cui, al di là del mercato, siamo stati fieri!), delle "necessità storiche", ecc. deve così trasformarsi in soggettivismo della politica, in una Ragione di Partito che "ha sempre ragione", nell'arbitraria illusione statalista e burocratica (votata alla sconfitta) esercitata sull'economia feticcio moderno insuperabile. Al contrario, il soggettivismo neo-operaista della politica, dell'autorità, ecc. deve fatalmente, nel momento stesso in cui si esprime, rivoltarsi nel suo contrario: l'oggettività muta delle strutture, degli stadi d'evoluzione, ecc. severamente criticate, come andremo a vedere, come violenza teorica contro la libertà soggettiva dei pretesi "rapporti di volontà".
La costituzione, che si pretende positiva, dell'Impero si realizza, secondo Hardt/Negri come processo storicamente decisivo di sconvolgimento della postmodernità (la cui importanza è sopravvalutata), processo che si tradurrebbe nelle nuove forze produttive della "economia dell'informazione", del "lavoro immateriale", ecc.; si potrebbe persino dire: come nascita di una "nuova ontologia". Ma cos'è questo se non una "teoria dei cicli" che introduce una "legge oggettiva", dal momento che questa ontologia moderna viene posta come retroterra oggettivo di ogni pensiero e di ogni attività ulteriore? Cos'altro significa quest'assegnazione, fatta da Hardt/Negri, ai soggetti di rimanere prigionieri di un tale "campo di immanenza" oggettivo, se non "costringere le azioni umane a ballare al ritmo delle strutture cicliche"? Questo sfortunato incidente avviene in quanto pensano - senza considerare ciò che lo determina - i loro soggetti, e l'attività di questi, come pura volontà in sé; e perché non tengono in nessun conto la costituzione storica e sociale di queste stesse volontà, cioè a dire la forma a priori feticizzata di questi soggetti sociali, in quanto soggetti concorrenziali, cioè prima che possano pensare ed agire per sé stessi. Hardt/Negri questo lo ignorano: la costituzione delle forme avviene in maniera incosciente; e quest'ignoranza ha il suo prezzo: l'oggettività cieca tanto vilipesa torna surrettiziamente nelle argomentazioni di questi cantori del soggetto (ciò che viene assunto da loro, in modo insufficiente, come "costituzione", nei fatti non è che la modificazione cosciente, intra-storica, dei rapporti di volontà e quindi, dei rapporti di potere). Hardt/Negri diventano allora, loro malgrado, oggettivisti, e questo per due ragioni: in primo luogo, "meta-ontologicamente", in un qualche modo, quando riferiscono gli uomini ad un'ontologia della "creazione di valore" presentata come oggettiva, naturale e come transistorica formatrice del "campo di immanenza", anche dell'essenza sociale dell'uomo. In secondo luogo, "intra-ontologicamente", quando definiscono la "auto-valorizzazione" dell'individuo - quello che è stato definitivamente ridotto all'economia reale, che non può essere più altro che il suo proprio capitale umano - come il "campo di immanenza" oggettivamente inevitabile, storicamente attuale della postmodernità, ribattezzando col nome di forma di "liberazione" questa riduzione e questo auto-abbassamento estremo degli individui ad idioti in marcia. Siamo tornati all'oggettivismo hegeliano dell'evoluzione: ciò che esiste è bene, perché necessario e valido, come in una teleologia della storia. Così, quella stupida postmodernità appare anch'essa come cosa buona, e gli auto-valorizzatori della "nuova economia", per quanto stupidi, passano per degli emancipatori grazie al semplice fatto della loro esistenza storica. Ma non appena Hardt/Negri finiscono di concedere la loro benedizione a questa "stupida collettività di idee" ecco che, quella smette di esistere se non sotto forma di una "bancarotta collettiva della realtà". Qui non si tratta più di teoria critica ma di ideologia affermativa il cui gesto critico consiste in altro che questo: far giocare i diversi fenomeni, momenti e categorie empiriche ed "ontologiche" della "immanenza" capitalista, gli uni contro gli altri. L'Impero corrotto, o l'Impero della corruzione, viene misurato nei termini delle virtù capitaliste perdute: "L'aristocrazia transnazionale pare prediligere la speculazione finanziaria a scapito delle virtù imprenditoriali - e, in questo modo, agisce come un'oligarchia parassitaria." Un nazista o un antisemita non si esprimerebbe diversamente.
Altrettanto povera appare la visione emancipatrice riassunta da Hardt/Negri: "Il modo di produzione della moltitudine è contro lo sfruttamento in nome del lavoro, contro la proprietà in nome della cooperazione, e contro la corruzione in nome della libertà. Esso autovalorizza i corpi che si trovano al lavoro (...) e trasforma l'esistenza in un'esperienza di libertà", grazie a delle "riconfigurazioni sempre diverse (...) dell'autovalorizzazione, della cooperazione e dell'autorganizzazione politica". E' il vecchio inno del movimento operaio: un capitalismo (ora il capitalismo postmoderno) senza capitalisti, attraverso "il cambiamento degli uomini al potere". Dopo aver ridotto il rapporto col capitale alla "corruzione" ed aver presentato la gestione dello stato d'urgenza globale come se fosse il glorioso "Impero" di tale corruzione, gli si oppone il "lavoro onesto" del piccolo borghese e la "sana auto-valorizzazione" dei "corpi" cooperanti. Ecco di nuovo il vero e proprio ritornello dei nazisti e degli altri antisemiti.
Il problema sollevato da Rufin circa lo "sviluppo economico" planetario e lo sguardo teorico che ad esso si lega - e che non percepisce Marx come concorrente di Adam Smith, ma come un suo "negatore" - non viene risolto da Hardt/Negri; non viene nemmeno posto. Hardt/Negri, al contrario, trasformano Marx in una sorta di versione turbo-dinamica di Adam Smith, una versione arricchita da un'etica operaista del lavoro e da un cripto-antisemitismo. Partiti da una critica dell'economia politica, ricadono, puramente e semplicemente, in una retorica intra-capitalista del possibile e, allo stesso tempo, nell'illusione politica. Conseguentemente a quest'illusione politica, Hardt/Negri non hanno coscienza del declino della politica innescato dal processo di mondializzazione e dall'erosione del principio di sovranità degli Stati. E' evidente: nel momento in cui la riflessione teorica rimane muta sulle forme sociali che sono a fondamento della logica capitalista della valorizzazione, diventa possibile cercare quelle soluzioni che tradizionalmente non si trovano nella sfera politica secondaria. Questa sfera "potrebbe" non essere vittima della crisi; è, al contrario, quella che si riorganizzerebbe in permanenza insieme alla "valorizzazione del valore". Questa falsa immanenza è, per tale ragione, mai così visibile come quando il suo sviluppo politico si disintegra, un processo che viene negato dall'insieme dei teorici fedeli al sistema. Uomini di sinistra, uomini di destra, liberali: nessuna scuola di pensiero, nessuna delle "maschere" intellettuali della modernizzazione, né Hardt né Negri, vogliono vedere che l'ontologia del loro mondo affonda e che il loro nomos si sfalda. Di fronte al declino della sovranità, Hardt/Negri si ingegnano a truccare i fatti finché non appaiano di nuovo compatibili con la perpetuazione del sistema di produzione di merci e con l'oggettivizzazione democratica del suo dominio. Le varianti di quest'auto-mistificazione ideologica sono limitate. L'immaginazione fa difetto allorché non c'è più un reale orizzonte di sviluppo. La versione più primitiva di questa cecità rispetto ai fatti consiste di sicuro nel negare, puramente e semplicemente, la decomposizione della sovranità, e a ridefinirne a piacere il concetto, vuotandolo della sua sostanza. E' in questo che risiede la strategia argomentativa di Hardt/Negri, i quali, a priori e senza la minima dimostrazione né la minima analisi, annunciano fin dall'inizio del loro libro: "Tuttavia, il declino della sovranità dello stato-nazione non significa che la sovranità, in quanto tale, sia in declino. Nel corso di queste trasformazioni, i controlli politici, le funzioni statuali e i meccanismi della regolazione hanno continuato a governare gli ambiti della produzione e degli scambi economici e sociali. La tesi di fondo che sosteniamo in questo libro è che la sovranità ha assunto una forma nuova, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un'unica logica di potere. Questa nuova forma di sovranità globale è ciò che chiamiamo Impero." (pag.8).
Si potrebbe anche dire che un cadavere sia resuscitato assumendo l'aspetto dei vermi che lo divorano. Se così è, niente si può mai trovare "nel suo declino". Ma un simile cavillo, a proposito della sovranità, semplicemente non può essere preso sul serio. Quello che Hardt/Negri portano, a sostegno delle loro tesi, senza la minima coerenza, dimostra esattamente il contrario. Così, l'ONU e gli altri diversi organismi, che vengono presentati come elementi della pretesa nuova sovranità mondiale, non hanno mai costituito una nuova forma transnazionale, bensì, al contrario, solo l'insieme o la somma delle sovranità nazionali a livello puramente esteriore, e privo di qualsiasi nuova qualità. E' proprio per questa ragione che, nella crisi della sovranità, l'ONU viene maltrattata dagli Stati Uniti, e la NATO si vede marginalizzata ed utilizzata come una semplice bandiera da sventolare, nella misura in cui può ancora servire da strumento di legittimazione. Lo stesso accade per le istituzioni economiche sovranazionali, Banca Mondiale, FMI, ecc. Inversamente, i centri di capitale finanziario transnazionale invocati da Hardt/Negri - non più dell'economia d'impresa globalizzata dei grandi gruppi industriali - non agiscono per niente come un momento della nuova sovranità, ma solo come momento della decomposizione della vecchia sovranità, che nessun "controllo politico" sarebbe in grado di recuperare. Non può esserci uno Stato mondiale, né una moneta mondiale, ed è solo attraverso di essi che si potrebbe costituire una nuova sovranità planetaria, impossibile tanto logicamente quanto praticamente. La contraddizione interna al capitalismo, tra universale e particolare, è insolubile nel quadro della forma capitalista. Ecco perché la moneta mondiale non potrebbe apparire che sotto forma del suo opposto, cioè il dollaro, moneta nazionale della "ultima potenza mondiale" e della zona d'influenza della sua economia. La stessa cosa vale per tutti gli altri momenti della sovranità, ivi compreso l'apparato di repressione. Da nessuna parte si è costituita una sovranità transnazionale, la quale sarebbe una contraddizione in sé. Ma, al contrario, è scattato, a tutti i livelli, l'antagonismo tra la transnazionalità de-territorializzata dell'economia e la nazionalità territorializzante del principio di sovranità. Tale contraddizione interna, Hardt/Negri la diluiscono, senza la minima riflessione concettuale, dentro una qualche vaga rappresentazione di una "logica di potere", o "logica di dominio", che spingerebbe incessantemente verso una nuova sovranità. Abbandonare il concetto marxiano di feticismo della modernità; dissolvere, in maniera platealmente positivista, l'irrazionalità del rapporto-capitale dentro l'apparente razionalità dei rapporti di pura volontà o di dominio esteriore; per arrivare, poi, al modello di una nuova fantasmatica sovranità, costituita arbitrariamente a partire da fenomeni eterogenei: questo significa mancare completamente la realtà della crisi mondiale del capitalismo. Questo tentativo di rianimare il soggetto politico, in agonia, della modernità va di pari passo con l'identico tentativo nei confronti del soggetto sociale. Rufin aveva già lasciato intravvedere - sia pure con un serio stato d'animo - che all'ideologia dei confini, volta ad esternelizzare i "barbari", preferiva la "responsabilità democratico-umanitaria dell'Impero". Al contrario, Hardt/Negri vogliono superare la corruzione dell' "Impero" capitalista mondiale sul suo proprio terreno e dentro le sue proprie categorie - "virtuosamente" ridefinite da una nuova soggettività immanente, postmoderna - "dal basso". A differenza di Rufin, essi vedono chiaramente che non c'è più alcuna "esteriorità" spaziale o sociale, e che tutti i fenomeni si sviluppano all'interno stesso dell'"Impero". Da questo punto di vista, il tentativo di erigere un limite è del tutto inutile. Ma, poiché quest'idea secondo la quale non esiste alcuna "esteriorità" reale, è legata, per Hardt/Negri, all'obbligo di un'immanenza "positiva", essa non può essere assunta in senso critico ed emancipatore: ma deve cercare di mobilitare una forza puramente immanente o di affermarla. Ovviamente, tutto è "immanente" in qualche modo; in altre parole, non c'è niente fuori dal mondo esistente e, per tale ragione, anche la critica è determinata dal suo oggetto. Detto ciò, quest'osservazione è banale. La verità risiede nel fatto che la critica radicale è determinata negativamente, e non positivamente, dal suo oggetto. Essa mira a superare, e non ad invocare qualsiasi forza immanente positiva, tranne la forza della negazione, che deve essa stessa costituirsi in movimento sociale di emancipazione, invece di essere categorialmente determinata a priori dalla forma di ciò che esiste. E' in questo che risiede precisamente il problema operaista di Hardt/Negri: pongono a priori un soggetto di pura volontà secondo il quale le categorie formali del capitale non sarebbero affatto anteriori, ma solo esteriori e secondarie; sia come "mezzi" funzionali di potere, sia come di contropotere - la differenza non attiene alla forma sociale in quanto tale, ma alla volontà da cui questa è animata.
Hardt/Negri devono perciò edulcorare la costituzione, e la conformazione dei soggetti in quanto soggetti della valorizzazione del valore e della concorrenza; il processo di valorizzazione - in quanto sostanza della soggettività - viene da loro assunto del tutto positivamente come potenziale della "auto-realizzazione" dell'uomo, mentre la logica di azione immanente a questa soggettività, ossia la concorrenza universale, è praticamente assente. Ne risulta che il processo di valorizzazione viene interpretato come sostanza della soggettività, in maniera del tutto positiva, come potenza dell'auto-realizzazione umana. E la logica immanente a questa soggettività agente non compare in quanto concorrenza universale (una vera e propria prodezza, in un'opera sul capitalismo che pretende di aprire delle nuove prospettive!). Hardt/Negri - come Rufin - essendo incapaci di formulare una "critica", si vedono obbligati a scegliere un'alternativa che l'Impero in crisi impone loro in maniera immanente, e si indovina quale sia: l'immanenza della barbarie reinterpretata positivamente. Nelle argomentazioni di Rufin si trattava di una pseudo-alternativa, tipo quella incarnatasi nella personalità di Von Ungern; nel caso di "Impero", non si tratta più di un'esternalizzazione - di un "al di fuori nella steppa" - me dell'interiorità dello stesso "Impero". I "barbari" sono immanenti per Hardt/Negri, si tratta di un di per sé già positivo che li porta a concludere (appoggiandosi ad un'errata interpretazione di Walter Benjamin): "I nuovi barbari distruggono con una violenza affermativa e, nella materialità della loro esistenza, tracciano nuovi percorsi di vita." Questi nuovi barbari non sono, secondo Hardt/Negri, prodotti dalla crisi della valorizzazione mondiale del capitale; ma sono al contrario (del tutto conformemente all'ideologia del culturalismo postmoderno e dell'economia istituzionale) all'origine della crisi; intesi non negativamente, ma positivamente, come "soggettività ribelle". In quest'ideologia fantasmatica del soggetto, la valorizzazione del capitale viene indossata a meraviglia, il negativo non risiede in essa, ma nel dominio corrotto che la governa. E c'era da aspettarselo: non ci sarebbe nessuno "inutile", "L'Impero ha lavoro per tutti! Più il lavoro è deregolamentato e più ce n'è." (pag.371) Anche se si tratta di un lavoro "sfruttato" e dominato dalla corruzione. Dal momento che il capitalismo postmoderno sarebbe riuscito a trasformare tutto in lavoro ed in creazione di valore (cosa che stimano non ci sia nessun bisogno di dimostrare), non si può avere né crisi reale né limite interno assoluto alla valorizzazione del capitale. Anche l'individuo che fa i suoi bisogni nell'intimità del suo gabinetto, in una qual certa maniera, "valorizza il capitale": ecco qua bello bello il sogno del "soggetto automatico", se esso avesse potuto sognare, ma questa visione delle cose costituisce un'impossibilità logica e pratica. Ma per Hardt/Negri si trasforma in realtà del valore come puro rapporto di volontà. La loro critica si riduce così ad uno scontro fra soggetti immanenti; si tratterebbe solo di guarire la barbarie negativa dell' "Impero" corrotto attraverso la barbarie positiva dei prodotti sociali ed ideologici della sua decomposizione. Ma in tal modo, questi adoratori del soggetto si vanno ad impegolare in nuove contraddizioni. Dal momento che il loro nuovo soggetto ontologico della "economia dell'informazione" e del "lavoro immateriale", ecc. non si è mai veramente segnalato per una qualsivoglia ribellione, esso rappresenta piuttosto la barbarie e la corruzione del sistema stesso, e non la contro-barbarie dei prodotti della sua decomposizione. Quando Hardt/Negri ci vengono a parlare delle famose "lotte" condotte dalla soggettività composta in maniera operaista, si vedono costretti a lasciare da parte i loro soggetti auto-valorizzanti e a ricorrere ai movimenti migratori e agli esodi massicci della crisi mondiale, ai banditi etnici, all'evoluzione cieca dell'odierno processo di crisi. La soggettività che si manifesta non è quella delle forze produttive più avanzate dei centri capitalistici, ma, al contrario, la soggettività pseudo-arcaica dentro, e proveniente da, le zone di collasso rimaste fino ad oggi alla periferia. Per Hardt/Negri questa non è una contraddizione, nella loro produzione di un kitsch neo-operaista. Tutto, in fondo, è "soggetto" e, quindi, tutto si trova alla fine in tutto. Dopo aver tracciato un frego definitivo sul carattere feticcio, oggettivo, della valorizzazione del capitale e autonomizzato in struttura sistemica, il loro soggetto non deve solamente "creare" la crisi in maniera volontaristica; esso può perfino reinterpretare a piacere la logica del sistema. Esiste tuttavia una differenza di dignità tra questi soggetti di pura volontà. I soggetti del "potere", i potenti (non si sa perché lo siano ne da dove gli provenga - la costituzione logico-storica del sistema resta avvolta nell'oscurità mistica di una metafisica del soggetto), esercitano senza dubbio realmente tale potere, pur rimanendo in una qualche maniera "irreali", e assoggettati. Questi soggetti del potere sono guidati da una forza; sono guidati, non dall'imperativo senza soggetto della valorizzazione del valore come fine in sé irrazionale, pre-formato, non più dalle leggi coercitive del sistema, ma sono guidati unicamente dal contro-soggetto del proletariato, o della "moltitudine" (è così che Hardt/Negri ribattezzano pomposamente il vecchio concetto del soggetto del sociologismo classista, a-concettualizzato in termini di critica del sistema). E' questo proletariato, alias moltitudine, che costituisce il vero soggetto autonomo della storia (che ci ricorda un'ipostasi concettuale analoga in Lukacs), mentre i dirigenti si limitano a guardare le azioni autonome e creatrici di tale "vero" soggetto, e a reagire. Secondo questa logica un po' imbrogliata, lo sviluppo capitalistico delle forze produttive non si verifica, in primo luogo, grazie alla concorrenza nei mercati mondiali, ma unicamente come reazione alle "lotte" sociali del proletariato/moltitudine. Questo punto essenziale - e arci-falso - del vecchio operaismo, che ignora tutti i rapporti di mediazione inerenti alla forma sociale, Hardt/Negri lo spingono fino all'estreme conseguenze. Le forme mediatrici e le leggi del movimento - oggettivate in maniera feticista - del sistema di riferimento comune vengono a questo punto edulcorate in modo ontologicamente positivo e la società viene letteralmente ridotta allo scontro diretto ed immediato dei puri soggetti della volontà; la soggettività della moltitudine viene innalzata a costituire il momento unificante e la vera forza motrice dell'evoluzione. Il vecchio movimento operaio che operava solo nel rispetto delle leggi inerenti alla forma del sistema, e che non poteva rappresentarsi l'emancipazione se non sul terreno ontologizzato della forma-feticcio della modernità, è divenuto effettivamente, in ragione di tale limite storico, uno dei motori interni dello sviluppo della società capitalista, rinchiudendosi così, da sé stesso, nel sistema universale della concorrenza, limitato ad un stadio di sviluppo determinato. Hardt/Negri, non contenti di ipostatizzare questo ruolo, lo staccano dal contesto globale dei rapporti di concorrenza del capitalismo e delle sue "leggi coercitive" (Marx) per sublimare la vecchia "lotta di classe del proletariato", prigioniero di una cattiva immanenza, come se fosse il solo vero motore della società. Trasformano così, in modo mistificatorio, la limitazione storica e l'eteronomia sistemica del movimento operaio in volontà storica. Assolutamente tutto ciò che accade nella società sarebbe così il risultato diretto o indiretto della "volontà creatrice" del proletariato/moltitudine, in qualsiasi tempo ed in qualsiasi luogo. Hardt/Negri non hanno neanche paura di affermare che l'egemonia americana dopo la seconda guerra mondiale è stata "di fatto sostenuta dal potere di opposizione del proletariato americano", tanto misteriosa sarebbe l'onnipotenza di questa "lotta di classe", che ci si domanda perché e a che fine il proletariato/moltitudine dovrebbe "liberarsi, dal momento che in quanto soggetto autonomo esso "crea" di già tutta la storia. Questa mitologia a-concettuale di un soggetto proletario di pura volontà, la cui forma sociale non viene semplicemente presa in considerazione, si estende continuamente fin dentro il processo della globalizzazione e della costituzione - che si pretende positiva - dell' "Impero". Hardt/Negri devono qui negare apertamente i fatti - come è caratteristica dei mitologhi e dei mistagoghi - per aggiustare impietosamente una realtà globale in flagrante contraddizione con i loro miti delle "lotte". Naturalmente, i gloriosi auto-valorizzatori della "nuova economia", come appare per un istante, non lottano veramente: essi fanno solo fallimento. Tutto, in tutti i modi, è "lavoro", tutto non può non essere in sé che "lotta sociale", anche "fare fallimento"? Cosa che è vera, in una certa maniera, se si intende la concorrenza universale come una "lotta" sociale permanente; salvo che un tale genere di "lotta" non contiene la minima scintilla di autonomia, e neppure il minimo potenziale emancipatore; il kitsch sentimentale dell'operaismo deve allora investire nella "soggettività di classe" proletaria a colpi di bacchetta magica (questo potenziale e questa autonomia sono visti come una nostalgia che gli sarebbe inerente).
Che avvenga per mezzo della farsa auto-affermativa dell'economicismo reale (e dei suoi ridicoli progetti d'impresa), sia che avvenga attraverso l'auto-sfruttamento di un nuovo grande padronato di "piccoli lavoretti", gli auto-valorizzatori postmoderni non "lottano" dunque che in maniera virtuale, contrariamente a quello che pretendono Hardt/Negri, per i quali sono destinati in sé, a costituire la base ontologica di un nuovo soggetto delle "lotte". Improvvisamente, niente di tutto questo è vero, e sembra che si restituisca alle moltitudini delle periferie - dal Chapas alla Cecenia - il compito di condurre una sorta di "lotta per procura", da parte dei soggetti della "nuova economia", i quali sono un po' imbranati in materia di lotta sociale. Purtroppo, questa moltitudine della periferia - la massa reale dei miserabili (che non sono connessi neanche per telefono) - non è connessa all'insieme dei soggetti delle nuove forze produttive altro che in maniera negativa, per mezzo della legge coercitiva della concorrenza e dello "involucro economico" globale. A meno che i nostri autori qui non pensino ai capi dei clan e a quei signori della guerra equipaggiati con telefoni satellitari, ai pirati che operano su Internet, ai dirigenti dell'industria del sequestro di persona? Poco importa, poiché, come recitano Hardt/Negri, dappertutto c'è l'energia creatrice autonoma della moltitudine che è, comunque, al lavoro. Le mostruose migrazioni innescate dalla miseria globale, in questo inizio di XXI secolo, vengono reinterpretate, in questa logica, come dei "movimenti di liberazione" oggettivi: "I movimenti della moltitudine disegnano nuovi spazi e i suoi itinerari fissano sempre nuove residenze. L'autonomia di movimento stabilisce il luogo adeguato alla moltitudine. (...) La moltitudine definisce una nuova geografia, così come i flussi produttivi dei corpi creano nuovi fiumi e nuovi porti. Le città della terra diventeranno presto i grandi depositi della cooperazione umana e le locomotive della circolazione, le residenze temporanee e le reti della distribuzione di massa dei viventi. Attraverso la circolazione, la moltitudine si riappropria dello spazio e si costituisce come un soggetto attivo." (pag.433) E' vero che "questi movimenti costino terribili sofferenze", ma questa "nuova singolarità nomade" non rimarrebbe per questo meno piena di forza autonoma e di potenziale emancipatore. E, va da sé, ecco di nuovo i Lazzari dell'autonomia e le loro "lotte", e nessuna logica interna della concorrenza capitalista e della sua dinamica, a generare "realmente" la globalizzazione: "Esse infatti investono e sostengono gli stessi processi della globalizzazione. Il potere imperiale ripete, salmodiandoli, i nomi delle lotte per neutralizzarle". Bisogna far mostra di un raro sangue freddo nella contemplazione intellettuale, da una parte, per presentare le migrazioni di massa degli "inutili", dovute alla miseria, come una valorizzazione del capitale di tipo nuovo e, d'altra parte, estrarne immediatamente un potenziale emancipatore di cui sono assai chiaramente del tutto prive. Nelle condizioni della concorrenza universale, le migrazioni non sono altro che un momento in più di quella concorrenza, o la sua continuazione con altri mezzi; in sé, migrare non è più emancipatore che rimanere a casa propria, e il soggetto "nomade" della valorizzazione non è affatto più incline alla critica e alla rivolta di quanto lo sia il soggetto sedentario. E' da molto tempo che ci sono degli uomini che lasciano le loro famiglie e vanno, anche a rischio della vita, a cercare lavoro altrove - per essere alla fine schiacciati dalle macine del capitalismo. Essi non sono più portatori di emancipazione degli auto-valorizzatori postmoderni dell'occidente: ne costituiscono solo la variante miserabile. La realtà empirica a livello globale, ha dimostrato chiaramente che l'epoca della "lotta di classe" e della "soggettività di classe" si è compiuta da tempo; la nuova natura della crisi e la globalizzazione hanno, anch'esse da tempo, dimostrato la limitazione storica, ed immanente al sistema, di questi concetti, così come della realtà che li sottende; tuttavia, Hardt/Negri si accaniscono a fare entrare le nuove realtà mondiali in questa logica anacronistica e a presentarli come una loro estensione lineare. Quest'argomentazione anacronistica non può portare altro che a delle interpretazioni grottesche. E' di già stravagante interpretare le non-lotte degli auto-valorizzatori e quelle dei migranti della miseria come una sorta di emancipazione virtuale e di resistenza sociale; ma dove Hardt/Negri si discreditano del tutto, è quando vanno a trattare degli avvenimenti, delle "lotte" autentiche questa volta, condotte a colpi di bombe e di artiglieria pesante, ma che non avvengono in alcun modo per l'emancipazione sociale. Assolutamente seri, Hardt/Negri fanno davvero rientrare nella logica e nei concetti del loro "classismo" anacronista, i frutti dell'imbarbarimento e della decomposizione che interessa la concorrenza universale, cioè a dire le loro forme inselvatichite, etniche e pseudo-religiose, ed i loro interpreti, come fossero l'emergere positivo di un contropotere: "Nell'odierna rinascita del fondamentalismo, l'innovazione consiste invece nel rifiuto dei poteri che stanno emergendo nel nuovo ordine imperiale. Da questo punto di vista, in quanto rivoluzione contro il mercato mondiale, quella iraniana è, senza dubbio, la prima rivoluzione postmoderna." (pag.171) Se è Khomeini a portare la torcia dell'anticapitalismo, allora bisogna ammettere Osama bin Laden nel paradiso dei combattenti per la libertà e dargli un posto d'onore a fianco di Che Guevara. Hard/Negri dimostrano a loro spese che mantenere nelle condizioni della post-modernità il mito della lotta di classe - che rimane in verità limitato dai criteri del sistema - porta alla perdita di ogni facoltà di giudizio. Tuttavia, tale perdita coincide con la non-riproducibilità crescente del rapporto feticista moderno, che ne costituisce il fondamento; cosicché i nostalgici della lotta di classe hanno ragione, anche a loro insaputa. Essi hanno ragione, ma solo nel senso per cui la "lotta di classe", e più generalmente la lotta sociale determinata dai rapporti di concorrenza universale, non può riapparire nella forma-soggetto moderna in decadenza, se non in un modo inselvaggito che nega qualsiasi gesto di emancipazione. Quel che Hardt/Negri involontariamente dimostrano quando mettono, nel numero delle "lotte più radicali e potenti degli ultimi anni del ventesimo secolo"(pag.72) le quali rivelerebbero il "rifiuto dello sfruttamento da parte della moltitudine" ed "una nuova solidarietà proletaria e una nuova militanza", come per caso, e al primo posto, "l'intifada palestinese contro l'occupazione israeliana". Se l'intifada palestinese è la "lotta di classe" - ed in una certa misura lo è, per lo meno in quanto versione dell'ultima ratio della concorrenza - allora lotta di classe, modernizzazione, e "sviluppo", ecc. sono oggi identici alla totale perdita di sé. Se la "solidarietà proletaria" consiste oggi nel farsi esplodere insieme ai passanti e nell'uccidere dei bambini a colpi di fucile sparati dai cecchini, allora il massacro fra i lavoratori salariati nel corso della prima guerra mondiale è stato un'espressione di questa "solidarietà proletaria", perfino con una natura particolarmente nobile se paragonata agli atti barbari dell'intifada. E perché non mettere allora nella colonna dei "profitti" del "movimento di emancipazione proletaria" le bande di giovani neo-nazisti in Germania ed in tutta l'Europa, la "nazione dell'Islam" negli Stati Uniti, visceralmente antisemita, e, più in generale, le atrocità dell'insieme dei guerrieri etnici del capitalismo mondiale in crisi? Tutto è "lavoro creatore" della moltitudine, tutto è valorizzazione di sé e del capitale, tutto è lotta d'emancipazione. Cascano le braccia.
Non è per caso se, in quest'ambiziosa inchiesta di Hardt/Negri, tutt'altro che modesta, l'antisemitismo, così come la concorrenza, brilli per la sua assenza. Fare storia e analisi del modo di produzione capitalista unicamente a partire dal concetto positivo del soggetto di pura volontà "creatore del valore", senza fare mai riferimento alla concorrenza e all'antisemitismo, è un po' come fare la storia del cristianesimo a partire dal concetto di amore per il prossimo senza mai menzionare le Crociate, le guerre di religione e i roghi delle streghe. Così facendo, Hardt/Negri non solo passano a lato della Storia, ma anche a lato del presente del capitalismo in crisi mondiale. Sono essi stessi vittime di una concezione mutilata che taglia e nasconde in numerosi punti la logica dell'antisemitismo. Come Rufin prima di loro, Hardt/Negri restano intrappolati nella falsa immanenza dell'ontologia capitalista, in altre parole si accampano sul territorio categoriale del sistema moderno di produzione di merci e di "avvolgimento economico" del mondo, il quale si rivela in pratica irrealizzabile per la maggioranza del pianeta.
Trincerarsi, costituisce per l'Impero della valorizzazione del capitale una reazione spontanea al processo di decomposizione. I confini non si estendono solo lungo le frontiere esterne, mal definite ed incerte: diventano un fenomeno universale, anche all'interno dell'Impero e, in generale, all'interno di ciascuna società in crisi nel contesto dei processi della globalizzazione. I muri ed il filo spinato si estendono lungo la frontiera a sud degli Stati Uniti, così come alla frontiera est dell'Unione Europea; ma anche fra Israele e i palestinesi, tra "etnie" e "tribù", dappertutto, fra baraccopoli e quartieri residenziali. La conseguenza più visibile è che ogni individuo astratto che, in un modo o nell'altro, gode ancora della strana "fortuna" di lasciarsi macinare dal capitale, si trascina dietro, con sé, un muro mobile e una barriera di filo spinato portatile. La critica che rimane prigioniera di una cattiva immanenza e delle categorie del sistema, non è più una critica: essa non può fare altro che disperarsi di sé stessa. In queste condizioni, non rimane che l'alternativa formulata da Rufin: o l'opzione che illustra Kléber, o quella di di Von Ungern; cioè a dire: o l'imperialismo democratico moralizzatore dei diritti dell'uomo, ignorante della crisi del sistema, oppure la reinterpretazione positiva in termini di "soggettività ribelle" dei prodotti dell'imbarbarimento; anch'essi ignoranti della crisi del sistema. In entrambi i casi, si è forzati a riscoprire in maniera positiva ed illusoria una delle forme sotto le quali si manifesta la soggettività moderna, che è sul punto di crollare: che sia, come per Rufin, il soggetto ideologico dei diritti dell'uomo e della democrazia, con la sua perfida neo-lingua orwelliana; o che sia, come per Hardt/Negri, il soggetto ideologico apertamente barbaro, di cui fare l'ingannevole strumento per una cura ringiovanente dell'umanità.
Hardt/Negri tentano di fare una miscela di entrambi. Non vogliono sapere niente della costituzione logico-storica del sistema, ma solo passeggiare per le sue forme ontologiche. Niente di diverso, per principio, rispetto al vecchio movimento operaio scomparso, anche se la prospettiva di sviluppo storico di quello fa loro difetto. E' ciò che salta agli occhi quando Hardt/Negri cominciano a dedurre, dal preteso passaggio alla sovranità mondiale da parte dell'Impero (cosa inventata di sana pianta), qualcosa che assomiglia ad un programma e a delle rivendicazioni. Non c'è da stupirsi allora che si richiamino alla storia borghese del diritto e della costituzione, invocandone i corifei (Kelsen, per esempio), in modo del tutto positivo, insieme ai grandi nomi della filosofia. Non ci vuole molto tempo a capire che il terreno della costituzione capitalista non è stato abbandonato.
Ciò che emerge allora come prospettiva d'azione è a dir poco patetico: "Quello che nondimeno possiamo vedere è un primo elemento di un programma politico della moltitudine globale, una prima istanza politica: "la cittadinanza globale". (...) Nella postmodernità, questa richiesta politica di fatto fa leva su un fondamentale principio costituzionale della modernità, che collega il diritto al lavoro e che ricompensa, con la cittadinanza, il lavoratore che crea il capitale. (...) Il diritto universale di controllare i propri movimenti è l'istanza radicale della moltitudine per una cittadinanza globale. (...) La generalità della produzione biopolitica evidenzia una seconda istanza politica programmatica della moltitudine: un salario sociale e un reddito garantito per tutti. (...) La richiesta di un salario sociale estende a tutta la popolazione la domanda che tutta l'attività necessaria per la produzione del capitale sia riconosciuta con un'uguale ricompensa, in modo tale che il salario sociale divenga, effettivamente, reddito garantito. Una volta che la cittadinanza è stata estesa a tutti, possiamo definire questo reddito garantito un reddito di cittadinanza dovuto a ciascuno in quanto membro della società. (...) Il programma dell'operaio sociale è il progetto di una "costituzione". Nella matrice produttiva contemporanea, il potere costituente del lavoro si esprime nell'auto-valorizzazione dell'umano (l'uguale diritto di cittadinanza per tutti sull'intera sfera del mercato mondiale); nella cooperazione (il diritto di comunicare, di costruire linguaggi e di controllare le reti comunicative) e nel potere politico, inteso come costituzione di una società in cui le basi del potere siano definite dall'espressione dei bisogni di tuffi. Questa è l'organizzazione dell'operaio sociale e del lavoro immateriale, un'organizzazione di un potere politico produttivo e un'unificazione biopolitica gestita, organizzata e diretta dalla moltitudine - una democrazia assoluta in azione".
Quest'elenco di pii desideri nel quadro di una "eutopia" naif e romantica, dà l'impressione di una recita scolastica che riassume tutte le illusioni piccolo-borghesi e proletarie degli ultimi due secoli a proposito di un "capitalismo equo"; equivale ad un'auto-esecuzione intellettuale da parte dei due autori. Involontariamente, ci consegnano il piccolo segreto angosciante della bolla retorica dei loro discorsi e della loro pusillanimità universitaria: non c'è nient'altro dietro questa fraseologia trita e ritrita sul soggetto giuridico e civico borghese, di cui si cerca di prolungare per l'eternità l'esistenza leziosa ed angusta. E' questa regressione all'idillio giuridico del "giardino operaio" - di cui il giovane Marx si fece beffe ai suoi tempi - che, infatti, sta dietro questo tuonare da operetta e quest'architettura "trompe l'oeil" che sono le teorie del postmoderno. L'illusione del vecchio movimento operaio, che, per mezzo della forma giuridica, voleva aggirare la dura logica non negoziabile del modo di produzione e della realtà del sistema delle categorie capitalistiche, senza infrangerle né superarle, celebra la sua gioiosa resurrezione postmoderna. Questo equivale a fare di una bomba a mano cui è stata tolta la sicura, una teiera graziosamente panciuta e, in tale spirito, invitare ad una piacevole festa in giardino. E' questa fede nel diritto che tradisce il carattere piccolo-borghese del vecchio movimento operaio, nella misura in cui quest'ultimo non vedeva altra prospettiva se non vendere decentemente la sua forza-lavoro, come un'onesta prostituta che negozia le sue doti. Non c'era in gioco nient'altro, se non il "riconoscimento" e la "garanzia", in seno al sistema di schiavitù democratica e sotto forma di un "salario equo per un'equa giornata di lavoro". Allo stesso modo, Hardt/Negri vogliono, senza vergogna, che vengano oggi garantiti ai "lavoratori che creano il capitale" riconoscimento e salario, in virtù della loro sottomissione alla forma sociale feticizzata (spinta fino alla "auto-valorizzazione" e all'auto-riduzione della propria persona allo stato di "creatore del capitale" a livello mondiale). La risposta di Marx a questa paccottiglia sentimentale proletaria, non ha perso niente della sua virulenza: "Abbasso la schiavitù salariale!" Come prospettiva di emancipazione sociale e di superamento del modo di produzione capitalista, la ricerca di un riconoscimento e di una garanzia giuridica "costituzionale", non è mai stata altro che un'illusione, la variante piamente statalista dell'ideologia borghese del soggetto. Quest'illusione giuridica ha avuto come risultato reale quello di integrare giuridicamente e politicamente il lavoro salariato - lotta per il suffragio universale, libertà di coalizzarsi, o garanzia dello stato sociale - nella società capitalista e nella sovranità, in quanto aspetto politico della stessa società. Hardt/Negri non fanno altro che rigiocarsi, a un livello mondiale immaginario, e quando le condizioni sono del tutto assenti, questo movimento di integrazione oramai concluso, e da lungo tempo divenuto privo di soggetto. La sola ragione per cui hanno inventato questo fantasma della nuova sovranità mondiale dell'Impero, è quella di mettere in scena questo recupero, senza l'immaginazione del vecchio programma socialdemocratico e sul terreno completamente inappropriato del capitalismo globalmente in crisi. Ma così come non c'è sovranità mondiale - cosa che supporrebbe uno Stato mondiale e l'identità immediata, logicamente impossibile, fra l'universale e il particolare - non ci può essere naturalmente neppure "cittadinanza mondiale" giuridico-costituzionale, né "stato sociale mondiale"con "salario sociale garantito". Per non parlare della logica della crisi economica generata dalla terza rivoluzione industriale, la quale in ogni caso ha già distrutto il sistema del reddito, suonando così la campana a morte alla forma generale moderna del feticismo. Hardt/Negri si rifiutano, così come fa tutto il pensiero borghese contemporaneo, di vedere la realtà della decomposizione e dell'autodistruzione del sistema moderno di produzione di merci, ivi compreso il suo principio di sovranità. Hanno bisogno di rimpiazzare la nuova realtà negativa con il vecchio concetto positivo della forma giuridica borghese. A fronte di questa globalizzazione della crisi dell'economia d'impresa, Hardt/Negri affabulano candidamente a proposito di "uguale diritto alla cittadinanza per tutti nell'intera sfera del mercato mondiale". Hanno bisogno di fare questo per far tornare di contrabbando la categoria di "cittadinanza" (per sua natura, nazionale) nell'universalità negativa della globalizzazione, mentre essi stessi, inoltre, evitano di dire che il loro "Impero" fantasmatico non assomiglia per niente ad uno Stato. "I diritti di cittadinanza per tutti", ad un livello (quello del mercato mondiale) dove non c'è uno Stato, non si possono avere: si potrebbe meglio dimostrare come questo pensiero, nonostante la sua pseudo critica postmoderna della filosofia progressista illuminista, rimanga prigioniero delle strutture aporetiche di quest'ultima, dentro la quale si manifestano le contraddizioni reali del capitalismo. L'inconsistenza di questa "cittadinanza mondiale" giuridica, permette ad Hardt/Negri di fuggire - allo stesso modo in cui fuggono gli ideologhi ufficiali della democrazia - davanti alle contraddizioni flagranti del presente, e di rifugiarsi nelle illusioni borghesi del XVIII secolo, cercando di far scintillare, in un sistema mondiale che sta crollando, una nuova versione del programma socialdemocratico: una sorta di "socialdemocrazia mondiale". Ed è questo che viene spacciato per l'espressione intellettuale dell' "ala radicale" di un nuovo movimento anticapitalista! Hardt/Negri non oltrepassano mai l'orizzonte del marxismo tradizionale divenuto obsoleto. Finora, tutta la critica socialista aveva avuto l'abitudine, sul terreno mai contestato dell'ontologia capitalista, di afferrare le alternative offerte dal processo di sviluppo del sistema e di occuparne ogni volta il polo "progressista". Ma occupare il polo di un'alternativa immanente è diventato ormai impossibile, perché questo non significa nient'altro che la scelta fra due poli di una stessa barbarie. Entrambe le parti della polarità immanente dei "conflitti" hanno perduto qualsiasi prospettiva. Ovvero, la sinistra si deve mettere per la prima volta a livello di una critica categoriale delle forme fondamentali del capitalismo: il "lavoro astratto", il valore, la produzione di merci, l'economia d'impresa, lo Stato, la politica, la nazione ...; diventando essa stessa senza oggetto. E' solo nel contesto di una critica categoriale che la critica emancipatrice può raggiungere il livello transnazionale del capitalismo in crisi. Perché non c'è più progresso capitalista e, per tale ragione, non esiste più nemmeno un male minore: ci sono solo dei differenti mali, di uguale importanza ed ugualmente inaccettabili.
- Robert Kurz - da "Anselm Jappe e Robert Kurz - Les Habits neufs de l'Empire. Remarques sur Negri, Hardt, Rufin » (Editions Léo Scheer, Lignes, 2003)"
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