Boxe
di Marco Perisse
Edita negli Stati Uniti, "At the Fights" è un’antologia che merita attenzione: perché attraverso la raccolta di articoli e scritti sulla boxe curata dai giornalisti sportivi George Kimball e John Schulian per i tipi della Library of America (pp.517) si profila uno spaccato della storia degli Usa più vivido e immediato di un trattato di sociologia o di una storiografia. Arriva al bersaglio pungendo come un jab. Come quando Richard Wright, in High Tide in Harlem, usa solo sette righe per lampeggiare il rematch tra Joe Louis e il tedesco filonazista Max Schmeling vinto dal nero dell’Alabama per poi filmare in un rutilante piano sequenza il giubilo di Harlem alla vittoria del simbolo di una comunità esclusa e umiliata. E non era colpa degli afroamericani – scrive Wright – se quel riscatto lo affidavano al pugilato visto che «non avevano avuto dall’emancipazione altra possibilità di partecipare al processo della vita nazionale». Wright, iscrittosi al partito comunista nel ’33, quando feroci erano gli effetti della Grande Depressione e Hitler saliva al potere, fa pulsare quelle centinaia di migliaia di persone tracimate dal ghetto che celebravano non la vittoria del Negro (così per decenni si continuò a scrivere) sull’uomo bianco, ma contro il nazismo, gridando «Tutti gli ebrei sono contenti oggi» e issando striscioni «Abbasso Hitler e Mussolini».
At the Fights si impone come un’avvincente collezione di racconti ricchi di metafore, immagini, dettagli, aneddoti e memorie sorretta da due big della letteratura americana: Jack London – sul match tra Johnson e Jeffries, «la Grande speranza bianca»: è sua l’espressione mai tramontata prima dell’attuale egemonia dei pesi massimi cresciuti nell’ex-Urss – e Norman Mailer che con una miscela visionaria di presa diretta e immaginazione confezionò il memorabile racconto sulla sfida di Kinshasa tra Ali e Foreman. Mailer coniò l’espressione "narrativa non-fiction" per classificare il genere ibrido tra reportage e trasfigurazione creativa del suo The Fight che domina il corpo centrale dell’antologia.
Non si pensi però che la collana di perle che vi luccicano sia fatta di firme di giornalismo solo sportivo: sono sceneggiatori, autori, scrittori che dal ring hanno estratto un’evocazione della società americana trasposta anche in altri linguaggi – il cinema innanzitutto – o soggetti narrativi. Leonard Gardner che scriveva di boxe per “Esquire” – e che sarà per anni lo sceneggiatore del serial “NYPD Blue” - è l’autore di Fat City, la sublime novel che ispirò l’omonimo capolavoro di John Huston, felice di affidargli la sceneggiatura che ha dato vita al più bel film attorno alla boxe mai realizzato, quella "Città Amara" del sottotitolo italiano dei perdenti del sistema americano. E di perdenti alle corde di At the Fights ne pendono parecchi: il pugilato è il solo sport che abbia per statuto la distruzione fisica dell’avversario, dove il limite che non si deve varcare si spinge fino alla fatalità che separa il k.o. dalla morte come in "Then all the Joy Turned to Sorrow" di Ralph Wiley, uno degli scrittori afroamericani dell’ultima generazione, coautore assieme a Spike Lee; tramutandosi perciò in un’universale metafora della vita che consegna ai suoi cronisti una materia sanguinolenta e l’eroe solitario che vi si immola nel quadrato sacrificale. John Sullivan è il primo campione del popolo dei migranti che sbarca senza posa a Ellis Island. Gli italiani avranno l’imbattuto Rocky Marciano. Irlandesi, ebrei, italiani e afroamericani si picchiano tutti contro tutti fin quando sul ring non salgono gli ispanici ultimi arrivati sotto i lembi dell’american dream dove fanno a pugni proletari di tutto il mondo: gli anonimi Firpo e Brescia che denunciano origini italianissime nascoste sotto l’invariabile nomignolo di Wild Bull of the Pampas che accomuna i pugili venuti dall’Argentina, o il nigeriano Dick Tiger per cui il ring è un’utopia oweniana a confronto dei massacri che sventrano il suo paese nel ’68, avvisaglia degli orribili genocidi che avrebbero poi sfigurato l’Africa di Ali e Foreman. Lontanissimo dalla retorica celebrativa è il crudo ritratto di "Pity the Poor Giant", tracciato da Paul Gallico (da un suo racconto Hollywood produsse "L’avventura del Poseidon" con Gene Hackman ed Ernest Borgnine, un Oscar alla musica e diverse nomination, il primo film del catastrofismo in mare), di un patetico Primo Carnera carne da macello per il circo boxistico della malavita. Mai fu pugile moderno – crede Gallico - piuttosto «un cavaliere medievale che nel Trecento avrebbe vinto guerre gloriose a colpi di mazza protetto da elmo e armatura», mentre sul quadrato era gigante dalla mascella di cristallo: un’anfora di coccio che proveniva dal baraccone bonario dell’esibizione e che finì frantumata dalla crudeltà dello show scandito dal profitto. Da At the Fights trasuda un’altra delle verità che hanno fatto la boxe materia di business e di linguaggi espressivi: la natura ambivalente tra sport e spettacolo. Di Carnera ha scritto anche Budd Schulberg – qui grazie a "The King is Dead" – il solo al mondo ad aver vinto un Oscar - per la sceneggiatura del suo romanzo "Fronte del porto" - e a figurare nella Hall of Fame dei memorabili della boxe. L’ex-pugile protagonista del capolavoro di Elia Kazan con Marlon Brando è ritagliato sui personaggi che Schulberg incontrò nella vita reale prima come praticante e poi come scrittore. Ai suoi inizi il pugilato sportivo era ad uso della upper class cui apparteneva Schulberg, figlio di un produttore del cinema muto, e fra gli universitari, fino agli anni ’30: fu la Grande Depressione a diffonderlo nelle classi subalterne come un mestiere per sbarcare il lunario. A Londra nel ’28 conobbe il gigante friulano che negli anni bui gli ispirò il romanzo "The harder they fall" del ’47 sul quale era costruito il film "Il colosso d’argilla" (’58), l’ultima interpretazione di Humphrey Bogart.
La compilazione segue una diacronia temporale riuscendo, attraverso la catarsi del combattere, a mettere assieme senza distonie premi Pulitzer come Kempton e Remnick con le memorie dei boxeur Patterson e Gene Tunney che – avido di letteratura già da pugile – racconta il successo sul più terribile picchiatore della storia dei massimi, il meticcio irlandese-cherokee Jack Dempsey. Ecco un’altra benemerenza di At the Fights: ti consegna la ricetta per vivere l’emozione del match, inghiottirne l’adrenalina, patirne ansie e attese senza rischiare di esser messo a dormire da un gancio al mento. Ma non è la playstation: pulsano sentimenti, si annidano riflessioni sotto gli occhi gonfi, si consumano drammi, tracima umanità fuori del ring. Nella stagione della lotta per i diritti civili e del Black Power, George Plimpton, cofondatore di The Paris Review, ci porta al cospetto di Cassius Clay – ancora per poco con questo nome – politicamente «guidato» da un Malcom X che lo seguiva come un'ombra. Ali è onnipresente in At the Fights, come si deve al «più grande» e alla carriera intrecciata di titoli, renitenza, battaglie politiche e ring: leggendaria quella con Joe Frazier, appena scomparso il 7 novembre all’età di 67 anni, culminata nel pathos distruttivo di Manila, in antologia con "The Fight’s over, Joe" di William Nack.
Joyce Carol Oates ha scritto che la boxe è il grande teatro tragico dell’America, il medium con cui la nazione ha portato in scena ferite e valori, iniquità e mobilità sociali, business e gerarchie, altari e polvere come accadde a Mike Tyson, di cui la Oates racconta in chiave antropologica il significato della condanna per stupro che lo portò in galera (Rape and the Boxing Ring). Poi iniziò la deriva del pugile che aveva evocato l’incubo di Sonny Liston, il «nero cattivo». Quando Tyson affronta Holyfield, afroamericano middle class integrato e timorato di Dio, è lo scontro tra due mondi, rap contro gospel. Tyson, nella frustrazione di una nuova sconfitta, gli strappa via con un morso il lobo dell’orecchio e firma la fine della sua carriera (David Remnik, Kid Dynamite blows up). «Il declino di un pugile si vede prima dalle gambe, poi dagli amici», diceva Joey Giardello, alias Carmine Orlando Tilelli, boxeur italoamericano di Brooklyn, una delle mille comparse di At the Fights dietro le grandi figure, Robinson, Duran, Ray Sugar Leonard, De La Hoya, Marvin Hagler; i maestri Angelo Dundee e Cus D’Amato mistico e austero, l’uomo che per Patterson e Tyson – entrambi usciti dal ghetto di Stuyvesant a Brooklyn - fu padre prima che trainer; i promoter Bob Arum e Don King, diventati i padroni della scena dopo che la commissione antimafia del procuratore Robert Kennedy nel ’61 aveva allontanato dalla boxe Paolo «Frankie» Carbo e Frank «Brinky» Palermo – narrati da Barney Nagler in "James Norris and the Decline of Boxing".
Guardi la boxe e vedi l’America. Negli anni ’70, sulla scia di Ali, a bordo ring cominciano a mostrarsi gli afroamericani. È un sintomo di mobilità sociale. Caduta la barriera di genere, Katherine Dunn traccia in "The knockout" il profilo umanissimo di Lucia Rijker, la cattiva di "Million Dollar Baby" di Clint Eastwood. Pagina dopo pagina i pugni scorticano la vernice delle narrative «melting pot», «bianco/nero», «multirazziale», per denudare l’osso della contraddizione di classe che nessuno dice meglio dell’afroamericano Larry Holmes ex-campione del mondo dei massimi: «È duro essere neri. Siete mai stati neri? Io sì, un tempo: quando ero povero». E allo sguardo d’insieme, At the Fights risulta uno splendido mural alla Diego Rivera sulla boxe come la storia sociale giunta fino all’elezione di Obama alla Casa Bianca.
- Marco Perisse - da “Alias – il manifesto”, del 19 novembre 2011 -
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