mercoledì 14 maggio 2014

Segare il ramo su cui si è seduti

Lohoff

Il limite interno del capitalismo
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Intervista a Ernst Lohoff sulle cause e sulle conseguenze dell'attuale crisi economica

Nel loro ultimo libro, "La grande svalorizzazione". Perché la speculazione e il debito dello Stato non sono le cause della crisi", Ernst Lohoff e Norbert Trenkle nella loro analisi della crisi, dedicano particolare attenzione all'evoluzione dell'economia reale, differenziandosi dall'analisi di numerosi altri autori sullo stesso tema. Ralf Hutther, giornalista del quotidiano "Neues Deutschland" intervista Lohoff

Ralf Hutter: Voi affermate che il vostro libro va più in profondità di tutti gli altri livri che affrontano il tema della crisi economica. Per quale motivo?

Ernst Lohoff: Innanzitutto, perché noi studiamo la correlazione fra questa crisi e la scomparsa progressiva del lavoro. La più parte delle analisi si limita a dire che ci sono stati degli eccessi a livello di mercati finanziari, ma che l'economia reale nel frattempo è rimasta fondamentalmente sana. Invece, noi guardiamo molto da vicino l'evoluzione dell'economia reale. E ragioniamo essenzialmente sul piano delle categorie, usando la critica marxiana dell'economia politica come sistema di riferimento teorico.

E' esatto dire che la crisi attuale, essenzialmente, è cominciata nel 1857, come avete lasciato intendere, poco tempo fa, nel corso di una conferenza?

No. Anzi, fino ad oggi non si era mai vista l'accumulazione del capitale dissociarsi fino a tal punto dallo sfruttamento effettivo del lavoro. Quel che non è cambiato, invece, è il fatto che gli episodi di crisi aperta partono, oggi come ieri, dai mercati finanziari. Ed oggi come ieri, gli osservatori ne deducono che la causa del male risiede nella finanza. Marx ha già criticato questo rovesciamento della causa in effetto: anche se la crisi si presenta sotto forma di crisi finanziaria - svalutazione, fallimenti bancari, catene di credito che si rompono - Marx fa notare come sullo sfondo ci siano sempre gli sviluppi dell'economia reale (1). Il rigonfiamento di una sovrastruttura finanziaria, risulta invariabilmente da un impoverimento della valorizzazione nel settore dell'economia reale.

La "terza rivoluzione industriale" gioca un ruolo importante nella vostra analisi. Cosa intendente, e quando ha avuto luogo?

Questo fenomeno era già in atto negli anni 1980. E designa l'introduzione della microelettronica, cioè a dire l'informatizzazione della produzione, che continua tuttora. Quel rende tale trasformazione molto interessante per il nostro approccio teorico, è il fatto che essa segna una novità in rapporto ai precedenti sconvolgimenti della base produttiva nella storia del capitalismo. I principali progressi e le maggiori innovazioni tecnologiche precedenti, consistevano essenzialmente nell'arrivo di nuovi prodotti sul mercato, che avevano come conseguenza l'apertura di nuovi settori di sfruttamento del lavoro vivente. L'industria automobilistica - una delle industrie che ha portato al leggendario boom del dopoguerra - ne è il tipico esempio. Con la rivoluzione microelettronica, quel che è decisivo, è il fatto che la sua applicazione ha come effetto quello di rivoluzionare da subito i processi stessi in tutte le aree della produzione e, in quanto fattore di razionalizzazione, di eliminare il lavoro vivente in tutti i settori. Ecco il problema che si pone al capitalismo con questa forma di innovazione.

Perché?

Perché la merce di base del sistema capitalista, è il lavoro. Lo sfruttamento del lavoro vivente diviene obsoleto. Con quest'innovazione, il capitalismo sega il ramo sul quale sta seduto.

Ed è qui che interviene uno dei concetti centrali della vostra opera: il "capitale fittizio". Di che si tratta?

Il concetto di capitale fittizio deve permettere di spiegare come sia possibile che, per trent'anni, questo processo di base non si sia tradotto in delle crisi aperte. Perché c'è stato un boom nonostante la rivoluzione microelettronica? Ecco la spiegazione: il capitale ha scansato il problema trovando rifugio nella sovrastruttura finanziaria. E' caratteristico di tutta un'epoca. "Capitale fittizio" è un termine generico per designare azioni, prodotti derivati, titoli di credito, ecc.. Ne parla anche Marx, che ce lo presenta come una sorta di antitesi al "capitale in funzione" (2). Il capitale in funzione è il capitale che si moltiplica per mezzo dell'utilizzo della forza lavoro. Il capitale fittizio, invece, viene creato dallo scambio del denaro contro una promessa di pagamento. Questa forma di capitale rappresenta perciò l'anticipo di una ricchezza futura.

Nel vostro libro, parlate dei "limiti del programma di crescita keynesiana [capitolo III. 2.2]". Vedete, da qualche parte in Europa, un partito parlamentare che propone qualcosa di diverso dal keynesismo per risolvere la crisi?

Io non ne vedo, no. Tutti non parlano che di quello, o ci si confrontano. Solamente che questi signori e queste signore, su tale piano, sono un tantino in ritardo. Perché, a dire il vero, il keynesismo - il quale consiste nello stimolare la domanda attraverso l'espansione della spesa pubblica - non ha più corso fin dagli anni 1970. Ed ecco che invece si mette in moto di nuovo questo vecchio programma. Detto questo, quel che gli Stati attuano oggi non è affatto una politica keynesiana classica. Si tratta, piuttosto, di una sorta di "keynesismo di salvataggio" a beneficio dell'industria della finanza. Questo ritorno al keynesismo e ad un debito pubblico eccessivo è stato essenzialmente un tentativo di recuperare il disastro bancario. E solo in modo assai secondario, si è cercato di rilanciare la domanda. Essenzialmente si trattava di socializzare e nazionalizzare le prospettive dei futuri guadagni dell'economia privata, che erano scoppiati come dei palloncini.

Tu e il tuo co-autore Norbert Trenkle, ma anche il compianto Robert Kurz, che interveniva spesso sul nostro giornale, avere acquisito una certa notorietà in quanto membri del gruppo dei teorici, battezzato "Krisis", un gruppo cui viene rimproverato di attrarre su di noi la catastrofe, il crollo del sistema, a furia di parlare sempre dei limiti del capitalismo. Che senso date alla parola "limite"?

"Limiti", non significa affatto che ci sarà un grande shock e addio al capitalismo; ma significa che la capacità d'espansione del sistema capitalista e la sua capacità a raggiungere i propri obiettivi - vale a dire, trasformare il capitale in sempre più capitale -  ci ha portato, proprio attraverso questo movimento di espansione a lungo termini, a qualcosa di assurdo. Questo processo di allargamento, caratteristico dei due ultimi secoli, nel corso del quale sempre più lavoro vivente è stato risucchiato all'interno del sistema capitalistico fino al punto che sono state ammassate delle montagne sempre più alte di capitale, deve necessariamente arrivare ad un punto di svolta, a partire dal quale questo processo non sarà più possibile, e il sistema allora si contrarrà.

In che modo "si contrae"?

Voglio dire che la riproduzione sociale in parte si interrompe e che la stessa capacità di sopravvivere di questa società viene messa in causa. Questo può essere visto, già fin d'ora, nei paesi colpiti dalla crisi.

Ma nel loro caso, il concetto di "limite", secondo me, non è molto pertinente, nella misura in cui ciò che emerge non è altro che una nuova forma di capitalismo.

"Limite" rimanda alla logica del sistema e non significa affatto che stia per emergere una società migliore. Ci serviamo poco di un tale termine, proprio per questa ragione. Facciamo piuttosto appello al concetto marxiano di "limite interno (3)". Globalmente, a livello della società intera, c'è sempre meno capitale disponibile ed è per questo che la società deve fatalmente esaurirsi.

Oppure, allora, dovranno regnare guerra e terrore. Lo si è visto nel caso del nazionalsocialismo, il quale effettivamente non aveva toccato il sistema capitalista.

Sì, ma tuttavia il nazionalsocialismo non aveva come sfondo una crisi fondamentale così profonda come la nostra. Quali forme politiche rischiamo oggi di veder apparire, questo la nostra analisi non è ancora in grado di indicarlo.

(1) A proposito della critica di Marx nel 1857, e su tale questione in generale, si può leggere: Claus Peter Ortlieb, "FINE DEL GIOCO ovvero Perché la svalutazione generale del denaro è solo questione di tempo".

(2) "Fungierendes Kapital", altrimenti detto "il capitale in attività", quello che compra la forza lavoro, ecc..

(3) Sulla distinzione fra "Schranke" (limite) e "Grenze" (limite), vedere Hegel, "Scienza della Logica". Per Marx, che riprenderà per conto suo questa distinzione, lo "Schranke" costituisce in qualche modo un limite assoluto che il capitale non può superare, se non al prezzo della propria scomparsa, mentre i "Grenze" vengono posti solo per essere affrontati, e per permettere al capitale di riprodursi su una scala più ampia. Il primo concetto (Schranke) corrisponde alla crisi finale del capitalismo, quando invece il secondo (Grenze) rimanda alle crisi immanenti che costellano l'auto-movimento del capitale.

fonte: Critique Radical de la Valeur

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