Visualizzazione post con etichetta Internazionale Situazionista. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Internazionale Situazionista. Mostra tutti i post

sabato 2 marzo 2024

Nel Labirinto...

Bisogna dire che nel "labirinto dei marxismi", in Francia, quello di Louis Janover (nato nel 1937) - che deriva dal "Marx di Rubel" - è sempre stato uno dei più stimati, sul piano politico; e stiamo parlando di un'epoca nella quale Marx era stato oltraggiosamente precettato alla loro causa dai fanatici bolscevichi del mito d'Ottobre e di tutte le burocrazie totalitarie, tanto quelle siberiane che quelle tropicali.

Da parte sua invece, Janover, nel rifiutarsi di essere prevaricato, aveva deciso di partecipare alla critica: la critica di Trotsky e delle sue false teorie sullo Stato degenerato, o sulla rivoluzione tradita; la critica della "spaccatura" e delle contraddizioni del movimento surrealista del dopoguerra; la critica di Castoriadis e di Lefort che, insieme all'acqua sporca trotzkista, avevano buttato via anche Marx, vale a dire, confondendolo completamente con i marxisti (la distinzione tra il Marx esoterico e il Marx essoterico è presente tanto in Kurz quanto in Rubel); la critica di quello che era l'inconsistente terzomondismo di chi già si stava illudendo sul movimento nazionalista algerino, il quale si disponeva a contribuire, con altri mezzi, alla modernizzazione capitalistica in ritardo; la critica delle manchevolezze e delle insufficienze dell'Internazionale situazionista, a cui si era aggrappato nel 1967, e che egli aveva definito, senza mezzi termini,  come "bolscevismo di rimpiazzo"; la critica delle narrazioni fantasmatiche e immaginarie del maggio '68, che proseguono fino ad ancora oggi, e che come unico scopo hanno quello di "pubblicizzare" le soggettività degli odierni ribelli alla Bantigny;la critica delle grandi manovre, alla fine degli anni '70, degli "antitotalitari" e della rivista Esp, che ai suoi occhi era diventata il "salotto delle idee conformiste, a difesa di una democrazia solubile nel capitalismo di mercato", ecc.

In parte autobiografica, l'opera  di Janover - che coniuga la storia reale delle avanguardie con interi pezzi di quella critica sociale che, nella Francia della seconda metà del XX secolo, cercava di essere rivoluzionaria - riesce a essere  notevole grazie anche alla coerenza di quella che è la sua lucidità nel parlare di molti autori, così come di correnti e di capovolgimenti. Sotto il fuoco della sua lucida critica, viene trattata e viene compresa ogni cosa, e ciò che in questo libro scrive, rappresenta per noi una strada che possiamo fare nostra.

fonte: @Palim Psao

lunedì 29 maggio 2023

Alla ricerca del «punto archimedeo» !!

Quello che segue, come suggerito da @Palim Psao, dovrebbe essere il primo intervento (nella IV sezione di "Splendore e miseria dell'anti.autoritarismo. Topiche per una storia ideale e reale della 'Nuova Sinistra'", fatto da Robert Kurz, nel 1988, su un testo situazionista (nella fattispecie, "Della miseria nell'ambiente studentesco", di Mustapha Khayati.

(...) Trovo assolutamente interessanti gli approcci teorici dei situazionisti, i quali non erano molto conosciuti in Germania, ma che di certo hanno giocato un ruolo nella Francia della rivolta del Maggio. Nell'estate del 1968, venne pubblicata la traduzione tedesca di un opuscolo dei situazionisti che in precedenza - oltre che in Francia - era stato diffuso anche in Inghilterra, in Italia e negli Stati Uniti. I pensieri ivi espressi, erano stati assai poco discussi dal movimento tedesco, ma oggi, ai fini di una rivisitazione critica, ci appaiono ancora ben importanti. L'anti-autoritarismo dell'Internazionale Situazionista riproponeva assai poco di quelle che erano le idee di base del vecchio antiautoritarismo anarchico, ma piuttosto faceva un tentativo di mediarle con la critica di Marx riguardo il feticismo della merce, vale a dire, tentava una mediazione proprio con quella dimensione - tenuta nascosta dal marxismo tradizionale - che aveva a che fare con la critica, che Marx svolgeva, della relazione del capitale. Nei suoi ultimi scritti, ispirati dal confronto con la teoria di Marx, già Sartre aveva colto questo problema, mediandolo con la filosofia esistenziale, senza naturalmente riuscire ad andare oltre un primo tentativo (cfr. Sartre, Kritik der dialektischen Vernunft [Critica della ragione dialettica], Reinbek 1967).

I situazionisti intendevano - andando oltre il "marxista" Sartre - attaccare direttamente e superare, per sopprimerla, l'alienazione dell'individuo rispetto alla sua esistenza sociale; alienazione costituita dal feticismo della merce. Uno dei loro slogan pubblici recitava: «Abbasso il mondo dell'immagine e il feticismo della merce». Con «mondo dell'immagine», intendevano l'esistenza di un feticismo della merce, che allora agiva nella cultura capitalistica del consumo di massa dell'epoca fordista; una formulazione questa, che andava ben oltre lo slogan antiautoritario diffuso nella RFT, il quale parlava di «coazione al consumo»; per quanto oggi può sembrare un po' ingenuo che si possa tradurre, direttamente in forma di slogan, un giudizio essenzialmente teorico. Nell'opuscolo dei situazionisti si legge: «Il feticismo dei fatti maschera la categoria essenziale e i particolari fanno dimenticare la totalità. Tutto si dice di questa società, salvo quello che effettivamente essa é: società della merce e dello spettacolo.» (Das Elend der Studenten [Della miseria nell'ambiente studentesco] Berlino, giugno 1968, p. 5).

A partire da questa posizione, e in maniera fondamentale, la sinistra tradizionale potrebbe essere criticata in un senso assolutamente nuovo: «L'apparente lotta che le cosiddette organizzazioni rivoluzionarie stanno conducendo oggi contro il vecchio mondo rimane interamente impigliata in quel vecchio mondo e nelle sue mistificazioni.» (ivi., p. 20). Questa caratterizzazione, per quanto generica, riesce a cogliere l'essenza di tutto il vecchio movimento operaio, e del marxismo che si è fuso con esso; è ovvio che quello che qui si avverte è il tono di una critica quasi "ontologica", dovuta a un approccio a-storico, ancora aggrappato all'esistenzialismo, che, astrattamente, si limita a denunciare il vecchio movimento operaio in quanto "sbagliato", senza analizzare le condizioni delle sue realizzazioni reali. Tuttavia, rimane importante il fatto che i situazionisti non critichino l'immanenza del marxismo tradizionale, facendolo nella solita tradizionale maniera, meramente politico-rivoluzionaria, ma andando ben oltre, avanzino richieste dirette contro la socializzazione del denaro-merce:

«Non basta un voto astratto per il potere dei Consigli Operai; bisogna mostrarne il suo significato concreto: la soppressione della produzione di merci e, di conseguenza, la soppressione del proletariato. La logica della merce è la razionalità prima ed ultima delle società attuali; é essa che sta alla base dell'auto-regolazione totalitaria di queste società (...) Nel mondo della produzione delle merci, il lavoro non si realizza in funzione di un obiettivo determinato liberamente, ma é soggetto a direttive provenienti da forze esterne. E se le leggi economiche danno l'impressione di diventare leggi naturali di un tipo particolare, ciò è solo perché il loro potere si fonda unicamente sull'assenza di coscienza di coloro che vi partecipano. Il principio della produzione di merce è questa: la perdita dell'individuo nella creazione caotica e inconsapevole di un mondo che sfugge totalmente ai suoi produttori.» (ivi. p.23)

L'importanza di questo approccio solitario, svolto da una critica radicale della forma merce in generale, non può essere apprezzata abbastanza, allorché si considera che, a partire dagli anni Venti del XX secolo, la punta estrema del "radicalismo" di sinistra non è mai andata oltre un mero «voto astratto per il potere dei consigli operai»; e questo tanto nella Nuova Sinistra ormai invecchiata, quanto oggi (nella migliore delle ipotesi!) tra gli Autonomi.

Certo, inizialmente queste importanti affermazioni dei situazionisti rimasero astratte, se viste nel contesto del loro nuovo approccio, e a quanto pare, a partire da basi esistenzialiste, non potevano essere ulteriormente sviluppate in direzione di una realizzazione della critica di Marx all'economia politica, all'altezza dei tempi. Analogamente, i situazionisti non riuscirono neppure a superare il cortocircuito della falsa identità tra teoria e prassi immediata; che ha caratterizzato l'attivismo di tutti gli anti-autoritari in generale. Se c'è qualcosa di tutto quello che è il loro approccio, che è riuscito a rimanere impresso nella coscienza dimenticata della sinistra, potrebbe forse allora essere questa frase, che da allora in poi viene spesso citata: «Le rivoluzioni proletarie saranno una festa, o non saranno affatto». Tuttavia, l'associazione a un edonismo astratto e non mediato, che proviene da una simile idea fuori contesto, non rende giustizia ai situazionisti. La loro critica radicale delle merci e del denaro va ben oltre il consueto anti-autoritarismo e ancora oggi rimane quel «punto archimedeo», il solo, a partire dal quale, possono essere rimossi i sistemi sociali esistenti.

E tuttavia, proprio perché questo approccio ha anticipato un futuro del movimento rivoluzionario, che ancora oggi deve essere realizzato, esso non avrebbe potuto essere allora realmente accettato e compreso dalla coscienza del movimento esistente nel 1968; perfino i situazionisti stessi dovettero lamentarsi di come le loro idee fossero state «esaurientemente commentate ed esaurientemente fraintese da tutta la stampa francese di sinistra». A detta di molti, questo è valso anche per il movimento tedesco, il quale perfino risparmiato qualsiasi commento. Al suo interno, ha piuttosto prevalso invece un'interpretazione dell'anti-autoritarismo che rimaneva impigliata nella Teoria critica di Francoforte, con le sue implicazioni rassegnatamente riformiste, incapace di riuscire a tenere il passo con la radicalità dei tentativi "esistenzialisti" francesi di rinnovare la teoria di Marx. (...)

- Robert Kurz – da: "Splendore e miseria dell'anti.autoritarismo. Topiche per una storia ideale e reale della 'Nuova Sinistra'" (1988)

venerdì 28 aprile 2023

Teoria della Rivoluzione …

Jacques Ellul e la rivoluzione necessaria
- di José Ardillo -

Nel quadro di quella che rimane un'opera ampia e variegata, appartenente, a seconda dei casi, alla sociologia critica, alla teologia, alla storia del diritto o alla propaganda, senza però sottrarsi alla polemica intellettuale, all'inizio degli anni Settanta, Jacques Ellul si dedica a uno studio esaustivo del concetto di "rivoluzione", attraverso i due libri "Autopsia della rivoluzione" (1969) e "De la révolution aux révoltes" (1972). A questi due libri, nel 1982 se ne aggiunse un terzo, "Changer de révolution", che rispetto alle precedenti posizioni, che aveva sviluppato a partire dagli anni Cinquanta, costituisce un punto di riflessione e di rottura sulla questione della tecnologia. Negli anni Trenta, Ellul, insieme all'amico Bernard Charbonneau, aveva fatto parte del piccolo Movimento Personalista; una corrente intellettuale che all'epoca si opponeva tanto al fascismo e al comunismo quanto alla società liberale. Tuttavia, questi due autori si allontanarono ben presto dal movimento, in parte a causa di disaccordi con Emmanuel Mounier, che ne era il leader (*1). Durante la guerra, Ellul venne escluso dall'insegnamento dal governo Pétain, e per un certo periodo si dedicò all'agricoltura, partecipando alla Resistenza senza però prendere le armi. Dopo la guerra, tornò all'insegnamento e partecipò nuovamente a gruppi di riflessione insieme all'amico Charbonneau. Nel 1962, dopo aver inviato a Guy Debord il suo libro "Propaganda. Come si formano i comportamenti degli uomini", e aver constatato di essere molto apprezzato dai situazionisti, egli propose loro di collaborare. Tuttavia, questa proposta fu rifiutata dal gruppo a causa della sua fede cristiana. Qui, una parentesi è d'obbligo. Qualche anno fa, Jean-Claude Michéa ha accennato a quelli che definiva come i due grandi contributi alla critica sociale, che erano stati apportati negli anni Sessanta dai concetti di "società dello spettacolo" (Debord e i situazionisti) e di "società tecnicista" (Ellul) (*2). È stato un peccato che,  per un motivo così irrisorio, non abbia potuto aver luogo la collaborazione tra Ellul e i situazionisti, dal momento che l'unione di queste due correnti critiche avrebbe potuto produrre un'analisi profonda ed efficace dei processi sociali in atto in quel periodo (*3). I situazionisti svilupparono, molto abilmente, una teoria che denunciava il funzionamento ideologico della società dei consumi ma, riguardo quel che era la comprensione delle basi materiali e tecniche di questa società, non andarono oltre. È quest'ultimo punto a costituire il principale contributo di Ellul e Charbonneau. Questi due autori sono stati in grado di vedere le implicazioni potenzialmente rivoluzionarie di una critica del modo tecnico di organizzazione della società, e della comprensione delle conseguenze che ciò avrebbe nell'elaborazione di un discorso emancipatorio. Il settarismo dei situazionisti e, in generale, quella che era la loro fiducia nell'apparato industriale della società - al cui apparato, secondo loro, sarebbe bastato adattare la gestione dei consigli operai - rese impossibile che in Francia si formasse un fronte di pensiero critico, il quale avrebbe potuto superare sia le insidie dell'avanguardismo che quelle dell'operaismo, e che avrebbe portato in primo piano la questione ecologica. Non pretendiamo che questo sia stato l'unico ostacolo alla formazione di una tale coscienza critica, ma ci sembra sintomatico di un'epoca in cui l'estremismo di sinistra è rimasto cieco di fronte al problema ecologico. In questo senso, il contributo di Murray Bookchin, con tutte le carenze e le contraddizioni che abbiamo sottolineato, ha invece aperto una prospettiva necessaria a un'evoluzione del pensiero emancipatore. (*4) Tra il 1972 e il 1982, Ellul aveva partecipato, insieme a Charbonneau, alla formazione del Comitato per la difesa del litorale aquitano, il cui obiettivo era quello di bloccare il programma statale di sviluppo turistico di quella regione costiera. Nel frattempo, nel 1977, Ellul pubblicò Le Système technicien, forse la sua opera più compiuta riguardo al fenomeno tecnico, nella quale rispondeva a molte delle critiche mosse - risalenti alla pubblicazione del suo primo libro - sull'argomento e dove l'autore delineava la società informatizzata che sarebbe poi, trent'anni dopo, diventata la nostra. A ciò si aggiunga che Ellul e Charbonneau sono diventati dei punti di riferimento per l'ecologia radicale in Francia e, pur non essendo autori "popolari", il loro lavoro e i loro contributi trovano sempre più eco. Ora, ci si potrebbe chiedere il perché di un simile rinnovato interesse per Ellul. Senza dubbio, molti sentono il bisogno di attingere ai suoi scritti perché oggi sembra mancare una riflessione su un certo numero di questioni, rispetto alle quali tali testi forniscono argomenti rilevanti che permetto di portare avanti una critica della società odierna focalizzata sugli stili di vita, sulle credenze, sui pregiudizi e sull'ideologia progressista. Il lavoro di Ellul, insieme a quello di Charbonneau, di Ivan Illich, di Günther Anders, di Karl Polanyi, di Lewis Mumford, di Theodore Roszak, di Paul Goodman e altri potrebbe servire come fonte di ispirazione per un futuro movimento rivoluzionario volto alla trasformazione, che avrebbe come obiettivo primario lo sviluppo della libertà umana vista nel rispetto delle altre specie e della vita del pianeta nel suo complesso. Si può non essere d'accordo con tutto ciò che Ellul pensa, né con il modo in cui lo esprime; questo non impedisce di vedere che egli è grosso modo in grado di identificare, all'interno delle lotte politiche della modernità, le questioni principali e quelle secondarie. La questione della rivoluzione potrebbe sembrare obsoleta, eppure continua a ossessionare tutti coloro che sono impegnati nel dibattito politico, nell'analisi dei sistemi di dominio, nelle lotte concrete, nell'azione diretta, ecc. L'analisi di Ellul sul concetto di rivoluzione arriva proprio in un momento cruciale: la fine degli anni Settanta, una sequenza storica in cui il mondo occidentale viene a essere agitato da una sorta di effervescenza rivoluzionaria.

Autopsia della rivoluzione
In Autopsia della rivoluzione, pubblicato nel 1969 (*5), Ellul tenta di ripercorrere in modo esaustivo lo sviluppo del concetto di "rivoluzione", e lo fa individuando cinque momenti chiave, corrispondenti alle cinque sezioni del libro. Innanzitutto, vengono studiate le differenze tra le rivolte scoppiate prima della Rivoluzione francese: le cosiddette rivolte popolari, le rivolte contadine e le rivolte illuministe. Per lui, si tratta soprattutto di fenomeni sociali che si oppongono al corso della storia e che chiedono un ritorno alle origini, un nuovo inizio. Queste rivolte hanno obiettivi chiari e talvolta anche programmi, ma mai un vero e proprio progetto rivoluzionario. Non esiste una dottrina della rivoluzione in quanto tale. Nella seconda sezione, mostra che il mito della rivoluzione è nato con la Rivoluzione del 1789. Viene pertanto creata, a partire da quella, un'intera religione rivoluzionaria, una dottrina, un modello. La rivoluzione diventa universale e si trasforma in un modello che può essere applicato ad altri momenti storici. Un dettaglio importante: la rivoluzione si colloca all'interno della storia, e non in opposizione ad essa. In questo momento si forma una visione progressiva della storia, nella quale la rivoluzione appare come l'apoteosi della libertà. Ma il trionfo della Rivoluzione francese divenne anche sinonimo del trionfo dello Stato, dell'emergere di una vera e propria religione dello Stato. Mentre in precedenza le rivolte erano sempre state tutte dirette contro il potere, e in generale contro lo Stato, la rivoluzione, da quel momento in poi, perfezionò ed estese all'infinito i poteri dello Stato. Lo Stato divenne così inaspettatamente il garante della libertà. I rivoluzionari si affidarono alle classi popolari e ai gruppi radicali per stabilire, una volta giunti al potere, l'onnipotenza dello Stato razionale. Nella terza sezione, tutto va al suo posto: la razionalizzazione del processo rivoluzionario, e il suo ingresso nella storia come modello, lo trasformano rapidamente in un fenomeno che coincide con la direzione della storia, e che a sua volta è addirittura in grado di creare la storia. La teoria marxista si appropria del concetto di rivoluzione e lo trasforma in un meccanismo automatico della storia, in uno schema scientifico e oggettivo: sarebbe sufficiente prendere in considerazione la combinazione di alcuni fattori oggettivi di una determinata realtà storica, per determinare quando e in che modo essa sfocerà in un processo rivoluzionario. Il marxismo, tuttavia, non è riuscito a inquadrare chiaramente questi fattori. Ad esempio, perché la rivoluzione avvenne in Russia nel 1917, quando era un Paese debolmente industrializzato e con una struttura sociale che conservava le caratteristiche dell'Ancien Régime, e non nei Paesi avanzati, come l'Inghilterra o la Germania? Pertanto, a Lenin e ai suoi compagni parve necessario modificare un po' la teoria in modo che essa potesse continuare a essere uno strumento scientifico di analisi rivoluzionaria. Del resto, Ellul insiste anche sul fatto che la rivoluzione, nel senso della storia, non può che portare al rafforzamento dello Stato, come è avvenuto nel 1917. Allo stesso modo in cui, in Francia, lo Stato divenne il garante delle nuove libertà borghesi, nella Russia bolscevica lo Stato, il partito e il Comitato Centrale divennero i custodi della verità della rivoluzione proletaria, con i risultati che conosciamo. Ellul affronta la quarta sezione parlando della rivoluzione "banalizzata", vale a dire, della rivoluzione nella misura in cui essa è diventata un fenomeno di moda. Alla fine degli anni Sessanta, doveva essere tutto rivoluzionario. Per Ellul, la parola "rivoluzione" si trasforma così in un nuovo idolo delle masse, in un feticcio, e ci propone una succinta analisi di alcuni presunti fenomeni rivoluzionari: l'underground e il cinema di Godard, Castro e la teologia della liberazione, i movimenti sindacali e la contestazione giovanile. Arriva persino a ironizzare sul reale contenuto rivoluzionario del maggio '68. È alla fine, nella quinta parte del libro, che sviluppa il concetto di «rivoluzione necessaria», quello che appare come il contributo più importante del libro, e che a nostro avviso contiene gli elementi di analisi che possono essere utili per noi oggi. Ellul considera il fatto che ci si deve ribellare come se fosse un imperativo morale. Bisogna innanzitutto ribellarsi e opporsi, si deve negare la società attuale nel suo complesso. In sé, la ribellione sembra essere un fatto assurdo, dal momento che essa non ha alcuna garanzia di successo, ma è esattamente proprio questo che la trasforma in un atto di valore. E soprattutto - cosa più importante - la rivoluzione deve agire contro quelle che sono le strutture reali della società, cioè contro la Tecnologia e contro lo Stato, che formano i due pilastri del dominio. La rivoluzione non può basarsi sul concetto di giustizia distributiva, né sul desiderio di porre fine alla povertà, o alla fame o alla guerra - cose queste che, pur essendo tutte questioni serie, non possono essere ricondotte alla radice del problema. Il problema principale risiede nella struttura stessa della società in cui viviamo, nella sua struttura tecnica, nel suo modo di produrre e di consumare, e nell'ideologia dello spettacolo che la protegge. Fare una rivoluzione contro questa società, richiede allora uno sforzo notevole, in quanto combattere anche l'ideologia che essa promuove, e che domina i nostri pensieri: l'edonismo consumistico, l'autonomia intesa nel suo senso individualistico, la ricerca della felicità e del benessere a ogni costo. Ellul sottolinea giustamente come la società moderna sia caratterizzata dalla tendenza a integrarsi sempre più, trasformandosi così in una società globale: grazie alle sue tecniche di informazione, pubblicità, indottrinamento di massa, occupa sempre più spazio nella vita quotidiana e nella coscienza degli individui. Egli sottolinea inoltre che questa è una società in cui la crescita economica costituisca l'unico dogma. Per lui, i rivoluzionari del maggio '68 hanno attaccato soprattutto quelli che erano solo i miraggi del potere, che erano già stati screditati dalla modernità stessa: le strutture reali del sistema sono rimaste intatte. Il tipo di rivolta che Ellul auspica, richiede di conseguenza una messa in discussione radicale dei modi di vita delle società sviluppate. E su questo punto non si fa illusioni, perché sa che in molti casi ciò significherà rinunciare a molte delle cose che i rivoluzionari del suo tempo consideravano invece come delle conquiste inalienabili. Propone pertanto un rafforzamento della coscienza individuale, un'ascesi indispensabile per superare la disciplina imposta alle masse. La rivoluzione necessaria esige la creazione di nuovi valori, poiché tutta la morale è stata spazzata via dall'avanzata della società tecnologica. Secondo Ellul, è indispensabile rompere con la maggior parte di tutto il passato rivoluzionario che abbiamo ereditato, in modo da poter così tornare a un nuovo punto di partenza, dal quale dovrà ricominciare tutto. Nell'affermare che una vera rivoluzione dovrebbe essere diretta contro le strutture centralizzate dello Stato e contro la tecnicizzazione, non nasconde la vera portata della sfida. Tre anni dopo, in "De la révolution aux révoltes" (*6), Ellul completa e approfondisce il suo studio dei fenomeni rivoluzionari del suo tempo, arrivando a delle conclusioni terribilmente cupe, sul futuro e sulla possibilità di una vera rivoluzione:
«Nella misura in cui la rivoluzione necessaria va contro le comodità che sono state concesse all'uomo dal progresso tecnico, nella misura in cui mette in discussione il soddisfacimento di alcuni bisogni che sembrano essere divenuti vitali a causa dell'abitudine e della persuasione, nella misura in cui rifiuta la marcia fin troppo ovvia verso un simile paradiso, essa non ha alcuna possibilità. Il mito del progresso ha ucciso lo spirito rivoluzionario, e la possibilità di prendere coscienza dell'attuale necessità rivoluzionaria. Il peso da sollevare è troppo grande. L'uomo tranquillo, così sicuro che la tecnologia gli fornirà tutto ciò che può desiderare, non vede alcun motivo per cui dovrebbe fare uno sforzo diverso da quello di facilitare questo sviluppo tecnico, e non vede perché mai dovrebbe imbarcarsi in un'avventura incerta e dubbiosa.»
Nel 1982, Ellul pubblica il suo ultimo libro sull'argomento, "Changer de révolution", il cui sottotitolo è "L'inéluctable prolétariat". Questo libro sorprenderà i lettori che hanno familiarità con l'opera di Ellul, poiché il pensatore afferma di vedere la possibilità di utilizzare l'informatizzazione e l'automazione per poter costruire un socialismo decentralizzato e libertario. È vero che le condizioni sociali che questo ri-orientamento sembra richiedere sono fuori dalla portata della nostra società, a meno che non ci sia una trasformazione radicale di tutte le sue strutture. A posteriori, questa proposta rimane un elemento incongruo nella sua opera. Nel suo ultimo libro, " Le Bluff technologique" (1988), è egli stesso ad assumersi il compito di smentire queste fugaci speranze nella tecnologia. Tuttavia, "Changer de révolution" contiene alcune riflessioni e analisi molto interessanti sul futuro del socialismo nella società industriale.

Una valutazione
Un'opera così ampia e ambiziosa, come lo è quella di Ellul, non può non cadere in alcuni eccessi, ingiustizie e contraddizioni. Il suo obiettivo era quello di individuare i principali ostacoli alla libertà umana nella società moderna, e a volte sembra essere caduto in semplificazioni eccessive, o in giudizi troppo categorici. In genere, i suoi ideali cristiani non interferiscono con le opere di sociologia critica che abbiamo citato, ma a volte, come in "Changer de révolution", la loro presenza non aiuta certo a chiarire alcuni punti della sua argomentazione. Nelle ultime pagine di "Autopsie de la révolution", Ellul dà una valutazione elogiativa dell'ultima corrente che egli considerava autenticamente rivoluzionaria: il situazionismo. Tuttavia, questo elogio appare problematico. Era logico che simpatizzasse con l'analisi radicale e intransigente dei situazionisti sull'ideologia alienante della società dei consumi, sul conformismo intellettuale e accademico, sullo stalinismo, sulle pseudo-avanguardie artistiche, ecc. Tutto questo era già presente nelle sue opere degli anni Cinquanta e Sessanta, e in tal senso possiamo riferirci in particolare a "Propagandes" (1962),oppure a "L’Illusion politique" (1965) (*7). In tal senso, "Autopsie de la révolution" contiene tutti gli elementi necessari per criticare molti aspetti della filosofia rivoluzionaria progressista presente nel situazionismo. Infatti, una parte molto importante della teoria situazionista si basava sulla filosofia marxista della storia, e quindi ne condivideva molti errori. Tutta la retorica situazionista sui consigli operai, sulla consapevolezza dell'alienazione da parte della classe operaia, sul «movimento reale che abolisce le condizioni esistenti», ecc. oggi non può che farci ridere. I situazionisti hanno messo le rivolte del maggio-giugno 1968 su un piedistallo perché volevano vederci una nuova epoca di protesta sociale, che può essere accettata solo se si relativizza il quadro e la portata di una simile protesta. Se Ellul mostra un certo disprezzo per la protesta del maggio '68 - nonostante la stima che può avere per la critica situazionista - è proprio perché ne riconosce il carattere banale e limitato. Pur facendo attenzione a non cadere in una visione revisionista della storia contemporanea, è chiaro che le analisi di Ellul, pur facendo parte di una produzione intellettuale scritta, registrata e pubblicata, erano più vicine alla verità di tutte le teorie radicali o sovversive che si potevano sentire all'epoca. La rivoluzione della vita quotidiana annunciata dai situazionisti non teneva conto dei limiti materiali ed ecologici, all'interno dei quali si deve stabilire qualsiasi forma di vita collettiva. E il tempo ha generalmente dato ragione ad autori come Ellul, Illich, Charbonneau e Mumford. Dal maggio '68, la società ha continuato la sua tecnicizzazione, il suo sviluppo produttivista, e si spinge sempre più verso l'alienazione industriale e la distruzione della natura. Ellul riteneva che la rivoluzione - nel senso in cui la intendono molti cosiddetti rivoluzionari - fosse diventata impossibile nell'epoca attuale. Ma questo però non significa che tutte le vie della trasformazione sociale siano bloccate. Si tratta solo di prendere in considerazione ciò che non si può più fare, ciò che non ha più senso, ciò che non è più essenziale (e che non lo era nemmeno quarant'anni fa!). Ellul ha ragione quando dice che la nostra società moderna è una società di integrazione, molto più della società di esclusione che alcuni esponenti della sinistra amano dipingere. Non è nemmeno una società di repressione, ma è soprattutto di adattamento e di consenso. Infine, non è una società della precarietà, ma dell'abbondanza. Certo, nelle società industriali avanzate esistono fenomeni di esclusione, repressione e precarietà obbligatoria; ma non sono problemi centrali, perché derivano da un sistema in cui la Tecnica, lo Stato e la crescita giocano un ruolo fondamentale, e il cui dominio sociale è imposto con strategie molto diverse. In generale, si può dire che l'intera società vive in accordo con il suo sistema politico, e quando molte persone si lamentano e parlano di precarietà ed esclusione, stanno solo chiedendo che il sistema corregga i suoi errori, che migliori, che vada a beneficio di tutti, che tutti possano avere un reddito decente, una buona rete stradale, una buona assistenza sanitaria, spazi verdi per camminare e fare jogging, ecc. La sinistra, sia parlamentare che extraparlamentare, si batte costantemente e intensamente affinché questo sistema diventi meno precario ed escludente, e affinché tutti abbiano accesso all'istruzione e a contratti di lavoro dignitosi. Da un certo punto di vista, ciò è comprensibile, poiché tutti cercano un minimo di sicurezza materiale per poter vivere. Ma d'altra parte è assurdo, perché questa cosiddetta sicurezza materiale non è più pensata in alcun altro modo se non nella forma in cui viene offerta dalla società industriale statalista; vale a dire, senza tener conto del fatto che questa società nasconde e falsifica gli effetti catastrofici che essa produce sulla libertà umana e sulla natura. È per questo motivo, che la consapevolezza critica dei mali della società odierna oggi non può che essere un fenomeno del tutto astratto: deve necessariamente partire da una messa in discussione della totalità di ciò che ci circonda, compito estremamente difficile. Bisogna ammettere che oggi solo dei gruppi molto piccoli osano intraprendere azioni che mettono in discussione la totalità del sistema. I collettivi impegnati nella lotta contro le grandi infrastrutture (treni ad alta velocità, aeroporti, linee ad alta tensione, ecc.), i gruppi che cercano di mettere in pratica l'autogestione contadina o che cercano di vivere in comunità autonome, quelli che si impegnano in reti di mutuo soccorso, scambi di servizi o di conoscenze... dove tutte queste esperienze possono servire come punti di appoggio per un futuro movimento che, man mano che si rafforza, sarà poi in grado di costituire una vera e propria opposizione. Cercando di recuperare il tempo perduto... Perché resta il fatto che se dei libri come "Autopsia della rivoluzione" fossero stati presi in considerazione quarant'anni fa, i movimenti radicali di allora avrebbero evitato molti falsi dibattiti, e avrebbero guadagnato tempo prezioso nella lotta contro il sistema che stiamo affrontando.

- José Ardillo - da "La liberté dans un monde fragile", L’Échappée, 2018 -

NOTE:

(*1) -  Un'antologia dei loro testi: Bernard Charbonneau et Jacques Ellul, "Nous sommes des révolutionnaires malgré nous. Textes pionniers de l’écologie politique", Paris, Seuil, coll. « Anthropocène », 2014.

(*2) -  Jean-Claude Michéa, La Double Pensée. Retour sur la question libérale, Paris, Flammarion, 2008.

(*3) - Tuttavia, il trattamento che i situazionisti riservarono a Murray Bookchin, dimostra che difficilmente potevano aprirsi a qualcosa che non coincidesse con le loro posizioni estremiste (a tal proposito si legga: Miguel Amorós, "Les Situationnistes et l’anarchie", trad. Henri Mora, Villasavary, La Roue, 2012).

(*4) - Infatti, al di là degli aspetti formali, era difficile per i situazionisti riconoscere la serietà delle questioni poste da Ellul e Charbonneau fin dagli anni Trenta (sulla natura, la tecnica, le illusioni politiche, il progressismo, ecc.) A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, la teoria situazionista era entrata in una fase di agitazione politica assai più intensa, e le sue idee assomigliavano a un misto di Marx visto da Lukacs, di consiliarismo e di blanquismo insurrezionale, il tutto condito da un pizzico di ribellione surrealista. Nel 1968, il situazionismo aveva più a che fare con Marcuse - al di là di tutto ciò che poteva separarli - che con Ellul e Charbonneau. E il paradosso è che è proprio a causa della sua vicinanza alle idee di Marcuse, che un testo come "Post Scarcity Anarchism" di Bookchin rimanga più vicino al situazionismo di quanto lo siano i libri che Ellul e Charbonneau pubblicavano all'epoca. Opere come "Le Jardin de Babylone" o "Le Système et le chaos" di Charbonneau, o anche il libro di Ellul qui discusso, sono estranee all'ondata di entusiasmo rivoluzionario progressista che agitava, in modi diversi, ma con innegabili analogie, le menti di Debord, Vaneigem, Marcuse o Bookchin.

(*5) -  Ripubblicato nel 2008 dalle edizioni de la Table ronde.

(*6) -  Ripubblicato nel 2011 dalle edizioni de la Table ronde.

(*7) - Il primo è stato ripubblicato nel 1990 da Economica, e il secondo nel 2004 dalle edizioni de la Table ronde.


FONTE: Les Amis de Bartleby

giovedì 13 aprile 2023

Una specie di storia simultanea, sincronizzata…

Sui situazionisti
- Intervista inedita di Kristin Ross a Henri Lefebvre -

La «critica della vita quotidiana» di Henri Lefebvre, ha ispirato i situazionisti nell'ambito di un rapporto di un'amicizia durato «circa tra i quattro e i cinque anni». In questa intervista inedita - realizzata nel 1983 da Kristin Ross - Henri Lefebvre racconta come si è instaurato e costruito questo rapporto, e intorno a quali tematiche: nuovi modi di camminare la città e di percorrerla, la necessità di trasformare lo spazio urbano, e la Comune di Parigi intesa come festa. Tra Amsterdam, Strasburgo, Navarrenx e Parigi - dal gruppo CoBrA al maggio del '68 - Lefebvre ripercorre quello che è stato il grande affresco del momento «situ», parlando delle sue audacie e dei suoi settarismi. In bilico tra il romanzo di una rottura e una testimonianza benevola, Lefebvre ripensa e ricorda tutta una successione di innovazioni teoriche, artistiche e militanti che hanno stravolto la teoria e la pratica rivoluzionaria. L'intervista ha avuto luogo nel 1983, all'Università della California, a Santa Cruz, quando Lefebvre, invitato da Frederic Jameson, era venuto in visita.


Henri Lefebvre: Ha intenzione di farmi delle domande sui situazionisti? Perché avrei qualcosa di cui vorrei parlare..

Kristin Ross : Bene, proceda pure.

H.L. :  I situazionisti... è un argomento delicato, che mi sta molto a cuore. Per certi versi mi tocca molto da vicino, dal momento che li conoscevo molto bene. Siamo stati amici. L'amicizia è durata dal 1957 al 1961 o al '62, vale a dire per circa cinque anni. Poi abbiamo avuto un litigio che si è aggravato sempre più, e questo è avvenuto in delle condizioni che io stesso non capisco bene, ma che potrei descrivere. In conclusione, si può dire che sia stata una storia d'amore finita male, molto male. Ci sono storie d'amore che iniziano bene e finiscono male. E questa era una di quelle. Ricordo un'intera notte passata a parlare a casa di Guy Debord - che viveva con Michele Bernstein in una specie di studio vicino a dove vivevo io, in rue Saint Martin, in una stanza buia, senza luci, un vero e proprio... - un luogo miserabile, ma allo stesso tempo un luogo dove c'era molta forza e luminosità nel pensiero e nella ricerca.

K.R. : Erano senza soldi?

H.L. : No.

K.R.: Come vivevano?

H.L.: Nessuno riusciva a capire come facessero ad andare avanti. Un giorno uno dei miei amici (uno a cui avevo presentato Debord) gli chiese: «Di cosa vivete?». E Guy Debord rispose molto orgogliosamente: «Vivo del mio ingegno» [Risate]. In realtà, credo che avesse qualche soldo; credo che la sua famiglia non fosse povera. I suoi genitori vivevano sulla Costa Azzurra. In realtà, non credo di conoscere la risposta. Inoltre Michele Bernstein aveva trovato un modo intelligente per fare soldi, o almeno un po' di soldi. O almeno è questo quello che mi ha detto. Mi disse che faceva oroscopi per i cavalli, e che venivano pubblicati sulle riviste di corse. La cosa era estremamente divertente. Determinava quale fosse la data di nascita dei cavalli e ne faceva l'oroscopo, per prevedere l'esito della corsa. E credo che ci fossero riviste di corse che la pubblicavano, e la pagavano.

K.R.:  Quindi lo slogan situazionista "Mai lavorare" non si applicava alle donne?

H.R. : Non proprio, perché questo non era lavoro; cercavano di vivere senza lavorare. In ogni caso penso fosse divertente farlo. No, in realtà non lavoravano. Ma ora vorrei andare più indietro nel tempo, perché tutto quanto è cominciato molto prima. Risale al gruppo CoBrA. È stato quello l'intermediario: un gruppo creato insieme a degli architetti, in particolare Constant [Nieuwenhuys], l'architetto di Amsterdam, poi c'era Asger Jorn, un pittore, e altri, tutta gente di Bruxelles. Era un gruppo nordico, un gruppo che aveva delle ambizioni piuttosto notevoli, che voleva rinnovare l'arte, rinnovare l'azione dell'arte sulla vita. È stato un gruppo estremamente interessante e attivo, formatosi intorno agli anni Cinquanta, e uno dei libri che ha ispirato il gruppo CoBrA è stato il mio libro "Critique de la vie quotidienne". È per questo motivo che ben presto ho avuto un rapporto con loro. A far da cardine è stato Constant Nieuwenhuys, l'architetto utopista, che ben presto elaborò il progetto di una città utopica, "Nuova Babilonia" - una vera e propria provocazione, e questo perché in tutti i circoli protestanti "Babilonia" raffigura il male. Nuova Babilonia avrebbe dovuto essere una raffigurazione del bene, ma aveva preso il nome della città maledetta e l'aveva trasformata nella città del futuro. Il progetto di Nuova Babilonia risale al 1950. Nel 1953, Constant Nieuwenhuys pubblicò e scrisse un testo dal titolo "Pour une architecture de situation". Si tratta di un testo fondamentale, il quale parte dall'idea che sarà l'architettura che permetterà di trasformare la realtà quotidiana. È in questo testo che si viene a collocare la relazione con la Critica della vita quotidiana: creare un'architettura che permetta, da sé sola, di creare delle nuove situazioni. E questo testo diventa il punto di partenza di tutta un'intera ricerca che si sviluppa negli anni successivi. Soprattutto perché Constant era molto popolare ed era uno dei leader del movimento Provo.

K.R.: Quindi esisteva un rapporto diretto tra Constant e i "Provos" ?

H.L.: Oh certo. Lui veniva riconosciuto da loro come il loro pensatore, il loro leader, come l'uomo che voleva trasformare la vita e la città. Il loro rapporto era diretto, lui era il loro animatore. Bisogna anche capire qual era il contesto dell'epoca. Da un punto di vista politico, il 1956 fu un anno molto importante in quanto rappresentava la fine dello stalinismo. C'era stata la famosa relazione di Kruscev al XX Congresso del Partito Comunista dell'URSS, in cui demolisce la figura di Stalin - una relazione che venne discussa e contestata. In Francia, si sostenne che la relazione fosse un falso, un falso inventato dai servizi segreti americani. In realtà, si trattava assolutamente solo del lavoro di colui che era succeduto a Stalin, dopo alcuni alti e bassi, e che demolì completamente la figura del suo predecessore. Bisogna quindi capire la contestualizzazione, no? Negli anni del dopoguerra, la figura di Stalin è dominante. E il movimento comunista rimane il movimento rivoluzionario. Poi, a partire dal 1956-1957, il movimento rivoluzionario si sposta al di fuori dei partiti organizzati, in particolare con Fidel Castro. Il situazionismo non è affatto isolato. È nato in Olanda, oltre che a Parigi, ed è stato coinvolto in  molti eventi su scala mondiale, in particolare si lega al fatto che Fidel Castro abbia ottenuto una vittoria rivoluzionaria rimanendo completamente al di fuori del movimento comunista e del movimento operaio. E io stesso, nel 1957, bisogna che ricordi qui i miei interventi: ho pubblicato una sorta di manifesto, "Le Romantisme révolutionnaire", il quale è rimasto legato alla vicenda di Castro e a tutti i movimenti che percepivo, un po' ovunque, al di fuori dei partiti. È stato quello il momento in cui ho lasciato il Partito Comunista. In quel momento, ritengo che accadranno molte cose al di fuori dei partiti e dei movimenti organizzati, così come al di fuori dei sindacati. Si assisterà a una spontaneità al di fuori delle organizzazioni e delle istituzioni. È questo il significato del testo del 1957. È stato quel testo a mettermi in contatto con i situazionisti, poiché gli attribuivano una certa importanza, anche se ciò significava attaccarlo. Avevano delle critiche da fare, naturalmente. Non esisteva un accordo completo con loro, ma c'era la base per una certa intesa, la quale è durata per circa quattro o cinque anni, considerato che continuavamo a incontrarci.

KR : Perciò, allora stava già lavorando al secondo volume della Critica della vita quotidiana?

HL : Sì, ci stavo già lavorando. E avevo anche un progetto per un volume sulla Comune di Parigi che era in dirittura di arrivo.

KR : Quindi stava facendo tutto questo contemporaneamente? Entrambi i libri?

HL : Era così, avveniva tutto nello stesso momento, come una grande confusione. È il momento in cui lascio il Partito. Ma ci sono molte altre storie. Era il periodo della guerra d'Algeria. Allora non ero all'università, ma facevo il direttore di ricerca al CNRS e fui quasi licenziato per aver firmato dei manifesti a favore degli algerini, e per aver dato un sostegno - debole, certo, ma pur sempre un certo sostegno - agli algerini. Quindi tutto ciò è stato un momento di effervescenza e di sperimentazione. Perfino in Francia, il sostegno agli algerini non passava attraverso il partito o i sindacati, ma avveniva al di fuori delle istituzioni. Il Partito Comunista - il Partito Socialista aveva combattuto la guerra d'Algeria - ha dato agli algerini solo un sostegno a parole e in apparenza. In realtà, il partito li ha aiutati pochissimo, e perciò gli algerini erano molto arrabbiati con il partito. Di fatto, però, prima l'opposizione all'interno del partito, e poi il movimento al di fuori del partito, hanno sostenuto gli algerini. Inoltre, c'erano dei movimenti d'avanguardia un po' estremisti, come il movimento di Isidore Isou, i Lettristi. Anche loro avevano delle grandi ambizioni su scala internazionale. Ma nella pratica era solo uno scherzo. Questo si traduceva nel fatto che Isidore Isou veniva a declamare delle poesie dadaiste fatte di sillabe e di parole interrotte e prive di significato. Le declamava nei caffè. Si guadagnava da vivere in quel modo. Ricordo molto bene di averlo incontrato diverse volte a Parigi. Ma tutto ciò aveva evidenziato un certo fermento nella vita profonda della Francia, che poi nel 1958 si rifletterà nel ritorno di De Gaulle al potere: una crisi della democrazia dovuta alla guerra d'Algeria, una fibrillazione al di fuori dei partiti. Il Partito Comunista dimostrò profonda incapacità, non capendo lo stalinismo, non facendo nulla per gli algerini e opponendosi solo assai male al ritorno al potere del generale De Gaulle, limitandosi a definire De Gaulle un fascista; e il che non era esatto. De Gaulle voleva risolvere la questione algerina. Era l'unico che poteva risolverla. Ce ne siamo resi conto solo più tardi. Ma in tutto questo c'è stata una grande agitazione, paragonabile a quella del 1936.

KR : La teoria situazionista della costruzione delle situazioni ha un rapporto abbastanza diretto con la sua teoria, che è la teoria dei momenti della vita?

HL : Sì, era quella la base del nostro accordo. Me lo avevano detto, nel corso di discussioni che erano durate tutta la notte: «I "momenti", ciò che tu chiami "i momenti",  corrisponde a  ciò che noi chiamiamo situazioni, ma noi andiamo più lontano di quanto faccia tu. Tu, tu accetti come fossero "momenti" tutto ciò che si è presentato nel corso della storia: l'amore, la poesia, il pensiero. Noi, noi vogliamo creare dei momenti nuovi.»

KR : Ma, precisamente, in che modo realizzare questo passaggio che porti un «momento» a diventare una costruzione cosciente?

HL : L'idea del momento nuovo, l'idea di una nuova situazione si trova già presente nel testo di Constant del 1953, "Pour une architecture de situation". Dal momento che l'architettura della situazione, è un'architettura utopica che richiede una nuova società. Ma l'idea di Constant, era quella secondo cui la società dovesse essere trasformata, non per continuare a vivere in modo noioso, ma per creare qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire, delle situazioni.

KR : Dov'è che si situa la «città» in questa costruzione di nuove situazioni?

HL : Beh, le «nuove situazioni», questo non è mai stato chiaro. Quando ne parlavamo, io facevo sempre come esempio  - però loro non lo volevano il mio esempio - quello dell'amore. Dicevo loro: l'antichità conosceva la passione amorosa, ma non conosceva l'amore individuale, l'amore per un essere individuale. Era una specie di passione cosmica, fisica, fisiologica, quella che descrivevano i poeti antichi. Ma l'amore per un essere individuale è apparso nel Medioevo, in seguito a una miscela di tradizioni musulmane, islamiche e cristiane, soprattutto nel Sud della Francia. L'amore individuale, è già l'amore di Dante per Beatrice. Lo spiega lui stesso in un testo intitolato La Vita nova. È l'amore di Tristano e Yseult [Isotta], l'amore tragico, l'amore cortese nel Sud della Francia. Nel mio paese vicino dalle parti di Navarrenx - forse ve l'ho mostrato - c'è la torre del principe Gaston Phébus, che è stato il primo principe-trovatore a cantare canzoni d'amore individuali: «Quando io canto, non canto per me stesso, ma canto per il mio amico che mi sta vicino», questo è già amore individuale. Ed è un amore più tragico di quello antico, il quale non è mai altro che un melodramma. Ecco, c'è questa tragedia dell'amore individuale che attraversa i secoli, attraverso la Principessa di Cleves, attraverso i romanzi, attraverso le opere teatrali, attraverso la Berenice di Racine, attraverso quella che è tutta una letteratura.

KR : Per i situazionisti, l'idea di costruire delle situazioni dev'essere in rapporto all'urbanistica...

HL : Sì, su questo si era d'accordo. Io ho detto loro: l'amore individuale ha creato delle nuove situazioni. Ma questo non è successo da un giorno all'altro. È dovuto maturare. Pertanto la loro idea era che forse - e questo è anche legato alle esperienze di Constant - potevamo creare nuove situazioni nella città, per esempio mettendo in relazione tra loro delle parti, dei quartieri della città che erano separati dallo spazio. È stato questo il primo significato di «deriva». Ed è stato fatto ad Amsterdam quando la tecnica del walkie-talkie era agli albori. C'era una squadra che andava in una parte della città e poteva comunicare con delle persone che si trovavano in un'altra parte.

KR : E anche i situazionisti si sono serviti di questa tecnica?

HL : Sì, quanto meno la usava Constant. Ma sono state anche fatte delle esperienze situazioniste con l'urbanistica unitaria. L'urbanistica unitaria consisteva nel far comunicare parti della città. Hanno fatto degli esperimenti, ma io non c'ero. Ne ho sentito parlare molto. Hanno usato tutti i tipi di mezzi di comunicazione. Ma il walkie-talkie, non so in quale anno sia stato usato. So che è stato usato negli esperimenti ad Amsterdam e a Strasburgo.

KR: E lei conosceva le persone a Strasburgo in quel periodo?

HL : Erano dei miei studenti. Ma anche i rapporti con loro sono stati estremamente difficili. Quando nel 1958 o 1959 arrivai a Strasburgo, si era nel bel mezzo della guerra d'Algeria, ed ero a Strasburgo da circa tre settimane o un mese, quando vidi arrivare un gruppo di ragazzi. Si trattava dei futuri situazionisti di Strasburgo - o forse erano già un po' situazionisti. Mi dissero: «Signore, abbiamo bisogno del suo aiuto. Faremo un maquis nei Vosgi. Poi creeremo una base militare nei Vosgi, e da lì ci espanderemo in tutto il Paese. Faremo deragliare i treni.» Io, dissi loro: «Ma sapete che l'esercito e la gendarmeria... l'appoggio della popolazione, voi non siete sicuri... State andando incontro a un disastro». Allora, ecco che hanno cominciato a insultarmi, a dire che ero un traditore. E poi, dopo un po', dopo qualche settimana, tornarono a trovarmi di nuovo e mi dissero: «Sì, lei ha ragione: non è possibile. Non è possibile creare un maquis nei Vosgi, nella foresta; faremo un altro progetto». Così, da allora mi trovai bene con loro, e fu in seguito che quello stesso gruppo divenne situazionista. Ma come lei sa, i rapporti con loro erano molto difficili [...] perché si arrabbiavano per niente. Mustafa Khayati, l'autore del famoso pamphlet "De la misère en milieu étudiant", faceva parte di questo gruppo.

KR : Qual è stato l'effetto di quel pamphlet, e della sua distribuzione? Quante copie ne vennero stampate?

HL : Quell'opuscolo ebbe molto successo. Ma all'inizio, venne diffuso solo a Strasburgo, poi Guy Debord e gli altri lo distribuirono a Parigi. Tra gli studenti, è stato diffuso in decine di migliaia di copie, non c'è dubbio. È un ottimo opuscolo, molto ben fatto. L'autore, Mustafa Khayati, è tunisino. C'erano diversi tunisini in quel gruppo, molti stranieri di cui in seguito si è parlato meno. E anche Mustafa Khayati non si è esposto molto, perché avrebbe potuto avere dei problemi a causa della sua nazionalità. Non aveva la doppia nazionalità, era rimasto tunisino. A Parigi, a partire dal 1957-1958, li ho incontrati spesso e ho incontrato Constant ad Amsterdam. Fu in quel periodo che si sviluppò il movimento dei Provos, che divenne molto potente ad Amsterdam, e partiva dall'idea di mantenere intatta la vita urbana, di evitare che la città venisse sventrata dalle autostrade, e che fosse aperta alle automobili. Volevano che la città fosse preservata e trasformata, invece di essere consegnata alle automobili; volevano anche le droghe; sembravano affidarsi alle droghe per creare nuove situazioni. L'immaginazione è stata seminata grazie all'LSD. Era l'LSD a quel tempo. [...]

KR : Torniamo all'urbanistica unitaria. Si tratta di un modo di collegare i quartieri che non è omogeneo: ogni quartiere mantiene distinti i suoi aspetti, giusto?

HL : Sì, è vero, non si sono fusi, sono già un insieme, ma questo insieme è ancora frammentato, per così dire, e lo è solamente in uno stato virtuale. L'idea è quella di rendere la città un insieme, ma un insieme in movimento, un insieme in trasformazione. I disegni dei progetti di New Babylon sono stati esposti al Museo Nazionale dell'Aia. Erano nello studio di Constant, che si trovava in un edificio di mattoni semidemolito. La cosa più impressionante che ricordo dello studio di Constant, è che in un'enorme gabbia di vetro c'era un'iguana.

KR : Allora, ecco una situazione nuova! Il progetto di Constant ipotizzava la fine del lavoro?

HL : Sì, in un certo senso era questo il punto di partenza: la completa meccanizzazione, la completa automazione del lavoro produttivo, e da qui la disponibilità. Lui è stato uno di quelli che hanno posto il problema.

KR : E anche i situazionisti?

HL : Sì.

KR : Quindi, lei situa il suo lavoro in questo filone? Che andrebbe da Lafargue a...?

HL : In questo filone, sì, ma non da Lafargue. Credo che il punto di partenza sia stato un romanzo di fantascienza intitolato "City. Anni senza fine". È un romanzo americano di Clifford Simak in cui tutto il lavoro viene svolto dai robot. Gli esseri umani non riescono a far fronte a questa situazione. Muoiono perché sono troppo abituati a lavorare. Muoiono e i cani approfittano della situazione. I robot lavorano per loro, li nutrono e così via. E i cani sono perfettamente felici, e questo perché non sono stati danneggiati dall'abitudine al lavoro. Ricordo come questo romanzo abbia svolto un ruolo nelle discussioni. Non so quando il libro sia stato pubblicato in America. Ho l'impressione che sia stato uno dei primi romanzi di fantascienza ad avere un certo impatto e un'influenza, ma forse è stato solo in quegli anni. In ogni caso, era questo il punto di partenza di Constant: una società liberata dal lavoro. E questo era sulla falsariga del "Diritto all'ozio" di Lafargue, ma rinnovato dalla prospettiva dell'automazione che aveva inizio proprio in quegli anni. Pertanto: intense discussioni e un cambiamento totale del movimento rivoluzionario, il quale, allora intorno al 1956-57, abbandonava le organizzazioni classiche. Del resto, ad acquistare influenza è la voce dei piccoli gruppi.

KR : È l'esistenza stessa di una microsocietà come quella dei situazionisti che costituisce una nuova situazione?

HL : In una certa qual misura. Ma non bisogna nemmeno esagerare. Quanti erano? Lei sa che l'Internazionale situazionista non ha mai avuto più di dieci membri. C'erano due o tre belgi, due o tre olandesi, come Constant. Ma vennero ben presto estromessi. Guy Debord seguiva l'esempio di André Breton. Si veniva esplusi. Io non ho mai fatto parte del gruppo. Avrei potuto farlo, ma mi sono guardato bene dal farlo, conoscendo il carattere e le maniere di Guy Debord, e il modo in cui imitava André Breton, escludendo tutti in modo da mantenere così un piccolo nucleo duro. Alla fine, i membri dell'Internazionale Situazionista restarono Guy Debord, Raoul Vaneigem e Michelle Bernstein. Esistevano dei corpuscoli più o meno esterni, di cui io facevo parte, e poi c'erano persone come Asger Jorn. Asger Jorn venne espulso, il povero Constant fu espulso. Con quale pretesto? Lui non costruiva. Era un architetto. Ma venne espulso perché un tizio che aveva lavorato con lui costruì una chiesa in Germania: Constant fu espulso perché aveva esercitato un'influenza disastrosa. È una stupidaggine. In realtà lo faceva per mantenersi puro, come un cristallo. Guy Debord seguì l'esempio di Breton: estremamente dogmatico. E tanto più, per un dogmatismo senza dogmi, perché la teoria delle situazioni, della creazione della situazione, scomparve ben presto per lasciare spazio solo alla critica del mondo esistente, ed è lì che del resto ci siamo ritrovati, con la Critica della vita quotidiana.

KR : In che modo il sodalizio con i situazionisti ha cambiato o ispirato il suo pensiero sulla città?

HL : Tutto questo era solo un corollario, in parallelo. La mia riflessione sulla città parte da fonti del tutto diverse. Gli è che, nel mio Paese, ho studiato a lungo le questioni agricole. Un bel giorno sono arrivati dei bulldozer e hanno raso al suolo gli alberi: avevano trovato il petrolio. Nel mio Paese ci sono pozzi di petrolio, e a Lacq-Mourenx c'era una delle più grandi fabbriche d'Europa. Così ho visto costruire una nuova città dove prima c'erano campi di mais e boschi di querce. Mi sono gradualmente lasciato alle spalle le questioni agricole, dicendomi: «Ecco qualcosa di nuovo, e che si espanderà». Ma non mi aspettavo la brutale urbanizzazione che ne è seguita. Questa città nuova, che si chiama Lacq-Mourenx. In seguito, dato che mi occupavo di ricerca scientifica, ho mandato lì delle persone per seguire lo sviluppo. Volevo anche scrivere un libro, che non ho mai scritto - come è successo con molti progetti - intitolato "Naissance d'une cité". È stato quello il punto di partenza. Ma contemporaneamente ho incontrato Guy Debord, ho conosciuto Constant, e sapevo che i Provos di Amsterdam erano interessati alla questione della città. Sono andato ad Amsterdam non so quante volte per vedere cosa stava succedendo, per vedere che forma stava prendendo il movimento, se stava prendendo una forma politica. Allora ci furono dei Provos eletti nel consiglio comunale di Amsterdam. Hanno vinto, non ricordo in quale anno; una grande vittoria alle elezioni comunali. Poi, dopo, la situazione si è degradata, è crollata. Quindi è successo tutto insieme. E poi, dal 1960 in poi, c'è stato il grande movimento di urbanizzazione. Inoltre, del resto, gli altri abbandonarono la teoria dell'urbanistica unitaria, perché la teoria dell'urbanistica unitaria aveva senso solo per una città storica come Amsterdam, che doveva essere rinnovata e trasformata. Ma a partire dal momento in cui la città storica si è frammentata in periferie, in delle "banlieues", come è accaduto a Parigi, e in ogni sorta di luogo, come sta ancora accadendo a San Francisco, e come è accaduto a Los Angeles, la teoria dell'urbanistica unitaria ha perso ogni significato. E  ricordo poi le discussioni molto accese con Guy Debord. Lui diceva: «L'urbanistica diventa un'ideologia». Il che era vero, dal momento in cui, ufficialmente, esisteva una dottrina dell'urbanistica. Il codice urbanistico in Francia risale al 1961, credo. Questo non significava che il problema della città fosse stato risolto. Al contrario. E poi, credo che perfino la «deriva», gli esperimenti di «deriva», siano stati gradualmente abbandonati. Non so bene come sia successo, perché è stato allora che ho litigato con loro.

Oltre tutto questo, c'è il contesto politico e sociale della Francia. Ci sono anche le relazioni personali. Ci sono molte storie estremamente complicate. La storia più complicata è nata dal fatto che sono venuti a casa mia, nei Pirenei. E abbiamo fatto un viaggio meraviglioso. Siamo partiti da Parigi in auto. Ci siamo fermati alle grotte di Lascaux, le quali poi sono state chiuse poco dopo. Siamo stati colpiti dal problema delle grotte di Lascaux. Sono sepolte  profondamente. C'è persino un pozzo quasi inaccessibile. E tutto questo è pieno di dipinti. Come sono stati realizzati questi dipinti e a chi erano destinati, visto che non erano destinati a essere visti? Si tratta dell'idea che la pittura sia nata come critica. Tanto più che tutte le chiese della regione hanno delle cripte, soprattutto a Saint Savin. Siamo andati a Saint Savin, dove ci sono affreschi sulla volta della chiesa, e c'è una cripta piena di dipinti. Una cripta alle cui profondità è molto difficile accedere, dal momento che è piuttosto buia. Perché ci sono dei dipinti che non devono essere visti? E come sono stati realizzati? Questo è stato oggetto di accese discussioni. Alla fine, siamo usciti. A Sarlat abbiamo fatto un banchetto favoloso. Non riuscivo a guidare. Ho preso una multa. Ci hanno quasi arrestati perché ho attraversato un villaggio a 120 km/h. E poi loro sono rimasti diversi giorni a casa mia. Abbiamo redatto un testo programmatico. E questo testo, alla fine della settimana che hanno trascorso da me, se lo sono tenuto loro. Io gli avevo detto: «Scrivetevelo voi»; era scritto a mano. E siccome poi mi sono servito di quel testo, ecco che allora mi hanno accusato di plagio. In realtà, si è trattato di vera e propria malafede. Il testo, che poi sarebbe servito per scrivere il libro sulla Comune, era un'opera comune, tanto loro quanto mia.
E l'idea della Comune vista come una festa, 'avevo lanciata io nei dibattiti, dopo aver consultato un'opera inedita sulla Comune che si trova alla Fondazione Feltrinelli di Milano. Si tratta di un giornale sulla Comune. La persona che ha scritto quel diario, dopo era stata deportata, e qualche anno dopo, intorno al 1880, aveva riscritto il suo diario di deportazione; e lì racconta come il 18 marzo 1871 i soldati di Thiers siano venuti a prendere i cannoni che si trovavano a Montmartre e sulle alture di Belleville; racconta come le donne che si stavano alzando molto presto, sentendo il rumore, siano uscite tutte in strada e abbiano circondato i soldati. Le donne avevano circondato i soldati, scherzando, ridendo, accogliendoli fraternamente, per poi andarono a prendere un po' di caffè per portarglielo, lo offrirono ai soldati, e questi soldati, che erano venuti a prendere i cannoni, vennero portati via dal popolo. Prima le donne, poi gli uomini, uscirono tutti, in un clima di festa popolare. Nel diario, alla fine raccontava che non c'erano stati degli eroi che erano arrivati con le armi contro i soldati venuti a prendere i cannoni. Non è successo niente del genere. Era stata la gente che festeggiava, che usciva in strada. Il tempo era molto bello, era il primo giorno di primavera, il 18 marzo, una giornata piena di sole: le donne uscirono presto di casa, e trovarono i soldati, li abbracciarono, erano in déshabillé, eccetera, i soldati vennero sommersi, e si immersero in essa, nella festa popolare parigina. In seguito, i teorici degli eroi della Comune mi avrebbero detto: «È una testimonianza, non si può scrivere una storia su una testimonianza». E anche i miei giovani amici situazionisti scrissero cose del genere. Io non li avevo letti. Io, ho fatto il mio lavoro. Era avvenuto che ci fossero state delle idee lanciate nel corso di conversazioni comuni, scritte poi in testi comuni. E poi io ho fatto il mio lavoro sulla Comune. Ho passato settimane e mesi a lavorare a Milano, all'Istituto Feltrinelli. Ho trovato della documentazione inedita, l'ho usata, e questo è stato un mio diritto. Non mi interessano queste accuse di plagio. Ci sono sempre stati questo genere di problemi. Ma poi non so cosa abbiano scritto nella loro recensione, non mi sono nemmeno preso la briga di leggerla. So solo che sono stato trascinato nel fango. [...] La cosa mi è rimasta sullo stomaco. Non molto, solo un po'. Lavoravamo insieme a Navarrenx, giorno e notte, andavamo a letto verso le nove del mattino. Era la loro abitudine: andavano a letto la mattina e dormivano tutto il giorno. Non mangiavamo nulla. È stato terribile. Ho sofferto durante quella settimana, non abbiamo mangiato, abbiamo solo bevuto. Abbiamo bevuto almeno cento bottiglie. In pochi giorni. Eravamo in cinque. Si lavorava e si beveva. È stato come una sorta i compendio dottrinale di tutto quello che pensavamo, ivi comprese anche le situazioni, le trasformazioni della vita; non era un testo molto lungo, ma solo di poche pagine, scritto a mano. Lo portarono via, lo batterono a macchina e poi, beh, hanno pensato di avere dei diritti su delle idee.

KR : Ma torniamo all'idea della «deriva». Pensa che abbia portato qualcosa di nuovo alla teoria dello spazio, o alla teoria della città? Visto il modo in cui lei evidenzia i giochi sperimentali, ritiene che la deriva si più produttiva rispetto a una visione puramente teorica della città?

HL : Sì. Per me si è trattato di una pratica, piuttosto che di una teoria. Ha evidenziato la crescente frammentazione della città. Il fatto che essa abbia costituito una potente entità organica nel corso della sua storia. Ma da qualche tempo questa unità organica si sta disfacendo, si sta frammentando; e di questo ne abbiamo preso esempio, se pensa che stavamo già discutendo della piazza laddove sarebbe sorto il nuovo Teatro dell'Opera di Parigi. Place de la Bastille è la fine di una Parigi storica, e oltre a questo è la Parigi dell'industrializzazione, della prima industrializzazione del XIX secolo. La Place des Vosges è ancora una Parigi aristocratica del XVII secolo, già molto estesa, ma che rimane comunque una Parigi storica aristocratica. Quando si arriva alla Bastiglia, inizia un'altra Parigi: è la Parigi della borghesia, la Parigi dell'espansione industriale e commerciale. Mentre la borghesia commerciale e industriale si impadroniva del Marais, il centro di Parigi si estendeva al di là della Bastiglia, in rue de la Roquette, in rue du Faubourg Saint-Antoine, ecc. E la città si stava già frammentando, senza che la sua unità organica venisse tuttavia completamente spezzata. In seguito sarebbe stata delimitata dalle periferie e dai sobborghi. Ma a quel tempo non era ancora delimitata, e pensiamo che la pratica della deriva riveli l'idea della città vista nella sua frammentazione. Ma è stato soprattutto ad Amsterdam che questo è stato sperimentato. L'esperimento consisteva nel rendere simultanei degli aspetti della città, dei frammenti della città che noi vediamo solo successivamente, e anche molto successivamente, tanto che ci sono persone che non hanno mai visto certi quartieri della città.

KR : Mentre la deriva deve assumere la forma di una narrazione...

HL : È così. Si parte a caso e si racconta quello che si vede.

KR : Ma non si può raccontare simultaneamente.

HL : Oh beh, lo puoi fare se hai un walkie-talkie; l'obiettivo era quello di ottenere una certa simultaneità. Era questo l'obiettivo. Non sempre è stato raggiunto.

KR : Quindi una specie di storia sincronizzata?

HL : Sì, esattamente, una storia sincronizzata. È stato questo il senso dell'urbanistica unitaria: unificare tutto ciò che ha una certa unità, ma un'unità perduta, un'unità in perdizione.

KR : Ed è stato nel mentre che conosceva i situazionisti di allora, che l'idea dell'urbanistica unitaria ha perso la sua forza?

HL : È avvenuto nel momento in cui l'urbanizzazione è diventata davvero massiccia, cioè dal 1960 in poi, quando Parigi si è completamente disgregata. È noto che a Parigi c'erano pochissime periferie. Certo, sì c'erano delle periferie, ma erano quasi niente. E poi, tutt'a un tratto, all'improvviso, si è riempita, si è ricoperta di periferie, molto lontane, quasi delle nuove città, Sarcelles. Sarcelles è diventata un mito. Si parlava di una specie di malattia chiamata «sarcellite». E poi l'atteggiamento di Guy Debord cambia, e passa dall'urbanesimo unitario alla tesi dell'ideologia urbanistica. Almeno nella mia memoria.

KR : In cosa consiste esattamente questa transizione?

HL : Più che di una transizione, si è trattato dell'abbandono di una posizione per adottarne una completamente opposta. Nel passare dall'idea di elaborare un'urbanistica alla tesi secondo cui tutta l'urbanistica è un'ideologia, ha luogo un cambiamento assai profondo. Infatti, affermando che tutta l'urbanistica è un'ideologia, un'ideologia borghese, si abbandonava quello che era il problema della città. Mentre invece io ho continuato a interessarmene, pensando che la rottura della città storica rappresentasse invece proprio un'occasione per riuscire a trovare una teoria più ampia della città, e non un pretesto per abbandonare l'intero problema. Inoltre, a essere stata abbandonata a poco a poco, è stata proprio la teoria delle situazioni. Ma era la rivista stessa che era divenuta un organo politico. Cominciarono a insultare tutti. La cosa aveva a che fare con l'atteggiamento di Debord, e forse anche con le sue difficoltà: ha litigato con Michelle Bernstein. Non lo so, ma c'è stata ogni sorta di circostanza che forse lo ha reso più polemico, o più amaro, o più violento. Ma vorrei anche dire che in seguito il loro ruolo negli eventi del 1968 è stato enormemente amplificato. Il movimento del 1968 non è nato dai situazionisti. A Nanterre c'era un piccolo, minuscolo gruppo chiamato "Les enragés". Beh, anche loro insultavano tutti, ma sono stati loro che hanno creato il movimento. Il movimento del 22 marzo è stato fatto da degli studenti, tra cui Daniel Cohn-Bendit, i quali non erano situazionisti. Si trattava di un gruppo attivo, il quale si costituiva man mano che gli eventi si svolgevano, senza alcun programma, senza un progetto; si trattava di un gruppo informale, al quale i situazionisti si sono uniti, ma non erano loro a costituirlo. È stato fatto al di fuori di loro. Al movimento del 22 marzo, i situazionisti hanno aderito, ma lo hanno fatto anche gli altri, come i trotzkisti, tutti a poco a poco si sono uniti. La cosa veniva chiamata «saltare sul carro». Pertanto, è possibile che i situazionisti di Nanterre si siano uniti al gruppo fin dall'inizio, ma non sono stati loro gli animatori, i creatori. Nei fatti, il movimento è nato nel grande anfiteatro dove tenevo un corso che era sovraffollato, e dove alcuni studenti che conoscevo bene mi chiesero: «Possiamo nominare dei delegati, in modo che vadano a protestare presso l'amministrazione, contro la lista nera?» Ho risposto loro: «Certo». E fu proprio sul podio su cui mi trovavo che si svolse l'elezione dei delegati degli studenti, che andarono dall'amministrazione per protestare contro la faccenda della lista nera: l'amministrazione stava cercando di stilare una lista nera degli studenti più indisciplinati, al fine di sanzionarli. L'elezione di questi delegati coinvolse ogni genere di persone in tutti i gruppi attivi: trotskisti e situazionisti.

Il gruppo del 22 marzo si è formato a seguito di queste trattative a partire da questa contestazione dell'amministrazione. Poi hanno occupato i locali dell'amministrazione e il cortile. L'elemento stimolante fu la vicenda della «lista nera», e fui io a inventare questa «lista nera». Per essere precisi, l'amministrazione aveva telefonato al mio dipartimento chiedendo i nomi degli studenti più agitati. Io ignorai la richiesta e mi rifiutai. Ed ebbi diverse occasioni per dire al rettore: «Non sono un poliziotto.» La «lista nera« non è mai esistita, nero su bianco. Ma stavano cercando di farla. Così ho detto agli studenti: «Sapete? Vogliono fare una lista nera, e la stanno facendo, difendetevi!» Ho agitato un po' quella che era una miscela esplosiva. Abbiamo le nostre piccole perversioni. Questa storia la racconto sempre. Venerdì sera, il 13 maggio, siamo in Place Denfert-Rochereau. Intorno al leone di Belfort ci sono 70-80.000 studenti (forse di più) e si discute su cosa fare. Ci si divide per linee politiche. I maoisti dicono che bisogna andare nelle Banlieue, che il corteo si deve dirigere verso Ivry, e così via. Gli anarchici e i situs dicono invece che dobbiamo andare a fare casino nei quartieri borghesi. I trotskisti dicono che si deve andare nel quartiere proletario di Parigi, verso l'Undicesimo. Ma sono gli studenti di Nanterre a dire che bisogna andare nel quartiere latino. All'improvviso, tutt'a un tratto c'è stata gente che ha cominciato a gridare: «Nella prigione della Santé, ci sono dei nostri amici, dobbiamo andare a salutarli!» E così, poi, da Place Denfert-Rochereau tutto il corteo si è mosso verso la prigione della Santé. Abbiamo ripreso il Boulevard Aragon. Siamo passati davanti alla prigione della Santé. Si sono viste mani alle inferriate delle finestre. Abbiamo gridato molte frasi. E da lì ci siamo diretti in fretta verso il Quartiere Latino. Una scommessa. O comunque, non proprio una coincidenza. Probabilmente c'era un movimento, una volontà di tornare nel Quartiere Latino, di non allontanarsi dal centro della vita studentesca. Lì c'era, ad aspettarci, la Televisione. Verso mezzanotte la televisione se ne andò via. C'era ancora Europa 1, quindi la Radio. E verso le 3 del mattino avvenne che un ragazzo della radio passò il microfono a Daniel Cohn-Bendit, il quale ebbe un'ispirazione geniale, disse semplicemente: «lo sciopero generale, lo sciopero generale, lo sciopero generale». E fu allora che c'è stata l'azione. È stato questo che ha sorpreso la polizia, che è stata colta di sorpresa. Gli studenti stavano scatenando un putiferio, c'erano degli scontri, qualche ferito, candelotti lacrimogeni, venivano divelte le pietre della pavimentazione stradale, si innalzavano barricate, esplodevano bombe. I figli della borghesia si stavano divertendo. Essì, ma lo sciopero generale, eh, lo sciopero generale... su quello non c'era da scherzarci…

- Henri Lefebvre e Kristin Ross  - Pubblicato su Période il 6 novembre 2014 -

venerdì 7 aprile 2023

Per sputare quell’acqua santa …

14 TESI SULLA COMUNE
- di GUY DEBORD, ATTILA KOTÀNYI e RAOUL VANEIGEM -

1 - «Bisogna riprendere lo studio del movimento operaio classico in maniera disingannata, e soprattutto disincantata, per quel che attiene ai suoi vari tipi di eredi politici o pseudo-teorici, dal momento che essi non posseggono nient'altro che l’eredità del proprio fallimento. Gli apparenti successi di questo movimento costituiscono tanto i suoi fallimenti fondamentali (il riformismo, o l’insediamento al potere di una burocrazia statale) quanto le sue disfatte (la Comune, o la rivolta delle Asturie), le quali oggi rappresentano, sia per noi che per l'avvenire, le sue vittorie.» (Nota Editoriale di I.S. n°7)

2 - La Comune è stata la più grande festa del 19° secolo. Alla sua base si trova la sensazione, da parte degli insorti, di essere diventati, in quella primavera del 1871, padroni della loro propria storia, non tanto sul piano dell'affermazione politica “governativa”, quanto piuttosto su quello della vita quotidiana (tutti giocano con le armi: vale a dire, giocare con il potere). Ed è anche in tal senso che bisogna comprendere Marx: «la più importante misura sociale della Comune è stata quella di avere attuato la sua propria esistenza».

3 - La frase di Engels: «Osservate la Comune di Parigi: ecco la dittatura del proletariato» va presa sul serio, e deve essere vista in quanto base per mostrare cosa non é dittatura del proletariato,cosa non è come regime politico (ossia, tutte le varie forme di dittatura sul proletariato, che sono state fatte in suo nome).

4 - Tutti quanto hanno saputo rivolgere le giuste critiche alle incoerenze della Comune, all'evidente mancanza di un apparato. Ma visto che oggi noi siamo convinti che il problema degli apparati politici sia assai più complesso di quanto non pretendano gli eredi abusivi dell’apparato di tipo bolscevico, é tempo che la Comune venga considerata, non solo come se si trattasse di un superato primitivismo rivoluzionario di cui sono stati evidenziati tutti gli errori, ma piuttosto come un’esperienza positiva di cui non si é ancora rivelata e compresa tutta la verità.

5 - La Comune non ha avuto dei capi. E tutto ciò, in un periodo storico nel quale l’idea che fosse necessario averne dominava assolutamente il movimento operaio. È quindi innanzitutto a partire da questo che si spiegano, sia le sue sconfitte che i suoi successi paradossali. I dirigenti ufficiali della Comune erano degli incompetenti (se si prende, come parametro, il livello di Marx, o di Lenin, e persino quello di Blanqui). Ma d'altra parte, in compenso, gli atti “irresponsabili” messi in atto in quel particolare momento sono da rivendicare proprio per la loro continuità con il movimento rivoluzionario del nostro tempo (sebbene le circostanze li abbiano quasi tutti ridotti solo al loro aspetto distruttivo: l’esempio più noto é  quello dell’insorto che rivolto al borghese sospetto, il quale assicura di non essersi mai occupato di politica, rivendica: «E’ proprio per questo che ti uccido»).

6 - L’importanza vitale dell’armamento generale del popolo si manifesta - nella pratica e nella teoria - dell'intero movimento. In generale, non si è mai rinunciato - abdicando a favore di gruppi specializzati - al diritto di imporre con la forza una volontà comune. Il valore esemplare di una simile autonomia dei gruppi armati, ha il suo rovescio nella mancanza di coordinazione: il fatto di non avere mai - in nessun momento, offensivo o difensivo, della lotta contro Versailles - innalzato la forza popolare a livello dell’efficacia militare (ma non va dimenticato che invece si è persa la rivoluzione spagnola, e alla fine anche la guerra, proprio in nome di una simile trasformazione in “esercito repubblicano”. Potremmo pensare che la contraddizione tra autonomia e coordinazione sia dipesa, in larga misura, dal grado tecnologico raggiunto all’epoca.

7 - La Comune rappresenta, finora, l'unica realizzazione di un urbanismo rivoluzionario, a partire dal fatto che, in pratica, ha aggredito e attaccato i simboli pietrificati dell’organizzazione dominante della vita, identificando in termini politici lo spazio sociale, rifiutandosi di credere che un monumento possa essere innocente. Coloro che riconducono questo aspetto a un nichilismo da sottoproletari - all’irresponsabilità delle "pétroleuses" - devono, come contropartita, confessare tutto ciò che essi considerano positivo, da conservare, nella società dominante (si vedrà così che praticamente si tratta di tutto). «Tutto lo spazio è già occupato dal nemico... Il momento dell'apparizione dell'urbanistica autentica, consisterà nel creare, in certe zone, il vuoto da questa occupazione. Ciò che chiamiamo costruzione comincia da questo. E può essere compreso con l'aiuto del concetto - coniato dalla fisica moderna - di "buco positivo"». (Programma elementare di Urbanistica Unitaria,  I.S. 6)

8 - Più che dalla forza delle armi, la Comune di Parigi é stata sconfitta dalla forza dell’abitudine. L’esempio pratico più scandaloso, é stato rifiutare di far ricorso al cannone per impadronirsi della Banca di Francia, nel momento in cui il denaro serviva così tanto. Per tutto il periodo in cui la Comune ha mantenuto il potere, la banca é rimasta un’enclave versagliese dentro Parigi, difesa da qualche e fucile e dal mito della proprietà e da quello del furto. Tutte altre abitudini ideologiche, sono state disastrose sotto ogni aspetto (il risorgere del giacobinismo, la strategia difensiva delle barricate come fosse un souvenir del '48, eccetera).

9 - La Comune spiega il modo in cui i difensori del vecchio mondo riescono sempre a trarre vantaggio, per un aspetto o per l’altro, dalla complicità dei rivoluzionari; e soprattutto dalla complicità di coloro che pensano la rivoluzione. Ed è precisamente su quest'ultimo punto che i rivoluzionari pensano come loro. In tal modo, il vecchio mondo continua a mantenere le sue basi (l’ideologia, il linguaggio, i costumi, i gusti) nello spirito dei suoi nemici, e vi si inserisce per riguadagnare il terreno perduto. (Gli sfugge solamente il pensiero che si lega agli atti naturali del proletariato rivoluzionario, gli sfugge una volta per tutte: la Corte dei Conti é stata incendiata). L'unica vera “quinta colonna” è costituita dallo spirito stesso dei rivoluzionari.

10 - L’aneddoto degli incendiari che, negli ultimi giorni, erano venuti a distruggere Nôtre Dame e si erano scontrati con il battaglione armato degli artisti della Comune, é ricco di senso: costituisce un buon esempio di democrazia diretta. Mostra inoltre quali erano, nella prospettiva del potere dei Consigli dei lavoratori, i problemi ancora irrisolti. Avevano ragione, quegli artisti, unanimi, a voler difendere una cattedrale, facendolo nel nome di quelli che sono dei valori estetici permanenti, e in definitiva, nel nome dello spirito dei musei, quando invece quel giorno c'erano altri uomini che volevano esprimere e realizzare sé stessi, traducendo nella demolizione della chiesa la propria sfida totale ad una società che, con la sconfitta della Comune, si accingeva a ricacciare nel nulla e nel silenzio tutta la loro vita? Gli artisti sostenitori della Comune, agendo in quanto specialisti, si trovavano già in conflitto con una manifestazione estremista della lotta contro l’alienazione. Andava rimproverato agli uomini della Comune di non aver osato rispondere al terrore totalitario del potere con l’impiego della totalità delle loro armi. Tutto induce a credere che siano stati fatti sparire tutti quei poeti che in quel momento avevano tradotto la poesia sospesa nella Comune. La quantità e la mole degli atti incompiuti della Comune consente che tutte le azioni abbozzate divengano delle “atrocità”, e che vengano censurati i ricordi. La frase «coloro che fanno le rivoluzioni a metà non fanno altro che scavarsi la fossa», serve anche a spiegare il silenzio di Saint-Just.

11 - I teorici che restituiscono la storia di questo movimento a partire dal punto di vista onnisciente di Dio, cosa che caratterizza il romanzo classico, dimostrano facilmente in che modo la Comune fosse già oggettivamente condannata, come essa non avesse alcuna possibilità, né via d'uscita. Non bisogna però dimenticare che, per coloro che hanno vissuto l’avvenimento, la via d'uscita era quella.

12 - L’audacia e la fantasia della Comune non si misurano, evidentemente, in rapporto alla nostra epoca, ma in rapporto quelle che erano allora le banalità nella vita politica, intellettuale, morale. In rapporto all'interazione esistente tra tutte le banalità alle quali la Comune appiccava il fuoco. Così facendo, considerando l'interazione esistente tra tutte le banalità attuali, possiamo renderci conto dell’ampiezza della creatività che oggi ci possiamo aspettare da un’esplosione analoga.

13 - La guerra sociale, di cui la Comune é stata un momento, dura tuttora (sebbene le sue condizioni superficiali siano molto cambiate). Riguardo invece quello che è il lavoro di «rendere consapevoli le tendenze inconscie della Comune» (Engels), non é stata ancora detta l’ultima parola.

14 - Da quasi vent'anni, in Francia, i cristiani di sinistra e gli stalinisti sono concordi - in memoria del loro fronte nazionale antitedesco – nell’evidenziare che cosa nella Comune ci sia stato di disordine nazionale, che cosa di patriottismo ferito e, per dirla in breve, che cosa di «popolo francese che chiede di essere governato» (secondo l'attuale "politica stalinista"), e nel sottolineare che alla fine tale popolo sarebbe stato spinto alla disperazione dalla pochezza della destra borghese antipatriottica. Per sputare quest'acqua santa, basterebbe studiare quale sia stato il ruolo degli stranieri che vennero a combattere per la Comune, la quale fu soprattutto l'inevitabile prova di forza nella quale si dovette concretizzare, dopo il 1848, l'azione in Europa del «nostro partito», come lo chiamava Marx.

- 18 mars 1962 - Debord, Kotànyi e Vaneigem

venerdì 24 marzo 2023

Un autore come gli altri ?!!???

« Questi saggi sono il prodotto di quasi vent'anni di riflessioni sull'opera di Guy Debord e sul percorso attuato dai Situazionisti. Nel 1991, quando cominciai a mettere insieme i diversi materiali per scrivere la mia tesi su Debord, mi trovai tra le mani un vero e proprio cofano del tesoro. Rimanevo sempre sorpreso quanto incontravo qualcuno che conosceva i situazionisti: era come incontrare qualcuno che fosse anche lui a conoscenza del "segreto".»
(dalla prefazione di Anselm Jappe)

«Uno sguardo pieno di sospetto nei confronti del mondo intero», era questa la definizione con cui Guy Debord descriveva le edizioni "Champ Libre", che pubblicavano i suoi libri. Una definizione che, volendo, potrebbe essere riferita a tutta l'intera traiettoria pubblica dello stesso Debord. Tuttavia, per quanto dopo il suo suicidio avvenuto nel 1994 sia sembrato apparentemente essere "accettabile"  - se non addirittura trasformato, secondo alcuni, in un'icona e una gloria nazionale - il fondatore dell'Internazionale situazionista, nonostante tutte le accuse in tal senso, non è mai diventato «un autore come gli altri».

Così, oggi questo libro si propone di ritrovare e salvare tutta la forza inquietante della sua opera, prendendo in esame, tra le altre cose, "la fine dell'arte" e "la fine della politica", la sua "lettura di Marx"; così come il suo contributo alla riflessione storica insieme ai possibili parallelismi (o meno) con gli scritti di Theodor Adorno, di Hannah Arendt e di Jean Baudrillard. Viene altresì evocato sia quello che è stato il suo quantomeno curioso recupero da parte del mondo dell'arte, che la questione della sua "attualità". Vale la pena perciò ricordare oggi - di fronte ai personaggi, e alle persone più diverse, che sostengono di richiamarsi a Debord e ai Situazionisti - come l'autore della "Società dello Spettacolo" abbia sempre voluto contrapporsi al mondo intero, o quasi. Probabilmente, dopo aver letto questi testi, gli storici e gli artisti, gli attivisti e i cineasti si chiederanno se hanno fatto bene ad accogliere e includere Debord tra i loro amici.

- Anselm Jappe - "Guy Debord: Un complotto permanente contro il mondo intero". Misesis 2023, 176 pp. ISBN: 9788857597218 16,15 -

martedì 14 febbraio 2023

Una «trappola per gli sprovveduti» !!

Un'altra volta sulle Tesi di Amburgo 
- di Anthony Hayes -

Pubblicato nell'aprile 1962, IS n. 7 segnò la svolta definitiva dell'Internazionale Situazionista verso il progetto che la accompagnerà fino al maggio 1968: il rilancio di un movimento rivoluzionario. Tuttavia, sebbene il settimo numero consolidi una tale svolta, c'è da dire che essa era già in atto da ben due anni. In parte, questo poteva essere visto nelle discussioni sul significato dell'arte, le quali raggiunsero il culmine durante la quinta conferenza del gruppo, nell'agosto 1961. In parte, era il risultato della partecipazione di Guy Debord al gruppo Socialisme ou Barbarie, nel corso del 1960 e del 1961. Le Tesi di Amburgo del settembre 1961 costituivano una risposta a entrambi gli aspetti dell'evoluzione dell'IS. Le Tesi di Amburgo vengono esplicitamente citate, sebbene non vengano rivelati dettagli chiari sul loro contenuto, in due altri testi che fanno parte del n.7 di IS, "Du rôle de l'I.S." (Il ruolo dell'IS) e "L'Étage suivant" (Lo stadio successivo), entrambi di Attila Kotányi. Come scoperto da Thomas Y. Levin nel 1989, le Tesi di Amburgo non sono mai esistite sotto forma di documento finito. Al fine di contestualizzare meglio tutti questi test, ho  pertanto deciso di pubblicare una nuova traduzione della nota di Debord del 1989 sulle Tesi di Amburgo. [*1] Si narra che ai primi di settembre del 1961, Guy Debord, Attila Kotányi e Raoul Vaneigem fossero di ritorno dall'appena conclusa V Conferenza dell'Internazionale Situazionista. Al termine della conferenza, dopo essersi imbarcati in una deriva ubriaca (dérive) nel corso dell'attraversamento del mare di Kattgatt, da Göteborg a Frederikshavn, i tre situazionisti, sulla scia delle acrimoniose discussioni riguardo cosa costituisse esattamente l'attività "anti-situazionista" (e sul perché, nelle attuali circostanze, l'attività artistica ne costituisse una sua sottosezione), si diressero verso Amburgo. [*2] E fu lì, che «in tutta una serie di bar scelti a caso ad Amburgo, nel corso di due o tre giorni all'inizio di settembre del 1961», che Debord, Kotányi e Vaneigem composero le tesi di Amburgo, giustamente chiamate così.[*3] L'impianto argomentativo principale delle Tesi sarebbe poi confluito in altre opere dei situazionisti. Debord, in una sua nota del 1989, sintetizzava in maniera efficace l'inesistente "documento":

«Le "Tesi" formavano le conclusioni, volontariamente tenute segrete, di una discussione teorica e strategica che riguardava l'insieme della condotta dell'Internazionale Situazionista. [...]. Deliberatamente, e con l'intenzione di non lasciare alcuna traccia che potesse essere osservata o analizzata dall'esterno dell'IS, non venne messo per iscritto nulla di questa discussione e delle sue conclusioni. Venne pertanto deciso allora che il riepilogo più semplice di quelle che erano state le sue ricche e complesse conclusioni, poteva essere espresso in un'unica frase: "Ora l'IS deve realizzare la filosofia". E anche questa frase non venne messa per iscritto. In tal modo, le conclusioni furono nascoste così bene che esse sono rimaste segrete fino ad oggi. [...]  Le conclusioni in quel modo riassunte, evocavano una celebre formula di Marx del 1844 (dal suo "Contributo alla critica della filosofia del diritto di Hegel"). Con quella formula si voleva dire che, d'ora in poi non avremmo più dovuto attribuire la minima importanza a nessuna delle idee dei gruppi rivoluzionari che ancora sopravvivevano in quanto eredi del vecchio movimento di emancipazione sociale che era stato distrutto nella prima metà del nostro secolo; e che pertanto, per rilanciare al più presto un'epoca di contestazione per mezzo della rivitalizzazione di tutti i punti di partenza fondamentali che erano stati stabiliti negli anni Quaranta del XIX secolo, sarebbe stato meglio contare solo sull'IS. Una volta stabilita, questa posizione di per sé non implicava l'imminente rottura con il "diritto" artistico della I.S. (il quale desiderava debolmente soltanto ripetere o continuare l'arte moderna), ma la rendeva estremamente probabile. Possiamo quindi riconoscere il fatto che le "Tesi di Amburgo" segnarono la fine del primo periodo dell'IS - vale a dire, la ricerca di un vero e proprio nuovo terreno artistico (1957-61) - e inoltre fissarono il punto di partenza per l'operazione che poi avrebbe portato al movimento del maggio 1968 e a tutto ciò che ne seguì.»[*4]

Su tutto questo, ci sono due cose che vanno dette a chiarimento di quanto sopra. In primo luogo, le due esistenti traduzioni inglesi della nota di Debord circa le Tesi di Amburgo, contengono le traduzioni errate di quella che era una frase cruciale contenuta nell'ultimo paragrafo. In queste prime traduzioni, ciò che era «qu'il ne faudrait donc plus compter que sur la seule I.S.» [«d'ora in poi bisognerà contare solamente sull'IS»] diventa «quindi non sarebbe stato più necessario contare solamente sull'IS» (in Reuben Keehan), e «non sarebbe stato più necessario contare sulla IS da sola» (in Not Bored!). Come avevo già notato, le traduzioni di Keehan e di Not Bored hanno entrambe lo sfortunato risultato di rovesciare il significato della frase in questione; parliamo di quella che è senza dubbio la frase cardine per quanto riguarda l'importanza delle Tesi di Amburgo, per il futuro dell'IS. Un simile errore, da sé solo, giustifica una nuova traduzione in inglese. Ritengo però che tuttavia la confusione di questi traduttori precedenti fosse comprensibile. In francese, la frase in questione è particolarmente contorta. Tuttavia, il significato di questa frase visto in relazione all'intero periodo di cui fa parte - la sua coerenza interna, se vogliamo - dovrebbe far riflettere. Per esempio, l'idea che non si sarebbe più dovuto contare solo sull'IS (il modo in cui Keehan e Not Bored hanno reso la frase in questione), chiaramente non consegue dalla precedente dichiarazione di cui è la conclusione, vale a dire, «che d'ora in poi non avremmo più dovuto attribuire la minima importanza a nessuna delle idee dei gruppi rivoluzionari che ancora sopravvivevano in quanto eredi del vecchio movimento di emancipazione sociale che era stato distrutto nella prima metà del nostro secolo». Forse magari i traduttori hanno creduto che Debord stesse parlando del movimento rivoluzionario che si proponeva di rilanciare, piuttosto che del rilancio in sé stesso. Di certo, l'IS non aveva mai suggerito che essi da soli avrebbero costituito un simile movimento rivoluzionario. Tuttavia, Debord non stava sostenendo che l'IS lo avrebbe costituito da sé sola un tale movimento. Piuttosto, stava argomentando  che, dato il modo in cui i contemporanei, artistici e politici, dei situazionisti sono rimasti legati a delle forme di spettacolo artistico e politico che sono state recuperate e «distrutte nella prima metà del nostro secolo», allora è più probabile che questi contemporanei non vengano coinvolti nel rilancio di un tale movimento. Pertanto, a tal fine sarebbe meglio contare solamente sulla IS. Inoltre, nel settimo numero di Internationale Situationniste, i situazionisti sostenevano l'effettiva esistenza delle forze che avrebbero poi costituito un tale movimento rivoluzionario - sia in modo passivo, in termini di peso della crescente proletarizzazione del mondo, che in modo attivo, nella misura in cui elementi di questo proletariato erano spinti alla rivolta, anche se talvolta in modo non proprio "ortodosso". Era a partire da questo che l'IS riponeva molta fiducia in quelli che erano, all'inizio degli anni Sessanta, i segnali di una crescente ribellione giovanile in tutto il mondo industriale avanzato, quale l'aumento degli scioperi "a gatto selvaggio", cosa già ampiamente commentata dai compagni del gruppo Socialisme ou Barbarie [*5]. La questione, dal punto di vista situazionista, era quindi quella di «organizzare un incontro coesivo tra gli elementi di critica e di negazione (sia come prassi che come teoria) che ora si trovano sparsi in tutto il mondo» [*6]. Tuttavia, una tale organizzazione era, per forza di cose, nettamente opposta alle varie concezioni autoritarie e gerarchiche di un'avanguardia politica o artistica che rimanevano care a gran parte dell'estrema sinistra contemporanea, sia marxista che anarchica. Sottolineando questo senso anti-gerarchico, i situazionisti avrebbero poi detto del loro ruolo: «Noi organizzeremo solo la detonazione: l'esplosione libera, deve sfuggire per sempre sia a noi che a qualsiasi altro controllo».[*7]

In secondo luogo, i critici sono stati forse giustamente confusi dal modo in cui Debord, nella sua nota del 1989, parli inizialmente delle Tesi di Amburgo come del «più misterioso di tutti i documenti emersi dall'IS», per poi chiarire che «nulla di questa discussione e delle sue conclusioni è mai stato scritto». Debord parla delle Tesi di Amburgo come di un "documento", facendolo in modo ironico, per sottolineare non solo la sua inesistenza in forma scritta, ma soprattutto per attirare l'attenzione su questa inesistenza che dev'essere vista come la sua qualità più singolare e duratura. Nella stessa nota, Debord scrisse che le Tesi di Amburgo «costituivano un'innovazione sorprendente nella storia delle avanguardie artistiche, che fino ad allora avevano dato tutte l'impressione di essere desiderose di spiegarsi».[*9] La questione, tuttavia, non è mai stata quella di rifiutare di "spiegarsi", come testimonia la continua pubblicazione di Internationale Situationniste.[*10] Debord spiegherà la natura avanguardista delle Tesi, e lo farà sottolineando in una lettera a Vaneigem la natura positiva della verità distruttiva delle Tesi di Amburgo : «Abbiamo deciso di non scrivere le Tesi di Amburgo, per poter meglio imporre in futuro il loro significato centrale riguardo al nostro progetto. Così il nemico non potrà fingere di approvarle, se non con grandi difficoltà»[*11]. Qui si parla delle Tesi come di una trappola per gli sprovveduti. Non c'è dubbio che le loro conclusioni siano entrate a far parte dell'armamento ufficiale dell'IS, eppure sono sempre rimaste in disparte, come un'autorità impossibile cui appellarsi, proprio mentre l'IS invece lavorava duramente proprio per dissuadere coloro che, forse inevitabilmente, avevano iniziato a trattarli come delle autorità. In seguito, il gruppo scriverà in un articolo, che peraltro prende il titolo dalle Tesi di Amburgo:
«È naturale che i nostri nemici riescano a servirsi parzialmente di noi. Non lasceremo loro l'attuale campo della cultura, né ci mescoleremo a loro. I consiglieri da salotto che vogliono ammirarci e capirci tenendosi a una distanza rispettosa, ci raccomandano prontamente la purezza del nostro primo atteggiamento, mentre loro stessi adottano invece il secondo. Rifiutiamo questo sospetto formalismo: allo stesso modo del proletariato, anche noi, nelle condizioni attuali, non possiamo pretendere di non essere sfruttabili; il meglio che possiamo fare, è sforzarci di far sì che qualsiasi sfruttamento comporti il massimo rischio possibile per gli sfruttatori.»[*12]

Rifiutandosi di pubblicare un documento chiamato "Tesi di Amburgo", e non essendo perciò così poi tanto «ansiosi di spiegare Sé stessi», Debord, Vaneigem e Kotányi compivano quindi un gesto circa quello che sarebbe poi diventato così un aspetto centrale del progetto situazionista, nel modo in cui ora lo intendevano.[*13] In IS n. 7, seguendo la scia delle Tesi di Amburgo, stavano scommettendo sul fatto che «la teoria situazionista si muove dentro le persone allo stesso modo in cui si muovono i pesci nell'acqua». [*14] Questa affermazione ha lasciato perplessi non pochi lettori, alcuni dei quali l'hanno ingenerosamente letta come se si trattasse di un'ulteriore prova della megalomania dell'IS. Tuttavia, nel 1961 i situazionisti che si muovevano intorno a Debord, a Vaneigem e a Kotányi stavano cominciando a concepire le particolarità del loro progetto vedendolo come un momento di una contestazione rivoluzionaria più generale, disseminata e diffusa nel tempo e nello spazio. Vale a dire, come un momento delle dinamiche di rifiuto e di ribellione, le quali erano i prodotti reali della diffusione e dello sviluppo dell'alienazione capitalista. Contrariamente a Lenin e a Trotsky, per esempio, e anche a una buona parte della teoria anarchica, l'IS non si considerava portatrice di una teoria della rivoluzione per le classi lavoratrici. Piuttosto, come aveva fatto Marx, sosteneva l'idea che una simile teoria, e prassi emergessero dall'esperienza della natura alienata e conflittuale propria della vita proletaria. Il giovane Marx aveva argomentato, con parole poi riprese e approvate dall'IS, sostenendo che «la teoria può realizzarsi in un popolo, solo nella misura in cui essa è la realizzazione dei bisogni di quel popolo»; ragion per cui, «non basta che sia il pensiero, a sforzarsi di realizzarsi, ma è la realtà stessa che deve tendere al pensiero». [*15] Nella migliore delle ipotesi, l'IS considerava sé stessa come un momento particolarmente coerente della lotta per la teoria condotta dal basso, la cui verità pratica trovava posto non solo nei loro vacillanti esperimenti di urbanistica unitaria e di situazione costruita, ma ancor più negli scioperi selvaggi dei lavoratori e nelle controculture allora fiorenti della gioventù operaia alienata. Contrariamente a molti dei loro contemporanei intellettuali e di sinistra, i situazionisti non ritenevano che l'alienazione stesse venendo migliorata, o rivelata in quanto illusione idealista, ma piuttosto che si stesse ramificando e moltiplicando in tutto il mondo per mezzo dell'intensificazione e dell'estensione della produzione e del consumo capitalistici. La questione, pertanto, non era quella di educare il proletariato grazie all'eterno sacrificio del leader intellettuale, ma piuttosto era quella di partecipare a rendere chiara e coesa quella contestazione fratturata e dispersa che era già in atto. Ecco quindi il senso peculiare situazionista, e non così tanto peculiare situazionista, di "avanguardia". In termini artistici, politici e militari, "avanguardia" era arrivato a designare coloro che erano "in anticipo" rispetto al gruppo principale. Nel gergo leninista e stalinista, indicava il necessario gap esistente tra la coscienza meramente socialdemocratica dell'operaio e la coscienza d'avanguardia del rivoluzionario che avrebbe condotto il lavoratore fino alla terra promessa. Per i situazionisti, la nozione di avanguardia, nella misura in cui essa era arrivata a giustificare semplicemente una gerarchia incontrastata e asservita alla divisione capitalistica del lavoro, aveva cessato di essere di qualsiasi utilità. Come avrebbe detto Debord qualche anno dopo, ne "La società dello spettacolo", «La rivoluzione proletaria dipende interamente da questa necessità secondo cui, per la prima volta, è la teoria, in quanto intelligenza della pratica umana, che deve essere riconosciuta e vissuta dalle masse. Essa esige che gli operai divengano dialettici e mettano in pratica il loro pensiero; ragion per cui esige dagli uomini senza qualità molto di più di quanto la rivoluzione borghese esigeva dagli uomini qualificati che delegava ad attuarla»[16]

Il che non significava che l'IS stesse rifiutando il suo ruolo di avanguardia, ma piuttosto che rifiutava le concezioni dominanti allora che stabilivano che cosa costituisse un'avanguardia politica o artistica. Contro entrambe, Debord sosterrà che «adesso, la prima realizzazione di un'avanguardia è l'avanguardia stessa».[*17] Considerare sé stessa, come "realizzazione", anziché il feticcio dell'oggetto artistico o del manifesto teorico, significava semplicemente porre l'accento sul vero, finale e definitivo oggetto dell'avanguardia. Per l'IS ciò era esattamente la società comunista ,che veniva pertanto vista come la condizione necessaria per la realizzazione del progetto che si era delineato per la prima volta nell'ipotesi di situazione costruita nel 1957. Si trattava pertanto di realizzare il progetto del comunismo (o quanto meno la sua concezione situazionista) e perciò di abolire la necessità di un'avanguardia come l'IS - un'abolizione, oltretutto, che si sarebbe concretizzata nella realizzazione di un movimento rivoluzionario di massa. Come si legge nel n. 8 di IS, l'avanguardia situazionista sarebbe «un partito che si sostituisce a sé stesso, un partito la cui vittoria costituisce simultaneamente  anche la sua sparizione»[*18]. La risonanza e la corrispondenza con il concetto marxiano relativo alla realizzazione e all'abolizione della filosofia è palpabile; come ha sottolineato Debord nella sua nota del 1989 sulle Tesi. La concezione precoce di Marx in cui si parla dell'intersezione tra un progetto filosofico radicale, da una parte, e dall'altra di un proletariato che lotta per superare le rispettive alienazioni e separazioni di entrambi, sul terreno delle desolate lande commerciali di un nascente capitalismo industriale, per i situazionisti diverrà uno di punti centrali di riferimento. Debord riteneva infatti che nella nozione (di Marx) della congruenza tra l'auto-abolizione della filosofia e quella del proletariato, si potesse individuare un processo simile a quello delle varie avanguardie artistiche del XIX e XX secolo, le quali sembravano muoversi inesorabilmente verso la progressiva distruzione della verità estetica e artistica tradizionale. Ed è qui, nella linea artistica dell'IS, che si possono forse trovare le anticipazioni formali per le Tesi di Amburgo, il «culmine dell'avanguardismo» come le ha definite Debord. Allo stesso modo in cui il Comte de Lautréamont e Stéphane Mallarmé avevano annunciato e celebrato il naufragio del linguaggio e della poesia, rispettivamente in "Les Chants de Maldoror" e in "Un coup de dés jamais n'abolira le hasard", così come Kazimir Malevich si era soffermato sull'abisso rappresentativo della distruzione dell'oggetto artistico nel suo dipinto "Bianco su bianco", e come André Breton intravedeva il meraviglioso nel grigiore dell'arte quotidiana e dell'alienazione, anche Guy Debord, Raoul Vaneigem, Attila Kotányi e Alexander Trocchi nelle Tesi si spingevano ai limiti dell'espressione possibile nella prigione della merce e delle sue varie alienazioni. Manifestare l'anti-manifesto, e non lasciare ai posteri nient'altro che la memoria sbiadita e fallibile legata al passaggio di poche persone nel corso di un'unità di tempo piuttosto breve.

Da giovane lettrista, Debord si era proposto di distruggere il cinema, realizzando un film in cui l'eliminazione lettrista dell'immagine cinematografica veniva portata fino all'estremo. Nel suo film, "Hurlements en faveur de Sade" (1952), tutte le immagini erano state eliminate, in modo da lasciare durante la proiezione uno schermo vuoto, variamente bianco o nero a seconda dei dialoghi lasciati a scandire occasionalmente gli 80 minuti di durata del film. Qualche anno dopo, reagendo contro le tendenze nichiliste del tempo in cui era lettrista, nell'Internazionale Lettrista, Debord arrivò a sostenere che la futura Internazionale Situazionista avrebbe dovuto costituire «un passo indietro» rispetto a una tale «opposizione esterna» all'arte.[*19] Per Debord, il problema non era mai stato quello di rientrare nel campo artistico sotto la bandiera dell'IS, ma piuttosto di indagare sui possibili usi cui le pratiche artistiche avrebbero potuto essere destinate in modo da poter sviluppare l'ipotesi situazionista della situazione costruita. Avendo sbattuto sempre più spesso contro i limiti di un simile uso sperimentale tra il 1957 e il 1961, Debord e la sua cerchia forzarono la questione, allontanando l'IS dal pantano artistico in cui era caduto per meglio tracciare le nuove acque di una pratica d'avanguardia che doveva essere allo stesso tempo politica e artistica; e lo fece nella misura in cui si proponeva, contemporaneamente, di superarle entrambe. Tuttavia, non si trattava di un ritorno ai giorni inebrianti del nichilismo letterista. Di questo, le Tesi di Amburgo ne sono forse la prova più singolare. Quando Debord ne parlò come del «testo [più] misterioso e anche più formalmente sperimentale della storia dell'IS» [*20], il suo riferimento non era più all'impasse della distruzione formale che aveva affrontato nel suo film "Hurlements en faveur de Sade". Piuttosto, le Tesi di Amburgo, pur incarnando la distruzione della forma, ponevano la positività al centro del progetto situazionista: vale a dire, poneva la questione più urgente del modo migliore per un ordine sociale favorevole al libero gioco e alla costruzione di situazioni, come delineato alla fondazione della IS.

- Anthony Hayes - Maggio, 2022 - Pubblicato in Notes from the Sinister Quarter -

NOTE:

[1] Esistono due versioni leggermente diverse della nota di Debord del 1989. La prima, pubblicata nel 1997, ha eliminato dal testo della nota il nome del destinatario originario, Thomas Y. Levin. La seconda, pubblicata nel 2008, ha ripristinato il testo completo della nota così come era stato concepito originariamente: come lettera indirizzata a Thomas Y. Levin nel novembre 1989. Si veda, rispettivamente, Guy Debord, "Les thèses de Hambourg en septembre 1961 (Note pour servir à l'histoire de l'Internationale Situationniste) [1989]", in Internationale situationniste : Édition augmentée, Paris: Librairie Arthème Fayard, 1997; Guy Debord, "Lettre à Thomas Levin, novembre 1989-Les thèses de Hambourg en septembre 1961 (Note pour servir à l'histoire de l'Internationale Situationniste)," in Correspondance, volume 7, janvier 1988 - novembre 1994, ed. Patrick Mosconi, Librairie Arthème Fayard. Patrick Mosconi, Librairie Arthème Fayard, 2008.

[2] Internationale Situationniste, "La Cinquième Conférence de l'I.S. à Göteborg", Internationale Situationniste, n. 7 (aprile 1962).

[3] Debord, "Les thèses de Hambourg en septembre 1961 (Note pour servir à l'histoire de l'Internationale Situationniste) [1989]".

[4] Questo è un estratto della mia nuova traduzione della nota/lettera di Debord del 1989 sulle Tesi di Amburgo. Per i dettagli della versione originale francese, si veda la nota 1, sopra.

[5] Si vedano, rispettivamente, "Difesa incondizionata" e "Istruzioni per un'insurrezione", entrambi da IS n. 6 (agosto 1961). Per approfondire la breve relazione tra l'SI e Socialisme ou Barbarie, si veda Anthony Hayes, "The Situationist International and the Rediscovery of the Revolutionary Workers' Movement", in The Situationist International: A Critical Handbook, ed. Alastair Hemmens e Gabriel Zacarias, Londra: Pluto Press, 2020.

[6] Internazionale Situazionista, "Ora, l'SI", IS n. 9, agosto 1964.

[7] Internazionale Situazionista, "La campagna anti-situazionista in vari paesi (estratti)", IS n. 8 (gennaio 1963).

[8] Debord, "Les thèses de Hambourg en septembre 1961 (Note pour servir à l'histoire de l'Internationale Situationniste) [1989]".

[9] Ivi

[10] Come Debord notava in una lettera al suo vecchio compagno lettrista, Ivan Chtcheglov, anche se la pubblicazione della rivista poteva essere "faticosa" e soggetta a "inevitabili difetti", essa rimaneva "una delle nostre uniche armi", "una voce viva [...] per immaginare più precisamente le supersessioni". Guy Debord, "Lettre à Ivan Chtcheglov, 30 avril 1963", in Correspondance volume II septembre 1960 - dicembre 1964, ed. Patrick Mosconi, Parigi: Parigi. Patrick Mosconi, Parigi: Librairie Arthème Fayard, 2001.

[11] Guy Debord, "Lettre à Raoul Vaneigem, 15 février, 1962", in Correspondance volume II septembre 1960 - dicembre 1964, ed. Patrick Mosconi. Patrick Mosconi, Parigi: Librairie Arthème Fayard, 2001, p. 127. Corsivo nell'originale.

[12] Internazionale Situazionista, "Ora, l'IS", IS n. 9 (agosto 1964).

[13] Debord, "Les thèses de Hambourg en septembre 1961 (Note pour servir à l'histoire de l'Internationale Situationniste) [1989]".

[14] Internationale Situationniste, "Du rôle de l'I.S.", Internationale Situationniste no. 7 (aprile 1962).

[15] Karl Marx, "Contributo alla critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione [1844]", in Karl Marx & Frederich Engels Collected Works Vol. 3, Mosca: Progress Publishers, 1975, p. 183.

[16] Guy Debord, La società dello spettacolo, capitolo 4, tesi 123.

[17] G.-E. Debord, "L'avant-garde en 1963 et après", in Guy Debord Œuvres, Paris: Éditions Gallimard, 2006.

[18] Internazionale Situazionista, "Ideologie, classi e dominio della natura", IS n. 8 (gennaio 1963).

[19] Guy Debord, "Un passo indietro [1957]", in Guy Debord e l'Internazionale Situazionista: Texts and Documents, ed. Tom McDonough, Cambridge, Massachusetts: The MIT Press, 2004.

[20] Debord, "Lettre à Thomas Levin, 1 septembre 1989.