lunedì 4 agosto 2025

Fuori dal Lavoro ?!!???

Tempo astratto, lotta concreta
- di Christophe Magis* -

«È l'orologio, e non il motore a vapore, la macchina chiave dell'era industriale moderna.» [*1] Chi non è ancora convinto di questa affermazione, fatta a metà degli anni '30 dallo storico americano della tecnologia Lewis Mumford, probabilmente non ne dubiterà più, dopo aver visto l'ultimo film di Cyril Schäublin, "Unrueh" ("Unrest"). Esplorando la vita quotidiana di Saint-Imier - città a orologiera del Giura svizzero nel 1877 - la sceneggiatura è l'occasione per raccontare i movimenti operai della fine del XIX° secolo, in parallelo con le trasformazioni sociali e tecnologiche che hanno segnato gli inizi del capitalismo industriale. E se il film ci permette di vedere quale sia stata l'importanza progressiva assunta dalla ferrovia, dal telegrafo, dalla stampa, dalla fotografia o dalla pubblicità in tutte queste trasformazioni, è, naturalmente, l'orologio quello che si rivela come lo strumento decisivo, in una mise en abyme particolarmente eloquente. Prendendo come eroina Joséphine, una giovane operaia della fabbrica di orologi del villaggio, Schäublin ci mostra la condizione degli operai impiegati per produrre i meccanismi con cui i loro superiori poi valutano le loro prestazioni... vale a dire, per mezzo della produzione di questi stessi meccanismi. «Dobbiamo lavorare più in fretta!»: è questa la richiesta del caposquadra – prima di dettagliare quale fosse il modo migliore per afferrare le parti meccaniche di un orologio in modo da poter così risparmiare qualche secondo prezioso; cosa che potrebbe riassumere qual è l'ingiunzione generale della modernità industriale.

   Ogni secondo va reso efficace in un tempo che diventa esso stesso una matematica astratta per poter giudicare a cosa serve il tempo impiegato. Ma mentre si sviluppa una simile meticolosa disciplina del tempo, si costituisce simultaneamente e parallelamente un'organizzazione concreta della lotta contro questo dominio progressivo delle categorie astratte sulla vita sociale. Così, nelle officine, gli operai cercano di non essere troppo veloci nello svolgere i loro compiti, in modo da riuscire così a mantenere le ingiunzioni alla produttività, entro un perimetro di intensità sopportabile. Ogni pausa sigaretta, ogni scambio, è un'occasione per mantenere una socialità costruita intorno alle relazioni vissute in un tempo che così riacquista così la sua dimensione qualitativa. Esternamente, i loro movimenti sono organizzati a livello locale, così come fanno parte anche di alleanze internazionali di lavoratori e anarchici. Gli orologiai formarono cori, e misero in scena spettacoli per celebrare la Comune di Parigi, spietatamente repressa circa sei anni prima; si scambiano idee direttamente sulle schede elettorali per le elezioni cantonali; si organizzano lotterie a beneficio degli scioperanti impegnati in varie lotte in tutto il mondo. E tutto ciò che può continuare a essere parte di un'organizzazione tradizionale della società: serve come risorsa contro la svolta della razionalizzazione industriale e la reificazione che l'accompagna.

   Inoltre, tra i personaggi del film, vediamo il teorico anarchico Pyotr Kropotkin, geografo di professione, che esplora la regione per redigere una mappa e che non si accontenta certo della pianificazione territoriale imposta dai direttori della manifattura orologiera. Quando questa pianificazione vorrebbe attraversare l'intero luogo, come se esso fosse un gigantesco magazzino, assegnando a ogni appezzamento di terreno una lettera seguita da un numero, Kropotkin allora cerca di ritrovare, tra gli abitanti, quali invece erano i nomi tradizionali, utili a conservare la testimonianza di significati e di usi concreti. Sappiamo quanto la questione della misura astratta e eguale dello spazio, e soprattutto, del tempo, sia al centro del dispiegamento del capitalismo. La generalizzazione del sistema metrico, basato su uno standard del tutto estraneo alla vita sociale concreta — e che inizialmente corrispondeva a un decimilionesimo della metà del meridiano terrestre [*2] — ha finito per spodestare le antiche unità, che erano molto più legate all'esperienza, in quanto si riferivano in particolare al corpo umano (piede, pollice, cubito, ecc.), ma le cui definizioni - che potevano variare a seconda delle particolarità regionali - le avevano rese inadatte per essere inserite in un sistema di scambio generalizzato. La stessa cosa vale anche per l'imposizione di un tempo lineare astratto e regolare, il quale è arrivato a soppiantare le concezioni premoderne, le quali invece parlavano di un tempo variabile, a seconda dell'oggetto a cui esso si applica.

   Documentando in che modo la classe operaia emergente del XVIII° secolo abbia resistito a lungo all'imposizione delle nuove convenzioni temporali, lo storico britannico Edward P. Thompson ci ha mostrato fino a che punto la definizione del tempo e la sua organizzazione strutturino anche le dinamiche storiche della lotta di classe. In Europa, è stato l'uso progressivo del lavoro a costituire il passaggio da un tempo "orientato dal compito" in cui, per il lavoratore, «non c'era quasi nessun conflitto tra il lavoro e il passare del tempo della "giornata"» [3*] e il tempo "dell'orologio", indifferente all'esperienza concreta, caratteristico della disciplina industriale che causa il divorzio del lavoro dalle altre sfere della vita. Tutta questa transizione, punteggiata da conflitti, avvenne molto gradualmente – dalla fabbrica tessile del tardo Medioevo, che richiedeva molto manodopera; insieme al rafforzamento della perfezione della meccanica a orologiera, della morale puritana, delle teorie dell'economia politica e degli apparati urbani di repressione. Inoltre, nella Saint-Imier descritta da Unrueh, oltre al fatto che non meno di quattro misurazioni sono in competizione tra loro (l'ora della chiesa, del municipio, della fabbrica o del telegrafo), anche la polizia è onnipresente, nella persona di due gendarmi, la cui simpatica bonomia rende più diffusa, ma comunque patente, l'autorità pubblica di cui sono i custodi. Oltre alle operazioni di controllo e di repressione della popolazione, essi hanno anche il compito di impostare gli orologi della città.

   L'autorità sa anche essere più astratta. E per far sì che il tempo dell'orologio si imponga su larga scala, alla vigilia del Novecento, era necessaria anche la costituzione di una grande burocrazia amministrativa, di cui il film fornisce uno scorcio. In un'enorme sala, alcuni impiegati raccolgono, archiviano e documentano le prestazioni individuali dei lavoratori, progettando quelli che dovranno essere gli indicatori della loro produttività media, in base ai quali viene poi calcolata direttamente la retribuzione. Alcuni di questi dirigenti amministrativi, che misuravano al secondo i propri spostamenti attraverso la città, abbozzarono quella che poi sarebbe stata la figura di Frederick W. Taylor, il quale avrebbe spinto questa idea della razionalizzazione totale del tempo fino al parossismo, nella sua "organizzazione scientifica del lavoro"; e che, già in gioventù, contava ossessivamente perfino i suoi propri stessi passi [*4]. È stato così che la modernità industriale ha perfezionato le sue risposte alle esigenze economiche di prevedibilità del ciclo di rotazione del capitale, accompagnando la standardizzazione del tempo con una centralizzazione burocratica e una regolamentazione della sua distribuzione. E, al loro livello, anche le organizzazioni operaie hanno dovuto partecipare al movimento! Un passaggio del film - che ci mostra gli stessi dirigenti sindacali alla ricerca di nuovi mercati "orologieri" in cui investire (ad esempio, la nascente sveglia) al fine di mantenere la redditività per i datori di lavoro e, di conseguenza, per salvaguardare diversi posti di lavoro, altrimenti minacciati - illustra questa dialettica con finezza. Come ha mostrato Marx nelle prime pagine del Capitale, la produzione di merci, di cui il capitalismo costituisce la generalizzazione universale, induce una logica sociale specifica nella quale le particolari relazioni tra tempo e valore vengono  intessute attraverso la mediatizzazione del lavoro.

   Introducendo la nozione di "tempo astratto", Moishe Postone ha esposto molto chiaramente queste relazioni. Infatti, dal momento che il valore di una merce viene a essere determinato direttamente dal tempo di lavoro socialmente necessario, nella  media per la sua produzione, ecco che allora «il dispendio di tempo di lavoro si trasforma in una norma temporale che non solo è astratta, ma si oppone e determina l'azione individuale» [5].. Tanto più che ogni secondo risparmiato su questo tempo di lavoro medio necessario, è suscettibile di generare importanti guadagni aggiuntivi, aumentando il plusvalore prodotto dal lavoro – e questo, indipendentemente dall'oggetto concreto per la cui produzione il tempo è effettivamente impiegato. Nel capitalismo, svincolato dalle attività e dal loro scopo concreto, il tempo ha cambiato la sua natura, diventando «una variabile indipendente, misurata in unità convenzionali intercambiabili, misurabili, continue, costanti [...] che funge da misura assoluta del movimento».

   Il tempo che l'individuo sperimenta è ora un tempo svuotato di ogni qualità, che gli si oppone permanentemente, ordinandogli semplicemente di rendere proficuo ogni secondo. Probabilmente, questo si materializza in modo più evidente in ciò che la modernità ha chiamato "tempo libero". Organizzando la vita quotidiana intorno al lavoro, senza tener conto del suo scopo - un semplice dispendio di energia misurato dal ticchettio dell'orologio - il capitalismo ha creato un "tempo libero" che dovrebbe essere l'opposto: un tempo nel corso del quale l'attività cessa di essere regolata in questo modo. Ma, a parte il fatto che questo tempo è stato esso stesso catturato dalla forma merce, diventando così a sua volta un luogo di investimento e un'industria del tempo libero - e quindi impegnato nei propri processi di valorizzazione - ecco che la sua semplice definizione in relazione al tempo di lavoro non gli concede più alcuna autonomia. Le attività svolte in un tale contesto faticano quindi a restituire la qualità del tempo, rappresentando così un vero e proprio "fuori dal lavoro"; finendo per essere piuttosto una semplice estensione di quest'ultimo: devono essere pianificati, devono assicurare di massimizzarne l'utilità, insomma bisogna renderli redditizi. Rimangono così sotto il dominio del tempo astratto, che continua a misurarle. Perciò, nel capitalismo, bisogna passare il proprio tempo a usarlo correttamente! Preferibilmente al lavoro. Fatta eccezione per quelle attività  propedeutiche, che sono comunque sempre e solo un'estensione di esso. Il neoliberismo di oggi e i suoi sottoufficiali, tecnocrati e politici, sanno come far obbedire le persone a questo ordine, e sono sempre più ferventi nelle loro azioni volte a standardizzare sempre di più il tempo, svuotandolo delle sue qualità e rubandolo ai lavoratori grazie all'imperativo della sua maggiore valorizzazione!

   L'aumento della durata legale della settimana, da un lato, o dall'altro la "riforma delle pensioni" e la sua retorica permanente sull'urgenza di aumentare sempre l'età pensionabile insieme al numero di anni di contribuzione – qualunque essi siano, tra l'altro – sono esempi tipici con i quali, di passaggio, le classi dominanti finiscono per condannare sé stesse! Perché dietro l'ingiunzione a "lavorare di più" - indipendentemente dall'uso effettivo dell'orario di lavoro, e al di là dell'evidente trucco che mira - per la questione delle pensioni - ad abbassare le pensioni moltiplicando le carriere "incomplete" - troviamo una concezione astratta del tempo che, in pratica, continua a essere sempre più radicata nella società. E questo tempo astratto, egualitario, senza qualità, nella misura in cui ogni attività, anche se ricreativa, è costretta a essere una mera variazione del lavoro, si applica a tutte le categorie della popolazione – compresi i dominanti – nel momento in cui si stabilisce, come norma sociale, che: «Le forme sociali temporali hanno una vita propria e sono coercitive per tutti i membri della società capitalistica – anche se in un modo che beneficia materialmente la classe dominante.» [*6] Roger Ekirch, ad esempio, ha mostrato l'impatto del mondo industriale sulla definizione moderna del sonno e dei suoi cicli [*7].

   Quando ha preso piede la norma di una notte di otto ore, sostituendo così quello che era il modello antropologicamente più radicato delle due fasi del sonno separate dal risveglio, l'intera società ha finito per esserne colpita. … E così l'intera società è stata colpita anche dai disagi che ne derivano: insonnia e stanchezza tipiche della vita moderna. Lo stesso vale per il rapporto con il tempo. Anche se, ovviamente, a seconda della propria collocazione nella scala sociale, gli effetti non si fanno sentire così duramente: l'esperienza di un tempo senza qualità, che si è condannati a perdere, finisce per condizionare la società nel suo complesso. Tuttavia, su questo tema come su altri, non possiamo aspettarci che le classi dirigenti, mentre partecipano al deterioramento delle condizioni di vita di tutti, prendano coscienza di ciò in cui vanno incontro coinvolgendo gli altri. La protesta può venire solo da quegli "altri" per i quali il cambiamento è reso molto più urgente dalla violenza diretta e intollerabile che viene loro imposta. E in particolare, parallelamente a rivendicazioni più chiare e immediate (settimana di 30 ore?; pensionamento a 60 anni?), si dovrà affrontare, a più lungo termine, la ridefinizione dei modi di abitare il tempo. Invitandoci a considerarlo alla luce delle attività concrete che vi si svolgono, piuttosto che farne il giudice di queste attività, alcuni movimenti sociali negli ultimi anni (ZAD e Gilet Gialli in particolare) hanno delineato una direzione in tal senso. Certo, non si tratta in alcun modo di feticizzare questo o quel residuo fantasticato della società tradizionale, ergendola a dogma, come stanno facendo attualmente le correnti reazionarie, sognando forme premoderne di capitalismo "del buon padre". Ma è sempre più certo che una critica del capitalismo – ben al di là dei suoi soli eccessi neoliberisti – mancherà il suo punto finché non attaccherà questa specifica categoria di tempo che induce e che determina gli individui e il quadro delle loro azioni.

- Christophe Magis *- Pubblicato il 30/5/2025 su  "Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme" -

NOTE:
 
*Docente di Scienze dell'Informazione e della Comunicazione, Università di Parigi 8.

[1] Lewis Mumford, Tecniche e civiltà, Routledge & Kegan Paul, Londra, 1934, p. 10.

[2] Va notato che le prime definizioni si riferiscono alla "decimilionesima parte di un quadrante del meridiano terrestre", in un'epoca in cui un meridiano era considerato intorno alla Terra. Cfr. Suzanne Débarbat & Antonio E. Ten (a cura di), Metro e sistema metrico, Observatoire de Paris/Université de Valence, Parigi e Valence, 1993.

[3] Edward P. Thompson, Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale, La Fabrique, Parigi, 2004 [1a ed.: 1993], p. 37.

[4] Cfr. Evelyne Jardin, "Il padre dell'organizzazione scientifica del lavoro", Scienze sociali, n° 120, 2001, p. 30.

[5] Moishe Postone, Tempo, lavoro e dominazione sociale, Mille e una notte, Parigi, 2009 [1a ed.: 1993], p. 318.

[6] Ivi, p. 319.

[7] Cfr. Roger Ekirch, La grande trasformazione del sonno, Amsterdam, Parigi, 2021.

 

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