Gli ebrei mi lasciano perplesso
- di Ruben Honigmann -
Negli ebrei, c'è qualcosa che non smetterà mai di stupirmi: la loro capacità di rimanere sorpresi per l'ostilità nei loro confronti. A ogni omicidio, a ogni attacco, a ogni massacro o pogrom antisemita, è come se cadessero dalle nuvole. La mancanza di empatia da parte del solito affabile fruttivendolo ci offende, ci indigna la reazione del segretario generale dell'ONU, e le contorsioni semantiche di Jean-Luc Mélenchon - degne dei migliori studenti della Yeshivah - ci appaiono insopportabili: la solitudine radicale del popolo ebraico perseguitato ci muove alla rivolta. Ogni volta, ci stropicciamo gli occhi - come se quello fosse il primo giorno - nel vedere dei figli di papà di Harvard che denunciano il «genocidio in corso a Gaza», o nel vedere i "Queers for Palestine" che strappano i manifesti in cui si vedono gli ostaggi israeliani. L'aria si fa soffocante, nel sentire quattro pagliacci del collettivo Tsedek prendere il posto della clownesca "Unione Ebraica Francese per la Pace" svolgere il loro ruolo di utili ebrei per l'antisemita Houria Bouteldja, mentre fingiamo stupore quando scopriamo che, non appena viene invitato il coefficiente ebraico, tutte le inter-sezionalità diventano un gioco a somma zero. Ma per l'esattezza, cosa c'è esattamente di così sorprendente in tutto questo? Che cos'è che ci si aspetta – messianicamente – che ci dovrebbe rivelare una delusione così ingenua? In nome di che cosa, si spera che tutto ciò che finora è sempre stato, potesse cessare miracolosamente di continuare a verificarsi?
Per quale miracolo, coloro che hanno bruciato gli ebrei di Strasburgo nel 1349, che hanno assassinato i loro vicini a Barcellona nel 1391, o che hanno bruciato le abitazioni ebraiche a Baghdad nel 1948, avrebbero smesso di continuare ad avere dei successori nel 2023? Chi mai può credere che i cosacchi, le Einsatzgruppen, gli agenti di Stalin o le truppe degli Almohadi avrebbero agito solo per dei motivi, e in circostanze, peculiari di quello che è stato un determinato tempo, o di uno specifico gruppo? Di quale schizofrenia collettiva soffriamo se, nel mentre brandiamo l'indistruttibilità del popolo ebraico, allo stesso tempo rimaniamo scossi a causa di ogni tweet antisemita da parte dell'ultimo influencer in voga? E soprattutto, che senso ha commemorare, a Purim, l'archetipo del progetto genocida di Haman, cantare ad Hanukkah l'oscurità dell'esilio, e ricordarci solennemente, nel corso del Seder di Pesach, che «in ogni generazione, esse (le nazioni) si sollevano contro di noi, per farla finita con noi»? A quale mascherata stiamo giocando quando leggiamo, nel corso di tutto l'anno, gli avvertimenti di Mosè a proposito delle «madri che mangeranno i propri figli» [*1], o le imprecazioni di Isaia contro il suo popolo infedele, e le lamentazioni di Geremia sulla decadenza di Israele, se poi non siamo capaci di farle nostre nel momento in cui la realtà viene a scontrarsi con i testi? Legittimamente, si può anche non dare alcun credito a questi testi. Ma non possiamo dire che i nostri antenati - proprio coloro i quali ci hanno reso ciò che siamo, e che sono gli artefici di quei «4000 anni di Storia» di cui noi così tanto ci vantiamo, non vedessero alcun senso in tutto questo.
Ma c'è in me uno stupore ancora più grande: quello che mi viene suscitato da coloro i quali, con discrezione e nobiltà, con parole e piccoli gesti sfidano la legge antisemita della Storia. La dignità del genitore di uno studente della scuola pubblica dove vanno i miei figli, con il quale non si era mai andati oltre quella fase minima delle chiacchiere e che, dopo diversi giorni di riflessione, mi ha scritto la sua compassione con parole semplici, scusandosi per non aver scritto prima, perché «tutte le parole sono goffe». L'eleganza di quell'amico arabo che, durante un pranzo programmato da tempo, si guarda bene dal tirare fuori "la situazione", ben sapendo che questo porterebbe solo a un dialogo tra sordi, il quale non potrà fare altro che alterare un'amicizia che ci sta a cuore. Infine, il coraggio del compagno non ebreo di un amico, un eminente artista le cui opere circolano in un ambito unanimemente pro-Hamas, e che sceglie di soffrire in silenzio, e vivere nella sua carne la solitudine ebraica dei propri cari. In nessun caso si tratta di persone che traboccano sionismo o filo-semitismo. Semplicemente, intuiscono, nell'intimità del loro essere, il mistero di Israele. La tradizione ebraica definisce questo tipo di persone con una formula: “hassid oumot haolam”. "Oumot haolam", sono le nazioni del mondo. “Hessed” - la radice di "hassid" - significa semplicemente generosità o pietà (da cui “hassidim”).
Ma il suo significato primario indica un eccesso [*2], uno straripamento, qualcosa che fa saltare in aria l'ordine naturale - e quindi crudele - delle cose. Insomma, si tratta di una violazione che sconvolge le coordinate della realtà. L'odio verso gli ebrei è la regola, e non c'è da stupirsi. Ma ciò che è sconcertante è il contrario: coloro che sconvolgono il corso intangibile della Storia. E poi c'è il colpo di martello, quello che ha offuscato tutti i nostri radar morali e mentali. Mi riferisco al gesto - incredibile e insopportabile - compiuto al momento della liberazione dell'ostaggio Yocheved Lifschitz, 85 anni, consegnata dal suo carceriere di Hamas alla Croce Rossa. L'anziana signora, prima di separarsi dallo scagnozzo armato e mascherato, lo vuole salutare. Si gira verso di lui, e gli porge la mano. E il terrorista l'afferra e l'accarezza con un gesto inconfondibilmente caloroso. Certo, si può tranquillamente invocare la sindrome di Stoccolma, la follia della vecchia, o la cinica strategia di comunicazione di Hamas, e continuare ad andare avanti. Ma nessuno può negare che quest'uomo, per due secondi, si sia trovato a essere animato da un brivido che assomiglia all'umanità. La scena mi ha ricordato un passaggio di "Maus", in cui Spiegelman padre racconta come ad Auschwitz egli abbia stretto "amicizia" con una delle guardie delle SS, un po' meno crudele delle altre, con cui gli capitava di parlare del più e del meno durante i momenti rubati alla quotidianità infernale del campo di sterminio.
Ora, questo tizio di Hamas, nei prossimi giorni, verrà certamente liquidato dall'IDF, così come avverrà con la maggior parte dei suoi compari, e io sarò l'ultimo a commuovermi. Il suo gesto non lo salva, né tantomeno lo esonera da nulla. Quaggiù non c'è la minima traccia dell'amore di Cristo per il nemico, da andare a cercare. Rappresenta solo un segnale per cui anche coloro che definiamo, in mancanza di una parola migliore, come barbari e selvaggi, possono essere anch'essi attraversati da qualcosa che, contro la loro stessa volontà, ci meraviglia. Ma lo stupore si trova sempre a essere, letteralmente, all'origine stessa del mondo. Nel secondo versetto della Torah, l'universo è "Tohu-Bohu"; un hapax biblico, questo, di cui nessuno conosce il significato. Rashi - in quella che è la prima delle migliaia di glosse, in francese medievale, che scandiscono il suo commento alla Torah e al Talmud - introduce, nel caos semantico, il discernimento: "Tohu", scrive, significa "estordison", vale a dire, ciò che accade nel momento in cui un uomo viene colpito dallo stupore e dalla meraviglia [*3].
Così, gli ebrei, e i loro amici, sono quelli che si stupiscono, quelli che non vengono mai a patti con il mondo così com'è, e loro stessi, a loro volta, sono stupefacenti. Quella che è la popolazione più anziana del mondo, si trova a essere perennemente stupita, come un neonato, stupefatta in ogni momento da tutto ciò che la circonda. Ed è questo - questa insaziabilità, questa incapacità di essere sazi di significato - che non le viene perdonato.
Ruben Honigmann - Pubblicato il 1° novembre 2023 su https://k-larevue.com/
NOTE:
1 Deutéronome ch.28, v.57
2 Cf Lévitique 20,17 et Pirqé de Rabbi Eliezer, traduit et annoté par Marc-Alain Ouaknin et Eric Smilevitch, Verdier, 1992, p130, note 6.
3 Cf Alain Weill, Quand Rachi parlait français. Les laazim de Rachi dans le Tanakh. 2023, p.17
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