venerdì 31 luglio 2020

La danza dei concetti

Marx, dai margini al centro
- di Marcelo Guimarães Lima -

Il marxismo, ha osservato il filosofo Michel Henry [*1], consiste in una serie storica di fraintendimenti, in un insieme di contraddittori, di incomprensioni e di distorsioni (inconsce o meno), dichiarate espressamente e confermate, in contesti diversi e in varie forme, a proposito dell'opera di Marx.
Tra i vari equivoci che riguardano i concetti espressi dal pensatore tedesco, le accuse, più o meno recenti, provenienti dai diversi critici dell'etnocentrismo, del determinismo o del fatalismo, del riduzionismo, della linearità, dell'unidimensionalità, o di quello che potremmo chiamare «hegelismo sistemico», vale a dire, la proiezione di distinzioni astratte sul corso reale della storia. Tutte queste attribuzioni, insieme ad altre, sono state analizzate, problematizzate e confutate criticamente da Kevin Anderson nel suo paziente esame - documentato, contestualizzato ed argomentato - degli scritti di Marx, in un importante libro: "Marx at the Margins. On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies" (University of Chicago Press, 2016). Anderson esamina quello che è stato lo sviluppo del pensiero di Marx circa le dinamiche del moderno sistema capitalistico, nella sua espansione interna ed esterna. Il suo lavoro si concentra sulle idee del pensatore e rivoluzionario tedesco riguardo le società non capitalistiche, viste nella storia e nell'attualità, insieme alle relazioni di subordinazione e di sfruttamento sistemico, che il capitalismo, nel colonialismo moderno, stabilisce tra centro e periferia, e come una tale questione, secondo l'autore, sia assolutamente centrale ai fini della comprensione del marxismo di Marx. Di quel Marx che, proprio lui, come dice il famoso aneddoto, negava, sottolineandolo con enfasi, di essere «marxista», per una buona ragione.
Inizialmente, il moderno capitalismo industriale si è sviluppato in Europa, a partire da alcuni nuclei ben precisi. Tale sviluppo, ha prodotto diverse asimmetrie, vari conflitti e gerarchie, sia interne tra gli agenti - vale a dire, le classi sociali differenziate secondo quelli che erano i loro ruoli ai fini della strutturazione del sistema - che esterne, tra i nuclei iniziali concorrenti, e tra questi e gli spazi di dominio socio-storici che erano situati ai margini dei nuovi processi, secondo ed aspetti differenti. Come aveva compreso Marx, il capitalismo è un sistema totale e, come tale, tende a subordinare, assorbire, modificare e satellizzare tutti i processi e tutte le strutture di riproduzione materiale e simbolica della società, ovunque e dappertutto. Il capitalismo moderno, cioè quello che si è sviluppato come industria alla fine del 18° secolo e in tutto il 19°, è un sistema globale, vale a dire, un sistema che ha avuto bisogno fin dall'inizio, per consolidarsi e prosperare, di superare i limiti regionali e nazionali ed avere come fondamento, base e destino, il mercato mondiale. L'analisi strutturale del capitalismo, alla quale Marx ha dedicato le sue energie ed il suo talento di pensatore, ha sempre avuto come caratteristica essenziale quella di dimostrare che, all'interno dei processi del capitale, si trovano quelle contraddizioni fondamentali che costituiscono il limite storico-strutturale del capitalismo; ed evidenziare, in questi stessi processi, la dimensione negativa, quella che indica il modo - o i modi - possibile di superare il capitalismo, di risolvere le contraddizioni che esso produce e crea per i contesti della vita umana, le alternative che nascono dialetticamente a partire da queste stesse contraddizioni, le possibilità future, o le possibilità di futuro, che il capitalismo propone e sopprime allo stesso tempo.
Il moderno capitalismo industriale europeo, nella sua espansione geografica, si è presentato come una sfida storica decisiva, vitale per le diverse formazioni sociali "periferiche", o non capitalistiche - con i loro diversi livelli di sviluppo culturale, economico e tecnologico. Le analisi, distinte e complementari, dei Grundrisse e de Il Capitale dimostrano che per Marx non si tratta di riproduzione secondaria o "marginale" di un presunto movimento lineare a senso unico della «freccia del tempo» storico, bensì, al contrario, si tratta di comprendere globalmente i conflitti essenziali del presente, i quali si presentano con i loro propri elementi e con dinamiche specifiche, sia nelle società capitalistiche centrali e nella periferia dello spazio socio-storico del capitalismo europeo, vale a dire, nel sistema mondiale così come Marx lo vedeva emergere agli albori della modernità. Nel processo di espansione capitalistica, ha osservato Marx, le muraglie cinesi nulla possono contro l'invasione degli "eserciti" delle mercanzie a basso costo, il sistema manifatturiero annichilisce artigianato e artigiani, il progresso tecnico viene pagato col sangue nei centri e nelle periferie, il dominio sotto la giustificazione «civilizzatrice» è in realtà barbarie e crimine. Pertanto, nelle sue analisi delle lotte anticoloniali del suo tempo durante l'impero britannico, Marx può ricordare alla borghesia inglese che la colonia, la periferia, è parte integrante del nucleo del sistema. De te fabula narratur: il racconto sanguinoso del dominio e dell'umiliazione coloniale, della barbarie stabilita, non è un'altra storia, la storia più o meno lontana dell'altro, ma è la sua propria storia. Il capitalismo, nella sua imperiosa espansione crea uno spazio di unificazione dell'umanità. Unificazione conflittuale, sotto l'egemonia del sistema produttore di merci, che impone agli uomini una soluzione vitale nel presente. In questo spazio unificato, si manifestano quelle che sono le effettive potenzialità del superamento degli antagonismi sociali costituiti e costitutivi della storia. Potenzialità che, come abbiamo visto, il capitalismo colloca e soffoca in un unico stesso movimento che riguarda tutto l'insieme dell'umanità nel processo storico di superamento della preistoria umana.
A partire dal paradigma iniziale europeo - vale a dire, dall'analisi approfondita della formazione storica dell'Europa del suo tempo, e dall'esperienza delle trasformazioni rivoluzionarie contemporanee, delle quali Marx, attivista politico ed esule, intellettuale cosmopolita e scrittore multilingue, è stato testimone e a cui ha anche partecipato - si svilupperà il pensiero del filosofo tedesco, come dimostra Kevin Anderson incorporando in maniera essenziale le esperienze delle lotte di resistenza dei popoli soggiogati dal colonialismo (India, Cina), delle lotte di emancipazione degli schiavi neri negli Stati Uniti, delle lotte di liberazione nazionale popolare in Europa (Polonia, Irlanda), nell'analisi dei movimenti popolari, nella loro attualità e nelle loro complesse ed imprescindibili relazioni con le iniziative autonome della classe operaia, e nel considerarle all'interno di una visione effettivamente globale e, pertanto, multidimensionale di quella che è la diversità e l'unità con il presente. L'autore coglie quale sia stato il contributo concettuale delle analisi rispetto all'attualità, l'opera giornalistica di Marx riguardo, tra gli altri temi del suo presente, la guerra civile negli Stati Uniti, le guerre dell'oppio in Cina, le ribellioni in India, ai fini della maturazione e della concretizzazione dell'architettura teoria de Il Capitale, così come viene stabilito da Marx, nella sua ultima revisione, in modo particolare nella traduzione francese. È in questa prospettiva globale e multidimensionale che Marx andrà conseguentemente a sviluppare la concettualizzazione di quelli che sono dei percorsi differenziati di superamento possibile del sistema capitalistico, come, ad esempio, nel suo studio della società russa sotto l'autocrazia zarista e delle potenzialità rivoluzionarie delle comunità contadine consolidate, facendo dei tagli rispetto alla fase storica della rivoluzione borghese, laddove la borghesia farfugliava di un suo ruolo immaginario in quella che era invece la sua totale mancanza di un ruolo storico. La storia universale umana cessa perciò di esibire un cammino unico, e non viene più presentato un paradigma esclusivo per la visione del presente.
Nel Manifesto comunista, Marx, come se fosse un «poeta delle merci», secondo quanto viene detto da Edmund Wilson [*2], elogia espressamente ed entusiasticamente le realizzazioni materiali (rivoluzionarie, in quanto escono una prospettiva storica) della borghesia, la classe portatrice di quelle che sono le nuove relazioni capitalistiche. Per la coscienza del tempo e della storia, la grande impresa della borghesia è stata quella di demistificare il passato, mostrare in pratica quale sia la base materiale che struttura i molteplici aspetti della vita umana, strappare il velo millenario delle illusioni idealistiche a proposito della vita comune e delle forme di pensiero. Il ruolo del socialismo, ancorato all'esperienza della moderna classe operaia e dimensionato nelle lotte contro la diverse forme di oppressione della nazionalità, delle minoranze etniche, dei popoli, delle razze e dei generi, è quello di demistificare il presente. Nello stesso momento in cui la borghesia, con le sue azioni rivoluzionarie e per mezzo dei suoi ideologhi e dei suoi rappresentanti spirituali, svelava il carattere storico della vita umana, la transitorietà delle forme sociali fondate sulla produzione e sulla riproduzione materiale delle condizioni di vita, essa cercava di nascondere la dimensione storica del presente. Di fatto, grazie alla borghesia abbiamo avuto una storia, un processo che è culminato nella moderna civiltà materiale e spirituale: la civiltà borghese. Da quel momento in poi, osserva Marx con ironia, per la nuova classe dominante la storia smette di esistere. Nel Manifesto comunista, Marx spiegava brevemente in forma didattica le ragioni fondamentali della creazione storica del nuovo sistema, la cui gestazione avviene all'interno della precedente formazione storica, e la sua relativa «inevitabilità», vale a dire, il trionfo del capitalismo industriale in Europa, basato su un'inedita capacità produttiva che rivoluzionava i modi di vita tradizionali, superando le strutture e i processi socioeconomici precedenti. Simultaneamente, il Manifesto sottolineava le contraddizioni, l'instabilità strutturale del capitalismo moderno e la sua altrettanto «inevitabile» trasformazione, in quanto creazione storica, come figlia del tempo e, pertanto, forma transitoria.
Spiegare le ragioni significa: mostrare come si è verificato un determinato sviluppo e per quali motivi sia avvenuto proprio così, e non in un altro modo. Ecco che qui possiamo vedere l'autore del Capitale sotto le vesti di ricercatore scientifico di grande rigore e talento. Indicare e sottolineare quali sono le contraddizioni all'interno della formazione attuale significa: mostrare che il processo storico continua e si sviluppa secondo varie dimensioni, istanze diverse e strettamente correlate, e che, a partire da questa complessità strutturata e strutturante, il futuro non si delinea una volta per tutte secondo quella che è l'eredità del passato, e neppure nel risultato di un presente così come esso è.
E qui lo scienziato sociale si dimostra, in un solo gesto, attivista rivoluzionario: il futuro è, infatti, un libro che oggi deve essere ancora scritto, una narrazione (non importa se viene classificata come "maggiore" o "minore") che dipende dall'iniziativa dei suoi attori, dove le condizioni date delimitano, ma non escludono, delle scelte, delle alternative generate da dei processi materiali e da interessi in conflitto, che hanno delle espressioni proprie, vale a dire, ciascuna i loro rispettivi concetti e valori. Ad un futuro aperto, corrisponde un passato ridimensionato: nelle sue investigazioni etnologiche, Marx approfondisce la conoscenza delle società non capitalistiche, delle forme di vita comunitaria che nel processo storico dimostrano una capacità inventiva ed adattiva della specie e delle attitudini umane, in contesti diversi, per delle forme non conflittuali, sebbene limitate, di socievolezza cooperativa, ed alcune di quelle che sono le potenzialità dello sviluppo umano multidimensionale. L'analisi dialettica della storia di Marx procede come se fosse una critica immanente, vale a dire, partendo dall'interno dei processi socio-storici e dalle forme di coscienza corrispondenti, prendendole come se fossero vere e proprie determinazioni, evidenzia i limiti tendenziali, le contraddizioni interne che portano ad un'impasse e alla necessità di un superamento pratico e ideologico delle stesse. Ignorare, in questa analisi, quella che è la «danza» dei concetti, vale a dire, il movimento del pensiero che è proprio dell'approccio dialettico. significa scambiare le parti isolate per la totalità, cosa che produce delle letture riduttive, impoverenti e fuorvianti rispetto a quella che è la vasta e complessa opera di Marx. Allo stesso modo, un problema ricorrente, comune sia a certe letture militanti che a letture rapide, abbreviate e sinteticamente critiche dell'opera di Marx, è quello di procedere prendendo immagini, metafore ed illustrazioni scambiandole per concetti, come ha osservato Ludovica Silva a proposito della forma plastica degli scritti del pensatore tedesco [*3]. Nelle descrizioni del capitalismo, ad esempio, le formulazioni e le immagini sintetiche, evocative, incisive presenti nei testi di Marx producono una sorta di abbreviazione e un cortocircuito espressivo (unità e contrasto di forma e contenuto) come se si trattasse di un forma che spinge ad una raffigurazione delle contraddizioni, di rappresentazione dello stesso modello dialettico della storia.
Qui, a partire dalle argomentazioni di Kevin Anderson, possiamo tracciare un parallelo tra la lettura dell'opera di Marx vista come se fosse un capitolo in più dell'economia politica del 19° secolo e ciò che negli scritti di Marx viene evidenziato come disavventure, incidenti di percorso, rischi, aporie, limiti, contraddizioni, ecc., tutte cose proprie della filosofia della storia (borghese) così come si delineava nel 18° secolo e che culminava nell'idealismo tedesco (la «sublimazione» della rivoluzione francese nel mondo delle idee) con Hegel. Rispetto a questo, il marxismo sarebbe piuttosto un'altra «grande narrazione» che sottomette la diversità della storia reale ad una considerazione lineare, limitata, soggettiva, e quindi marcatamente "etnocentrica", ecc. Una narrazione che i disastri del 20° secolo, le guerre, le rivoluzioni interrotte e abortite, i rischi legati alla tecnologia, l'amministrazione aziendale della vita sociale, la crisi ecologica, ecc. dovrebbe aver sepolto in maniera definitiva. Come dimostrano le note a margine degli argomenti di Marx, tali letture e le loro formulazioni critiche si trovano ben al di sotto della complessità della teoria elaborata da Marx in quella che è stata l'analisi minuziosa e critica delle categorie dell'economia politica, e nell'analisi altrettanto densa dell'ideologia, vale a dire, delle idee dominanti nel suo tempo. Queste, negli aspetti essenziali, in quanto «eredità» e attraverso adattamenti, ancora in vigore ai nostri giorni. Le analisi svolte da Kevin Anderson in questo libro, ci ricordano che l'esame e la valutazione dell'opera di Marx implicano non solo la necessità di contestualizzare, collocare nel suo tempo e nel suo campo teorico e pratico di intervento le idee del pensatore e rivoluzionario tedesco, cosa che l'autore americano svolge brillantemente, ma anche che questo procedimento implica parimenti un'analisi e una valutazione reciproca di quelle che sono le prospettive dell'analista stesso. Cosa che non appare evidente in molti dei critici recenti delle opere dell'autore del Capitale i quali, appropriatamente o meno, vengono definiti "postmoderni". Il libro di Kevin Anderson, nei dibattiti del nostro tempo si colloca controcorrente per quanto riguarda alcuni aspetti centrali dell'ideologia contemporanea che, nel contesto della frammentazione e "privatizzazione" dell'esperienza da parte del sistema del capitalismo neoliberista, tendono in maniera paradossale a rendere particolarmente difficoltosa la comprensione dell'insieme e delle sue articolazioni fondamentali, nel momento in cui la mercantilizzazione universale delle relazioni umane si approfondisce, nel senso di equiparare come astrazioni equivalenti, e subordinarle in nome delle qualità, delle preferenze e delle differenze, i soggetti ed i loro contesti.
Queste brevi osservazioni hanno il solo scopo di indicare al lettore la ricchezza storiografica, documentale e concettuale del libro di Kevin Anderson. L'autore fa ricorso alle fonti in maniera esaustiva e produttiva, dimostrando il ruolo creativo che deve avere l'erudizione nel lavoro intellettuale, e dimostrando così con le sue analisi la pratica della riflessione critica vista come auto-riflessione.

- Marcelo Guimarães LimaPubblicato il 12/6/2020 su Blog da Boitempo -

NOTE:

[*1] -  Michel Henry, Marx, a philosophy of human reality, (Bloomington, Indiana University Press, 1983).

[*2] - Edmund Wilson, Stazione Finlandia(BUR Rizzoli).

[*3] -  Ludovico Silva, El estilo literario de Marx (México, DF, Siglo XXI Editores, 1975)

fonte: Blog da Boitempo

giovedì 30 luglio 2020

« Patologicamente bilingue »

Charles Simic ha scritto un saggio il cui titolo e contenuto riassumono (e simultaneamente la espande) quella che sembra essere l'esperienza che viene condivisa da numerosi artisti che ad un certo punto hanno dovuto fuggire: Prigioniero della Storia. Nel 20° secolo, uno dei casi più paradigmatici è senza dubbio quello di Nabokov: tutti noi immaginiamo con fervore le varie possibilità di vita nel futuro, un futuro che poco a poco si va sempre più allontanando, ma solo l'artista sembra poter avere la capacità di rivendicare, all'interno della sua produzione, quelle che sono tali possibilità, aggiornando costantemente la tensione esistente tra l'infanzia e ciò che è diventato.
A partire da Nabokov, Simic compone, con "Aleksandar Hemon", una sorta di triade di Prigionieri della Storia provvisti di un demoniaco dominio del linguaggio; o meglio, un dominio della capacità di saper passare da una lingua all'altra (dal russo all'inglese, in Nabokov; dal bosniaco all'inglese in Hemon). Così, Hemon, per esempio, si dichiara «patologicamente bilingue» , contraddistinto in questo dal suo brusco e repentino abbandono del suo paese, a causa dell'assedio di Sarajevo nel 1992. «Le nuove parole e le nuove locuzioni in bosniaco nascevano dall'esperienza della guerra», scrive, «e sentivo che non avevo il diritto di usare quelle parole così duramente conquistate. Non potevo più scrivere in bosniaco». Lo scambio della lingua - lo spettacolo dello scambio della lingua, così come viene mostrato a partire dall'incredibile capacità mostrata da Nabokov, Simic ed Hemon - è simultaneamente tanto il simbolo ed il risultato di un volo, quanto quello di un radicamento: prigionieri per sempre dell'evento traumatico (rivoluzione, guerra, assedio) e, allo stesso tempo, costretti sempre più a prendere le distanze dall'evento, per tutto quello che si può fare artisticamente a partire da quell'evento. Simic parla della sua foto da bambino insieme alla madre, mentre passeggiano per le strade di Belgrado: «alla fine ero riuscito a convincerla a comprarmi un giocattolo, sebbene, a nostra insaputa, Hitler e Stalin e il loro eserciti avevano già i loro piani per trasformarmi in un poeta americano».

fonte: Um túnel no fim da luz

mercoledì 29 luglio 2020

Il cadavere dell'umanità

La psicopatologia del tessuto sociale in Frantz Fanon: la duplice negazione dell'identità e dell'alterità.
- di João Carvalho -

Frantz Omar Fanon è stato un pensatore ed un rivoluzionario nato in Martinica che, durante la seconda guerra mondiale nella lotta contro il nazismo, servì nell'esercito francese. Dopo essersi congedato dall'esercito, studiò medicina a Lione, dove si specializzò in psichiatria. Oltre medicina, Fanon ha studio in maniera approfondita le scienze umane, frequentando i corsi di Jean Lacroix e Merleau-Ponty. La sua biblioteca ci racconta come egli sia stato un attento lettore di Hegel, Marx, Lenin,  Kierkegaard, Husserl, Sartre, Mao Zedong, Ho Chi Minh, tra gli altri. [*1] È comprendendo Fanon in quanto intellettuale e militante, la cui prassi, così come la sua teoria, si abbeverava alle fonti del marxismo-leninismo e, di conseguenza, alle fonti delle coeve lotte anticoloniali - tra cui spiccano la lotta di indipendenza della Cina e dell'Indocina (Mao e Ho) - che diventa così importante comprendere quali sono le categorie teoriche dentro tale strumentario. Per l'esattezza, è stato proprio approfondendo il concetto di alienazione in Hegel e in Marx che nel 1952 ha scritto "Pelle Nera, Maschere Bianche" per ottenere il suo dottorato. Finiti gli studi, Fanon si trasferì a Blida-Joinville, in Algeria. È nel contatto quotidiano diretto con gli orrori della situazione coloniale [*2], e della alienazione che patologizza la realtà della colonia, che Fanon si impegnerà nella lotta per l'indipendenza algerina. Già militante del Fronte di Liberazione Nazionale algerino, diverrà rappresentante del Governo Provvisorio come diplomatico dell'Algeria in diversi incontri tra paesi africani ed il cosiddetto Terzo Mondo. Sarà durante questo periodo che scriverà "L'anno V della rivoluzione algerina", oltre agli articoli per El Moujahid (il periodico ufficiale del Fronte di Liberazione Nazionale algerino), che verranno poi raccolti nell'antologia "Per la rivoluzione africana. Scritti Politici", pubblicato postumo nel 1964.
Nel 1961, Fanon scopre di avere la leucemia, e in dieci mesi scrive "I Dannati della Terra", con la prefazione di Sartre, che è probabilmente la sua opera di maggior impatto. [*3] Il suo pensiero si inserisce nel contesto delle indipendenze africane, nel cosiddetto "terzomondismo", e nel pensiero marxista periferico [*4], ed ha influenzato da Paulo Freire fino alle Pantere Nere. L'opera fanoniana è pervasa dal problema politico e da quelle che sono le questioni del riconoscimento nel quadro della ricerca di una più ampia comprensione delle totalità che compongono la situazione coloniale [*5]. In questo testo, si cerca in particolare di indagare sulle questioni riguardanti il riconoscimento (o meglio, l'assenza del). In che modo avviene la costruzione del nero nella situazione coloniale? In che modo gli vengono negati simultaneamente identità ed alterità? Quali sarebbero secondo Fanon i suoi percorsi di rottura e di tensione? Tutte queste risposte, presuppongono un percorso che ci porti a comprendere come - per citare Achille Mbembe - il nero è diventato il cadavere della modernità.

Preambolo: l'avvento del razzismo
Il filosofo  Douglas Rodrigues Barros sostiene che «senza un linguaggio capace di esprimere, simultaneamente, la costituzione storica e la sua frattura costitutiva, non ci può essere movimento concettuale » [*6]. Ora, se siamo d'accordo sul fatto che l'invenzione del nero, in quanto grammatica della negatività e in quanto negazione, è la pietra di paragone delle modernità, ecco che allora è a partire dalla critica di questa invenzione che dobbiamo compiere ogni nostro sforzo. Quando Fanon ci parla dell'individuo delimitato dalla situazione coloniale - quella situazione in cui ad un non-essere viene assegnata una differenza ontologica talmente brutale che in un colpo solo lo fa uscire dalla somiglianza e lo rende simultaneamente indegno dell'alterità - egli sta lavorando con i fatti che gli vengono forniti dalla colonizzazione, così come vengono proposti alla sua clinica e conformemente a quanto è dimostrato dalla sua esperienza. Tuttavia, la costruzione della figura del negro nella situazione coloniale è di lunga durata, e avviene in un processo dialettico che con un unico movimento ha determinato la produzione e la riproduzione del capitale, e da questa è stata determinata. Esaminiamo ora alcuni aspetti nord-orientali di questa storia.
Mary Louise Pratt, guardando ai processi costitutivi l'iscrizione, nel discorso europeo, del «nuovo mondo» formato dai continenti africano e americano - nonostante esso rimanga sempre fedele alla formazione di zone di contatto [*7] e alla transculturazione [*8] - ci mostra in maniera indelebile come l'esperienza del viaggio, e la letteratura da questa esperienza prodotta, costituiscano uno spazio privilegiato per la costituzione di un paradigma imperiale. Razzializzato, esotico, a volte completamente terrificante, o del tutto privo di ogni contatto con l'umanità, situato tra il vuoto completo ed il riempimento attuato per mezzo di forze di uomini disumani, il discorso mira al controllo dei corpi, delle geografie e degli immaginari.
« La categorizzazione degli esseri umani, come si può notare, è esplicitamente comparativa. Difficilmente potrebbe esserci un tentativo più evidente di "naturalizzare" quello che è il mito della superiorità europea [...] Una ad una, le forme di vita del pianeta dovevano essere estratte dal groviglio del proprio ambiente ed essere raggruppate secondo gli standard europei di unità globale e di ordine. Lo sguardo (istruito, maschile, europeo) che veniva rivolto al sistema avrebbe potuto rendere familiare ("naturalizzare") nuovi luoghi/nuove visioni subito dopo il contatto, attraverso la sua incorporazione al linguaggio del sistema. » (Mary Louise Pratt, "Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation").
Non è solo il discorso letterario ad aver usato simili sotterfugi; anzi, o meglio, in maniera concomitante, esso è stato solo lo specchio dello "Zeitgeist" che ha dato origine al tentativo di contrabbandare il razzismo come scienza, sia nel campo dell'etnografia che in quello dell'economia politica. Domenico Losurdo, nel suo "Controstoria del liberalismo"(Laterza) ci porta diversi esempi degli stratagemmi razzisti usati dai padri del Liberalismo classico, sia nei loro saggi di Economia politica che in quelli di Morale. Anche quando se ne stavano zitti, il loro silenzio era un lamento eurocentrico. Basta leggere la descrizione dell'America di Tocqueville per accorgersi dell'assenza di due elementi, quello indigeno e quello nero. Questa democrazia "herrenvolk" (del popolo eletto) [*9] che non è stata possibile nonostante la riduzione in schiavitù ed il razzismo, essa era possibile proprio in forza di entrambe queste due cose. Il flusso di transito atlantico di idee e teorie sulla razza era una strada a doppio senso che retro-alimentava la bestia della guerra colonialista in quella che era la sua sete di sangue, di capitale e di territori. Come mostra Tzvetan Todorov, nel suo libro "Noi e gli altri", la formulazione delle prime teorie poligenetiche può essere fatta risalire alla fine del 17° secolo e fino al 18°. La legislazione non ci avrebbe messo molto ad accompagnare la pseudo-scienza e già nei primi mesi del 18° secolo abbiamo negli Stati Uniti tutta una serie di leggi segregazioniste che avrebbero inasprito la condizione dei neri e preparato all'incremento della separazione. È stato questo l'infame atto di nascita della modernità.

Situazione coloniale: echi fanoniani in Agamben
Per Fanon, l'individuo è il prodotto del suo ambiente, per lui è impraticabile curare e disalienare l'uomo se poi si intende reinserirlo in una situazione di sfruttamento, di espropriazione e di alienazione. Perciò bisogna comprendere in che modo la situazione coloniale alieni e disumanizzi continuamente il colonizzato, dalla culla alla morte, e come questo processo sia un processo di razionalizzazione. Profondamente influenzato dall'opera di Freud e dal primo seminario di Lacan, Fanon arriva a percepire già nel linguaggio, quello che è il primo trauma nei confronti del soggetto colonizzato. Prima di essere un uomo, egli è un aggettivo: nero, arabo, antillano, nordafricano. Tale aggettivazione negativa viene imposta e crea un individuo limitato e circoscritto che affronta la società a partire da una socialità che rifiuta il suo status ontologico e simultaneamente annulla l'epistema del suo popolo. Questo duplice attacco, che non consente l'uguaglianza tra simili né il riconoscimento dei disuguali che partecipano di qualcosa in comune, porta alla mummificazione della cultura locale e relega il soggetto nello spazio del non essere. Private di ciò che le rendeva umane, queste persone finiscono per trovarsi in un limbo giuridico e morale, in uno stato di eccezione costante, giustificato e ridefinito dallo Stato stesso, in modo che è proprio nella situazione coloniale che la maggior parte della popolazione vive in maniera aperta quella che è una nuda vita. Credo che a questo punto sia necessario definire il concetto di nuda vita per Agamben, cosa che presuppone anche una breve digressione sul suo concetto di homo sacer.
Per Agamben, la nuda vita si riferisce all'esperienza di non protezione e allo stato di illegalità di chi viene trascutato ed è costretto a vivere in una terra di confine che si trova al di là dell'ordine costituito; è la costante esperienza di chi viene costretto a vivere sottomesso ad uno stato di eccezione. Nuda vita si riferisce alla spazio fortemente artificiale che viene generato dalle strutture di potere nel momento in cui escludono dalla protezione giuridica quelle forme di vita che non si sottomettono al suo ordine. [*10] L'homo sacer [*11] si configura a partire dalla produzione di nuda vita per l'apparato sovrano, una vita che diventa sacra; vale a dire, passibile di essere assassinata senza che vi sia punizione ed interdetta al sacrificio rituale, ossia, in ultima analisi, impura. Nel proporre il concetto di homo sacer, Agamben ci mette di fronte a quella che apparentemente potrebbe essere un'aporia. Per Agamben, a partire dal 19° secolo, nelle scienze umane, l'ambiguità dell'idea di sacralità apparirà come un mitologema [*12] scientifico  e servirà ad impedire un'analisi del potere sovrano soggiacente al concetto di sacer. Per l'autore, la sacratio va interpretata come una figura autonoma e come una sorta di struttura politica originaria che si colloca in una zona che precede la distinzione tra sacro e profano, tra religioso e giuridico. Tale struttura sarebbe l'origine della sfera sovrana, in quanto è in questa sfera che si verifica la duplice esclusione sia del diritto divino che di quello umano: «nel caso dell'homo sacer una persona è semplicemente posta al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina». [*13] Una tale struttura coniuga l'impunità per l'uccisione con l'esclusione dal sacrificio. Pertanto, ciò che definisce la condizione di homo sacer è precisamente questa duplice esclusione a cui egli si trova esposto: «la violenza, vale a dire, l'uccisione insanzionabile che chiunque può commettere nei suoi confronti, non viene classificata né come sacrificio, né come omicidio, né come sacrilegio». [*14] Situato al di là del diritto penale e del diritto divino, l'homo sacer è la rappresentazione archetipica di quella vita la cui esistenza è vincolata al potere sovrano (alla situazione coloniale, per Fanon, al Potentato Coloniale per Mbembe), rappresentando in tal modo l'esclusione originaria per mezzo della quale si costituisce la dimensione politica. Per Agamben, «Sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera.» [*15] Pertanto, «la sacralità della vita, che si vuole affermare contro il potere sovrano, come un diritto umano fondamentale, esprimerebbe, al contrario, in origine, l'assoggettamento della vita ad un potere di morte e la sua irreparabile collocazione in quella che è una relazione di abbandono». È l'idea di una biopolitica che porta ad una necropolitica, in cui il controllo dei luoghi e dell'immaginario pervade e attraversa il controllo dei corpi ed avrebbe la funzione di isolare e separare la nuda vita da un'identità e da una condizione di appartenenza, sia essa nazionale o appartenente a dei gruppi separati all'interno degli Stati. Ed è questo il modo in cui ci accostiamo di nuovo a Mbembe e possiamo finalmente comprendere la sua affermazione secondo cui il nero è il cadavere dell'umanità. «Morto» nella sua ontologia, disciplinato dall'ordinamento giuridico, ridotto a nuda vita, il nero è simultaneamente cadavere e spettro. Egli reca in sé la faccia nascosta del presunto progresso del capitalismo, ma egli è anche colui che potrebbe rompere questo ordine notturno che sfrutta ed espropria mentre cerca di nascondere il suo volto malato. Per Mbembe, il divenire nero del mondo è per l'appunto l'allargarsi del peccato del nero ad una parte sempre più grande dell'umanità; vale a dire: ai latini, agli asiatici, e infine ai poveri e ai periferici migranti, a tutti quelli che sono alienati dal presunto progresso che il capitalismo porterebbe. Ma allora rimane una domanda: Come fare a rompere questo continuum? Quali sono i modi possibili per rompere questo paradigma di sfruttamento ed espropriazione?

Conclusione
Se per Mbembe ed Agamben la rottura si compie in forma metafisica, attraverso la ricerca (per Mbembe) di una clinica del soggetto dove si possa tentare una rottura del trauma freudiano, mentre (per Agamben) la soluzione intravvista è quella di una trasformazione radicale della prospettiva alienata che avviene per mezzo della conoscenza, la quale porterà alla rottura dell'individualismo atomistico per mezzo di quella che egli chiama una forma di vita; per Fanon la rottura  è assolutamente materiale, e può essere realizzata solo attraverso la lotta rivoluzionaria. Fanon comprende che l'unica forma di superare la situazione coloniale è per mezzo della sua completa distruzione. Solo rifondando radicalmente quelle che sono le badi della socialità umana si potrà disalienare l'uomo. In una relazione dialettica, l'alienazione dell'uomo e del corpo sociale può avere termine solo se c'è un Aufhebung [*16] che sopprima e superi entrambe le alienazioni in una nuova realtà Ed è per questo che Fanon vede l'uso della violenza rivoluzionaria, sia fisica che simbolica, così come gli adattamenti e le innovazioni relativi all'uso del linguaggio del colonizzatore da parte del colonizzato, come una strada da percorrere per rompere la mummificazione della cultura. Il processo stesso è già di per sé una catarsi collettiva che dà inizio ad un rinnovamento degli individui e delle collettività, ed è propizia all'emergere di un uomo nuovo. Pertanto, rendere accessibile il campo mentale dev'essere un compito, non di semplice analisi interna delle nostre fonti primarie, ma, soprattutto, un compito legato al metodo, che faccia apparire gli indizi ed i segnali che costituiscono la specificità del contesto, o dei contesti scelti, e dei paradigmi che li governano. Saper ascoltare quello che i testi ci stanno gridando, ma, soprattutto, saper far parlare i loro silenzi. Per finire, in quanto storico, latino e periferico rispetto al nostro sistema mondiale di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, non ci rimane altro che attuare quanto dice il rivoluzionario burkinabé Thomas Sankara: «Non si può attuare un cambiamento fondamentale senza una certa dose di follia. In questo caso, si tratta del coraggio di voltare le spalle alle vecchie formule, del coraggio di inventare il futuro. Del resto, ci sono voluti i folli di eri perché si possa essere in grado di agire con estrema chiarezza oggi. Voglio essere uno di quei folli». (Thomas Sankara, "Thomas Sankara Speaks: The Burkina Faso Revolution 1983-87" Atlanta: Pathfinder, 1988, p.144).

- João Carvalho - Pubblicato il 18/6/2020 su Blog da Boitempo  -

NOTE:

[*1] - Sulla biblioteca di Fanon, si veda Jean Khalfa, "La Bibliothéque de Frantz Fanon. Liste établie, présentée et comentée par Jean Khalfa". Apud Frantz Fanon, "Écrits sur l'aliénation et la liberté: Èuvres" II. Ed. Jean Khalfa e Robert Young (Parigi, La Découverte, 2015), p. 715-98.

[*2] - Sul concetto di Situazione Coloniale, si veda:  G. Balandier, “A Noção de Situação Colonial“. Cadernos De Campo (São Paulo 1991), 3(3), 1993, p. 107-31.

[*3] - A titolo di esempio, una ricerca di "dannati della terra" ha prodotto 922 risultati, mentre "Pelle Nera, Maschere Bianche" ha dato solo 45 risultati.

[*4] - Per "pensiero marxista periferico", intendiamo quegli autori che rompono con l'eurocentrismo e con le prospettive orientative di una certa parte della tradizione marxista, principalmente quella legata all'euro-marxismo. Si tratta dei pensatori della linea marxista-leninista, eredi del cosiddetto Congresso di Baku per la liberazione dei popoli dell'Oriente, vale a dire "Popoli oppressi e lavoratori di tutto il mondo unitevi". Tra questi pensatori, tra gli altri ci sono Fanon, Mao, Ho, Che Guevara, Mariátegui, Lumumba, Thomas Sankara, Leila Khalil, Huey Newton, Carlos Fonseca, Ruy Mauro Marini. A questo proposito si veda: Domenico Losurdo: "Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere" ( Laterza, 2017).

[*5] - Sul concetto di Situazione Coloniale si veda G. Balandier, cit.

[*6] -  Douglas Rodrigues Barros, "Lugar de negro, lugar de branco? Esboço para uma crítica à metafísica racial". (São Paulo, Hedra, 2019), p.25.

[*7] - «Un altro concetto fondamentale del libro, è quello di zona di contatto che viene inteso come sinonimo di frontiera culturale, enfatizzando le dimensioni interattive ed improvvisate degli incontri coloniali, mettendo in discussione il modo in cui i soggetti coloniali vengono costituiti nelle (e per mezzo delle) relazioni tra colonizzatori e colonizzati.» (Maria Helena Pereira Toledo Machado, “Os Olhos do Império. Relatos de viagem e transculturação”. Rev. bras. Hist., São Paulo, v. 20, n. 39, p. 281-289, 2000.)

[*8] - Il termine transculturazione è stato creato negli anni '40 da Fernando Ortiz, nel suo "Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero" (città aperta, 2007), ed è correlato all'universo degli scambi culturali.

[*9] - Il concetto usato da Losurdo, letteralmente vuol dire democrazia del popolo eletto. Questo "popolo" era uomo, bianco e possidente. A taò proposito si veda Domenico Losurdo, op.cit.

[*10] - Gustavo Oliveira de Lima Pereira, “Vida nua e estado de exceção permanente: a rearticulação da biopolítica em tempos de império e tecnocapitalismo”, em: Revista Sistema Penal & Violência. Porto Alegre, volume 06, número 02, p. 215-231, jul/dez. 2014.

[*11] - In latino, “homem sagrado” è una figura del diritto romano che rappresenta qualcuno che si trova al di fuori della sfera della sicurezza giuridica sia indegno della sfera del Sacro. Su questo, si veda, Giorgio Agamben, "Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita", Einaudi.

[*12] - Mitologema, secondo la definizione di Károly Kerényi, significa l'elemento minimo riconoscibile di un complesso di materiale mitico che viene continuamente rivisto, riformulato e riorganizzato, ma che in sostanza rimane in realtà la stessa storia primordiale. Tale storia primordiale è il mitologema. Nella polemica con Bronislaw Malinowski, considerato uno studioso serio, ma troppo empirico, e che negava il valore simbolico del mito, Kerény ha cercato di dimostrare ciò che esiste di universale e di fondamentale nel mito. Il mitologema è un modello archetipico che, arricchito con elementi propri di una cultura, dà origine al mito. Sul tema, si vede Károly Kerényi, "A Criança Divina: uma Introdução à Essência da Mitologia" (Rio de janeiro: Editora Vozes, 2011).

[*13] - Giorgio Agamben, Homo sacer, cit., p. 89.

[*14] - Pedro Dalla Bernardina Brocco, “Vida nua e forma-de-vida em Giorgio Agamben e Karl Marx: Violência e emancipação entre capitalismo e estado de exceção”. Em: Dilemas – Revista de Estudos de Conflito e Controle Social, 9(1), Rio de Janeiro, 2016, p. 65-90.

[*15] - Giorgio Agamben, Homo sacer, cit., p. 91.

[*16] - Il termine tedesco «Aufhebung», spesso tradotto con «soppressione», si riferisce al momento della dialettica hegeliana dove due premesse si risolvono per mezzo della creazione di un terzo temrine innovativo che in un solo colpo nega e ridefinisce le due premesse, riportando in questa nuova sintesi una soluzione che contempla il nuovo, ma nel quale soggiacciono le parti che hanno formato il terzo insieme. Sul tema, si veda Georg W. F. Hegel, "La Fenomenologia dello Spirito", Einaudi.

fonte: Blog da Boitempo

martedì 28 luglio 2020

Bipensare

«1984», il degrado della parola
- Nicola Gardini - dalla postfazione alla sua nuova traduzione di «1984», di George Orwell -

1984 è una tragedia della parola. Il tiranno punta dritto al suo cuore, la metafora, organizzando un "regime del significato letterale",  dove a vuol dire a, sempre e per ognuno, e mai a', neppure per qualcuno. Via le sfumature, le associazioni personali, i ricordi, l'ironia. Il tiranno sa bene che la parola non è mai lettera, che non dice mai una cosa sola, neppure quando si sforza o pretende di produrre  messaggi diretti e chiari. La parola disobbedisce per sua natura, presupponendo comunque altri valori, altri contesti. Compare, qui, ora,  con un certo significato, ma potrebbe anche comparire altrove, con un altro significato. Comunque, è già comparsa altrove, e allora reca con sé storia ed esperienza. La parola, perfino quando meno ironicamente intonata, vive di sensi segreti; di un suo potenziale semantico ancora inarticolato ma articolabile; di memorie e di profezie. Non si esaurisce mai nella circostanza del messaggio; non è ferma, sebbene si arresti per un momento nella frase che stiamo pronunciando. Viaggia; è sempre di passaggio, immancabilmente pronta a portarsi di là, provocando pensieri inattesi. È libertà e dà libertà. Chi accetta, anche solo in via ipotetica, la cristallizzazione dei significati sarà il primo a inchinarsi al tiranno. Non a caso il Partito prevede che il suo trionfo sarà definitivo solo con l'edizione definitiva del Dizionario di Novalingua. Costretto ogni vocabolo a un solo significato, che sia valido universalmente, nessuno dirà o intenderà mai più qualcosa di diverso.
L'intera opera di Orwell è percorsa dall'orrore della rovina linguistica. Si setaccino i moltissimi saggi, si frughi ancora tra i vari romanzi che precedono 1984, e salteranno fuori pagine e pagine di riflessione sul degrado della significazione, sulle misure pratiche da prendere e sugli autori da frequentare. Orwell considera il suo mestiere nei termini della pura disciplina verbale. Riconosce l'importanza del modernismo, perché persegue il culto dello stile, e in certo grado se ne considera un continuatore. In verità, ammira apertamente solo Joyce. Per istintiva omofobia (e misoginia) detesta, invece, Proust, la Woolf e Henry James, riuscendo a vederne solo le parti più estetizzanti. I dichiarati modelli sono Swift, Dickens, D.H. Lawrence, Shakespeare, l'Antico Testamento. Per Orwell l'arcinemico della parola non è specificamente il totalitarismo. In effetti, il suo discorso prende a esempio il nativo inglese, ovvero la lingua di una nazione che dittature non ne ha subite. La parola è vittima della storia. La sviliscono degenerazioni e perversioni come la divisioni tra le classi, la cattiva politica, l'influenza dell'americano...
La teorizzazione della Novalingua, a proposito, riprende direttamente considerazioni che Orwell riferisce all'inglese d'America (si confronti l'Appendice del romanzo con il saggio Gli inglesi, The English People, composto nel 1944). Ci si mettono anche i latinismi. Quanto detesta il latino Orwell! Certo, può anche sentirsi affascinato da un verso di Orazio (Parole nuove, New Words, 1940), o anche da tutta un'ode dello stesso poeta. Nel primo romanzo, Giorni in Birmania (Burmese Days, 1934) e in un  più tardo saggio su Eliot (1942) cita «Eheu fugaces» e nella Figlia del reverendo (A Clergyman's Daughter, 1935) fa cadere perfino una citazione di Tacito. In generale, però, Orwell trova nel latino una lingua remota dalla urgenze del presente, un corredo di citazioni supponenti, una materia scolastica insopportabilmente "classy" e, soprattutto, una fonte di cattivi neologismi e di eufemismi menzogneri.
Proprio nell'anno in cui comincia a comporre 1984 nota: «Una massa di parole latine cade sui fatti come soffice neve, cancellando i contorni e coprendo tutti i particolari. Il grande nemico della chiarezza è l'insincerità. Quando non c'è corrispondenza tra le intenzioni reali e quelle dichiarate si ricorre istintivamente alle parole lunghe e alle frasi fatte, facendo come la seppia che butta fuori l'inchiostro» (La politica e la lingua inglese, Politics and the English Language, 1946). Le parole lunghe sono appunto quelle di stampo latino, che in una frase saltano subito all'occhio, di fianco al lessico prevalentemente monosillabico di origine germanica.
La distruzione del linguaggio assume in 1984, che è l'ultimo romanzo completo di Orwell, dimensioni apocalittiche. Molto del fascismo che vi si rappresenta, si sa, richiama direttamente il totalitarismo russo e altri totalitarismi recenti. Né mancano - non dimentichiamolo - riferimenti polemici all'imperialismo e al classismo britannici. 1984, però, non si limita ad allegorizzare il male dei regimi repressivi: mostra che il linguaggio è una grande questione politica, e qui sta la sua più duratura lezione. Alla fine per Orwell il fascismo non si identifica con questo o quel particolare sistema di governo. Il fascismo lo fa, indipendentemente dal colore ideologico, qualunque politico parli male e faccia parlare male; e, parlando male e facendo parlare male, pensi male e faccia pensare male.
Nell'anno in cui comincia 1984 Orwell scrive anche: «La metafora ha il solo scopo di evocare una rappresentazione visuale» (La politica e la lingua inglese). Questa definizione illumina non poco le ragioni del romanzo. Quando usi la metafora, dici A e vedi B. Cioè, dicendo una cosa sola, di fatto compi due operazioni: esprimi un significato a voce, e questo, oltre a consegnarsi a un ascoltatore, si riproduce nella sua testa in forma figurata, e lì si confonde con altre rappresentazioni preesistenti, modificandole, attraendole nella sua orbita, rimescolando il presente e il passato. La metafora entra nella memoria. I pensieri di Winston sono spesso ricordi, e non solo perché lo muova la nostalgia per il tempo andato o per l'infanzia o il rimpianto per la crudeltà con cui si comportò verso la madre e la sorella o il rancore per una moglie che non lo desiderava. Lui, appunto, pensa metaforicamente: "vede" le cose che non ci sono o non ci sono più. È un vero e proprio visionario. O'Brien, il suo torturatore, lo accuserà proprio di questo - di inventare la realtà, di costruirsela con la sua testa - -  e per una volta non sarà lontano dalla verità, sebbene, mentre ci imbattiamo in quell'accusa, O'Brien ci appaia solo un folle negazionista.
Proprio la duplicità della metafora il Partito intende reprimere. Si obietterà che il partito coltivi a sua volta una forma di duplicità, o addirittura di vaghezza: il "bipensare". Sì, c'è il "bipensare". Questo tuttavia non ha nulla che fare con la duplicità della metafora; anzi, ne è la più spettacolare antitesi: Mentre la parola-metafora ammette la simultaneità di due eventi eterogenei, quello sonoro del dire e quello visuale dell'immaginare, il bipensare porta la duplicità nella sfera della logica, abolendo il principio di non contraddizione.
Nel bipensare non si dà un secondo livello figurato. Là esiste solo e sempre un unico livello che coincide con un unico significato. La duplicità - seppure questo termine sia ancora applicabile - si esprime nella capacità di cambiare quell'unico significato secondo la convenienza del momento, nella pretesa che la verità di una proposizione sia subordinata alla necessità delle circostanze, pur nell'evidente falsificazione dei dati presenti e passati. Il dissidente Winston è l'ultimo uomo della metafora, l'uomo che ancora sa "vedere" le parole, proprio lui che al Ministero deve ogni giorno cancellare e adulterare il contenuto degli archivi.

- Nicola Gardini - Pubblicato sul Sole del 10/11/2019 -

lunedì 27 luglio 2020

In quanti modi ?!?


Sui modi di produzione
- di Christophe Darmangeat -

Lo scopo di questa nota non è quello di presentare una scoperta - vera o presunta - su questo difficile argomento, ma quanto piuttosto esporre qualcosa che, a mio parere, potrebbe tenere impegnato qualche reggimento di marxisti. È noto che il concetto centrale, utilizzato da Marx per classificare le società di classe, è quello del «modo di produzione».  Sappiamo come il concetto centrale che viene usato da Marx per classificare le società - quanto meno, le società di classe - sia quello del «modo di produzione». Ci sono due idee alla base di una tale scelta. La prima è quella secondo cui il fondamento della società - la sua ossatura, che determina (o che condiziona) fondamentalmente tutto l'insieme di quelle che sono le sue altre caratteristiche - sarebbe la struttura tecnico-economica. La seconda idea riguarda il fatto che anche se la società di classe (ivi compreso il capitalismo, malgrado i suoi ideologhi lo neghino) hanno in comune che si basano tutte sull'appropriazione unilaterale del lavoro dei produttori, da parte della classe dominante, esse differiscono tra di loro secondo quello che è il modo in cui questo «plus-lavoro» viene appropriato: il modo di produzione viene definito proprio dallo specifico modo di estorsione del lavoro eccedente. Questo brillante punto di partenza, mi appare ancora accurato ed attuale come al momento in cui è stato formulato, e costituisce la base più sicura per procedere allo studio delle società e della loro evoluzione. Tuttavia, anche se è problematico rifiutare questo punto di partenza, lo sarebbe altrettanto anche ritenere che Marx abbia avuto il tempo e la possibilità di realizzare tutto ciò che avrebbe potuto essere realizzato, e che le poche indicazioni che ha lasciato in proposito dovrebbero perciò essere considerate come se fossero l'ultima parola nella cosiddetta scienza sociale. Inoltre, un simile atteggiamento sarebbe in netto contrasto con tutto quello che sulla questione dei «modi di produzione» gli stessi Marx ed Engels, nel corso della loro vita, hanno continuato a fare, senza mai smettere di continuare ad avanzare ipotesi e a riesaminarle, approfondendone alcune ed abbandonandone altre. Di fatto, un compito così elementare - come lo è quello di fare l'inventario dei modi di produzione - è assai lontano dall'essere stato portato a termine; direi anzi che non è stato nemmeno quasi per niente intrapreso.
Qualsiasi marxista alle sue prime armi avrà senz'altro imparato che «a grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere descritti come appartenenti ad epoche progressive della formazione sociale economica.» (Marx, dalla “Prefazione alla Critica dell'Economia Politica”). Mediante qualche aggiustamento, questa prudente (e provvisoria) formulazione, sotto Stalin e nella sua forma della cosiddetta teoria dei «cinque stadi», sarebbe diventata un dogma: l'evoluzione sociale si sarebbe verificata ovunque (in maniera più o meno rapida) secondo la successione, in sequenza, del comunismo primitivo, della schiavitù, del feudalesimo, del capitalismo, e poi del socialismo moderno (o futuro). Un primo problema, evidente, relativo alla teoria dei 5 stadi, è quello che tale teoria ha fatto semplicemente e puramente scomparire il modo di produzione asiatico. Se non ricordo male, è stato durante il congresso di Tblisi del 1929, che il modo di produzione asiatico venne messo all'indice e fu bandito dall'ortodossia; indubbiamente, dovuto al fatto che esso evocava un po' troppo da vicino quello che era il regime della burocrazia sovietica. E infatti, avviene dopo la destalinizzazione, durante gli anni '60 e poi nei '70, che il modo di produzione asiatico venne nuovamente discusso (il C.E.R.M. Centre d’Études et de Recherches Marxistes, gli dedica un intero volume). Peraltro, alcuni autori, come Perry Anderson ("Lo Stato assoluto", Il Saggiatore), si sono spinti fino al punto di dubitare circa la sua validità - in ogni caso, hanno insistito sul fatto  che il concetto originale si basava su una visione distorta di quello che era il mondo tradizionale indiano o cinese. L'idea secondo cui queste società sarebbe state segnate dall'assenza della proprietà privata della terra, e quindi dalla mancanza di una classe di proprietari fondiari capace di infrangere il potere dello Stato, è una visione occidentale che risale al 18° secolo, rispetto alla quale Marx mancava degli elementi fattuali che avrebbero potuto permettergli di staccarsene, e non avrebbe perciò corrisposto alla realtà. Ragion per cui, se ci sono state alcune formazioni sociali che hanno realmente corrisposto a quella che era la definizione del modo di produzione asiatico, allora probabilmente si è trattato più probabilmente dell'Impero Ottomano, almeno in quelli che sono stati i primi tempi della sua esistenza, o dello Stato Inca. Ma ad essere problematico, non è solo il modo di produzione asiatico. Gli specialisti di storia medievale, se è necessario mi correggeranno, ma ho come la sensazione che la definizione del modo di produzione feudale, ben lungi da ottenere consensi, viene applicato - da un autore all'altro -  a delle realtà assai differenti. Se compreso in quello che è il suo senso più stretto, il feudalesimo allora sarebbe esistito solamente in una zona limitata dell'Europa occidentale, e per alcuni decenni intorno all'anno Mille. Se invece usato nel suo senso più ampio, ecco che allora la qualifica di «feudale» può essere applicata pressoché a tutte le società precapitalistiche in cui c'erano delle classi e che non erano basate sulla schiavitù generalizzata (ed è in questo senso più ampio che, per esempio, lo si ritrova regolarmente negli scritti di Lenin).
In entrambi i casi, la posta relativa alla comprensione dell'evoluzione sociale è assai grossa: se il feudalesimo non è esistito quasi da nessuna parte, come possiamo descrivere le società europee del Medioevo e del Rinascimento, per non parlare degli Stati asiatici in quella stessa epoca? E se tutte queste società devono essere denominate «feudali», come possiamo riuscire a comprendere (tra le altre cose) quell'abisso che separa la Francia dell'anno Mille da quella di Luigi XIV?
In realtà, e anche se l'affermazione che segue è un po' provocatoria, l'unico modo di produzione realmente identificato ed analizzato da Marx è stato il capitalismo. Tutti i problemi legati ai modi di produzione del passato, avrebbero potuto essere affrontati solo all'epoca, sia per l'ampiezza del compito che per le lacune della conoscenza. Il primo punto, è perciò quello secondo cui non si deve confondere un programma di ricerca con i risultati di tale programma. Così come la formulazione della teoria darwiniana non dispensa in alcun modo dal condurre un lavoro di ricerca che consiste nell'inventariare in maniera ragionata tutte le specie presenti o passate, allo stesso modo la formulazione dei principi del materialismo storico, e del concetto di modo di produzione, non dovrebbe in alcun modo prescindere dalla necessità di studiare quali sarebbero stati questi modi di produzione; e ripeto, appare essere difficilmente contestabile il fatto che questo studio, in realtà, sia stato solamente abbozzato.
Il compito viene reso ancora più difficile dal fatto che la realtà sociale, come sempre, resiste in maniera ostinata agli approcci troppo semplicistici. Tanto per cominciare, spesso le società intrecciano e combinano i modi di produzione; così si può perciò vedere emergere un settore capitalista (o proto-capitalista) in una società che rimane feudale (se questo termine ha un significato), oppure si articola con quella che è un'economia basata sulle relazioni di parentela e sulla produzione per l'auto-consumo (come avviene negli esempi coloniali africani studiati circa 50 anni fa dagli antropologhi marxisti francesi). È questa combinazione, quella che Samir Amin aveva cercato di cogliere, credo, con il suo concetto di «formazione sociale», che in un certo senso stava ai modi di produzione come le molecole stanno agli atomi.
Bisogna tuttavia, credo, andare ancora più lontano nel riconoscere che i modi di produzione in sé, anche se «puri», non si dispongono di certo seguendo una semplice lista, a causa del fatto che alcuni di essi (la maggior parte?) posseggono delle caratteristiche ibride. Nel migliore dei casi, queste caratteristiche richiedono l'adozione di una classificazione ad albero, dove le categorie più generali vengono suddivise, a livelli diversi, in categorie più specifiche. Anche in questo caso, Samir Amin aveva aperto questa strada, proponendo il suo modo di produzione (o la sua famiglia di modi di produzione) cosiddetto «tributario», il     quale ingloba i diversi sistemi in cui il prelievo di plus-lavoro veniva effettuato per autorità politica. Ma non può essere scartata a priori, la possibilità che la struttura ad albero non riesca a riflettere la realtà in maniera soddisfacente, e che la classificazione debba formare una sorta di rete, con alcuni modi di produzione che appartengono contemporaneamente a due diverse categorie «madri».
Per meglio illustrare questa difficoltà, penso ad esempio al tipo di relazioni economiche che regnavano negli Stati meridionali del Nord America nel 18° secolo e nella prima parte del 19°. La relazione che legava sfruttatori e lavoratori era la schiavitù. Ma gli stessi sfruttatori erano del tutto inseriti nel sistema capitalistico mondiale, di cui erano parte, se non una componente. Ragion per cui, bisogna collegare un tale sistema allo schiavismo, col rischio di equipararlo indebitamente alle società antiche (o ad alcune società asiatiche o africane) in realtà assai differenti? Oppure dev'essere considerata come una variante del capitalismo, a rischio di minimizzare l'importanza delle relazioni di sfruttamento? Possiamo vedere come questa scelta implichi una presa di posizione per quel che riguarda il posto che occupa nella classificazione il rapporto di sfruttamento. Se lo si considera come fondamentale (seguendo alla lettera gli scritti di Marx), ecco che allora gli Stati del Sud rientrano nel modo di produzione schiavista, e devono perciò essere considerati, a partire dalla loro struttura economica, come più vicini all'antica Atene che alla Londra della rivoluzione industriale. Se, al contrario, si sceglie di privilegiare le relazioni tra la classe dominante locale ed il sistema mondiale, e considerare che il rapporto di sfruttamento costituisce quello che è solo un carattere secondario di un modo di produzione, allora quello degli Stati del Sud dovrebbe essere considerato come un capitalismo deviante.
La mia intuizione (che per il momento non pretende essere niente di più) è che di fronte a questo genere di dilemma, la classificazione per struttura ad albero costituisce un vicolo cieco. Contrariamente agli esseri viventi, le società non sono il prodotto di un'evoluzione attraverso la specializzazione e l'estinzione. I fenomeni di obbligazione, di diffusione e di convergenza determinano delle combinazioni dei diversi elementi che non possono e non devono essere ricondotti ad una qualche filiazione, o ad una origine unica. I modi di produzione formano in tal modo una traccia, una griglia che è inutile cercare di voler scomporre in quelli che sono i suoi distinti sottoinsiemi; la scelta di un criterio primario, piuttosto che un altro, conducono ad una suddivisione differente, ma necessariamente priva di un qualche aspetto. In ogni caso, la cosa peggiore sarebbe credere che la questione sia stata risolta, laddove invece, per dogmatismo, in primo luogo, e per mancanza di forza, in secondo luogo, essa non è mai stata studiata, se non in maniera marginale.

- Christophe Darmangeat - Pubblicato il 25/6/2020 su La Hutte des Classes -

sabato 25 luglio 2020

Come faremo a sparire ?!?

Nel suo "Misoginia Medievale", Howard Bloch scrive: «Si desidera la dama irraggiungibile o la Santa Vergine, a partire dal fatto che l'oggetto del desiderio rimane sempre assente, in modo che il desiderio si fissi su di esso.» Un altro disaccoppiamento teorico, che può essere fatto a partire dal contatto tra la scena medievale della poesia cortese e la scena intellettuale del XX secolo, conduce a quelle che sono le idee di Maurice Blanchot sulla letteratura ed il suo «diritto alla morte», oppure ancora, alla tendenza che ha letteratura ad andare verso il silenzio e verso l'autocancellazione: strategia questa che culmina nel suo rinnovamento e nel suo potenziamento (possiamo qui pensare ai libri di Enrique Vila-Matas sul tema, "Bartebly" ed "Il mal di Montano" – e non a caso quest'ultimo reca come epigrafe una frase di Blanchot: «Come faremo a sparire?»). La letteratura (per Blanchot, ma anche per Kafka, ad esempio) rifiuta il suo spazio proprio in quello che è invece il suo momento di rivendicazione, di occupazione maggioritaria dell'immaginario, dello scenario; rifiuta la sua funzione sociale. L'oggetto del desiderio è sempre assente, affinché il desiderio si fissi su tale oggetto: è esattamente questo ciò che ci verrà a dire Alexandre Kojève nella sua “Introduzione alla lettura di Hegel”: «il desiderio è il desiderio dell'altro». Nel periodo dell'ascesa del nazismo, Kojève lascerà la Germania e andrà a Parigi, dove sostituirà Koyré nella École Pratique des Hautes Études. Lì, dal gennaio del 1933 al maggio del 1939, condurrà il suo corso su Hegel, dal quale passeranno Raymond Aron, Georges Bataille, Pierre Klossowski, Jacques Lacan, Maurice Merleau-Ponty, Raymond Queneau, Eric Weil, e sporadicamente, André Breton.

venerdì 24 luglio 2020

Ci riprovano !!

L'espressione «comunismo ermeneutico» suona assai bizzarra, e non solo a causa dell'aggettivo che qualifica il nome, ma perché questo sostantivo di solito viene associato generalmente ad una forma di totalitarismo che è esistito nel XX secolo: lo stalinismo. La tesi è controversa, ma va resa nota. Il fatto è che ora viene presentata nel titolo di un libro che viene pubblicato all'inizio dell'ultimo decennio, scritto da Gianni Vattimo e da Santiago Zabala, con la pretesa di recuperare il carattere emancipatorio della proposta comunista. Il titolo completo del libro: "Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx" (Garzanti). Ora, associare il concetto di comunismo al filosofo tedesco che aderì al nazismo negli anni Trenta rende tale frase ancora più profondamente bizzarra. Per loro due, «la crisi del comunismo sovietico -  e quindi l'attuale crisi del capitalismo neoliberale con la quale ci confrontiamo - richiede al marxismo una svolta ermeneutica». I suoi grandi errori, i suoi fallimenti, le sue forme autoritarie e totalitarie di governo hanno avuto luogo - sempre secondo loro - a partire da un'intrinseca incapacità di comprendere e valutare la soggettività collettiva delle popolazioni nei paesi che nel XX secolo erano diventati socialisti. Il comunismo storico riteneva di essere il portatore della verità della storia e, perciò, aveva il diritto di imporre con la forza alla popolazione da esso governata, in maniera ferrea, un processo di accumulazione di capitale pianificato e diretto dallo Stato. Com'è stato dimostrato dalla storia - si pensi, per esempio, alla Russia e alla Cina - il sistema centralizzato di accumulazione in vigore non era altro che una forma di transizione al capitalismo, attuato da parte di quelle che erano forme ritardatarie di produzione.

Il nostro tempo, sul piano sia politico sia filosofico, è segnato da una "assenza di emergenza": il capitalismo neoliberista e, in filosofia, la metafisica stanno tenendo imbrigliato il mondo intero. Secondo Gianni Vattimo e Santiago Zabala, esiste però un'alternativa possibile. Si tratta, rielaborando Marx e Heidegger, di ciò che qui viene definito "comunismo ermeneutico", cioè di una posizione che politicamente si avvicina alle esperienze sudamericane di Hugo Chàvez in Venezuela ed Evo Morales in Bolivia. Ma questo libro, scrivono gli autori nella prefazione all'edizione italiana, "non è solamente politico, è anche e soprattutto filosofico, in altre parole, una filosofia politica antirealista, che non vuole fondarsi sulla "verità dei fatti", sempre così addomesticata dall'informazione mainstream, dal vero regime oppiaceo in cui siamo immersi. Essere realisti significa ancora sempre, per noi, chiedere l'impossibile. Sapendo che solo così si riuscirà a cambiare almeno qualcosa".

(dal risvolto di copertina di: "Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx", di Gianni Vattimo e Santiago Zabala". Garzanti)

L'ipotesi del comunismo ermeneutico
- di Eleutério F. S. Prado -

La parola comunismo ha diversi significati, sebbene uno di essi predomini in quella che è la comprensione popolare. In questa accezione più consueta delle altre, si designa quello che era il defunto sistema burocratico di Stato che si insediò in Russia a partire dal 1917, e che con la fine della seconda guerra Mondiale venne esteso a diversi altri paesi (Jugoslavia, Germania dell'Est, Polona, ecc.) formando l'Unione Sovietica. Com'è noto, il comunismo in quei paesi ha avuto fine tra il 1989 ed il 1991. Ma quel nome, ancora oggi, viene ancora utilizzato per i regimi politici tuttora esistenti in Cina, Corea del Nord, Vietnam, Angola, Mozambico e Cuba. Ma com'è altrettanto ben noto, in un senso più ordinario, viene frequentemente associato all'autoritarismo dello Stato, alla Dittatura o perfino al totalitarismo. Tra i marxisti, tuttavia, questa parola viene intesa teoricamente, come un concetto; si riferisce al modo di produzione che emergerà nel futuro a partire da uno sviluppo virtuoso che comincia col superamento del capitalismo. In tal senso, viene inteso come lo stadio superiore del socialismo. Secondo il Marx della Critica del Programma di Gotha, se si arriva ad abolire la proprietà dei mezzi di produzione, dal momento che tale socialismo nasce all'interno della «vecchia società», esso si limiterebbe a ripartire beni e servizi a ciascuno, secondo quelle che sono le sue capacità di produzione ed il suo lavoro. Però allo stesso tempo esso crea le condizioni perché si realizzi un modo di produrre e di distribuire più avanzato che viene caratterizzato dal principio «da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Secondo questa dottrina, nel comunismo non ci verrebbero ad essere né scarsità né grandi classi sociali. Dobbiamo registrare, però, che nessuno di questi paesi che abbiamo elencato è stato realmente in grado di muoversi in direzione del comunismo così delineato. E eppure potrebbero farlo, dal momento che la premessa storica dovrebbe essere quella secondo cui, i lavoratori, già nella società in costruzione, dovrebbero trovarsi già liberamente organizzati secondo delle basi comuni istituite come tali. Del tutto al contrario, piuttosto, in alcuni di essi, al posto dell'emancipazione, come era stato promesso dai movimenti rivoluzionari, sono stati realizzati fra quelli che sono stati i peggiori regimi della storia, come lo stalinismo, il maoismo e il polpottismo. In alcun modo. tuttavia, è mai stata istituita una democrazia che fosse superiore alla democrazia liberale; piuttosto al contrario. E questa - com'è ben noto - è stata prodiga di violenze e di perversioni.
L'espressione «comunismo ermeneutico», pertanto, a molti potrà suonare assai bizzarra, e questo non solo a causa dell'aggettivo che qualifica il nome, ma anche perché il sostantivo torna ad apparire in un contesto di inefficienza, di propaganda ingannevole e di oppressione. Il fatto che ora riemerga nel titolo di un libro pubblicato all'inizio di quest'ultimo decennio, scritto da Gianni Vattimo e Santiago Zabala con lo scopo di riscattare il carattere emancipatorio della proposta comunista, cui era associato in un passato assai lontano, e che ora non sembra più esserlo. Il titolo completo del libro: "Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx" (Garzanti). Ora, associare il concetto di comunismo al filosofo tedesco che aderì al nazismo negli anni Trenta rende tale frase ancora più profondamente bizzarra. Prima di cercare di chiarire solo un po' quella che è la questione, bisogna tener conto di una tipologia che troviamo  nel libro "Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo" di Pierre Dardot e Christian Laval (DeriveApprodi, 2015), Questi due autori presentano quelle che sono le grandi concezioni del comunismo inquadrandole sotto forma di tre tipi ideali: come un'ideologia che si basa sulla formazione di comunità di eguali; come auto-organizzazione democratica dei lavoratori in generale; e come un regime di partito unico che domina sia lo Stato che la società stessa.
La prima concezione, secondo Durkheim - affermano i due autori - nasce nella Repubblica di Platone. La tesi che sta alla base, è quella secondo cui il comunismo consiste in un'utopia trans-storica che orienta le azioni umane, alla ricerca della realizzazione di comunità di persone che siano uguali e che, per questo, vivono e consumano in comune. Va notato che questa concezione è alla base del cristianesimo primitivo e si può trovare in diversi passaggi della Bibbia. In ultima analisi, si basa sull'idea di quella che è una comunità etica.
La seconda concezione del comunismo si manifesta nella società moderna, con l'obiettivo di superare quelle che sono le relazioni sociali indirette ed alienate - mediate per mezzo della merce e del denaro - tra gli esseri umani. Per Durkheim - sostengono i due autori - questa concezione ha dato origine al socialismo contemporaneo. Essa non viene vista come un'utopia, bensì come un principio attivo che trasforma la società attuale al fine di costituire una nuova società caratterizzata da relazioni sociali dirette. Ne Il Capitale, il socialismo appare come un'associazione democratica di lavoratori liberamente organizzati.
La terza concezione è quella che si è cristallizzata nel XX secolo, in diverse nazioni, per mezzo delle rivoluzioni comuniste. Queste, hanno portato all'esistenza di quegli Stati terroristi che non solo hanno assunto il monopolio della violenza, ma hanno anche cominciato a dettare le forme di esistenza della società, così come anche il discorso relativo alla sfera politica, artistica e culturale; in sostanza, il discorso del presente e del futuro delle nazioni che erano cadute sotto il giogo di quelle burocrazie che si presentavano come comuniste.  Se è stato possibile un simile risultato - pensano Dardot e Laval - ciò è avvenuto perché nella politica del marxismo, e nella sua comprensione della storia, c'erano delle falle.
La tesi di partenza di Vattimo e Zabala è che il comunismo sarebbe nato come uno spettro che nel XIX secolo terrorizzava la grande, la media e la piccola borghesia, ma che ora appare solo come un fantasma del passato che oramai non spaventa neppure persino i più paranoici anticomunisti. In base a questa constatazione iniziale, cercano di spiegare il perché si sia verificata questa mutazione, perché oggi ci sia stato uno slittamento rispetto a quello che era il suo significato originario, e perché «l'ermeneutica reca in sé la possibilità di rinnovare quello che è nel mondo attuale il potenziale del comunismo». Secondo questi due autori, nel comunismo storico c'è una debolezza costitutiva: quella relativa al suo carattere autoritario e violento, anche quando si tiene conto delle sue promesse emancipatrici. Ora, questa sua falsità costitutiva è riconducibile al fatto che non era altro che un progetto metafisico e scientifico: allo stesso modo del liberalismo, questo comunismo è stato il prodotto di una «filosofia assoluta della storia, dominato dall'idea del progresso».
Se il liberalismo ha sempre inteso basarsi sulle leggi naturali, e pertanto vere dell'evoluzione e del funzionamento dell'economia di mercato, il comunismo realmente esistente si è invece basato sull'accettazione di una legge della trasformazione della storia. Ha dovuto continuare a ripeterlo a sé stesso innumerevoli volte, fino a quando non si è pienamente convinto dell'inesorabile corso degli eventi: quindi ha cominciato a pensare che, attraverso l'azione delle forze sociali, attraverso la lotta di classe avverranno due nascite - il capitalismo genererà il socialismo e questo, a sua volta, farà nascere il comunismo!
In questo modo, tanto i capitalismi quanto i socialismi che ancora esistono, o che sono esistiti, appaiono come se fossero delle realizzazioni che provengono dalle azioni e dalle lotte degli esseri umani, ma che continuano ad esistere, e prosperano, perché rimangono ancorate alla metafisica; e qui, con questo concetto si intendono «politiche socio-economiche che hanno la loro base in una verità oggettiva della storia». Com'è noto, la parola «metafisica» di solito designa un modo di pensare che concepisce «l'essere dell'entità» - vale a dire, le cose in quanto tali - come se fosse stabile, oggettivo e permanente, e che può pertanto essere compreso in quanto «verità oggettiva», come se fosse una «verità definitiva». Ora, secondo Vattimo e Zabala, sia la rivoluzione del 1968 che la caduta del Muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica hanno annunciato, e perfino realizzato la dissoluzione reale e generale della metafisica sul piano della storia. Precedentemente, sul piano della filosofia, Marx e soprattutto la teoria critica di Adorno e Horkheimer, da un lato, e Nietszsche ed Heidegger, dall'altro, avevano portato a termine una critica devastante delle correnti metafisiche a partire da Platone fino ad Hegel, da un lato, e fino ad Husserl, dall'altro lato.
Vattimo e Zabala sembrano pensare che tutte queste filosofie non solo abbiano interpretato il mondo, ma hanno anche aiutato a governare le pratiche in quelle società nelle quali si sono succedute, grosso modo a partire dal IV secolo a.C. e fino al XX secolo d.C.. Ma cos'è che nasce da questa morte tardiva? Secondo loro nascono le filosofie ermeneutiche, le quali si presentano sempre come degli sforzi di interpretazione storica, endogeni alla storia stessa, e non come conoscenza oggettiva che si pretende vera, universale e trans-storica. Nasce, anche, la possibilità di reindirizzare le trasformazioni storiche in maniera virtuosa.
Per loro, «la crisi del comunismo sovietico - così come la crisi attuale del capitalismo neoliberista in cui ci troviamo - richiede che il marxismo compia una svolta ermeneutica». I suoi grandi errori, o i suoi fallimenti, le sue forme di governo autoritarie e totalitarie derivano - sempre secondo Vattimo e Zabala - da un'incapacità intrinseca di cogliere e considerare la soggettività collettiva delle popolazioni nei paesi che divennero socialisti nel XX secolo. Esso [il marxismo] sarebbe stato consapevole di una verità della storia e, perciò, si è ritenuto in diritto di imporre in maniera ferrea, alla popolazione governata, quella che era la strada dello sviluppo economico e sociale.
La logica scientifica avrebbe agito per elevare le forze produttive attraverso la l'economia centralizzata, senza rispettare la complessità dei processi di produzione e le richieste economiche, e senza considerare nemmeno le istanze democratiche che richiedevano la partecipazione politica alla costruzione di una buona vita. Perciò avrebbe stupidamente ritenuto che una coscienza di classe socialista sarebbe emersa meccanicamente dal progresso materiale della società stessa.
Cosa rappresenterebbe questa possibile ripresa del comunismo? Per loro - dal momento che in generale non potrebbe esistere effettivamente una società senza classi, senza differenze e senza conflitti  - il comunismo non viene immaginato come un obiettivo oggettivo che si realizzerà ad un certo momento nel futuro. Anche la tesi della scomparsa della scarsità, che del comunismo è costitutiva, appare irrealizzabile. Ciononostante, se non è possibile - dicono - «immaginare un mondo in cui il comunismo sia stato compiutamente realizzato, non si può nemmeno rinunciare a questo ideale visto come un principio regolatore ed ispiratore di decisioni concrete».  Per loro, l'idea di una rivoluzione o di un processo storico che si chiuda e si completi è di già, implicitamente, una pretesa che di per sé tende a convertirsi in un potere dispotico. Il comunismo - affermano - è, tuttavia, un imperativo etico cui non si può rinunciare senza cedere, nella pratica, ad una qualche forma di oppressione. Pertanto, «il comunismo è un'utopia oppure, come ha detto Benjamin, si tratta di un progetto di potere messianico e debole» - debole in quanto non può essere imposto da un'avanguardia senza che, facendolo, lo si contraddica in linea di principio.
La tesi di Vattimo e Zabala, può dare adito a molti dubbi e a molti dibattiti. Non possiamo pensare che essa possa essere ben compresa in una recensione che non copre certo tutti i percorsi teorici e pratici che il libro presenta. I due autori, utilizzando un linguaggio abissale tipico di Heidegger, menzionano ad esempio quando dice che «vediamo nel comunismo e nell’ermeneutica il destino di un evento, una sorta di appello dell’Essere (...) che l’ermeneutica non inventa o scopre, ma piuttosto riceve e a cui si sforza di rispondere.» Tuttavia, questa convocazione - enfatizzano - non è né misteriosa né trascendente. Al contrario, essa ci parla dell'urgenza del tempo presente. Perciò, visto l'interesse riguardo questa tematica. bisogna dare loro la parola, per esteso:
« Se teniamo conto di questi fattori, possiamo vedere il motivo per cui il comunismo deve funzionare come uno “spettro”, vale a dire non come un programma politico che propone vie più “razionali” per lo sviluppo (come voleva il socialismo scientifico), ma piuttosto un movimento che abbraccia la causa programmatica della “decrescita” come l’unico modo per salvare la specie umana. In questo modo, la funzione dello spettro – che turba e sconvolge la serena routine di coloro che, come nel caso di Amleto, devono raccogliere il frutto della violenza – serve per risvegliare alla consapevolezza coloro che preferiscono non riconoscere le conseguenze del capitalismo. »
Di conseguenza, «il comunismo non può mai presentarsi come una forza rivoluzionaria radicale.» Bisogna anche «mettere fine al riformismo» attuale della sinistra, dato che questo non è mai riuscito ad ottenere un qualsivoglia progresso in quelle che sono le «democrazie bloccate» occidentali. «Una società senza classi e perciò capace di vivere in pace è l’ideale regolativo di ogni lotta comunista nel mondo.» Ma «la sua completa realizzazione non è immaginabile». Esisterà sempre, pertanto, un gap tra l'ideale e il reale comunista, e che il «legame indissolubile tra teoria e pratica» non potrà colmare. «Dopotutto, il messia, come Gesù insegna nei Vangeli, non permette mai di essere definito positivamente.»
Avendo rischiato questo riassunto teorico del libro di Vattimo e Zabala, dobbiamo tornare a Dardot e Laval, dal momento che sono loro quelli che si concentrano su un tema assai meno enfatizzato dai primi due: ci propongono la necessità di lottare, attraverso azioni politiche, per liberare ciò che è comune sia dai meccanismi del mercato che dalla cattura da parte dello Stato. Dardot e Laval, aderiscono pertanto al secondo concetto precedentemente menzionato, suggerendo che non si può abbandonare l'ambizione di democratizzare sempre più non solamente la sfera politica, ma anche quello che è il mondo economico e sociale in generale. E attualmente a questa alternativa viene dato il nome più preciso di socialismo democratico. Prima di concludere, è necessario argomentare che questa opzione di Dardol e Laval implica la comprensione della storia in generale, ed in particolare lo sviluppo capitalistico a partire dalla scienza - e per essere più precisi sulla base di una scientificità critica - e non su un sapere meramente ermeneutico. La scienza ammette che ogni sapere, ogni conoscenza, sia interpretativa, e che rientra in una tradizione, ma, ciononostante, non rifiuta e non può rifiutare il carattere oggettivo della conoscenza, sebbene essa venga pensata sempre come provvisoria e soggetta ad errore, vale a dire, fallibile. Ora, la scienza rifiuta anche quella che è la tesi metafisica secondo cui esistono «verità oggettive», fissate per sempre e trans-storiche, in qualsiasi area del sapere, ma essa tuttavia non può rinunciare a presupporre l'oggettività della conoscenza.
In ogni caso, l'ambizione che porta ad istituire quelle che sono delle forme di libera associazione dei soggetti sociali, di per sé implica che le persone in generale non possono essere non assoggettate né alla logica cumulativa del capitale - la quale si manifesta attraverso i mercati - né al dominio totale dello Stato - che vuole sostituire la concorrenza con un controllo amministrativo totale. Per Dardot e Laval, gli esseri umani devono rendersi liberi da queste due forme di eteronomia, devono liberarsi di queste due metafisiche reali: il Capitale e lo Stato. Per loro, l'organizzazione sociale e la forma della politica devono entrambe seguire il principio del comune. Si tratta di quella che loro definiscono come la norma politica generale che pora all'istituzione di ciò che è effettivamente comune e presiede nella pratica alla costruzione e alla diffusione delle forme di autogoverno. Nella buona società, i luoghi del lavoro (non alienato) devono essere resi comuni, e le forme di svago, di creazione di cultura ed arte devono essere partecipative, e la democrazia stessa deve trovarsi alla radice delle istituzioni di ciò che è comune. Comune è anche l'aria e l'acqua, che devono essere preservate per poter avere la vita in comune - vale a dire, perché no venga sistematicamente degradata come avviene ora.

- Eleutério F. S. Prado - Pubblicato il 20 luglio 2020 -

fonte: Economia e Complexidade

giovedì 23 luglio 2020

Studiolo: nudezza e nudità!

Uno degli ultimi libri di Giorgio Agamben - pubblicato nel mese di novembre del 2019 e intitolato "Studiolo" – si tratta di una sorta di compilation di immagini preferite: ciascun breve capitolo che le presenta, è costruito come se fosse un commento ad una collezione di immagini, «immagini amate in maniera particolare» scrive l'autore in un'«avvertenza» che apre il libro.

"Studiolo", come ci spiega Agamben in quella stessa Avvertenza, è il termine che veniva utilizzato per denominare - nel Rinascimento - la stanza della casa dove il principe si recava per leggere e per meditare, e nella quale, inoltre, si trovava circondato da quelli che erano i quadri che più amava.

Fin dal suo inizio, Studiolo reca il marchio di uno "stile tardo", per usare l'espressione usata da Edward Said nel suo libro dal titolo omonimo, "Lo stile tardo" (un libro, altresì, postumo). In Studiolo, lo Stile tardo opera secondo quello che è un doppio registro: in primo luogo, c’è lo sforzo che fa Agamben di presentare un inventario critico delle sue immagini preferite, come se fossero una sorta di testamento in cui recupera ed organizza uno dei modi in cui il critico convive con l'arte; in secondo luogo, c’è il ricorrere sottile del commento fatto sulle opere concepite alla fine della vita, con una particolare attenzione nei confronti di tre pittori: Giovanni Bellini, Hans Holbein e Diego Velázquez.

Detto in altri termini, non solo Agamben esercita lo stile tardo in quanto ricerca, in certi pittori, della ripercussione estetica dello stile tardo - come nel caso della pittura di Bellini che illustra la copertina del libro: Noè, vecchio e ubriaco che viene coperto dai suoi figli. E Agamben commenta dicendo che, fino a quel momento, Bellini non aveva mai dipinto alcuna scena dell'Antico Testamento: pertanto, il suo interesse non sarebbe stato teologico, bensì tecnico; il suo scopo era perciò quello di illustrare la nudezza del corpo invecchiato. «Il tema del quadro», scrive Agamben, «non è la nudezza, ma la nudità che dev'essere coperta. (...) La nudità che viene mostrata da Bellini è la sua, quella di un vecchio che si mette a nudo nella propria opera, e che ora vuole solo essere coperto (...) Per il maestro, ciò che conta è solo il gioco delle sue mani intorno al chiarore del corpo bianco, luminoso».


martedì 21 luglio 2020

La Comunità Perduta

Il Gemeinwesen è sempre rimasto qui con noi
- un confronto con le idee di Jacques Camatte -
di Peter Harrison

«Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato.» Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844.

Gli scritti di Jacques Camatte, regolarmente aggiornati, si possono trovare sul sito Invariance. Nato nel 1935, nel corso degli anni '50 e '60 è stato un importante teorico marxista radicale nell'ambito della sinistra comunista europea. Tuttavia, gli eventi del '68, in particolare in Francia, hanno fatto sì che si allentassero gradualmente quelli che erano i suoi rapporti con la sinistra comunista. Si era reso conto che l'umanità ora si trovava in un'impasse. Da parte del proletariato, non ci sarebbe stato alcun rovesciamento della borghesia, dal momento che tutta l'umanità era stata oramai «addomesticata» dal capitale. Ragion per cui, d'allora in poi qualsiasi rivolta organizzata contro il capitale avrebbe solo favorito ulteriormente il suo sviluppo. La sua tesi è quella secondo cui, anziché combattere il capitale (una strategia che, se «avesse successo», ci restituirebbe il capitale in una sua forma ancora più forte), dobbiamo, in qualche modo, abbandonarlo. Prendere congedo da questo mondo capitalista implica la ricomposizione dei legami con il mondo naturale... e non significa andare in guerra contro il capitale per spodestarlo.
L'abbandono di «questo mondo» (Questo mondo che bisogna lasciare) e di tutto ciò che esso rappresenta, inclusa l'umana inimicizia per tutte le cose (gli altri animali, le altre cose, gli altri esseri umani) - qualcosa che è diventato parte integrante della moderna psiche umana e che ci costringe a creare in continuazione delle situazioni di «battaglia» , o di discontinuità - darà l'avvio, egli sostiene, ad un processo che condurrà alla formazione di una comunità autenticamente umana, che sarà in continuità con la natura e con sé stessa. Ciò trasformerà l'Homo sapiens (il cui significato letterale è «uomo saggio») in una nuova specie: Homo Gemeinwesen. Tale processo, insiste Camatte, è comunque già cominciato, e riemerge costantemente.
Camatte riprende da Marx il termine Gemeinwesen. Tale termine viene tradotto come «comunità», ma Marx insiste sul fatto che la vera essenza dell'individuo umano è la sua immutabile esistenza in quanto essere sociale, ed è questo a conferire alla parola quello che è un altro significato. Come egli ha scritto, seguendo Feuerbach: «L'individuo è l'essere sociale.» Gemein viene tradotto come «comune», e wesen come «essere», o «essenza». Quindi, può essere anche letto come «essenza comune», o «essere comune», ed è seguendo questa strada che Camatte adopera il termine Gemeinwesen per definire e riferirsi alla vera comunità umana, alla comunità, sia immediata, che non mediata... in altre parole, al vero obiettivo del comunismo, come concepito da Marx.
Marx scrive: «Questo comunismo s'identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l'umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra l'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie. E' la soluzione dell'enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione.»
Marx asserisce che «l'essere umano è la vera comunità dell'umanità.» Camatte, in tutto il suo lavoro ha utilizzato questo particolare frase come una pietra di paragone per le sue idee (sebbene, come ha scritto nel 2010, avesse cercato di smorzare le connotazioni antropocentriche ed umanistiche associate al termine «essere umano», sottolineando come, allo stesso tempo, sia la «forma di vita» della specie particolare, se non l'individuo stesso, la vera comunità del genere umano).
Per meglio capire questa frase – la quale è un'altra versione dell'«individuo è l'essere sociale» - è utile sapere che Marx qui la sta usando nel contesto di quelle che sono delle rivolte contro «la vita disumanizzata»; sia che avvengano nella Francia del 1789, o che attraversino gli Stati Uniti nel 2020. Egli sta argomentando che simili rivolte contro le cose così come sono, costituiscono quello che è un profondo tentativo psicologico da parte delle persone di porre in atto un collegamento alla comunità umana originale, che la più parte di noi ha perduto molte generazioni fa. Essi stanno cercando di sovvertire le condizioni della loro vita, che sono segnate da una separazione di fatto sempre più grande rispetto ad una vita umana, rispetto alla natura umana, e rispetto a sé stessi. Queste periodiche espressioni di malcontento e di rivolta si verificano perché gli esseri umano si trovano separati dalla comunità che consente loro di essere pienamente, o propriamente umani. Il malcontento, persino quello di un solo piccolo quartiere - «proprio perché parte dal punto di vista del singolo, individuo reale» - è sufficiente, egli afferma, ad esporre quella che è la tragedia della nostra separazione dall'essenza comunitaria della natura umana. Camatte chiarisce la natura di questo genere di rivolte affermando che tale «ribellione è in prevalenza una ribellione dei corpi,», si tratta di «un atto di comprensione che avviene non solo a livello intellettuale, ma soprattutto sensoriale.»
Di fatto, Camatte ha usato quella che era la citazione originale più lunga che contenesse tali idee (dai Manoscritti Economico-Filosofici del 1844, e che viene interpretata nel paragrafo seguente) e che compare in un volantino distribuito durante gli scioperi francesi del maggio '68. Ciò che Marx sostiene, e che Camatte persegue nella sua teoria, è che l'umanità ha perduto la propria comunità. La comunità degli umani è stata sostituita, ad esempio, con la comunità del denaro, o dalla comunità del capitale, e a causa di ciò gli esseri umani sono diventati infelici e perduti, e non sono più nemmeno propriamente umani ... e percepiscono una tale perdita. Camatte ritiene che la perdita abbia avuto inizio quando i primi umani hanno cominciato a separarsi dalla natura, millenni fa. Da allora in poi, si sono sempre più distaccati dal mondo e da sé stessi - e dal momento che la loro propria natura è come un essere sociale - questo ha determinato un loro incessante vagabondare. Il concetto di umanità "errante" è stata esplorato da Emil Cioran nel 1949, in "Sommario di Decomposizione" (Una breve storia della decadenza). Ciò che per Marx è un riferimento ad un un senso di perdita della comunità, da parte della specie, Cioran lo riferisce ad una nostalgia, con cui intende il desiderio di un luogo e di una casa, una "nostalgia di casa". Cioran scrive: «Da Adamo in poi ogni sforzo degli uomini ha mirato a modificare l'uomo. [...] Mentre tutti gli esseri hanno il loro posto nella natura, lui resta una creatura metafisicamente errante [*1], perduta nella Vita, incongrua nella Creazione. Alla storia nessuno è mai riuscito a trovare uno scopo plausibile; ma tutti ne hanno proposti, ed è un pullulare di scopi così divergenti e bislacchi che l'idea di finalità ne è annullata e si riduce a irrisorio articolo dello spirito.»
Cioran si chiede come l'umanità possa trovare un compromesso tra l'incessante desiderio interiore, vale a dire la nostalgia - egli usa le parole «Sehnsucht, yearning, saudade» - per una casa, o per un posto e la condizione peripatetica e sradicata di quella che è la nostra esistenza. La sua risposta dice che non c'è compromesso - non c'è alcun rimedio per la sofferenza: «Da un lato, la volontà di essere immersi nella comunione del cuore e del suolo; dall'altro, quella di assorbire continuamente lo spazio in un desiderio inappagato. E poiché lo spazio non ha limiti, e con esso aumenta la propensione a nuovi vagabondaggi, lo scopo arretra via via che si avanza. [...] Non c'è soluzione alla tensione fra la Heimat e l'Infinito: ciò significa essere radicati e sradicati a un tempo, non aver potuto trovare un compromesso tra il focolare e la lontananza.» Nel mentre che egli, probabilmente a sua insaputa, riecheggia Marx, Cioran prefigura anche la rappresentazione del trauma fatta da Camatte - «il trauma fondante della discontinuità» - impresso nella psiche umana quando l'uomo si è separato dalla natura, o è diventato discontinuo con essa, quando scrive: «Essere strappati dalla terra, sopportare l'esilio, tagliate le proprie radici immediate... significa anelare ad una ritorno alla fonte originaria, anelare ad un ritorno al tempo precedente alla rottura della separazione.»
Camatte ha ampliato e riformulato questo concetto di separazione e di vagabondaggio. Con "vagabondaggio", Camatte insiste sul fatto che, a partire dalla loro separazione dalla natura, gli esseri umani non hanno mai smesso di cercare una giustificazione alla propria esistenza: essi sono costantemente alla ricerca di un significato per le loro vite e di uno scopo. Per Camatte, il problema gira intorno alla secolare questione se l'uomo sia parte della natura o se sia fuori da essa. Il "vagabondare", come sostengono sia Cioran che Camatte, è espressione della profonda crisi di identità che affligge la specie: se l'uomo è parte della natura, in che modo ne è parte, e se si trova oltre la natura, al di fuori, dov'è che si colloca esattamente l'umanità? (A tal proposito, il contenuto del vagabondare può essere inteso in maniera efficace ed utile - come ho scritto precedentemente - in quanto storia.) Ma se Cioran non vede alcuna speranza di fuga dall'attuale condizione umana, Camatte, avendo abbandonato le sue convinzioni marxiste e "rivoluzionarie", vede la possibilità che emerga un nuovo tipo di essere umano. Camatte ipotizza che sarà l'Homo Gemeinwesen «la specie che succederà all'Homo sapiens. Sarà in continuità con la natura e con il cosmo. La sua conoscenza processuale [il suo divenire o, volgarmente, la sua coscienza] non avrà alcuna funzione giustificatrice, poiché opererà unicamente all'interno delle dinamiche di godimento.» In "L'erranza dell'umanità" (1973), Camatte scende un po' più nei dettagli su come potrebbe essere la nuova società dell'Homo Gemeinwesen, per quanto, non avendo formulato a quel tempo  in maniera adeguata il concetto di Homo Gemeinweisen, egli si riferisca a quella nuova società semplicemente come al "comunismo": «Col comunismo, finita la divisione del lavoro su cui ha potuto innestarsi il movimento del valore (che esso stimola ed esalta a sua volta), l’edificazione delle caste o delle classi; il comunismo è innanzitutto unione. Non è dominio sulla natura, ma riconciliazione con essa, il che presume pure che essa sia rigenerata. Gli esseri umani non possono più considerarla meramente come un oggetto per il loro sviluppo, una cosa utile, ma come soggetto (non in senso filosofico) da loro non separato non fosse altro perché essa è in loro; vi è realizzazione della naturalizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della natura (Marx), e la fine della dialettica del soggetto e dell’oggetto. Ne deriva una distruzione dell’urbanizzazione e formazione di molteplici comunità ripartite sulla terra, il che implica la soppressione della monocoltura, altra forma della divisione del lavoro, ed una trasformazione completa del sistema delle comunicazioni: i trasporti saranno considerevolmente diminuiti. Il modo di vita comunitario è il solo che possa permettere all’uomo di dominare la sua riproduzione, di limitare l’aumento (attualmente demenziale) della popolazione, senza ricorrere a pratiche ignobili: distruggere gli uomini e le donne.» E continua ...
«È evidente che non si tratterà, per reazione, di tornare ad un nomadismo quale poteva essere praticato dai nostri lontani antenati raccoglitori; gli uomini e le donne acquisiranno un altro modo di essere al di là del nomadismo e della sedentarietà. Quest’ultima, coniugata con l’inattività corporea, è la fonte principale della quasi totalità delle malattie somatiche e psichiche degli esseri umani attuali; una vita attiva e non fissata risolverà tutte le difficoltà senza medicina né psichiatria.»
Scrivendo nel 2020, è ovvio che Camatte veda questa uscita dal mondo del capitale, e di arrivo alla destinazione di una nuova specie - l'Homo Gemeinwesen, o alla vera comunità umana - come un processo che richiede «migliaia di anni». Perciò, non si deve commettere l'errore di pensare che stia proponendo una qualche riduzione "forzata" della popolazione.  È anche utile ricordare che non sta proponendo alcun genere di conflitto con il mondo così com'è. Egli afferma in maniera esplicita che costruire una "inimicizia" nei confronti del capitale, al fine di rovesciarlo, non farà altro che renderlo ancora più forte. È stato questo il suo punto di vista, come risultato delle riflessione sugli eventi a partire dal 1968: «Più lottiamo contro il capitale, più lo rafforziamo.» Ragion per cui, la chiave è incominciare, in qualche modo, a creare nuovi modi di vivere: «Il problema è quello di creare altre vite.» Infatti, Camatte sembra trovare interessante ogni nuova sperimentazione sociale che indichi un diverso modo di vivere, o che contenga un rifiuto degli aspetti di questa società, come il movimento hippie, i metodi agricoli alternativi, sebbene egli sia, naturalmente, consapevole di come questi movimenti possono essere reincorporati all'interno del capitale. Ma esiste anche un'urgenza legata a questo abbandono delle cose così come sono, dal momento che la scelta si trova ad essere sempre più proiettata verso «o il comunismo, o la distruzione della specie umana». E tutti questi rifiuti o rivolte sono sempre suscettibili di recupero da parte del capitale: «Il capitale può ancora trarre profitto dalla creatività degli esseri umani, rigenerando e risostanzializzando sé stesso, depredando la loro immaginazione».
Tuttavia, l'impulso a dare inizio ad una rigenerazione della comunità e della natura, per Camatte non è così semplice e diretto. Non essendo un'alternativa "politica", non si tratta di un rovesciamento del vecchio regime e di una sua sostituzione con un nuovo regime, e non è nemmeno una rivoluzione così come viene comunemente intesa. Più recentemente, Camatte usa il termine "inversione" per descrivere il lasciare questo mondo. Un  tale concetto non intende implicare un semplice rovesciamento delle cose come stanno, né vuole significare un ritorno ad un tempo precedente alla nostra disumanizzazione. Si tratta, piuttosto, della capacità di accedere al seme della naturalezza che si trova dentro di noi, che è stato a lungo represso ed è rimasto nascosto, e di aiutarlo a germogliare. Si può vedere come questa idea sia intimamente legata al modo in cui Marx ha descritto l'essenza della rivolta, ma nella concezione di Camatte ogni "politica" è stata rimossa. Egli insiste: « L'inversione non è una strategia, essa è totalmente al di fuori della politica, la quale è la dinamica dell'organizzazione delle persone, del loro controllo. Dobbiamo abbandonare qualsiasi cosa che si parte del suo mondo.»

  • Un Residuo Millenario?
    Jacques Camatte proviene da quella moderna e marxista tradizione rivoluzionaria che Yuri Slezkine, nella sua opera monumentale, "La casa del Governo", descrive come millenaria. Il millenarismo, che può essere religioso o laico, è quella convinzione secondo cui la società umana ha bisogno di una grande trasformazione, e che dopo questa trasformazione le persone vivranno in pace e in armonia. È l'eterno impulso ricorrente che hanno coloro che vivono in società sfruttatrici e gerarchiche, e con questo, naturalmente, si intende uno Stato.
    In uno Stato, le condizioni di vita - lavoro, sfruttamento, gerarchia, noia, povertà, ricchezza, disperazione - sono le cause del millenarismo e, come ha suggerito l'antropologo Pierre Clastres parlando del movimento sociale dei profeti karai in Amazzonia, anche la minaccia di uno Stato può produrre millenarismo. In maniera molto significativa, Clastres suggerisce anche che i millenaristi karai - che hanno mobilitato più di 10.000 persone affinché migrassero verso la Terra senza il Male, in direzione del sole al tramonto - sono riusciti a realizzare «ciò che è impossibile nelle società primitive: unificare, in una migrazione religiosa, quelle che sono le molteplici varietà delle tribù. In un colpo solo, sono riusciti a portare a termine l'intero [unificante] programma dei capi.» L'osservazione, sorprendente e profonda, di Clastres è che il millenarismo - il sovvertimento rivoluzionario, o la fuga dalle  condizioni esistenti - contrariamente a quel che si pretende che sia, è il modo più efficiente per omogeneizzare le persone, unificarle per una causa esterna rispetto a loro. I rivoluzionari perciò, e questo può essere ricavato dalla storia, sono i costruttori dello Stato per eccellenza. Il millenarismo, quindi, è una risposta ricorrente, sotto varie forme, allo Stato, il quale, a sua volta, è una società profondamente insoddisfacente.
    Quando nel 1972, lo storico Christopher Hill, nel suo "The World Turned Upside Down: Radical Ideas During the English Revolution", valutò l'analisi storica contemporanea, scrisse: «noi ora vediamo il millenarismo come se fosse un prodotto naturale e razionale dei presupposti di questa società». Il millenarismo - un altro termine per "rivoluzionarismo" - è quindi, oggettivamente, una funzione dello Stato. Esso ha anche, invariabilmente, un qualche genere di relazione con l'idea di una «caduta in disgrazia», o con la perdita della naturalità e della comunità... in modo che così si possa vedere come l'impulso millenario abbia origine dal medesimo punto di vista di coloro che Marx descrive come ribelli - in quanto sentono di essere stati disumanizzati o, quanto meno, privati di quella comunità che li rende umani. In tutti noi, al nostro interno, è contenuto il germe del millenarismo, ed è un tratto della nostra reazione ad una vita insoddisfacente... Albert Camus, ne "L'uomo in rivolta", ci consiglia di non «scatenarlo».
    Forse, la prima manifestazione di millenarismo che troviamo nella storia proviene dall'Iran, con l'arrivo di Zoroastro, circa tremila anni fa. Come ha sostenuto Karl Jaspers, lo sviluppo della civiltà quest'epoca - che egli definiva «l'era assiale» - è stata un'era di cambiamenti e di incertezza, in cui abbiamo visto un proliferare di pensiero radicale e dove si è espresso malcontento. Slezkine scrive: «Zoroastro fece la storia – letteralmente oltre che in senso figurato – profetizzando la fine assoluta del mondo. Ci sarebbe stata una battaglia finale tra le forze della luce e quelle delle tenebre, e un giudizio finale su tutti gli esseri umani mai vissuti – e poi non vi sarebbe stato altro che una universale, eterna perfezione: non più fame né sete, non più divergenze, né nascite, né morti. L’eroe avrebbe per l’ultima volta sconfitto il serpente; il caos sarebbe stato vinto definitivamente; solo il bene sarebbe rimasto – per sempre.»
    «Il millenarismo», sostiene Slezkine, «è la fantasia vendicativa dei diseredati, la speranza di un grande risveglio». Naturalmente, questa fantasia vendicativa è assolutamente comprensibile, e probabilmente inevitabile, ed è perciò impossibile prevenirne il ritorno sotto nuove forme... ma il problema è che essa non porta mai alla pace sulla terra, e di solito rende le cose parecchio peggiori. Slezkine continua la storia: «Le sette millenaristiche sono quasi tutte morte come sette. Alcune sono sopravvissute come sette ma hanno smesso di essere millenaristiche. Alcune sono rimaste millenaristiche fino alla fine perché la fine è arrivata prima che avessero l’occasione di creare uno stato stabile. La cristianità è sopravvissuta in quanto setta, ha smesso di essere millenarista e ha adottato Babilonia come credo ufficiale. Gli ebrei e i mormoni sono sopravvissuti alla loro traversata del deserto e hanno barattato latte e miele contro stati stabili prima di essere assorbiti da imperi più grandi. I musulmani hanno creato i propri grandi imperi vincolati a un millenarismo di routine e minacciati da ripetute riforme “fondamentaliste”. Gli anabattisti di Münster e i giacobini raccolsero politiche preesistenti e le riformarono a immagine della futura perfezione, per poi rimanere sconfitti nella guerra civile contro riformatori più moderati. Solo i bolscevichi distrussero la “prigione dei popoli”, batterono i “conciliatori”, misero fuori legge il matrimonio tradizionale, bandirono la proprietà privata e si trovarono solidamente al comando di Babilonia mentre ancora attendevano, da vivi, il millennio. Mai prima di allora una setta apocalittica era riuscita a prendere il controllo di un esistente impero terreno (se non si contano i safavidi, la cui agenda millenaristica sembra fosse molto meno radicale). È come se i quinto-monarchisti avessero vinto la guerra civile inglese, “riformato ogni luogo e vocazione”, preso atto di un’isola invasa da piante che il Padre celeste non aveva piantato, e si fossero dedicati a estirparle una per una, “radici e rami, ogni pianta e ogni pezzo di ogni pianta”. Il fatto che la Russia non fosse un’isola rendeva ancor più formidabile la sfida.» ((Slezkine).
    Tutti i movimenti seri attraverso i quali si cerca di modificare radicalmente, di abolire o di sfuggire dalle società statali sono dei movimenti millenari. Il millenarismo è un prodotto della critica dello Stato nella quale le masse vengono percepite come gli zimbelli del male. Il rimedio necessita che vengano spazzati via tutti i meccanismi del male - le leggi, le norme, le tradizioni - insieme a tutti coloro che, per pura malizia, per debolezza o accidia, agevolano il mantenimento del male. Solo i buoni di cuore - vale a dire, i più fedeli alla causa - riusciranno ad arrivare sani e salvi dall'altra parte della rivoluzione. Ma esistono anche versioni meno drammatiche del millenarismo: alcune sette religiose si ostinano semplicemente ad aspettare - e ad essere pronti per - l'apocalisse, la quale verrà liberata quando deciderà Dio. Una simile strategia rispecchia il convincimento dei comunisti di estrema sinistra, dei rivoluzionari dell'ultrasinistra, o degli anarchici che aspettano pronti - restando vicini alla «causa» e coinvolgendo altri, magari per convincerli - che confluiscano     quegli eventi che potranno dare loro l'opportunità di diventare le levatrici del comunismo. Questa strategia dei gruppi di estrema sinistra, viene ad esempio avallata, in maniera equivoca, dal gruppo Endnotes [*2] nel 2019, che descrive quale sia per l'ultra-sinistra contemporanea, per i comunisti di estrema sinistra, o per la sinistra comunista [*3] la scelta apparente, ma falsa - per come viene considerata - in quanto descritta come una scelta tra «intervento rivoluzionario e attendismo».
    Vale a dire che, «o c'è un modo comunista rivoluzionario di relazionarsi alle lotte, oppure uno dovrebbe disinteressarsene del tutto». Loro risolvono quella che è una falsa scelta, tornando a riferirsi al concetto (di Marx ed Engels) di comunismo in quanto «movimento reale» [*4], affermando che «non siamo noi, ma è la lotta di classe che produce teoria.» Ma Endnotes non si rende conto che non esiste qualcuno che possa «non essere coinvolto per niente». Anche i morti sono coinvolti in quello che è il nostro presente, come aveva notato Marx: «Le mort saisit le vif!» .
    Certo, in pratica, sia i millenaristi tranquilli e senza partito, anti-"politici", che i rivoluzionari anti-avanguardia (come Endnotes) sono comunque coinvolti negli eventi - che si tratti di prepararsi ad imparare ad essere più vicini a Dio, oppure di avvicinarsi, come diceva Marx, al «vero [reale] movimento che abolisce le attuali condizioni» [*5], o che si tratti semplicemente di attrarre gli altri verso il proprio punto di vista in modo da far crescere il numero dei beati, cosicché all'ora stabilita, quando Dio appare in tutta la Sua furia, o quando il proletariato si solleva, ci siano abbastanza credenti per portare dalla propria parte coloro che ne sono degni. Va notato che anch'io, come metà dei produttori del libro - o «artefatto archeologico» - Nihilist Communism, sono stato un millenarista. Il nostro consiglio a coloro che, come noi (ci chiamavamo Monsier Dupont), voleva la grande trasformazione che avrebbe portato pace e armonia, ma che vedeva il suo arrivo come proveniente dalla lotta di classe e dall'intervento dei "rivoluzionari", piuttosto che da Dio, era quello di: «prepararsi ad una lunga attesa, non avere grandi aspettative, essere pronti a fallire, e continuare per decenni.» Ora, si confrontino queste ultime istruzioni, con quest'appello, con la Parabola del Seminatore, dalla Bibbia di Re Giacomo: « Ora, la parabola è questa; Il seme è la parola di Dio... [e si reputa che sia caduta su un buon terreno quando coloro che ascoltano la parola] la conservano e la fanno fruttificare con pazienza. » Oppure, con questo proveniente dal Libro dell'Apocalisse, in cui Dio scrive lettere a "sette chiese" per mezzo di visioni date ad un profeta, « Conosco le tue opera, e la tua fatica, e la tua pazienza... E [il modo in cui] hai sopportato , ed hai avuto pazienza, e per amore del mio nome hai lavorato e non hai perso i sensi. » Forse, il ripetersi inconsapevole di una simile direttiva, quasi 2.000 anni dopo, è un esempio di un'eterna ricorrenza...
    Lo Stato - o     quello che ci opprime, qualunque cosa esso sia - verrà sempre criticato. Lo Stato necessariamente, o naturalmente, crea le condizioni per tale critica, e, quindi, i millenaristi - vale a dire, i rivoluzionari - sono funzioni dello Stato. Essi non appaiono laddove non c'è uno Stato. Non compaiono nelle società non statali. Ma, in maniera contro-intuitiva, la critica dello Stato o quella delle "condizioni attuali" non è dannosa per lo Stato (sebbene ciò possa essere dimostrato per mezzo di alcuni particolari elementi della gerarchia statale). Infatti, essa è necessaria per quello che è il suo sviluppo oggettivo, come attestato dagli esempi registrati almeno a partire dalla guerra civile inglese. Ovunque ci si stata una rivoluzione, lo Stato è diventato più forte, e lo sfruttamento della classe operaia è stato intensificato, è diventato più brutale, ed è stato reso più efficiente, quanto meno per un breve periodo. Le rivoluzioni inglese e francesi hanno consentito l'ascesa istituzionale della borghesia: la nuova classe dirigente, così come la nuova classe media, la burocrazia. Entrambe le rivoluzioni hanno permesso ad ambedue i Paesi di mantenere ed espandere la loro posizione di potenze mondiali. La Rivoluzione russa è facilmente riconoscibile come rivoluzione dei figli delle classi medie emergenti - i burocrati - i quali hanno introdotto l'industrializzazione ad una velocità e su una scala senza precedenti. Anche i comunisti cinesi hanno introdotto il capitalismo industriale a velocità vertiginosa; e non fatevi ingannare dal fatto che si siano chiamati "comunisti". La stessa cosa si può dire di quei paesi «in via di sviluppo», come Cuba, dove l'industrialismo è stato introdotto in una regione rurale sotto la bandiera del comunismo o del socialismo. Ragion per cui, i rivoluzionari, nel grande schema, non sono una contro-funzione dello Stato e del capitale, me ne sono solamente delle funzioni: aiutano lo sviluppo dell'economia ed il controllo delle classi lavoratrici.
    Camatte, osservando la storia del ventesimo secolo, ha scoperto che in questo periodo la natura del capitalismo è cambiata di modo che, come si è detto, « più lottiamo contro il capitalismo, più lo rafforziamo », ma si sarebbe potuto fare quest'osservazione anche a partire da tutte le rivoluzioni dell'era capitalistica, a cominciare da quella inglese. Per cui, è forse più corretto , o quanto meno universale, dire: più lottiamo contro lo Stato, più lo rafforziamo. Ovviamente, nella nostra epoca non esiste una chiara linea di demarcazione che divide lo Stato e l'economia - o lo Stato ed il capitale, anzi, nel capitalismo lo Stato ha realizzato il matrimonio perfetto - la natura ubiqua, globale e totalizzante del nostro sistema economico fa sì che immaginare l'esistenza di uno Stato che non sia sia capitalista costituisca solo una stravagante fantasia risibile e ridicola. Camatte ha di certo cercato, più o meno consapevolmente, di sottrarsi alle bassi millenarie delle sue originali appartenenze politiche. Ciò è dimostrato dal suo assoluto rifiuto di dar parte di qualsiasi "organizzazione", e il suo insistere sul fatto che ciò per cui ora si batte non ha a che fare con nessun tipo di politica. Eppure, anche nella sua visione dell'arrivo di una nuova specie umana egli continua a soddisfare il criterio millenario: il Millenarismo, che può essere religioso o laico, è la convinzione che la società umana abbia bisogno di una grande trasformazione, e che dopo questa le persone vivranno in pace ed in armonia. E continua ancora a coinvolgersi con le persone, ancora produce testi, e fa sapere agli altri circa quale possa essere un modo migliore di pensare. Il suo millenarismo, però, come quello di Endnotes, o quello di Monsieur Dupont, è di quelli tranquilli.

Una Contraddizione?
Camatte sostiene che la lotta di classe è finita da tempo poiché, come hanno dimostrato i protagonisti nel corso degli eventi "rivoluzionari" nel periodo intorno alla prima guerra mondiale, l'unica cosa che la classe operaia è in grado di realizzare non è il comunismo ma il capitalismo autogestito, dal momento che i suoi obiettivi sono «la piena occupazione e l'autogestione». Pertanto, egli sta sostenendo che qualsiasi lotta rivoluzionaria contro il capitale che si basi sulla classe operaia (ora defunta in quanto potenziale creatrice di comunismo), dopo la gloriosa menzogna del momento rivoluzionario, ci restituirà solamente il capitale in una sua forma più forte e più feroce. Ma è ancora peggio. Così come non esiste più alcuna vera classe operaia - assorbita all'interno del capitale - allo stesso modo non ci sono più classi, la società non è più organizzata sulla base di una relazione sociale viva (per quanto cattiva potesse essere)... il capitale è «sfuggito» al controllo della borghesia ed ora funziona come un sistema autonomo. Tutti gli esseri umani ora sono capitalizzati, vale a dire, sono tutti disperatamente appesi alle falde della giacca del «mostro automatico» del capitale che prosegue - come se fosse un robot, o uno zombie (visto che esso ormai è una cosa morta, e non più una relazione sociale) - nel proprio percorso.
Come fermare il mostro? Camatte ha già scartato la possibilità di opporsi ad esso, dal momento che questo non farebbe altro che rafforzarlo - poiché nel nostro opporci agiamo sul suo stesso terreno, vale a dire, alle sue condizioni. Quindi Camatte sostiene che per fermare il mostro bisogna abbandonarlo, e non in maniera politicamente organizzata - dal momento che questo sarebbe la creazione immediata di un'opposizione: di un'inimicizia. Tutti noi, dobbiamo cominciare ad abbandonare «questo mondo così com'è», in qualche modo, organicamente, scegliendo di vivere delle vite differenti. Se faremo questo allora non solo lo zombie-capitale morirà di fame, ma dopo qualche migliaio di anni la nuova specie sarà emersa pienamente, e gli esseri umani vivranno in comunità con la natura e con sé stessi.
Ma se le persone sono già capitalizzate (Camatte descrive questo come la loro follia), ciò significa che se combattono il sistema non fanno altro che renderlo più forte, e questo non implica forse che se abbandonano il  sistema si porteranno dietro con loro anche il proprio cervello capitalista, sebben, in quanto oppositori, non intendono farlo? Non è forse vero che ogni fuga dal capitale o dallo Stato, o dalle cose come sono, da ogni setta, o movimento - dai vichinghi, che sono sfuggiti al fiorente potere del regno in espansione di Harald Finehair stabilendosi in Islanda, alla tragedia di Jonestown – andati da qualche altra parte a fondare un mondo nuovo, ha finito per portare dietro con sé anche la malattia? Il problema è incentrato sulla possibilità che si possa ottenere un vero cambiamento nella propria vita, come individuo o come gruppo. Se si è disposti al cambiamento, ecco che allora è logico supporre che immaginare il cambiamento emerga a partire dalle circostanze stesse della cosa cui ci si oppone; il cambiamento desiderato è condizionato dai parametri della cosa originale alla quale si cerca di sfuggire. Siamo esseri sociali, siamo costituiti socialmente, possiamo vedere il mondo solo attraverso la nostra prospettiva, sebbene siamo in grado di riconoscere che ci possono essere anche altre prospettive. Qui, è utile, al fine di spiegare cosa intendo, pensare a come il concetto di tempo viene percepito in due epoche diverse: l'era moderna (capitalismo), ed il Medioevo europeo (feudalesimo). Così noi riusciamo, per esempio, a capire ciò che ci viene detto quando c'è chi sostiene che i contadini medievali vivevano secondo un calendario ciclico che era il prodotto dell'esistenza agraria ma che, nonostante ciò non siamo in grado di vedere il tempo come se fosse una rotazione, dal momento che non possiamo partire da questo per accettare con facilità di buttare via il concetto che il tempo sia lineare. Come scrive lo storico A.J. Gurevich a proposito della transizione dalla concezione del tempo feudale a quello capitalista urbano: « L'alienazione del tempo dal suo contenuto concreto ha fatto sì che aumentasse la possibilità di vederlo come se fosse una pura forma categoriale, come se la sua durata non fosse appesantita dalla materia. » È stato questo il successo dell'economia moderna, la quale aveva bisogno di coordinamento per poter operare in maniera efficiente,  e questo ha cambiato la nostra concezione del tempo. È stata l'introduzione delle catene di rifornimento, di distribuzione, e del lavoro di fabbrica, culminato negli orari ferroviari, che ha portato ad abbandonare ogni senso di quel tempo che era «ciclico», «stagionale», o connesso con la terra. E questa espressione lineare del tempo si trova ad essere ormai radicata nei nostri cervelli. Non possiamo vedere attraverso gli occhi di una persona abituata ad una modo di vita diverso. La nostra coscienza è determinata dalla vita quotidiana che viviamo, ed i principi ed i valori generati da questa esistenza retroagiscono a loro volta su tale esistenza quotidiana. Una volta che una società si è stabilita, ecco che allora questa società diventa un insieme organico, un modo di vivere (non necessariamente un'«economia»). Un parigino del ventunesimo secolo può decidere di comprendere il tempo come se fosse ciclico quanto un contadino medievale europeo avrebbe potuto decidere di comprendere il tempo come se fosse stato una linea categoriale separata dell'universo. Ci si può rendere conto come un cambiamento possa assai spesso essere impossibile a partire solamente dalla volontà. Il vero dolore per una persona cara, per esempio, non può essere semplicemente allontanato e cancellato, esso si attenua lentamente nel tempo, oppure viene dimenticato grazie al sopravvenire di un altro interesse, di un'altra passione (a condizione però che tali interessi non vengano assunti specificamente, al fine di dimenticare il proprio dolore, perché in tal caso si trasformerebbero in un continuo promemoria). Di conseguenza, ecco che allora diventa vero dire che la soluzione per disabilitare il dolore non proviene dal nostro pensare ad esso in modo da collocarlo in prospettiva, bensì dal tempo. I veri cambiamenti - o soluzioni - ci vengono sempre proposti ad un  livello diverso dalla nostra volontà cosciente.
In un'articolazione, o estensione, della proposizione materialista storica di Marx – « Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni preesistenti e tramandate. » - lo studioso marxista Ernest Mandel ha formulato quello che è il meccanismo "determinismo parametrico". Si tratta di un concetto utile nel momento in cui si pensa a quelli che sono i limiti relativi alla nostra comprensione di altre epoche, o di altre culture ... o di altri animali: « La gran parte, se non tutte, delle crisi storiche hanno diversi esiti possibili, non innumerevoli, fortuiti o arbitrari; è questo il motivo per cui usiamo l'espressione "determinismo parametrico" per indicare diverse possibilità all'interno di un dato insieme di parametri. »
Possiamo sostituire la parola «crisi storiche» con «situazioni», o persino con «chimere». Dal momento che il punto è che siamo i prodotti della società in cui siamo nati. Non possiamo semplicemente voler essere di per sé i prodotti o le funzioni (o i riproduttori) di un'altra società (per esempio, di «una società veramente comunista»), non importa quanto ci sentiamo vicini a comprendere quella particolare organizzazione sociale che stiamo osservando o che stiamo considerando. I cambiamenti radicali nella società - come la transizione dal feudalesimo al capitalismo - non accadono a partire dalla volontà umana, ma avvengono ad altri livelli. Le rivoluzioni che hanno reso ufficiale il capitalismo - come quella inglese, quella francese e quella russa - sono state l'istituzionalizzazione, o la ratifica, di una forza economica che aveva già raggiunto un predominio reale. Certo, Camatte stabilisce che l'emergere del nuovo essere umano richiederà migliaia di anni e che forse, perciò, sta riconoscendo quale sia il problema nel cambiare la propria prospettiva, o nel cambiare il proprio modo di vivere. E forse sta sostenendo che se noi facciamo solo ora certi cambiamenti - cambiamenti che sono connessi alla «naturalezza» che continua a permanere dentro di noi - allora ci metteremo sulla strada per poter diventare la nuova specie... Io non sono poi così sicuro della mia «resistenza» alle idee particolari di Camatte, e mi torna alla mente quella che è in Candide la soluzione di Voltaire, cui arriverò più avanti.
In fondo, nell'esortazione di Camatte che ci spinge a lasciare questo mondo c'è un «problema»... la logica dei suoi scritti ci obbliga a domandarci in che modo, nel «lasciare il mondo», non ci limiteremo solamente a prendere il mondo ed a portarlo con noi. Se non siamo in grado di combatterlo senza che questo lo renda ancora più forte, allora può essere che forse non possiamo nemmeno lasciarlo senza che questo lo renda ancora più forte. Dopo tutto, il capitale è il recuperatore per eccellenza. Ed anche il détournement è diventato un mezzo per fare soldi.

La Comunità Umana Già Esistente
Camatte propone che tutte le ribellioni che si legano alla brama di una comunità umana, vale a dire, quelle ribellioni, o movimenti che per esempio in passato si richiamavano alla «fratellanza universale»[sic] o al mutuo appoggio - dal momento che  si tratta di appelli che si ricollegano alla Gemeniwesen perduta - devono essere visti come l'inizio del processo di inversione: il processo di riconquista della vera comunità umana. Il problema è che il capitale si è sviluppato a tal punto che la maggior parte di questi inizi, se esistono sotto forma di progetti politici organizzati, sono del tutto inutili. Affinché tali inizi  - come abbiamo visto con il muto appoggio e con la solidarietà reciproca durante i recenti avvenimenti attinenti al Covid-19 e al movimento Black Lives Matter -  possano essere efficaci e non recuperabili, essi devono svilupparsi in delle situazioni nelle quali gli individui comuni non fanno più affidamento o riferimento al sistema al fine di cambiarlo. Bisogna che le persone inizino piuttosto a vivere in maniera differente, che vivano una vita che possa abbracciare questi valori umani. Il rovesciamento, l'inversione può avere inizio solamente quando viene meno un sentimento di inimicizia, e quando non c'è più la sensazione che ci sia bisogno di qualche puntello ideologico, tipo la «classe operaia», o la «giustizia», per poter giustificare le proprie azioni. Se facciamo a meno del concetto e dell'immagine nefasta del nemico e dell'amico - per esempio, i padroni e la classe operaia - possiamo provare a cercare di vivere. La speranza di Camatte è quella che ci sarà un abbandono di quello che è l'attuale modo di vivere quando la gente si renderà conto della follia che ha dovuto sopportare. Come si è già detto, Camatte prevede che la nuova specie umana impiegherà migliaia di anni per poter emergere pienamente. Per poter assistere la nascita di una tale nuovo essere, Camatte suggerisce una serie di misure pratiche che devono essere in qualche modo attuate il più presto possibile. In "Emergenza e Dissoluzione", Camatte elenca alcuni di questi cambiamenti, che includono: « La cessazione immediata della costruzione di strade, autostrade, aeroporti, porti e città; l'abolizione del turismo, la più elaborata forma di distruzione dell'uomo, della donna e della natura; e l'abolizione dello sport, "un'attività assurda, una forma teatrale di competizione capitalistica, e un sostegno fondamentale per la pubblicità. »
Quando si legge la "lista delle richieste" di Camatte su questo articolo del 1989, è difficile non percepirle come se fossero delle misure potenzialmente autoritarie da mettere in atto per il bene del pianeta, e in una nota a piè di pagina aggiunta nel 2008 Camatte commenta che: « sarebbe stato meglio avere scritto [solo] "cessazione", poiché "proibizione" [così come per cessazione, nella lista, usa il termine "proibire" o "vietare"] inevitabilmente evoca e richiama la repressione. » Tuttavia, c'è da chiedersi come si possa riuscire a fermare cose come i progetti edilizi, il turismo e lo sport senza entrare a far parte di un governo, o senza combattere contro questi fenomeni. A meno che tutti gli operai edili, i turisti e gli appassioni di sport non rimangano a casa a curare il proprio orto e i loro giardini, e non rimangano a casa con il televisore acceso... causando il collasso di tutte queste industrie.
In questa visione di una massa di umanità che semplicemente «lascia il mondo» per prendersi cura del proprio giardino - un fenomeno che ovviamente richiede uno sforzo collettivo, o una cooperazione comune - c'è un fascino stranamente potente. Forse, l'essenza dell'inizio dell'«inversione» di Camatte - vista come un «abbandono di questo mondo» - può essere compresa in termini pratici facendo ricorso al suggerimento di Candido alla fine dell'omonimo romanzo di Voltaire - quando dice che nel momento in cui ci chiediamo cosa ci piace di più del mondo, la cosa più utile è quella di «coltivare il proprio giardino». Candido dice questo dopo che lui e la sua «petite société» si sono ritirati dalle attività mondane e si sono concentrati sul proprio sostentamento con i loro mezzi, imparando ogni sorta di abilità, e ad essere utili l'uno all'altro. Come sottolinea uno di loro: « Lavoriamo senza discutere, in quanto è il solo mezzo per rendere la vita sopportabile. » Se si decide di seguire Camatte, bisogna seguire anche Candido?
Tornando al concetto secondo cui ci vorranno migliaia di anni affinché questa nuova specie umana comunitaria possa crescere fino a raggiungere la maturità, forse bisogna - nonostante l'indicazione di Camatte sia quella che la specie formerà una vera comunità umana - sentire che non possiamo sapere come sarà veramente questa comunità. La nuova comunità, la nuova specie che egli predice è qualcosa di impossibile da descrivere, se non per mezzo di indicazioni parziali, e ciò ha delle profonde implicazioni nel momento in cui si ricordano le società di «tribù» in tutto il mondo, le quali hanno pochi, o nessun contatto con l'economia globale: anche per noi diventa impossibile riuscire a comprendere appieno queste popolazioni. Queste sono le società - come ha spiegato Pierre Clastres - che sono «contro lo Stato». Camatte si riferisce al lavoro di Pierre Clastrers un paio di volte, ma solo brevemente. Ne "La Rivoluzione Integrata" (1978), Camatte sembra riconoscere l'organizzazione sociale centrifuga delle "primitive" società (non statali) descritte da Clastres, in quanto preziose al fine di resistere alla minaccia dell'omogeneità e alla perdita delle diversità tra comunità - cosa che si realizza attraverso la "violenza", o la "guerra" - ma egli non ritiene che «per noi» questa possa essere una strategia appropriata, dal momento che la società è già stata omogeneizzata, e qualsiasi ricorso ad una violenza che amplifichi le diversità non sarebbe altro che una mera violenza "cieca" senza alcun riferimento adeguato. È un peccato che Camatte consideri le osservazioni e le teorie di Clastres come se fossero solo uno strumento per rettificare i difetti della società civile, respingendole troppo alla svelta, anziché esplorarle ulteriormente. Clastres stesso non ha mai suggerito che l'organizzazione sociale delle società non statali che ha conosciuto in Amazzonia dovesse essere ripresa, nella civiltà, dai movimenti radicali. Egli si è limitato semplicemente a notare come «i selvaggi» abbiano resistito allo Stato - in qualche modo - per molto tempo, e come essi rappresentassero effettivamente gli ultimi esseri umani.
Cosa possiamo imparare - usando una lente camattiana - dall'etnografia di quelle popolazioni che vivono al di fuori dello Stato? Clastres suggerisce che l'obiettivo di queste società non è «pace ed armonia», non è l'unificazione. La «comunità» che esiste all'interno dei gruppi e tra i gruppi è operativa a livelli diversi da quelli che possiamo comprendere. I loro "nemici" sono più vicini a loro di quanto potranno mai esserlo i nostri "amici", l'inimicizia si trova ad essere radicata nella loro concezione di relazioni con sé stessi, e con gli altri, anche con i morti. Questa è una delle indicazioni del problema che Camatte definisce parlando di come sarà una vera comunità umana... non può saperlo. Le basi di questo concetto di vera comunità umana proviene dall'Illuminismo e dalle idee di democrazia. Egli, come tutti noi, è un erede delle idee di Spinoza e di Marx, le quali riflettevano le implicazioni radicali dell'Illuminismo, una fenomeno che a sua volta rifletteva la crescita del capitalismo come forma di società. "I selvaggi", come ha osservato Clastres, non vogliono la pace. La pace, fin dalla costituzione del primo Stato, è stata sempre il premio per gli schiavi. In quanto sudditi di uno Stato, naturalmente, è questo quello che vogliamo anche io e Camatte. Ma ci si dovrebbero tenere simili obiettivi per sé stessi, e non proiettarli sui popoli non statali. L'altra cosa che si potrebbe scoprire, se si estende l'analisi di Camatte, o quella di Cioran - che conclude che gli esseri umani sono in discontinuità con la natura, e quindi psicologicamente traumatizzati, ed ora anche obsoleti - alle «tribù non contattate», è che ci sono due tipi di «esseri umani» sul pianeta... ma solo un tipo può davvero chiamarsi "umano".

Il Secondo Tipo
Secondo Camatte, gli "esseri umani" che non possono essere definiti veramente umani, incluso me stesso e tutti gli altri che sono prodotto e funzione - non della Terra da cui abbiamo avuto origine ma - dell'economia che conosciamo come capitalismo... sia che essi raccolgano i benefici provenienti dalla «ricchezza» demente che il capitalismo genera, sia che lottino per poter sopravvivere nelle profondità della follia che è costituita dal rovescio della follia del progresso e dell'avanzamento tecnologico. Sono assolutamente d'accordo con Camatte, sul fatto che i cosiddetti umani (tu ed io) sono delle finzioni, o delle creazioni - come se fossero dei gusci vuoti - riempite da un'incontrollabile ed autonoma economia che ha reciso tutti i loro legami - ben oltre qualsiasi fantasticheria romantica  e al di là di ogni falsa rivendicazione - con gli altri animali e con la Terra stessa. [*6] Come ha fatto questo essere umano a venire al mondo? Visto che sto parlando di una specie di essere umano che vive in uno Stato, devo perciò chiedermi perché e come sia emerso lo Stato. Su questo, da parte di tutti i settori dello spettro politico ed accademico, esiste un bel po' di mistificazione, ma, come ho cercato di dimostrare altrove, anche se non possiamo conoscere le circostanze specifiche dalle quali hanno avuto origine - "originarie", vengono chiamate - gli Stati, ne possiamo capire il perché: lo Stato è una soluzione manageriale al problema della popolazione, la quale è diventata troppo numerosa per poter continuare a mantenere i modi di vivere tradizionali.
La maggior parte delle narrazioni che riguardano l'emergere dello Stato cominciano con l'ascesa di un capo che bullizza la gente, e la cosa porta ad una Famiglia Reale, che porta a sua volta al costituirsi di una corta che alla fine forma una burocrazia. Ed è poi questa burocrazia, quella che esercita il vero potere. Poi la burocrazia si diffonde sul territorio e diventa una sorta di proto-democrazia chiusa. Alla fine, ci sono così tante persone che contribuiscono alla gestione diretta dello Stato per mezzo di supervisori - la nascente «classe media» - per cui all'imprenditorialità appare chiaro che il potere reale si trova in quelle mani e che dovrebbero riconoscere tale potere. Viene così dato inizio ad un movimento che si basa sulle nuove circostanze. Oliver Cromwell era un proprietario terriero. Gerrard Winstanley - il leader dei Diggers, l'estrema sinistra dei rivoluzionari della "Guerra Civile Inglese" - era un uomo d'affari della classe media. Robespierre era un avvocato. Lenin apparteneva notoriamente alla classe media. Fidel Castro era nato in una ricca famiglia di agricoltori e aveva studiato legge all'università. Guevara era un medico. I lavoratori e i contadini vanno loro dietro perché anche ad essi piace questa nuova idea "democratica", e perché hanno bisogno di un miglioramento della propria vita - infatti, naturalmente, la vocazione rivoluzionaria può fare la sua comparsa, e può svolgere la sua funzione, solo se i lavoratori e i contadini si trovano già ad un certo livello di rivolta. Allora ha luogo una rivoluzione (qui, non stiamo parlando di "rivolte"), a volte sanguinosa. I nuovi leader si rendono conto che i lavoratori e i contadini hanno un'idea leggermente diversa circa come dovrebbero procedere le cose e danno inizio alla repressione. Spesso, i primi leader della rivoluzione vengono eliminati, e ne subentrano di nuovi, con un'agenda più ragionevole.
Condivido tutta questa narrazione, tranne che per la primissima parte. Le mie ricerche su come le popolazioni precedenti all'ascesa dello Stato (compre le attuali «tribù non contattate») si erano organizzate socialmente, mostra come una delle priorità fosse quella di mantenere ridotto il numero di individui che facevano parte del gruppo, e qualora il numero iniziasse ad aumentare questi gruppi dovevano "scindersi" - suddividersi. Robin Dumbar ha svolto una famosa ricerca su quali fossero le dimensioni ottimali dei gruppi, e sostiene che, per operare con successo senza alcuna coercizione, essi devono essere in grado di avere delle regolari interazioni faccia a faccia - ciascuno deve conoscere tutti gli altri. Una volta che il gruppo dovesse diventare troppo numeroso perché tutti si conoscano, ecco che diventa necessario stabilire delle leggi. La mia ricerca suggerisce che l'elemento chiave nell'emergere di un nuovo Stato - Mesopotamia, Indo, Meso-America, ecc. - non sia stata né l'agricoltura né le valli alluvionali, bensì il fatto che ci sia stata una crescita della popolazione, e che per qualche motivo inconoscibile il gruppo non sia stato in grado di dividersi. La narrativa classica relativa all'ascesa di un capogruppo/Stato è quella dove un teppista rapace organizza un gruppo e assume il controllo della tribù. Ma quella che è la documentazione antropologica suggerisce che gli esseri umano sono stati in grado di resistere ai furfanti vanitosi per migliaia di anni. E come mai continuano tuttora ad esistere delle tribù "egualitarie" al di fuori degli Stati? Ci dev'essere qualcos'altro.  Molti antropologhi e storici suggeriscono che i progressi della tecnologia - per esempio, l'irrigazione - aprono la strada alla crescita del numero di persone e alla riduzione in schiavitù delle persone. Ma come mai le moderne «tribù non contattate» non hanno inventato tecniche agricole moderne, incrementando così il proprio numero e non hanno creato una dittatura spietata in cui servire? Sono semplicemente stupidi?
Il motivo per cui sono emersi dei capi potenti è dovuto al fatto che la popolazione ha accettato con riluttanza che le nuove circostanze richiedessero un nuovo modo di organizzare le cose. Ciascuno non conosceva più tutti quanti gli altri, e chi voleva poteva farla franca, si potevano formare delle combriccole, potevano essere commessi dei "crimini". Dovevano essere fatte delle leggi e le persone dovevano osservarle - ma quelli che non amavano le leggi, si limitavano ad ignorarle. Alla fine, e questo probabilmente è successo rapidamente, una persona carismatica ha colto l'occasione per auto-esaltarsi... e alla fine la popolazione ha accettato. Un leader forte sostenuto da dei furfanti avrebbe quanto meno mantenuto un po' di pace. Naturalmente, di solito il potere finisca per dare alla testa del Capo e le atrocità divenivano la norma, e nel caso che il popolo non fosse del tutto sottomesso avrebbe potuto appoggiare il tentativo da parte di un Capo rivale di prendere il posto di quello attuale... e così è stata scritta la storia... fino alla Democrazia Rappresentativa. In sé, lo Stato non è né il bene né il male, ma è solo una soluzione manageriale al problema di una popolazione numerosa. Si immagini la scena, due persone sedute sotto una parete rocciosa che discutono del futuro:
« Sì, Enki e la sua banda ritengono di poter risolvere ogni problema, a patto che tutti facciano quello che dice e gli rendano omaggio mandando le figlie ed i figli a lavorare per lui, costruendogli in tal modo un buon posto dove dormire. In questo modo, il posto in cui viviamo sarà un posto migliore in cui vivere, ci sarà meno caos, però dovremmo restare dove siamo e lavorare ancora più duramente, in modo da risolvere i suoi problemi, così ci potrà ricompensare. Quello che non vogliamo è che egli aizzi i suoi scagnozzi contro di noi, però sarebbe bene che egli sistemasse quei pigri ladri bastardi che vivono vicino ai cespugli di ceci...»
Lo Stato viene visto spesso come se fosse un ostacolo agli ideali di pace e di amore - ed al comunismo - ma forse il fatto potrebbe essere che non c'è alcuna via di fuga da uno Stato autoritario quando ci sono così tante persone ammassate tutte insieme? Forse è proprio questa una delle tante lezioni della Rivoluzione russa? (Chiunque suggerisca qui che forse la via della pace, dell'amore e del comunismo doveva appunto essere quella di ridurre la popolazione umana - ed oltre ad esprimere quale sia il vero Male - non si rendo conto che, in quanto funzione del capitalismo, avrebbe semplicemente ricreato il capitalismo in una nuova situazione, proprio come hanno fatto i bolscevichi nel 1918.)
Jean-Jacques Rousseau scelse la libertà che esisteva prima dell'avvento dello Stato e della civiltà, ma riconobbe il fatto che vivere in una società in cui ciascuno - a prescindere da quale fosse il suo ruolo nella gerarchia - dipendeva da ogni altro significava anche che gli esseri umani non potevano tornare indietro. Egli decise che bisognava trarre il meglio da quello che era un pessimo lavoro, e fu questo il messaggio che diede nel suo libro "Il Contratto Sociale". Naturalmente, il libro di Rousseau venne usato dai Giacobini per giustificare la loro dittatura parigina nel 1793-4, come scrive David Wootton nella sua introduzione a "Basic Political Writings" di Rousseau: «Robespierre e i Giacobini lo ammiravano molo, ma lo avevano profondamente frainteso (il loro Rousseau era stato inventato per servire quelli che erano i loro scopi).» L'approccio pratico ed umano - ed anti-millenarista - di Rousseau, secondo cui saremmo intrappolati in quello che potrebbe essere ironicamente definita una società meno che soddisfacente, è stato ripreso molto più tardi da parte di scrittori che erano stati testimoni, o avevano considerato l'esito millenario della Rivoluzione russa, come Albert Camus.
Nel 1951, rivendicando la ribellione - vale a dire, un'opposizione a tutte le forme di dittatura - in contrapposizione alla rivoluzione, egli scriveva: «invece di uccidere e morire per produrre l’essere che non siamo, dobbiamo vivere e far vivere per creare quello che siamo.» E continuava: « O il rivoluzionario esprime simultaneamente la rivolta o non è più un rivoluzionario, ma un poliziotto e un funzionario che alla rivolta si oppone. Ma se è fedele a questa, finisce per insorgere contro la rivoluzione. Cosicché non c’è progresso da un atteggiamento all’altro, ma simultaneità, e contraddizione continuamente crescente. Ogni rivoluzionario finisce per essere un oppressore o un eretico. Nell’universo puramente storico che ha scelto, rivolta e rivoluzione sfociano nello stesso dilemma: polizia o follia. »
Vasily Grossman, scrivendo a proposito della collettivizzazione sovietica e della carestia in Ucraina nel 1932-3, per mezzo del personaggio di Anna Sergeyevna, in "Tutto scorre": « Adesso, quando ricordo l'abolizione dei kulaki, vedo tutto in modo diverso, l'incantamento è passato. Vedo in loro degli uomini. Perché mi ero tanto indurita? Come soffriva la gente, quante gliene facevano! E io a dire: non sono uomini, questi, è solo kulakaglia. E poi rivango, rivango e penso: chi ha inventato quella parola: kulakaglia? Che sia stato Lenin? Quale tormento si è addossato! Per ucciderli, si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini. Ma questa è una menzogna! Uomini! Uomini erano. Ecco ciò che principiai a capire. Tutti uomini! » [*7]

Il Primo Tipo
L'altro tipo di essere umano è quello che vive ancora nelle foreste, sulle colline o nelle pianure, evitando l'avanzata della civiltà. Ma la loro esistenza è precaria e sta diventando più fragile ogni giorno che passa. Queste popolazioni sono gli ultimi esseri umani. Non possiamo sapere chi siano veramente questi uomini poiché incontrarli significa portare loro tutte le nostre malattie psicologiche e biologiche. Ma ciò che riusciamo a sapere, dalla letteratura degli antropologi ( e ne abbiamo abbastanza di essa - non c'è bisogno di alcun studente di antropologia in erba , o di qualche professore esotico che possa invadere gli spazi di questi esseri umani), è che questi popoli non lavorano; essi non hanno un'economia; non  hanno gerarchie; non hanno il controllo sociale come noi lo conosciamo; non hanno denaro; non hanno storia, ma hanno una memoria collettiva; non cercano di conquistare il mondo; non hanno libri; non distruggono la natura; non mancano di rispetto agli altri; non trattano con disprezzo gli altri animali; vivono  per il godimento e per la gioia reciproca... A proposito dell'Homo Gemeinwesen, "la specie che succederà all'Homo sapiens", come si è già detto, Camatte scrive: «Sarà in continuità con la natura e con il cosmo. La sua conoscenza processuale [il suo divenire o, volgarmente, la sua coscienza] non eserciterà una funzione giustificatrice, dal momento che essa opererà unicamente all'interno della dinamiche di godimento. [...] È ovvio che questo non potrà essere un ritorno al genere di nomadismo praticato dai nostri lontani antenati, i quali erano dei raccoglitori. Uomini e dono acquisiranno un nuomo modo di essere che va al di là del nomadismo e del sedentarismo. La vita sedentaria, combinata ed aggravata dall'inattività corporea, è alla radice, e la prima causa di quasi tutte le malattie somatiche e psicologiche degli attuali esseri umani. Una vita attiva e non fissa curerà tutti questi problemi senza dover fare uso di medicina o di psichiatria.»
La descrizione che fornisce Camatte è notevole dal momento che essa descrive delle comunità che già esistono, delle tribù che oggi non sono state contattate - questi esseri umani sono già qui. Essi vivono accanto a noi.
Anche la citazione di Marx usata all'inizio di questo testo , viene qui utilmente ripetuta – « Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. » - poiché l'elenco di ciò che possiedono i popoli non statali può essere scritto solo da persone civilizzate come noi. i quali in linea di massima non hanno ciò che hanno loro. Si tratta di un'indicazione di quanto siamo separati da loro sotto tutti gli aspetti.
Le popolazioni non contattate e i popoli indigeni ( i quali sono difesi dall'organizzazione "Survival Internazional") sono gli ultimi esseri umano. Essi sono la rivoluzione che c'è sempre stata qui. Non sono «caduti in disgrazia» come abbiamo fatto noi. Non si sono imbarcati in un'inesorabile  erranza - o storia - che ha portato il mondo fino al punto di un completo collasso ecologico.  Non vivono nella fatica del lavoro e nella vuota disperazione; non hanno avuto il loro spirito e la loro umanità svuotata per mano loro.
Quanto a noi, ci troviamo intrappolati in un mondo che non potrà mai essere rese perfetto dal momento che dovrà essere sempre gestito e amministrato. E forse non abbiamo nemmeno davvero tutto questo gran controllo su quello che facciamo, sulle scelte che possiamo fare... dato che non abbiamo alcun controllo su ciò che siamo. Forse il meglio che può essere realizzato «politicamente» è continuare a cercare di opporsi all'«ingiustizia», e all'«oppressione», continuare a resistere alla dittatura, anche se continuerà inevitabilmente a ritornare. Si potrebbe anche cercare di aiutare i popoli senza stato a rimanere nelle loro terre, separate dal nostro mondo... ance se tutto questo ha superato i suoi limiti ed è andato troppo oltre... ed il collasso ecologico - che si prevede comincerà seriamente a partire da circa il 2040 - finirà per portarci via tutti.

- Peter Harrison – Pubblicato nel Giugno2020 su Il Covile-

NOTE:

[*1] - Il termine usato da Cioran, appare essere la parola "divagante", che sarebbe forse meglio tradotta con "vagabondo", o "randagio". Altrove, egli usa il termine "divagazione" in una varietà di contesti, che andrebbero tutti tradotti con "vagabondaggio" e simili. La parola "divagazione" - sia in inglese che in italiano - ha anche il significato di digressione, deviazione, ecc. Camatte [curiosamente, come avviene anche nella traduzione del libro di Cioran offerta da Adelphi] preferisce la parola "erranza", che significa anch'essa vagabondaggio. Camatta farà uso del termine "divagazione", in un testo, per un titolo in cui sostiene di usarlo nel suo vecchio significato, di «errer ça et là».

[*2] - Endnotes è un gruppo che esiste dal 2005, con una preistoria (risalente al 1992, in un gruppo inglese chiamato Aufheben), e che è diventato "sempre più internazionale". Nella loro angoscia pe sapere chi essi sono e come si relazionano alla «lotta di classe», nell'articolo "We Unhappy Few" hanno deciso che nella condizione attuale sono teorici della loro stessa abolizione (e non reclutatori di una causa), e che il gruppo dovrebbe durare «solo fino a quando sentono di star contribuendo a qualcosa di utile». Ma come fanno a sapere sei stanno davvero contribuendo a qualcosa di "utile", anche se si tratta solo di una "sensazione", e poi utile a chi? Cosa intendono con "utile"? Le cose sono "importanti" solo se hanno "un uso"? Il loro millenarismo tranquillo, anche se insistono sul non essere mai stati una setta «nel senso normale», viene spiegato in questa frase: «Un obiettivo che abbiamo trovato e che ci interessa, anzi, verso cui ci siamo sentiti spinti, è la teoria comunista, il pensiero sul capitalismo e sul suo superamento». Questa è l'attesa, in studiosa e ferma disponibilità, dell'arrivo di "Dio".

[*3] - È sempre difficile fare questo genere di liste per i lettori che non hanno "confidenza" con l'ambito al quale mi riferisco, che include anarchici, consiliaristi, consiliari di sinistra, situazionisti, bordighisti, e comprende anche la sinistra libertaria. Il modo più facile per immaginare un simile ambito è pensare a tutti quelli che Lenin ha attaccato nel suo libro del 1920, "L'estremismo, malattia infantile del comunismo.

[*4] - Quel che va capito, è il concetto di «movimento reale» nel contesto del supporto incondizionato da parte di Marx ed Engels al «metodo scientifico», che poi è il modo in cui hanno sviluppato quel che è stato il loro concetto di dialettica come forza motrice della "storia". C'è una famosa frase di Marx, la quale raramente viene compresa: « I filosofi hanno finora solo interpretato diversamente il mondo; il problema è cambiarlo. » Questa frase non è mai stata solo una semplice esortazione affinché i filosofi si "attivassero" per il bene comune; il significato era quello che i filosofi dovevano abbandonare il mondo degli «Universali Assoluti» (si pensi alla teoria delle Forme di Platone) ed operare all'interno dei processi sociali ed ambientali che esistevano nella realtà. Marx riteneva che se lo avessero fatto, non sarebbero più stati degli «inutili filosofi», ma sarebbero stati degli scienziati - ai tempi di Marx, era lo scienziato ad essere visto come colui che cambiava il mondo, e i proletari ed i filosofi avrebbero potuto fare altrettanto se fossero diventati anche loro degli "scienziati" o, per essere più precisi, dei dialettici della concezione materialista della storia (materialismo storico).

[*5] - In "We Unhappy Few", ci sono diversi riferimenti al «movimento reale». Di solito, la citazione di Marx viene tradotta con qualcosa di simile a: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose attuale», e viene frequentemente usato nella letteratura della teoria della "comunizzazione". La frase di Marx, per intero, è «Il comunismo è per noi il movimento reale che abolirà le condizioni attuali.» A partire dall'inizio degli anni '70, per i comunisti di sinistra la riga che comincia con «il movimento reale...» è diventata una sorta di magico incantamento. Il concetto di «movimento reale» è stato citato, ma non referenziato, in "Eclipse and Re-Emergence of the Communist Movement", degli ultra-sinistri Gilles Dauvé (Jean Barrot) e François Martin, ed è stato qui che per la prima volta è comparso il concetto di comunizzazione. Nel 2000, Dauvé ha dichiarato che la teoria della comunizzazione è derivata dalla «critica della separazione» dell'Internazionale Situazionista. Scherzando, nel 1983, Camatte, rispondendo a quelle che sono state le loro critiche all'«ottimismo» di Camatte, ha definito «Dauvé e i suoi compagni» come dei «morti viventi».

[*6] - Gran parte di questo, così come il testo della prossima sezione, è tratto da un articolo precedente che si può leggere a:  https://www.counterpunch.org/2020/04/10/the-last-humans-or-why-revolutionaries-should-drop-their-millenarianism-and-support-survival-international/

[*7] - I kulak venivano descritti dai bolscevichi come contadini «ricchi» che ostacolavano la socializzazione delle terre ma, in realtà, erano semplicemente tutti dei contadini. I contadini - e la relazione tra campagna e città - è sempre stato un problema perenne per i rivoluzionari, come scriveva Marx nel 1875: « Su scala di massa, il contadino esiste come proprietario privato della terra, laddove egli forma addirittura una maggioranza più o meno considerevole, come avviene in tutti i paesi del continente europeo occidentale, dove non è scomparso ma è stato sostituito da braccianti agricoli, come in Inghilterra - in futuro vedremo: o i contadini cominceranno a creare degli ostacoli e faranno fallire qualsiasi rivoluzione operaia, come hanno fatto in precedenza in Francia, oppure il proletariato (perché il contadino proprietario non appartiene al proletariato; e anche quando la sua situazione lo colloca come tale, egli pensa di non farne parte) deve, in quanto governo, prendere dei provvedimenti, in conseguenza dei quali la situazione del contadino migliorerà direttamente, portandolo dalla parte della rivoluzione. »
Il gruppo "Theorie Communiste", vicino al gruppo "Endnotes", scrive nel 2011: «La questione essenziale che dovremo risolvere, è quella di capire come estendere il comunismo... come integrare l'agricoltura senza dover scontrarsi con i contadini.»
Sembra che una volta Maxim Gorky abbia detto: «Perdonami se te lo dico, ma il contadino non è ancora umano... È il nostro nemico, ll nostro nemico.»

fonte: Il Covile