martedì 28 luglio 2020

Bipensare

«1984», il degrado della parola
- Nicola Gardini - dalla postfazione alla sua nuova traduzione di «1984», di George Orwell -

1984 è una tragedia della parola. Il tiranno punta dritto al suo cuore, la metafora, organizzando un "regime del significato letterale",  dove a vuol dire a, sempre e per ognuno, e mai a', neppure per qualcuno. Via le sfumature, le associazioni personali, i ricordi, l'ironia. Il tiranno sa bene che la parola non è mai lettera, che non dice mai una cosa sola, neppure quando si sforza o pretende di produrre  messaggi diretti e chiari. La parola disobbedisce per sua natura, presupponendo comunque altri valori, altri contesti. Compare, qui, ora,  con un certo significato, ma potrebbe anche comparire altrove, con un altro significato. Comunque, è già comparsa altrove, e allora reca con sé storia ed esperienza. La parola, perfino quando meno ironicamente intonata, vive di sensi segreti; di un suo potenziale semantico ancora inarticolato ma articolabile; di memorie e di profezie. Non si esaurisce mai nella circostanza del messaggio; non è ferma, sebbene si arresti per un momento nella frase che stiamo pronunciando. Viaggia; è sempre di passaggio, immancabilmente pronta a portarsi di là, provocando pensieri inattesi. È libertà e dà libertà. Chi accetta, anche solo in via ipotetica, la cristallizzazione dei significati sarà il primo a inchinarsi al tiranno. Non a caso il Partito prevede che il suo trionfo sarà definitivo solo con l'edizione definitiva del Dizionario di Novalingua. Costretto ogni vocabolo a un solo significato, che sia valido universalmente, nessuno dirà o intenderà mai più qualcosa di diverso.
L'intera opera di Orwell è percorsa dall'orrore della rovina linguistica. Si setaccino i moltissimi saggi, si frughi ancora tra i vari romanzi che precedono 1984, e salteranno fuori pagine e pagine di riflessione sul degrado della significazione, sulle misure pratiche da prendere e sugli autori da frequentare. Orwell considera il suo mestiere nei termini della pura disciplina verbale. Riconosce l'importanza del modernismo, perché persegue il culto dello stile, e in certo grado se ne considera un continuatore. In verità, ammira apertamente solo Joyce. Per istintiva omofobia (e misoginia) detesta, invece, Proust, la Woolf e Henry James, riuscendo a vederne solo le parti più estetizzanti. I dichiarati modelli sono Swift, Dickens, D.H. Lawrence, Shakespeare, l'Antico Testamento. Per Orwell l'arcinemico della parola non è specificamente il totalitarismo. In effetti, il suo discorso prende a esempio il nativo inglese, ovvero la lingua di una nazione che dittature non ne ha subite. La parola è vittima della storia. La sviliscono degenerazioni e perversioni come la divisioni tra le classi, la cattiva politica, l'influenza dell'americano...
La teorizzazione della Novalingua, a proposito, riprende direttamente considerazioni che Orwell riferisce all'inglese d'America (si confronti l'Appendice del romanzo con il saggio Gli inglesi, The English People, composto nel 1944). Ci si mettono anche i latinismi. Quanto detesta il latino Orwell! Certo, può anche sentirsi affascinato da un verso di Orazio (Parole nuove, New Words, 1940), o anche da tutta un'ode dello stesso poeta. Nel primo romanzo, Giorni in Birmania (Burmese Days, 1934) e in un  più tardo saggio su Eliot (1942) cita «Eheu fugaces» e nella Figlia del reverendo (A Clergyman's Daughter, 1935) fa cadere perfino una citazione di Tacito. In generale, però, Orwell trova nel latino una lingua remota dalla urgenze del presente, un corredo di citazioni supponenti, una materia scolastica insopportabilmente "classy" e, soprattutto, una fonte di cattivi neologismi e di eufemismi menzogneri.
Proprio nell'anno in cui comincia a comporre 1984 nota: «Una massa di parole latine cade sui fatti come soffice neve, cancellando i contorni e coprendo tutti i particolari. Il grande nemico della chiarezza è l'insincerità. Quando non c'è corrispondenza tra le intenzioni reali e quelle dichiarate si ricorre istintivamente alle parole lunghe e alle frasi fatte, facendo come la seppia che butta fuori l'inchiostro» (La politica e la lingua inglese, Politics and the English Language, 1946). Le parole lunghe sono appunto quelle di stampo latino, che in una frase saltano subito all'occhio, di fianco al lessico prevalentemente monosillabico di origine germanica.
La distruzione del linguaggio assume in 1984, che è l'ultimo romanzo completo di Orwell, dimensioni apocalittiche. Molto del fascismo che vi si rappresenta, si sa, richiama direttamente il totalitarismo russo e altri totalitarismi recenti. Né mancano - non dimentichiamolo - riferimenti polemici all'imperialismo e al classismo britannici. 1984, però, non si limita ad allegorizzare il male dei regimi repressivi: mostra che il linguaggio è una grande questione politica, e qui sta la sua più duratura lezione. Alla fine per Orwell il fascismo non si identifica con questo o quel particolare sistema di governo. Il fascismo lo fa, indipendentemente dal colore ideologico, qualunque politico parli male e faccia parlare male; e, parlando male e facendo parlare male, pensi male e faccia pensare male.
Nell'anno in cui comincia 1984 Orwell scrive anche: «La metafora ha il solo scopo di evocare una rappresentazione visuale» (La politica e la lingua inglese). Questa definizione illumina non poco le ragioni del romanzo. Quando usi la metafora, dici A e vedi B. Cioè, dicendo una cosa sola, di fatto compi due operazioni: esprimi un significato a voce, e questo, oltre a consegnarsi a un ascoltatore, si riproduce nella sua testa in forma figurata, e lì si confonde con altre rappresentazioni preesistenti, modificandole, attraendole nella sua orbita, rimescolando il presente e il passato. La metafora entra nella memoria. I pensieri di Winston sono spesso ricordi, e non solo perché lo muova la nostalgia per il tempo andato o per l'infanzia o il rimpianto per la crudeltà con cui si comportò verso la madre e la sorella o il rancore per una moglie che non lo desiderava. Lui, appunto, pensa metaforicamente: "vede" le cose che non ci sono o non ci sono più. È un vero e proprio visionario. O'Brien, il suo torturatore, lo accuserà proprio di questo - di inventare la realtà, di costruirsela con la sua testa - -  e per una volta non sarà lontano dalla verità, sebbene, mentre ci imbattiamo in quell'accusa, O'Brien ci appaia solo un folle negazionista.
Proprio la duplicità della metafora il Partito intende reprimere. Si obietterà che il partito coltivi a sua volta una forma di duplicità, o addirittura di vaghezza: il "bipensare". Sì, c'è il "bipensare". Questo tuttavia non ha nulla che fare con la duplicità della metafora; anzi, ne è la più spettacolare antitesi: Mentre la parola-metafora ammette la simultaneità di due eventi eterogenei, quello sonoro del dire e quello visuale dell'immaginare, il bipensare porta la duplicità nella sfera della logica, abolendo il principio di non contraddizione.
Nel bipensare non si dà un secondo livello figurato. Là esiste solo e sempre un unico livello che coincide con un unico significato. La duplicità - seppure questo termine sia ancora applicabile - si esprime nella capacità di cambiare quell'unico significato secondo la convenienza del momento, nella pretesa che la verità di una proposizione sia subordinata alla necessità delle circostanze, pur nell'evidente falsificazione dei dati presenti e passati. Il dissidente Winston è l'ultimo uomo della metafora, l'uomo che ancora sa "vedere" le parole, proprio lui che al Ministero deve ogni giorno cancellare e adulterare il contenuto degli archivi.

- Nicola Gardini - Pubblicato sul Sole del 10/11/2019 -

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