martedì 31 marzo 2015

GRINDHOUSE

Il capitale. Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano

1938. Nuestro culpable. El idolillo sagrado en venta y sus avatares. Spezzone del film di Fernando Mignoni. Film prodotto dalla CNT-FAI, Madrid, 1937. Fotogrammi tratti dalla copia depositata presso la Filmoteca Española attraverso la FAL (Fundación Anselmo Lorenzo) nel 1999.

1867. Il Capitale. Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano. Progetti basati sull’omonimo testo di Karl Marx. Appunti di Sergei M. Eisenstein a partire dal 1927. Fotogrammi dei film Ottobre (1927), Il vecchio e il nuovo (1928) e Il prato di Bezin (1937) nell’edizione FSF (Films Sans Frontières), 2002.

Terminata la guerra, si diceva alla Motion Picture Herald che anche gli studi cinematografici avevano subito, durante il conflitto, una sostanziale trasformazione: le macchine da presa e i proiettori erano stati portati, allo scopo di “proteggerli”, nei locali di partiti e sindacati. I furti e le appropriazioni rappresentarono sì un nemico per gli studi, ma non certo l’unico. Gli studi di Madrid produssero poco materiale narrativo e sopravvivevano in piena contraddizione. Su chi finanziava il tutto non c’era alcuna novità: si manteneva la base economica precedente, gli “elementi capitalisti” continuavano a fornire il denaro per l’utilizzo degli studi. Il maestro di musica Luis Patiño spiegava che il cinema doveva fare i conti con numerose incomprensioni: “la prima è quella del CAPITALE”. L’attore e produttore Antonio Portago, che aveva interpretato La bien pagada (Eusebio F. Ardavín, 1935), diceva che il capitale cominciava a dar segni di comprensione “seppure non nella misura necessaria”. I successi riscossi dalle pellicole della Filmófono o della Cifesa iniziavano a far superare le riserve a coloro che fornivano le risorse per fare cinema: “I film spagnoli cominciano a essere film di un certo successo, cominciano a dare soldi, per cui, sulla base di questi indiscutibili elementi, il cinema
spagnolo aprirà i suoi occhietti di avaro birbone e per cupidigia, per avarizia, si azzarderà a uscire dalla tana in cui è rinchiuso.” Gli “elementi economici” praticamente sparirono. Quale conseguenza di tale penuria, gli studi della CEA produssero un solo film in tre anni: Nuestro culpable. La guerra aveva messo in fuga il capitale.

Non era possibile capire il cinema sovietico senza comprendere i sottili meccanismi del suo sistema di produzione. Tutto il materiale apparteneva allo Stato, lo “studio era lo Stato”. Quanto più importante era un film, quanto più successo aveva riscosso il suo regista, più diretto e più alto era l’intervento politico dello Stato. L’idea più logicamente politica dei soviet, l’idea di Eisenstein di realizzare un grande affresco cinematografico sul Capitale di Marx fu espressamente bocciata dal responsabile numero uno dell’industria cinematografica sovietica e dallo stesso Stato. Un elemento interno, strutturale al nuovo progetto, ne avrebbe affrettato il fallimento. Senza capitale per Il Capitale. Stalin consigliò ad Eisenstein di non pensar più al Capitale, di cambiare aria, di lasciar perdere il progetto. Lo trattò da folle, contro ogni logica, ovviamente. Eisenstein pensò di vendere il progetto de Il Capitale ai nordamericani. Era folle, gli aveva detto Stalin, e logicamente, stando alle sue parole, folli sarebbero stati i capitalisti che avessero voluto imbarcarsi nel progetto di portare Il Capitale al cinema. Il loro sistema di produzione non lo avrebbe accettato. “Lo Stato era lo studio”, rassegnato ad abbandonare il proprio progetto sul Capitale.
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L’esistenza di film quali Aurora de esperanza, Barrios bajos o No quiero, no quiero è, in effetti, un’esperienza unica e insolita, date le circostanze. Così come lo è l’interesse specifico per la sperimentazione. Mentre le altre case con attività cinematografica si pronunciavano più o meno unanimemente a favore del documentario convenzionale, perché si riteneva prematuro e inopportuno dedicare energie a obiettivi che non fossero quello più urgente di vincere la guerra, la SIE Films e la FRIEP realizzavano ricostruzioni a carattere narrativo invece del limitato film elaborato a partire da spezzoni di reportage. Non era comune neanche che in tali circostanze belliche si girassero nelle strade e negli studi pellicole di “tematica sociale”, come Aurora de esperanza, o produzioni di intrattenimento come Nuestro culpable o Barrios bajos. Il cinema di propaganda, secondo questi stessi presupposti degli anarcosindacalisti, non poteva giustificare di per sé il 19 luglio, il sollevamento delle organizzazioni operaie contro la vecchia società reazionaria. Bisognava anche coltivare – come diceva Mateo Santos, uno dei suoi ideologi – “il cinema come arte”. L’esperienza dei marxisti fu completamente diversa da quella degli anarcosindacalisti, arrivano le due parti allo scontro in numerose occasioni, soprattutto per quanto riguardava la gestione dell’esibizione e il boicottaggio a determinati film. Le stesse contraddizioni politiche, che raggiunsero il momento più drammatico negli avvenimenti del maggio del 1937, si riprodussero in ambito cinematografico. Seppure i comunisti finirono per creare la propria casa di produzione e distribuzione, aggiungendo un ulteriore elemento alla pluralità di organizzazioni cinematografiche esistenti, il loro discorso durante la guerra fu sempre quello dell’unità e della direzione centralizzata, “con un criterio politico e ideologico unificato di tutte le masse antifasciste” come proclamava Juan M. Plaza, organizzatore dell’apparato di propaganda dell’Esercito del Centro.

Nel suo articolo “Al di là dell’interpretazione e della non interpretazione”, pubblicato su Kino nel 1928, Eisenstein annunciò il suo nuovo progetto cinematografico: Il Capitale di Karl Marx. “Essendo consapevoli dell’immensità in generale di questo tema, procederemo presto a selezionare in primo luogo gli aspetti che possono essere portati al cinema. Lo faremo avvalendoci della consulenza dello storico A. Efimov, lo stesso che ci ha affiancati nella stesura della sceneggiatura di Ottobre.” Come disse alla Sorbona nel 1930: “Non sarà una storia con un suo sviluppo, bensì un saggio, perché il pubblico analfabeta e ignorante possa capire e imparare il pensiero dialettico.” A suo giudizio, era questa la strada che in futuro avrebbe dovuto seguire la tematica cinematografica. “Un cinema puramente intellettuale che, libero dalle tradizionali limitazioni, adotti forme dirette per esprimere i pensieri, i sistemi e i concetti, senza transizioni né parafrasi. E che quindi possa diventare una sintesi di arte e scienza.” “Credo che solo il cinema sia in grado di realizzare questa grande sintesi, di fornire l’elemento intellettuale con le sue fonti vitali, sia concrete che emotive. Questa è la nostra funzione e questa è la strada che dobbiamo seguire.”

Il metodo di insegnare divertendo o di comunicare idee senza reprimere l’umorismo sembrano scoperte recenti, concomitanti con la rivalutazione della commedia, un genere ingiustamente denigrato fino a poco fa, mentre, in realtà, si è rivelato il cammino più efficace per introdurre nella società cambiamenti di usi e costumi, dato l’alto grado di permeabilità degli spettatori di fronte ad esso.

Credo che solo il cinema sia in grado di realizzare questa sintesi, riportando l’elemento intellettuale alle sue fonti vitali concrete ed emotive. È questo il nostro compito ed è questa la strada che stiamo seguendo. Questo è il punto di partenza del prossimo film che ho in mente di realizzare, che deve portare il nostro operaio e il nostro contadino a pensare in modo dialettico. Questo film avrà come titolo Il Capitale di Marx.

Penso che la FRICEP sia stata più intelligente della SIE, perché mentre le produzioni della casa barcellonese cercavano di arrivare allo spettatore per la via sentimentale e l’ambiguità ideologica, la realizzazione della centrale madrilena fu più diretta, utilizzò la via della commedia popolare, una semplice operetta, per far breccia sul pubblico. Alla Federazione Regionale della CNT importava poco che il suo film fosse di qualità cinematografica inferiore rispetto a quelli della SIE; di contro, si rivelò efficace l’impiego di un linguaggio che lo spettatore di quel tempo potesse capire, che risultasse a lui familiare. La pensa così anche parte della storiografia attuale che si occupa di Nuestro culpable. L’inglese Roger Mortimore, per esempio, ha scritto queste acute osservazioni: “La realizzazione in Spagna dei film del Fronte Popolare si fece attendere fino allo scoppio della guerra civile, quando la CNT, insieme ad altre due case, produsse Nuestro culpable (Fernando Mignoni, 1938), una commedia anarchica sullo stile di René Clair... Questi film rappresentano in un certo senso l’anello di passaggio tra quelli sulla classe operaia di Chaplin, Keaton e Clair e il Neorealismo italiano”.

Avrà inizio da qui il suo divorzio dalle teorie classiche del montaggio (Griffith, Koulechov, Pudovkin), che consideravano quest’ultimo una mera “somma” di piani (come mattoni messi uno sopra all’altro per costruire un muro, nelle parole di Koulechov) mentre Eisenstein lo concepirà come “scontro”, “conflitto”, “collisione” tra due piani che dà origine a un nuovo concetto irrappresentabile o astratto nella mente dello spettatore. Questo è, naturalmente, il punto di partenza del cosiddetto “cinema intellettuale” (o cinema di concetti), che lo avrebbe portato a dedicarsi a progetti di adattamento al cinema di opere difficili quali Il Capitale di Marx e l’Ulisse di Joyce.

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La determinante influenza del cinema nordamericano, del cinema di intrattenimento, era dovuta fondamentalmente alla convinzione che nella produzione di emozioni e nel divertimento si potevano trovare le brecce più adatte per inculcare le diverse trame ideologiche. La tecnica era al servizio del film e al servizio dello spettatore, e nel momento in cui entrambi abbassavano le proprie difese, al culmine dell’azione e del montaggio cinematografico, si facevano largo l’amore libero, l’uguaglianza giuridica dei lavoratori o il diritto a un salario degno. Così Fernando Mignoni, sceneggiatura in mano, riuscì a convincere i compagni della CNT, che esercitavano quali produttori di un cinema semi-professionalizzato e semi-politicizzato, in parti uguali, sullo sfondo dei momenti culminanti, e più duri per la causa repubblicana, della guerra civile. Un cinema di emozioni non si oppone necessariamente a un cinema di idee. Le emozioni sono il veicolo. Come disse Mateo Santos, “le emozioni sono comparabili alla colonna sonora, all’illuminazione, alla scenografia, mai alle idee o all’argomento”.

Senza lasciarsi intimidire, iniziò a entusiasmarsi all’idea di un discorso cinematografico che potesse mostrare argomenti e presentare completi sistemi di pensiero. Pensava al modo di poter utilizzare il montaggio per generare non solo emozioni ma anche concetti astratti: “Dall’immagine all’emozione, dall’emozione alla tesi” (1930). Cominciò a pensare a un film sul Capitale di Marx, a partire dalla sequenza Dio e Patria di Ottobre, che aveva tentato di criticare l’idea di Dio unicamente mediante la giustapposizione di immagini. Il film avrebbe creato una “attrazione intellettuale” che avrebbe “portato l’operaio a pensare in modo dialettico” (1927). Al tempo stesso aveva iniziato a leggere l’Ulisse di Joyce e in esso vide la possibilità di disaneddotizzazione, come pure particolari acuti e vivaci che provocavano “fisiologicamente” conclusioni generali (1928). Il Capitale avrebbe trattato della Seconda Internazionale, ma per “l’aspetto formale sarebbe stato debitore a Joyce” (1927). La pellicola non fu mai realizzata; Stalin bocciò questa idea nel loro incontro del 1929. Tuttavia, il romanzo di Joyce continuò ad esercitare un’influenza dominante su tutta la sua opera come regista.

Nuestro culpable ha comunque un finale che si presenta come un deus ex machina, un finale artefatto, in cui il regista ha perso il controllo sui conflitti. Le trame si sono talmente ingarbugliate che è impossibile una conclusione naturale, e sopraggiunge un finale forzato. Mignoni introduce il suo deus ex machina come faceva Jardiel Poncela nelle sue commedie: un finale rapido, invece di uno logico. El Randa dice di trovarsi benissimo in prigione, meglio che in qualsiasi altra parte. Lo lasciano solo nell’ufficio del giudice con la valigia e i due milioni di dollari. A questo punto ha tempo per giocare un piccolo scherzo alla giustizia, vestendosi con il cappotto e il cappello del giudice e prendendo in mano la sua pipa, e per fare un gesto simbolico espresso nella liberazione di un uccello dalla gabbia. Esce dalla finestra dell’ufficio, che casualmente si trova a un piano basso, e, mentre fugge, passa casualmente di là la macchina dell’amante di Urquina, che si ferma e lo fa salire. Lui e la ragazza si scambiano sorridendo un saluto e si allontanano. El Sol diceva che Nuestro culpable era “una vera disgrazia. Segna un cammino di vuota e inutile frivolezza, che può portare il cinema spagnolo solo a uno strepitoso fallimento”. Piacque invece al pubblico, e i suoi messaggi anarchici raggiunsero più persone.

Gli scritti di Eisenstein degli anni Venti ci trasmettono una concezione unica della forma e dell’effetto cinematografici. Il film deve essere assemblato – “montato” – come una macchina – a partire da stimoli. Dentro i piani e in mezzo ad essi, gli stimoli includono tutto, dalla misura e dal ritmo fino alla dominante e all’armonico, contenendo tutti in sé qualche possibilità di conflitto. Tali possibilità formali si configureranno a loro volta attraverso l’eventuale risposta suscitata nello spettatore, una risposta che suppone percezione, emozione e un certo grado di coscienza cognitiva. Concependo gli stimoli come “attrazioni” accentua la dimensione percettiva ed emotiva; concependoli come “segni”, ne mette in gioco gli aspetti intellettuali. In entrambi i casi, il film porta lo spettatore a un’esperienza che allude a conclusioni ideologiche: un’opera di agitazione, di propaganda o anche di dimostrazione astratta, come era l’intenzione del progetto sul Capitale. Tuttavia, Eisenstein insiste sul fatto che l’impatto percettivo ed emotivo deve essere presente anche nelle forme più intellettuali del discorso cinematografico.

La maggior parte di questi film avevano come tema centrale il motto “Lavora e lotta per la rivoluzione”. Nuestro culpable, per esempio, è una commedia musicale che ironizza sui rapporti tra la giustizia e la società borghese.

In una lettera a Léon Moussinac, il cineasta scrisse: “Le annuncio che mi accingo a fare un film su Il Capitale di Karl Marx non come trucco pubblicitario. Credo sia questa la strada che seguirà il cinema del futuro.”

Tralasciando i luoghi comuni, una visione attenta a Nuestro culpable ci porta a una serie di sfumature in cui l’ideologia che ci interessa si manifesta durante tutto lo svolgimento del racconto, nonostante il tono apparentemente trascurato della narrazione. Per esempio, dettagli significativi seppure minimi dell’esibizione di un quadro con la cornice d’argento, con un maiale per foto, fino al gesto anarchico, con l’onomatopea sprezzante “ppprrrff ”, come una beffa, del protagonista alla prigione, o il biglietto di auguri di Natale che esce dal portafoglio, nella scena della truffa, al posto delle banconote. Ma ancora più importanti sono le sequenze in cui i tre prigionieri chiedono l’uguaglianza con El Randa, dicendo “semos los amos” (‘siamo i padroni’), e quella del cabaret, dove in una canzone viene fatta un’esaltazione della figura del ladro.

Fino a che punto possiamo parlare di una messa in scena marxista. Il principale indice della composizione patetica è un delirio costante, un costante essere fuori di sé – un costante salto da una qualità all’altra di ogni elemento isolato o di ogni segno sintomatico dell’opera, e questo via via che aumenta quantitativamente, crescendo senza sosta, l’intensità del contenuto emotivo della sequenza, dell’episodio, della scena, dell’opera nella sua totalità.

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Ancora una volta, forze di oppressione come la polizia, i giudici, la banca o il sottoproletariato, se alleano per punire il diseredato, El Randa, e per sfruttare sessualmente sua moglie, Greta. Tuttavia, anche se i protagonisti ne escono vittoriosi, il messaggio è che l’ordine borghese può essere beffato solo con l’astuzia o con un colpo di fortuna, da cui l’importanza che viene data a un ferro di cavallo. Con questo “oggetto magico” il film difende una tesi così poco rivoluzionaria quale quella secondo cui la felicità dipende dalla sorte e non dall’azione degli uomini. Il feticismo per i dollari e per il lusso risultano parimenti poco ortodossi. In conclusione, come certi simpatizzanti senza formazione o poco convinti, il film confonde l’anarchia con l’anarchismo, la distruzione dell’ordine e l’ordine libertario.

Lo abbiamo già detto: poliziotti che preparano gli stivali, anch’essi capitalisti – incredibilmente simili l’uno all’altro, grassi uguali, vestiti uguali, tutti con  il collo tarchiato –, in riunione con il ministro e disposti a metter fine alle rivendicazioni operaie. Disposti, anche, a godersela. Il ministro toglie dal tavolo attorno a cui sono riuniti il manifesto operaio e fa un gesto con la mano per richiamare l’attenzione: il tavolo si apre dividendosi a metà, come se si trattasse dei ponti di San Pietroburgo, e dall’interno emergono bottiglie di liquore e bicchieri pieni, pronti da bere. C’è qualcosa di osceno in questo dispositivo che segna il passaggio dal lavoro al divertimento (i volti dei capitalisti lo rivelano senza pudore): ritirato il foglio – il discorso –, ciò che era nascosto si rivela, appare proprio dove deve stare: basta osservare attentamente la ripresa per percepirne la latenza sessuale.

Un piccolo idolo passa da un personaggio all’altro, meccanismo di una grande truffa messa in atto, poiché alla fine, quando la statuina viene aperta e il suo interno distrutto, si constata che non conteneva alcun tesoro, che era un inganno, come si può vedere dall’espressione da ebete rimasta sulle facce dei prigionieri.

Un cilindro sacro che passo da una mano all’altra. Un oggetto fallico che contiene promesse di salvezza. Per un momento il cilindro non dà segni, non lo possiamo identificare. Non sappiamo ancora se sarà di aiuto in chiesa o in fabbrica. Il funzionamento è lo stesso. Una promessa di salvezza lo contiene.

Anche qui Antonio Polo optò per la professionalità: “Decisi di fare il film e iniziai le riprese con i migliori interpreti e il miglior personale tecnico disponibile, a prescindere dalla tessera sindacale di ognuno.” Tuttavia il lavoro doveva essere sottoposto al controllo di una commissione di vigilanza che ogni giorno avrebbe visionato la proiezione avendo facoltà di modificare il copione o di fermare le riprese. Mignoni, celebre scenografo, autore, tra l’altro, della scenografia del film di Aznar, si rifiutò di lavorare, come racconta Polo, “sotto le pressioni di personale non idoneo”. Ma in seguito si raggiunse un accordo e il film poté arrivare in porto, vale a dire, nelle sale cinematografiche. Polo, invece, dopo le discussioni e i tiremmolla con la commissione di vigilanza, ci rimise il posto.

Stalin fece arrivare a Eisenstein e ai suoi due compagni dei suggerimenti su come cambiare il centro di attenzione de La linea generale e questi non poterono fare altro che accettare. Eisenstein chiese allora a Stalin il permesso di recarsi all’estero con Alexandrov e Tisse, per studiare le tecniche del suono occidentali, e disse che voleva fare lì un film sul Capitale. Stalin gli rispose: “Sei matto”, e nient’altro; e aggiunse che avrebbe riflettuto sulla richiesta del permesso per viaggiare.

Fu Rodiño, responsabile della CEA, a suggerire di adattare una commedia di Fernando Mignoni, che già precedentemente gli era stata offerta. La lettura davanti alla commissione di consulenza del sindacato non presentò problemi – il tema non presentava elementi ideologicamente rifiutabili –, quindi si approvò la sua realizzazione. Realizzazione che incontrò subito alcuni attriti, dal momento che, evidentemente, la produzione nel suo insieme era estremamente eterogenea. Successe con Nuestro culpable qualcosa di simile a quello che era successo con No quiero, no quiero, pellicola diretta da Francisco Elías per la CNT catalana, che fu l’ultimo progetto importante realizzato dalla centrale sindacale, in una direzione che significò un grande allontanamento dal budget di produzione iniziale preventivato (economico, artistico, ecc.).

Lasky propose vari temi, tra cui il caso Dreyfus, un film su Émile Zola e il grande best-seller di Vicki Baum Grand Hotel. Nessuna di queste proposte interessò particolarmente Eisenstein, il quale propose altre tre opere, che avevano il vantaggio di essere state offerte dai rispettivi autori: La guerra dei mondi di H. G. Wells, Ulisse di James Joyce e Il discepolo del diavolo di George Bernard Shaw (alla fine furono realizzate le versioni cinematografiche di tutte e tre le opere, ma non le diresse Eisenstein). Poiché Lasky stava già rischiando molto invitando un “pericoloso” bolscevico a Hollywood, Eisenstein rinunciò prudentemente a esprimere il desiderio di fare un film sul Capitale.

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I commenti e le critiche sottolinearono in modo unanime le difficoltà che si dovettero superare per portare a termine il film: “È stato, è e sarà un atto eroico” (Super-Filme del 10 aprile del 1938). E mentre alcuni si mostravano soddisfatti per lo sforzo che aveva significato il fatto di averlo girato in piena guerra in un studio madrileno, altri si interrogavano sulla validità di un film umoristico mentre sul fronte di Teruel si stava combattendo a 18 gradi sotto zero, definendo al tempo stesso Mignoni spregiativamente come apprendista di Perojo. L’attività di Fernando Mignoni, scenografo teatrale italiano stabilitosi in Spagna, si era orientata verso il cinema senza mai uscire dalla sua specialità – all’interno, appunto, del gruppo che lavorava abitualmente con Benito Perojo –, tranne in poche occasioni, come nel caso di Nuestro culpable, di cui dovremo considerarlo autore senza alcuna riserva, dal momento che argomento, sceneggiatura, dialoghi, scenografia e regia portano la sua firma. Il film si svolge interamente in una Madrid presumibilmente precedente alla guerra civile – è sorprendente osservare come uno straniero abbia rappresentato sin nei dettagli l’ambiente popolare, avvalendosi anche degli accenti e dei modi di dire locali –, con quattro personaggi che fanno da pilastri fondamentali, più qualcun altro che apporta ulteriori sfumature a determinate sequenze. In una fase previa alla narrazione, lo schema della situazione poteva essere definito mediante un triangolo: il povero, il ricco e il giudice, ognuno fedele al ruolo sociale che gli è attribuito e rispecchiante la massima che recita: “a rubar poco si va in galera, a rubar molto si ricevono onori”. Ma un personaggio esterno imprevisto – l’amante del banchiere – rompe l’equilibrio stabilito ribellandosi contro il suo signore ed entrando improvvisamente a far parte dell’aristocrazia del crimine, commettendo uno spettacolare furto su cui a nessuno conviene far chiarezza. A partire da questo momento, tutti gli interessati si vedono costretti a mentire – dico il contrario perché tu mi capisca –, la qual cosa potenzia lo sviluppo del film in chiave di commedia umoristica e permette di inserirvi canzoni con testi costellati di acuta ironia, dove il realizzatore dà libero sfogo ai suoi sperimenti visivi a base di sovrimpressioni, che se non sono perfettamente riuscite quanto a risoluzione tecnica è perché non hanno pretese estetiche ma si attengono a un proposito prestabilito di sintassi filmica.

Come tante volte nella sua carriera, il problema teorico sorge da un progetto cinematografico. Facendo il montaggio di Ottobre (1928) aveva sperimentato momenti di “cinema intellettuale”. Intercalando scene del campo di battaglia con scene del fronte interno, aveva materializzato delle metafore: l’aquila zarista che si lancia sulle truppe, il documento di un lacchè che scatena un bombardamento, un carro armato che esce da una catena di montaggio e “travolge” i soldati nelle trincee. Aveva mostrato Kerensky mentre passeggiava nel suo ufficio e, allo stesso tempo, saliva sulla scala dei titoli ufficiali. E nella sequenza più memorabile, Dio e Patria, aveva trasformato un gruppo di statue in emblemi di idee incompatibili sulla divinità. Dopo il montaggio di Ottobre a Eisenstein rimase il desiderio di fare un film sul Capitale e di spiegare teoricamente come si può utilizzare il cinema per generare concetti. Come categoria, il “cinema senza argomento” includeva film senza una trama romantica centrata su un personaggio, ma Eisenstein speculava sul fatto che il cinema potesse fare completamente a meno dell’argomento. “L’argomento è solo uno dei mezzi senza cui ancora non sappiamo come comunicare qualcosa allo spettatore.” Il film sul Capitale sarebbe dovuto essere un saggio in cui lo sviluppo delle idee avrebbe occupato il posto centrale. Secondo Eisenstein, questo cinema dal discorso intellettuale avrebbe superato la distinzione tra documentario e film di creazione narrativa. Mostrando fatti non inventati e avendo a che fare con la storia, si sarebbe presentato anche un argomento con valenza poetica sulle leggi astratte del cambiamento sociale.

Ma Nuestro culpable ricevette anche delle buone critiche. Luis Gómez Mesa diceva del film di Mignoni che era “la più fotogenica delle pellicole base” (cioè, dei lungometraggi come Aurora de esperanza, Barrios bajos, No quiero, no quiero), che non sembrava l’opera di un principiante, che aveva l’eleganza e lo spirito di un René Clair “ma tradotti in stile madrileno”. Da parte sua, Mi Revista sottolineava “la buona qualità del nuovo cinema spagnolo”, esemplificata da Nuestro culpable e da En busca de una canción, di Eusebio Fernández Ardavín. Non si può certo negare a Mignoni una notevole abilità nel trattamento della commedia, nonostante certe irregolarità nel ritmo – a volte un po’ troppo sfrenato –, alcune difficoltà nell’incatenamento delle situazioni e non poche gag infelici. Il tono frivolo che domina il film ha la sua ciliegina sulla torta in un “lieto” fine del tutto inusuale in quell’epoca (nella nostra cinematografia ma anche fuori di essa). Avviene, né più né meno, che El Randa e l’ex amante del milionario a cui sono scomparsi i due milioni di dollari si danno insieme alla fuga con il bottino, senza troppi alibi moralizzanti.

Che cosa può esserci di apparentemente più lontano dal regista che sognava di girare Il Capitale di questa paziente ricreazione in scene cinematografiche di un’azione teatrale unificata? Il concetto di unità di montaggio indica un’importante svolta nella pratica di un cineasta il cui stile nel cinema muto era noto per giustapposizioni di scene che avevano pochissima relazione tra loro e per disarticolati criteri di montaggio. Il nuovo metodo può forse essere visto meglio come il tentativo di Eisenstein di trovare uno stile rigoroso all’interno delle condizioni del grande boom del realismo socialista, basato su scene teatrali coerenti, incentrato su protagonisti individuali, unificato nello spazio e nel tempo drammatici, libero dalla dimensione “intellettuale” e “monumentale” del cinema “senza argomento”.

Le peripezie del Randa, molto bene interpretato da Ricardo Núñez, un delinquentello che si vede implicato nella scomparsa di due milioni di dollari, affrontate in tono di commedia, non piacquero a tutti. Un settore della critica giudicò duramente il fatto di aver trattato un “tema umoristico” a così pochi metri dal fronte di guerra. Su Nuevo Cinema (portavoce più o meno ufficioso dei comunisti) la recensione della prima sottolineava l’inopportunità della produzione confederale: “Un film realizzato a Madrid, a un chilometro dalle trincee. Sotto i colpi della mitragliatrice, Fernando Mignoni – eccellente scenografo e artista dal quale il cinema spagnolo può aspettarsi grandi cose – non ha avuto migliore idea che tracciare, in uno stile molto simile a quello di Benito Perojo, di cui Mignoni è stato efficace collaboratore, un tema umoristico sulle impronte di René Clair, di Lubitsch e di una farsa grottesca di Willy Forts di cui in questo momento non ricordiamo il titolo. Nuestro culpable non apporta al cinema spagnolo niente che possa essere degno di elogi. Prima del 18 luglio sarebbe stato ammissibile, oggi no.” Ciò nonostante, il critico di Nuevo Cinema riesce a scorgere nel film “qualche spunto felice”.

L’obiettivo è, come sempre, infondere nello spettatore idee con un peso emotivo. Tuttavia, ci si interroga adesso anche sulla stessa nozione di “idea”. Nel suo “montaggio intellettuale”, l’idea era uno slogan o una proposizione. Per esempio, il tema della sequenza degli Dei in Ottobre si sarebbe potuto formulare come “L’idea di Dio è culturalmente relativa e socialmente regressiva”. Dopo il ritorno di Eisenstein nell’Unione Sovietica, travolto da una valanga di critiche, rifiutò questa nozione di cinema intellettuale. Adesso l’opera d’arte doveva trasmettere concetti che fossero molto meno tendenziosi. Siamo di nuovo nel mondo dell’immaginità, della creazione di un’“astrazione espressiva”: per esempio, le qualità emotive significative di un’azione o di una situazione. Gli scritti di Eisenstein degli anni Trenta si basano su tre nozioni schematiche sulla formazione di concetti, che si ripetono più volte. La prima nozione è quella del monologo interiore, la seconda quella del pensiero sensuale e la terza quella della rappresentazione e dell’immagine. Il monologo interiore nasce dall’Ulisse. Eisenstein, che aveva letto il romanzo di Joyce nel 1928, lo considerava un esempio di come un testo poteva dar vita a conclusioni astratte con metodi “psicologici”. La disaneddotizzazione di quest’opera gli sembrò parallela al suo progetto sul Capitale. Ma all’inizio degli anni Trenta, forse sotto l’influenza di Axel’s Castle (1931) di Edmund Wilson e di James Joyce’s Ulysses (1932) di Stuart Gilbert, cominciò a considerare questo romanzo come un modello per il suo uso del flusso di coscienza.

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Si evidenza in particolare, invece, la frase pronunciata dal giudice, da cui è tratto il titolo del film e nella quale si riscontra una presa di posizione dell’autore riguardo alla questione: “Noi abbiamo già il nostro colpevole; perché ne vogliamo un altro?”, dice il magistrato alla ragazza quando questa confessa di essere l’autrice del delitto. È in questo preciso istante che si ricongiungono gli elementi sparsi in tutto il film e il discorso trova un ordine, perché non ci troviamo più di fronte a una serie di individui che agiscono per interessi privati (un banchiere che deve evitare lo scandalo, dei poteri pubblici che devono dimostrare la loro efficacia...), bensì di fronte a una classe dominante che si auto-protegge mediante l’apparato istituzionale e che pur di conservare la sua posizione di privilegio non si fa il minimo problema a lasciare dietro di sé una sfilza di vittime dell’ingiustizia, chiamata anche sfortuna. Perché, tranne per quelli che la possono comprare, tutto si ridurrà, in fin dei conti, a una questione di fortuna o sfortuna. Solo così si spiega che il povero ladruncolo – protagonista della pellicola, ma soggetto passivo degli avvenimenti – possa uscire vittorioso dal pasticcio: ha trovato il suo portafortuna... e ha trovato la sua ragazza, che è la forza motrice dell’azione; è l’insorta, la ribelle, il personaggio più dotato per gli affari. Lei sceglie il proprio compagno: prima lo coinvolge nelle sue azioni e poi ne pianifica la liberazione; e il suo modo di comportarsi appare assolutamente normale, la qual cosa mette in evidenza il fatto che nella Spagna del 1937 fosse un dato di fatto che la donna avesse ottenuto determinate conquiste sociali, lasciandosi alle spalle le posizioni rivendicative per intervenire in pieno nella presa di decisioni. Nonostante il breve periodo di proiezione commerciale, non v’è dubbio che Nuestro culpable poté compiere la sua funzione e adesso rimane quale testimone di un’epoca della vita spagnola così vivace e complessa come questa opera cinematografica che, in fin dei conti, era pensata per essere solamente un prodotto d’intrattenimento e che per questo conserva integro il suo potere di convinzione.

Sono evidenti i segni di interpellazione. Il montaggio spezza i discorsi dei personaggi in slogan. Le scritte-commenti sottolineano, sfidano o si fanno beffe delle immagini contigue. Anche quando l’indicazione è puramente visiva, Eisenstein usa spesso un’indicazione verbale a commento della narrazione. La scritta “La verità affoga” appare mentre affonda una copia della Pravda. Il desiderio di Kerensky di salire al potere si comunica mostrandolo su interminabili scale, facendo un gioco di parole con il termine “lesnitsa”, che indica salire sulla “scala del successo”. I soldati che si rannicchiano in trincea “sotto” il cannone sono letteralmente “oppressi” dalla guerra del Governo provvisorio. Queste astrazioni basate sul linguaggio sono proprie dell’arte sovietica di propaganda: manifesti e sfilate mostravano immagini di forbici che tagliano individui speculatori o di soldati bianchi ritorcendosi mentre friggono in padella. Il progetto sul Capitale, si prometteva Eisenstein, avrebbe utilizzato questo tipo di giochi come trampolini di generalizzazione didattica.

Non era abituale che in circostanze belliche si girassero nelle città e negli studi film di carattere sociale, come Aurora de esperanza, o produzioni di puro intrattenimento, come Nuestro culpable o Barrios bajos. La sola propaganda non poteva, secondo gli stessi punti di partenza degli anarcosindacalisti, giustificare la rivoluzione, il momento in cui le organizzazioni operaie avevano affrontato la vecchia società reazionaria. Si doveva coltivare anche il cinema come arte. L’esperienza dei comunisti era diversa da quella degli anarcosindacalisti, arrivando le due parti al conflitto in diverse occasioni, soprattutto per quanto riguardava questioni industriali, la distribuzione di film e il divieto di determinate pellicole. Gli avvenimenti del maggio del ‘37 portarono in ambito cinematografico le stesse tensioni e le stesse violenze, con l’imposizione delle tesi comuniste, e seppure i comunisti finirono per creare la propria casa di distribuzione e la propria casa di distribuzione, il loro discorso durante la guerra fu sempre quello dell’unità compatta e di una direzione centralizzata, sotto un criterio politico e ideologico unico per tutte le masse antifasciste, come reclamava il capitano Juan Plaza, militare propagandista.

A quanto pare, Eisenstein era d’accordo con i suoi critici sul fatto che Ottobre non riuscisse a mettere insieme il suo obiettivo ufficiale con le sue aspirazioni sperimentali. Ammise che la pellicola conteneva “un simbolismo maldestro, volgare e anche vergognoso”, ma al tempo stesso un passo come quello di Dio e Patria, “come i leoni de La corazzata Potëmkin, serve come accesso a un’idea del cinema completamente diversa”. Tale idea, come indicava in altro luogo, diventava popolare ne Il vecchio e il nuovo e sarebbe arrivata al limite ne Il Capitale. Tuttavia, ironicamente, l’influenza più forte del film sul cinema sovietico venne dal suo aspetto più “realista”. Consolidando un’immagine storica dell’insurrezione bolscevica, il romanticismo rivoluzionario di Ottobre influì più tardi sulle rappresentazioni degli avvenimenti di ottobre. Di fatto, innumerevoli documentari hanno utilizzato scene delle sequenze dei giorni di luglio e dell’assalto al palazzo come materiale di telegiornali.

Non possiamo lasciare inosservati diversi elementi che appaiono quali riflesso della situazione socio-giuridica della Seconda Repubblica e del momento delle riprese, come il riferimento esplicito al divorzio del banchiere dalla moglie in una delle loro conversazioni o il sogno del Randa, in casa con la ragazza in una cerimonia civile celebrata dal giudice. Evidenti istituzioni laiche della società liberale che per anni erano state campi di battaglia politica e religiosa tra gli allora insorti e la Seconda Repubblica. Risulta sorprendente anche l’assoluta assenza di simboli religiosi o dello Stato nello studio del giudice del Tribunale di primo grado numero 12, perché la giustizia non si amministra in nome di Dio o del capo dello Stato, ma è una virtù che risiede nel popolo.

Sul progetto di portare Il Capitale al cinema, Eisenstein scrisse su una cartolina dell’Aga Khan: “Sulla deità. Aga Khan – un materiale insostituibile – il cinismo dello sciamanismo portato al limite. Dio: un laureato presso l’Università di Oxford. Che gioca a rugby e a ping-pong e accetta le preghiere dei fedeli. E, sullo sfondo, le calcolatrici lavorano senza sosta per portare una contabilità ‘divina’, inserendo sacrifici e donazioni. La miglior esposizione del tema del clero e del culto.”

Antonio Polo si spinge oltre nel giustificare questa produzione: “Quando abbiamo avuto l’idea di Nuestro culpable, volevamo solo produrre un film commerciale, ameno, senza alcun insegnamento morale, purché l’argomento non presentasse aspetti reazionari, e ci siamo pienamente riusciti.” E aggiunge: “Alla fine del ’37, quando abbiamo girato il film, il pubblico era saturo di propaganda e trionfalismi, purtroppo smentiti dai bollettini di guerra, e desiderava solo trovare nelle sale cinematografiche un po’ di evasione da un ambiente sempre più pessimista per alcuni e pieno di speranza per altri. È logico che venissimo censurati da giornalisti che sembrava non leggessero i bollettini ufficiali per non aver fatto un film che sollevasse gli animi, ma il nostro proposito era quello di dare lavoro a una industria e, purtroppo, non siamo riusciti ad andare avanti per mancanza di mezzi.” Presupposti condivisi in linea generale dal secondo Comitato di Produzione della CNT barcellonese e respinti dalle altre organizzazioni politiche e sindacali, che isolarono le esperienze anarcosindacaliste dietro un muro di incomprensione e censura, cosa che forse accelerò la loro “riconversione” ultima verso obiettivi prioritariamente concepiti in termini di rendimento commerciale.

Un nuovo Eisenstein si stava formando. Gli articoli della rivista Cahiers du cinéma furono tradotti in tutti i paesi occidentali. L’accesso agli appunti di Eisenstein su un film che verteva sul Capitale, pubblicati in russo nel 1973 e fatti conoscere via via in altre lingue, confermarono l’idea che il cineasta volesse fondere l’impegno politico a sinistra con la tecnica sperimentale. Una conferenza tenutasi in Italia in questo stesso anno dedicò grande spazio al suo marxismo, mentre la rivista tedesca di sinistra Alternative dedicò un numero alle implicazioni politiche della sua teoria del montaggio. Man mano che si andava dissipando la politica rivoluzionaria, l’opera di Eisenstein cominciò a essere un punto di riferimento ironico. Il protagonista di Sweet Movie (1974) di Makavejev indossa un berretto da marinaio della Potëmkin; nel film di Marker Le fond de l’air est rouge (1977), una polemica riflessione sul fallimento dei movimenti di sinistra, si intercala la sequenza della scalinata di Odessa con materiale informativo del 1968.

fonte: Archivio F.X. - Pedro G. Romero

lunedì 30 marzo 2015

Rischiare tutto

incompiuta

La rivoluzione teorica incompiuta
- Introduzione al libro "Denaro senza Valore" - Luglio 2012 -
di Robert Kurz

Le teorie grandi ed influenti sfociano sempre in scuole di interpretazione e percorrono una storia che va ben al di là delle loro origini, mediando con la storia della società. La teoria di Marx è ormai sedimentata in termini storici; più di 125 anni dopo la morte del suo creatore, ha provato da molto tempo di essere una delle più poderose di tutta la storia del pensiero - seppure non sia disponibile come un "insieme artistico", come Marx avrebbe voluto richiedere alla sua esposizione, ma più come un immenso tronco, costituito da masse di testo a volte eterogenee. Per la sua forma, questa teoria non può essere integrata nelle schematizzazioni del mondo accademico; essa affronta, in termini espitemici, anche la comprensione del cosiddetto metodo scientifico. Marx ha operato una cesura paradigmatica che dev'essere definita come una "rivoluzione teorica", e a ragione. Ma è proprio questo carattere delle riflessioni di Marx che ha dato e continua a dar luogo a dubbi e a conflitti, a causa del fatto che mai nessun "assalto" paradigmatico è stato consumato in una sola volta. Allo stesso modo, la rivoluzione teorica di Marx è, necessariamente, una rivoluzione incompiuta e, in questa misura, non è solo incompleta ma anche passibile, e carente, di interpretazione.
Come ogni teoria poderosa, anche quella di Marx viene filtrata per mezzo della sua storia interpretativa, soprattutto in due modi. Da una parte, la critica radicale dell'economia politica ha provocato una reazione affermativa della scienza borghese che, proprio a causa del suo carattere reattivo, si è vista essa stessa costretta ad una interpretazione dell'oggetto in esame e, senza volere, ha assorbito elementi dello stesso oggetto, seppure volesse negare "scientificità" a Marx - senza, tuttavia, essere capace di riflettere sul contenuto della sua teoria, veramente critico della scienza. Dall'altro lato, la teoria di Marx è stata recepita in maniera positiva ma, com'era inevitabile, attraverso una griglia interpretativa continua, condizionata dalla contemporaneità e dalla società, che si è manifestata come una storia del marxismo - la quale, simultaneamente, è stata determinata dalla controversia con le reazioni borghesi coeve (politiche e teoriche), costituendo insieme ad esse un vasto campo del discorso storico.
Il marxismo qui contenuto si è differenziato in scuole e relative battaglie interpretative, che si sono caratterizzate per l'intendimento che la rivoluzione teorica di Marx fosse conclusa, innalzando la sua opera principale ad una sorta di bibbia. Tolte alcune eccezione (come quella di Rosa Luxemburg, in maniera limitata), nella storia della sua ricezione non c'è stato alcun confronto aperto con i concetti fondamentali della teoria di Marx; la critica marxista a Marx si è riferita, tutt'al più, a fatti empirici la cui mediazione con le determinazioni della riflessione teorica rimaneva del tutto nell'ombra. Così, le basi categoriali della critica dell'economia politica sono state solo oggetto di interpretazioni diverse, ma non di un ulteriore sviluppo.
Apparentemente, Marx apriva una prospettiva che andava molto oltre l'orizzonte di comprensione di una determinata epoca. Come disse Rosa Luxemburg, "ci aveva superato in anticipo". Perciò, il carattere incompleto della teoria di Marx si manifestava solo indirettamente, nel confronto e nelle differenze interpretative, e questo la faceva assomigliare ad una disputa teologica. Sebbene le scuole filosofiche e scientifiche borghesi raramente si fossero comportate in modo diverso, la contro-reazione affermativa si aggrappò, grata, alla teologia interpretativa del marxismo per respingere interamente il testo della rivoluzione teorica e denunciarla come "ideologica" o "metafisica". Così si riuscì ad enfatizzare il carattere ideologico e metafisico del positivismo (borghese) con lo stesso successo del carattere della metafisica reale della stessa società feticista capitalista.
La storia interpretativa marxista mancava di spiegazione, ma tale spiegazione - e soprattutto la necessità della stessa - era possibile soltanto se la storia corrispondente fosse stata intesa in quanto tale nella sua limitazione. In realtà, tutto il campo del discorso storico cui il marxismo apparteneva si era appannato in maniera peculiare dalla fine del XX secolo, malgrado il fatto che i processi di crisi della società globale si stessero acutizzando in nuovi modelli -  o proprio per questo. Le attuali esigenze capitalistiche richiedevano a gran voce, più che mai, una critica radicale ma, apparentemente, con il cambiamento delle condizioni storiche, una tale critica non era più formulabile nel quadro della griglia interpretativa del marxismo, essendo da tale griglia paralizzata.
Tuttavia, la paralisi di un paradigma non ha mai impedito ai suoi difensori di trincerarsi identitariamente o di combattere in ritirata fino alla propria auto-dissoluzione. A volte, il processo di decomposizione viene mascherato da una "evoluzione" che, tuttavia, non rappresenta altro che delle varianti di un agganciamento, ostentato o inconfesso, alle teorie borghesi che si sono sviluppate storicamente in parallelo col marxismo. Qui si vede come ci si seppellisce, insieme ai vecchi avversari, in un campo discorsivo che ha smesso di essere veritiero. Le costellazioni e le congiunture di questa telenovela di una comprensione della teoria di Marx diventata obsoleta, possono essere viste mentre vanno in una successione sempre più veloce; non possiamo ignorare che la storicizzazione del marxismo, ivi inclusi i suoi epigoni, sia all'ordine del giorno della teoria critica, senza la cui riformulazione il "postulato della prassi" della sinistra può solo essere ridicolizzato.
La storicizzazione significa che una storia è arrivata alla fine, ed essendo finita, deve essere oggetto di riflessione da una prospettiva nuova e differente. Le scuole della storia interpretativa marxista si sono esaurite, e la cosa rimanda all'esaurimento del loro campo di riferimento storico. Dalla "ortodossia" di Kautsky, al "revisionismo" di Bernstein, dalla teoria leninista della rivoluzione, alla "filosofia della prassi" di Bloch o di Gramsci e dal "marxismo occidentale" fino alle ramificazioni della cosiddetta nuova sinistra, esse appartengono tutte ad un'epoca defunta che va definita teoricamente se la critica sociale radicale vuole superare la propria impotenza.
Il fatto che sia arrivata l'ora di una profonda cesura si manifesta anche (spesso in modo involontario) nella letteratura accademica, sia di quella favorevole a Marx che di quella critica di Marx. In entrambi i casi, si afferma sempre più un punto di vista sinottico nel quale le scuole del passato vengono elencate e sono messe in relazione le une contro le altre. Il carattere, per la maggior parte dei casi limitato alla filologia, di tale letteratura di analisi critica - sotto forma di una sorta di "entomologia" del marxismo, con etichette e perfino con tabelle della storia della teoria - non riesce nemmeno a negare che si sta marcando una cesura storica ancora indefinita. Quello di cui essa consiste e quel che è il suo obiettivo è, come si dice, un assunto "polemico". Tuttavia, non ci troviamo più davanti ad una guerra di trincea tra posizioni formulate fino all'esaurimento che si differenziano in una determinata costellazione interpretativa ed il cui campo di riferimento principale (all'incirca dalla metà del XIX secolo, fino alla fine della II guerra mondiale) costituiva un punto cieco comune, o un presupposto incontestabile. Invece, la teoria di Marx viene, da una parte, collocata dal mondo accademico sul piano della storia delle idee ed accomodata in un museo classico, mentre, dall'altra parte, viene ecletticamente amalgamata con le attuali tendenze ideologiche e/o subordinata, in maniera leggittimatrice, alle necessità politiche dei movimenti pre-teorici, senza tornare a radicalizzarla - a livello del XXI secolo - come contrarietà sovversiva per l'ordine vigente.
In tal senso, si rende inevitabile un sondaggio e una definizione concettuale di un terreno ancora sconosciuto, in quanto solo a partire da questo si può gettare luce su una costellazione di per sé passata. Quando ciò non avviene, allora non si può formare, a causa delle alterate condizioni storiche, un campo discorsivo nuovo e stabile relativamente alla rivoluzione teorica di Marx ed al suo sviluppo ulteriore. Nella maggior parte dei casi, quello che si fa passare per questo fa parte, precisamente, del processo di dissoluzione del marxismo. In questo intermondo, la riflessione critica comporta necessariamente un rischio elevato e deve incontrare il suo destino solo nella determinazione della cesura storica. Bisogna chiarire non solo la relazione di tensione della storia del marxismo con la teoria di Marx così come, e soprattutto, il modo in cui il marxismo storico si sia alimentato dell'incompletezza di questa teoria a causa, precisamente, del suo postulato di completezza, tentando di risolvere le contraddizioni dei contenuti in maniera interpretativa ed unilaterale.
Il fatto che, in termini oggettivi, si sia aperto un nuovo terreno storico è ben presente - tanto nel discorso ufficiale quanto nel discorso di sinistra della critica sociale - nell'espressione corrente di "fine di un'epoca", dove per questo si intende, nella maggior parte dei casi superficialmente, il collasso del "socialismo reale" e la fine della Guerra Fredda. Tuttavia, questa rottura eclatante è stata solo il fenomento di un processo più profondo e che, da molto, si era già manifestato nella decadenza del vecchio movimento operaio e nell'affievolimento della "lotta di classe" storica. Lo sfondo di queste manifestazioni è costituito dallo sviluppo capitalistico delle forze produttive nella transizione della terza rivoluzione industriale della microelettronica, che non solo rappresenta una mutazione tecnologica nel disegno dei nuovi processi di razionalizzazione, forme di informazione e di comunicazione (Internet), così come capovolgimento delle condizioni sociali e culturali, ma ha anche costituito il capitale globale ed ha portato ad un processo di crisi planetaria di nuovo tipo.
Quel che ora importa sapere è se questa rottura si sia data nell'ambito di una storia continua, significando così solo una modificazione delle strutture basilari della società moderna, che ancora continua ad esser capace di svilupparsi sul suo proprio terreno, oppure se si tratti della fine di una storia in quanto storia della modernizzazione e, così, di una rottura strutturale di ordine superiore. Dalla risposta a questa domanda dipende il modo in cui vengono trattati i fenomeni a livello teorico e come vengono integrati nell'auto-riflessione della stessa critica radicale del capitalismo - ossia, se questa ha bisogno solo di modificarsi per tenere il passo con le alterazioni, oppure se deve operare in sé stessa una rottura cosciente che metta profondamente in discussione tutta la comprensione precedente. Quando la letteratura di analisi del marxismo, filologica e superficiale, rimanda in forma implicita e - nella maggior parte dei casi - inconscia ad una profonda cesura nella storia della teoria, ed alla fine di tutto un discorso, quest'allusione ad una cesura endo-teorica ancora non maturata appieno, può essere compresa solo nella misura in cui sia relazionata alla storia della società reale e con la "fine di un'epoca" di questa società reale. Di conseguenza, bisogna tematizzare le condizioni storico-sociale in cui si inquadra la discussione teorica. In questo saggio, a questo si può procedere solo marginalmente, soprattutto nel contesto dell'analisi critica della teoria della crisi di Marx, per la quale rimane la desiderata di un'elaborazione teorica e di un'ulteriore analisi.
Qui si tratta soprattutto di un contesto avvolgente che getta qualche luce sulla rivoluzione teorica di Marx e sul suo carattere incompiuto, per poter indicare la strada di un'ulteriore evoluzione - il che comporta sapere in cosa consista il "nucleo temporale" della teoria di Marx, ossia, tanto i suoi limiti storici quanto i momenti che puntano oltre tali limiti. La pretesa storicizzazione, pertanto, non può essere definitiva, ma soltanto trasformativa. In tal modo, ci si assegna un compito del tutto nuovo, per cui non può essere risolta, né continuare ad essere collocata e formulata in quanto tale sul terreno del marxismo, come lo intendiamo ora.
Questa forma di porre il problema può ancor meno essere attribuito a qualche "post-marxismo" attuale. Tutti i "post" sono oriundi dell'ideologia postmoderna la quale è, ad ogni titolo, incompatibile con la critica dell'economia politica di Marx, così come lo è con il "tipo di teoria" o comprensione concettuale di base corrispondente, ed il cui aspetto principale consiste nel sabotare qualsiasi chiarificazione teorica nella nuova situazione storica ed affogarla nell'eclettismo. La teoria critica si sostituisce ad una percezione superficiale fenomenologicamente riduttiva, ovvero al positivismo discorsivo "decostruttivo". Essenzialmente, si tratta di un'ideologia della classe media che costituisce l'espressione affermativa di una virtualizzazione del capitale nel contesto di crisi all'inizio del XXI secolo. Sotto il termine di "post-marxismo" possiamo riassumere tutti gli sforzi per "postmodernizzare" il marxismo, il che equivale - invece di soppiantare criticamente il marxismo partitario e del movimento operaio - a virtualizzare solamente il vecchio paradigma e renderlo compatibile con la classe media.
Per far avanzare il contenuto radicale della teoria di Marx nel senso di una concretizzazione approfondita della rivoluzione teorica, contro le tendenze "post-marxiste" di dissoluzione e di volatilizzazione, è necessaria una definizione più circostanziata del concetto di trasformazione, in quello che la differenzia dalla vecchia opposizione fra ortodossia e revisionismo. Quest'opposizione deriva il suo nome dall'antidiluviana controversia fra Kautsky e Bernstein alla fine del XIX secolo, ma, oltre a questo, è diventata la definizione delle controversie politiche fra, e all'interno di, tutte le scuole marxiste, da quell'epoca fino al "marxismo occidentale" e alla "nuova sinistra" degli anni 1960, In questo processo, il concetto di revisionismo è diventato più o meno una parola che appare essere il sinonimo del riformismo, nel mentre che l'ortodossia venne supposta essere equivalente alle posizioni "rivoluzionarie". Già allora si poteva dire che, con l'esaurimento del suo ambito di riferimento storico, tutto lo spettro dei marxismi ha dato le dimissioni da qualsiasi tipo di ambizione rivoluzionaria, così come era sempre stata intesa, e (secondo i suoi stessi vecchi termini) è caduto in una specie di revisionismo. Da questo punto di vista, la vergognosa fine del "socialismo reale" in quanto segnale esterno della fine di un'epoca, non ha fatto altro se non ratificare uno sviluppo ideologico che era già iniziato molto tempo prima.
E' evidente che l'associazione dell'ortodossia a posizioni radicalmente critiche, e del revisionismo alla pura ideologia del conformismo, è stata da sempre sbagliata in questa sua unilateralità. Durante la I guerra mondiale furono molto gli ortodossi che votarono a favore dei prestiti di guerra, mentre il revisionista Bernstein, nonostante tutto, levò la sua voce contro quei prestiti ed affrontò il patriotardismo socialdemocratico. In termini generici, è certo che gli ortodossi ed i revisionisti delle diverse fazioni e scuole marxiste manifestarono nella pratica, nel corso dei decenni, il medesimo orientamento contro-rivoluzionario o riformista - il che fa già intuire che entrambe le parti appertenevano, quando osservati da un punto di vista teorico e storicamente superiore, ad un determinato campo delimitato che era loro comune, senza che avessero coscienza di questo fatto.
La vera opposizione immanente consisteva, a prima vista, nel trattamento diverso della contraddizione nella teoria di Marx, da una parte, e nella pratica riformista di una mera "lotta per il riconoscimento" dei lavoratori salariati sul terreno delle categorie capitaliste, dall'altra. Così si definisce già un punto di vista decisivo: quello categoriale. La teoria di Marx si riferisce essenzialmente al piano categoriale del contesto formale sociale fondamentale del "lavoro astratto", merce, forma del valore, denaro e valorizzazione del capitale. I momenti decisivi della definizione critica dei concetti fatta da Marx (specialmente l'analisi del carattere feticista della socializzazione capitalista) venivano ugualmente elusi da entrambe le parti, che non li comprendevano. Ma, mentre la cosiddetta ortodossia aveva pietrificato l'opera di Marx in termini teorici, canonizzando su piani diversi i suoi enunciati parzialmente sconosciuti e contraddittori e convertendoli in una sorta di catechesi marxista - che si contrapponeva come qualcosa di esterno alla vera prassi "politica" e rimaneva, in larga misura, senza conseguenze - il revisionismo tendeva innanzitutto ad affermare le necessità di questa vera prassi dei partiti e dei movimenti contro la teoria "distante dalla realtà". Da un lato, si avvicinava così alla critica borghese a Marx, la quale, alla fine, parlava di mistificazioni, promesse di salvezza, costrutti filosofici, ecc. "non scientifici" della teoria di Marx. Dall'altro lato, prendeva in considerazione la difesa del buon senso del movimento operaio contro le imposizioni delle distanze teoriche nei confronti della vita quotidiana - il che riguardava non solo la routine politico-partitaria e sindacale nella "gabbia della servitù" di cui ha parlato Weber, ma anche, quanto meno, il radicalismo della sinistra soggettivista di tutti i tempi e paesi. L'impulso dell'ostilità verso la teoria è stato, da sempre, profondamente revisionista nel senso della falsa immediatezza del volontarismo, del sentimento istintivo, dell'espressione esistenzialista, dell'orizzonte presente degli eventi e delle ideologie di moda contro le difficili astrazioni teoriche della critica dell'economia politica. In un certo qual modo, anche oggi il pensiero di "sinistra" postmoderno fa parte di questo tipo di revisionismo - quando fa ancora qualche riferimento a Marx.
L'effetto revisionista delle necessità della partecipazione pratica sul piano del mero trattamento della contraddizione nel quadro irriflesso delle categorie capitaliste si fece sentire, in termini teorici o metodologici, sotto forma di un orientamento positivista ed empirista di "sinistra". Qui, la critica a Marx che ne conseguiva si riferiva al piano categoriale, le cui definizioni erano, quando andava bene, rifiutate come "filosofiche" o "speculative", senza che se ne analizzasse il contenuto. Al contrario, contro determinati enunciati analitici di Marx, si invocava un mondo fattuale cambiato, come accadeva, per esempio, relativamente alla formazione di una nuova classe media al posto della crescente polarizzazione fra borghesia e proletariato industriale (anche in questa misura, il revisionismo classico appartiene alla galleria degli antenati del pensiero postmoderno). Allo stesso modo, la teoria della crisi di Marx, che non aveva ricevuto un trattamento sul piano categoriale, venne considerata refutata su un piano superficiale empirico e datato. Anche gli ortodossi facevano riferimento ad un empirico cambiato in termini politici e superficialmente analitici, ma cercavano di conciliarlo astrattamente con il dogma, oppure smettevano di continuare a mettere la teoria da "catechesi" accanto alle circostanze empiriche, fianco a fianco, in quanto esterne l'una all'altra e non mediate, laddove, in termini pratici e programmatici, non andavano molto lontano dalla posizione contraria dei revisionisti.
Il vero tratto comune fra ortodossia (inclusa quella leninista e quella della sinistra radicale) ed il revisionismo consisteva nell'intendere le categorie della critica dell'economia politica, in fondo, come "definizioni" positive della fattualità oggettiva e, in larga misura, trans-storica della cosiddetta economia, in quanto supposta "base" della società umana in quanto tale. Fino alla I guerra mondiale, ancora emergevano occasionalmente concezioni oscure di un superamento socialista delle forme del valore e del denaro ma, in primo luogo, erano proiettate in un futuro immaginario e molto distante. In secondo luogo, erano intese soprattutto in senso tecnocratico, cioè, non come una loro applicazione cosciente e "pianificata", di modo che forma valore e denaro potessero semplicemente "sparire" in termini fenomenologici (o "deperire" pacificamente), senza che la relazione del feticcio soggiacente al "lavoro astratto" dovesse simultaneamente sparire anch'essa (come avviene, per esempio, in Hilferding). Dopo la Grande Guerra, questo piano di riflessione, già così poco frequentato, finì per evaporare sempre più dal discorso marxista, anche sotto i colpi della produzione pianificata di merci del "socialismo reale", ed oggi viene evitato più accuratamente che mai da quasi tutte le correnti residuali e post-marxiste, come se si trattasse di peste. In buona coscienza, dal punto di vista categoriale, possiamo definire tanto l'ortodossia quanto il revisionismo, e quello che di loro rimane, come profondamente positiviste.
Naturalmente, si pone la questione di come relazionare la rivoluzione teorica di Marx ed il suo carattere incompiuto con questa storia della ricezione, ora già chiusa e da storicizzare. Questa domanda, che prima non era nemmeno possibile, è stata preparata attraverso una riflessione teorica nel contesto della nuova sinistra, fin dagli anni 1960, e veniva presentate come "ricostruzione della critica dell'economia politica" - "ricostruzione", in primo luogo, perché si suppone, in breve, che il marxismo tradizionale di partito, con tutte le sue fazioni e correnti, avesse sparso e canonizzato un'interpretazione superficiale e ridotta della teoria di Marx. In secondo luogo, d'accordo con l'idea fondamentale, soprattutto filologica, per cui tale interpretazione, tuttora, si riferisce ad una materiale editoriale limitato. Importanti testi di Marx sono stati pubblicati solo nel corso del XX secolo e, in particolare, i tuttavia famosi Grundrisse sono tornati ad essere accessibili solo dopo la II guerra mondiale. Un impulso importante è stato dato dall'ampio commentario di Roman Rosdolksky, con "Genesi e struttura del Capitale di Marx" (Rosdolsky, 1968), il cui fulcro erano i Grundrisse. A partire dai primi scritti di Marx, aveva avuto origine una corrente interpretativa propria della "teoria dell'alienazione" (per lo più, superficialmente filosofica o moralizzante), dove i Grundrisse apparivano ora al centro di una nuova e diversa riformulazione. La critica dell'economia di Marx doveva essere ricostruita dettagliatamente sulla base del materiale delle fonti nel frattempo scoperte, e depurata delle interpretazioni "revisioniste" erronee.
Questo progetto di ricostruzione aveva una carattere ambivalente, Da un lato, gli si doveva attribuire il grande merito di avere di reso accessibili nuove grandi masse di testi dell'opera di Marx e, soprattutto, di essere tornato a collocare al centro dell'interesse il trascurato piano categoriale della critica dell'economia politica, più o meno ridotto ad astrazione a causa del suo trattamento accademico e, in gran misura, malinteso sulla base delle definizioni positiviste. Dall'altro lato, questi tentativi di ricostruzione avvenivano in un ambiente peculiare. L'abbandono del marxismo di partito aveva anche ragioni strutturali. Alla fine, in ultima analisi, la cristallizzazione dogmatica o la dissoluzione revisionista del marxismo di partito derivavano dal fatto che il movimento e i partiti operai si erano istituzionalizzati da molto tempo in termini capitalistici e, in fondo, non avevano più necessità della teoria di Marx - tranne che, forse, per operazioni nostalgiche. Il marxismo teorico era stato accademizzato e trasformato in una manifestazione marginale di discussioni scientifiche borghesi. A questo corrispondeva una limitazione filologica al Marx del progetto di ricostruzione, che aveva come lemma quello di più o meno appurare con minuziosità certosina "quello che Marx aveva realmente detto". Così come l'inquadramento delle proprie intenzioni e dell'oggetto del loro rifiuto nello sviluppo storico concreto della società, aveva portato, in larga misura, ad occupare il piano categoriale della teoria di Marx, allo stesso tempo non aveva portato a stabilire nuovi obiettivi per la critica radicale, ma aveva permesso, occasionalmente, la prosecuzione delle carriere accademiche, seppure solamente nel campo delle discipline esotiche. Così, il progetto di ricostruzione filologica era andato acquisendo impercettibilmente il colorito di una coscienza accademica di classe media, come, del resto, accadeva con tutta la nuova sinistra, il cui ambito di riferimento "proletario" non era mai andato oltre la pura ideologia nostalgica, per quanto marziali fossero le loro evocazioni. Inoltre, non aveva potuto restare immune, evidentemente, all'attivismo superficiale del movimento del 1968 e delle sue necessità politichesi. In parte, era tornato a legarsi, nel nome della "capacità di intervento politico", seppure con una pretesa "critica", ai vecchi partiti operai in acuta decadenza ideologica (SPD, DKP, eurocomunismo), o agli apparati sindacali e, dall'altro lato, ai cosiddetti nuovi movimenti sociali della classe media e al loro sbocco nel partito dei Verdi. Con questi orientamenti, le elevate pretese di "ricostruzione" tendevano forzatamente a morire, almeno rispetto alla maggior parte dei teorici.
Il progetto di ricostruzione non poteva essere classificato inequivocabilmente; in una determinata fase la nuova sinistra vi partecipava, ad un grado minore o maggiore, con teorici di quasi tutte le correnti, e tutti soffrivano la pressione delle necessità pratiche e politiche dell'ideologia del movimento, la cui preponderanza non portava a niente se non al pantano ideologico. Per quanto riguardava l'occupazione della teoria di Marx, si suddivideva, grosso modo, in un'ortodossia cosiddetta recente, da una parte, e una denominata "Nuova lettura", dall'altra. L'aggettivo che indica la novità rimanda, in entrambi i casi, non solo alla nuova sinistra nell'ambito della classe media accademica, ma anche al passaggio (con caratteristiche diverse per ciascun caso) attraverso il progetto, filologicamente esigente, di ricostruzione, i cui risultati tuttavia dobbiamo ricercare, con fatica, noi bibliofili.
E' stata proprio l'ortodossia recente a mostrarsi disposta, in maniera significativa, ad avventurarsi sul piano categoriale della teoria di Marx, seppure solo in maniera condizionale e sempre più marginale, nella maggior parte dei casi più per fini formativi (come, per esempio, nelle lezioni introduttive al Capitale di W.F. Haug) che nel senso di una mediazione storica concreta ed analitica, come già avveniva con la vecchia socialdemocrazia. L'abbandono di questo piano può esser visto esemplarmente nella cosiddetta teoria della regolazione, o "scuola della regolazione", che all'inizio si riferiva ancora alle categorie fondamentali della critica dell'economia politica, ma che non tardò a sganciarsi da sé sola a beneficio di una elaborazione teorica superficiale, caratterizzata da un empirismo positivista. In termini globali, si può dire che fu proprio l'ortodossia recente che non solo si limitò a comportarsi come quella vecchia ma, a dirla tutta, finì essa stessa per adottare, almeno implicitamente, un orientamento revisionista in senso classico. L'enfasi dell'elaborazione teorica e delle pubblicazioni (nello spazio linguistico tedesco, per esempio, in riviste come Das Argument, Sozialismus o Prokla) si allontanò irreversibilmente dalle discussioni intorno alle categorie fondamentali (teoria del valore e del denaro, lavoro produttivo ed improduttivo, il "problema della riduzione", il "problema della trasformazione", ecc.), che rimanevano senza soluzione in vista, in favore di un'analisi riduttiva, frequentemente sociologica e soprattutto fenomenologica, dei processi di sviluppo, tendenze e conflitti sociali - in parte, di porte già spalancate alle ideologie oriunde del mondo accademico e correnti indotte dallo spirito dell'epoca. Di una mediazione categoriale nel senso della critica di Marx, già si poteva parlare poco, per lo più con riferimenti superficiali; fu, del resto ciò che avvenne proprio riguardo alle relazioni fra i sessi (così, la rivista Argument, contrariamente alla maggioranza delle altre riviste teoriche di sinistra, ebbe il grande merito di un'apertura alla teoria femminista, ma rimase assente sul riferimento categoriale).
In realtà, la questione delle categorie fondamentali e della loro interpretazione compariva ancora nell'ambito dell'ortodossia recente soprattutto quando veniva fuori il conflitto latente con la Nuova Lettura di Marx. Fu quest'ultima che (soprattutto nei lavori di Hans Georg Backhaus ed Helmut Reichelt e, successivamente, nella riformulazione di Michael Heinrich) proseguì il progetto di ricostruzione, concentrandosi più che mai sugli aspetti variati dell'analisi che Marx aveva fatto della forma del valore. Il prezzo da pagare fu, sotto diversi punti di vista, la quasi completa rinuncia alle analisi concrete dei processi sociali e della loro propria situazione storica, dal momento che cominciava ad evidenziarsi una peculiare "divisione del lavoro" sotto forma di deficit simmetrici e complementari. Se, per l'ortodossia recente, il piano categoriale della teoria si diluiva sempre più in una contemplazione superficiale delle tendenze, per la Nuova Lettura di Marx, al contrario, il piano di analisi empirica della teoria rientrava in una auto-sufficienza categoriale filologica. Con la sua tematica "esoterica", tutto questo approccio sembrava qualificarsi come "eterno consiglio di iniziati" per un'esistenza nell'ombra, nel mondo accademico di sinistra e nelle frange delle pubblicazioni specializzate. La problematica teorica veniva cucinata a fuoco lento nelle occasionali incursioni dell'ortodossia recente che, almeno sul suo stesso nuovo terreno catechistico, accondiscendeva a volersi mantenere "ortodossa" e si opponeva ai sondaggi di profondità concettuali della Nuova Lettura di Marx con sempre maggior diffidenza.

incompiuta 2

La contesa guadagnò nuovo respiro nel discorso degli anni 1990, quando la ricostruzione di Marx, fatta dalla Nuova Lettura di Marx, si convertì poco a poco in critica. A questo contribuirono le pubblicazioni teoriche di Michael Heinrich che, con la sua Die Wissenschaft vom Wert, non solo allargò il terreno di ricostruzione di analisi fondamentale della forma del valore all'analisi della totalità del Capitale di Marx, ma acutizzò anche la questione della critica di Marx, superando i suoi riferimenti teorici. Già nell'introduzione alla sua opera principale dice chiaramente, a proposito del progetto di ricostruzione: "E' un fatto che la rivelazione e la sistematizzazione dei testi di Marx che risultano sotto questo titolo negli anni 70, sono stati un passo importante verso l'appropriazione della teoria di Marx. Tuttavia, presupponevano l'esistenza di un discorso coerente e corretto che semplicemente sarebbe distillato dai vari manoscritti di Marx, ossia, 'ricostruito' e protetto dalle volgarizzazioni ed interpretazioni erronee, essendo rimasta la capacità critica di fronte al testo di Marx, sistematicamente limitata".
Si può dire che, per Heinrich, la "capacità critica" in relazione a Marx costituiva il nocciolo degli sforzi teorici. Ora, bisogna evidentemente conoscere in che senso il concetto di critica deve qui essere inteso. Da un lato, può riferirsi al carattere necessariamente incompiuto della teoria di Marx e, in questa accezione, alla sua natura storicamente datata, ma può anche riferirsi ai fondamenti stessi ed al modus della teoria di Marx. Anche nel caso di una critica formalmente immanente, tutto dipende dal criterio; essa piò designare l'incompiuto, sviluppare la teoria a partire dal suo interno, secondo il suo proprio impulso, o può valutare la teoria per quel che dice riguardo la sua realizzazione immanente a partire da un criterio esterno di definizioni del contenuto oppure dalla teoria della scienza, e così abbandonare o perfino negare quest'impulso. Nel primo caso, si tratta della già citata trasformazione della teoria di Marx, mentre nel secondo si tratta ancora una volta, alla fine , della sua mera revisione - in questo caso, però, molto al di là del revisionismo classico, si tratta di abbandonare gli stessi fondamenti categoriali, proprio perché ne viene riconosciuto il loro carattere negativo e, insieme ad esso, il potere esplosivo di un tale piano.
Dalla metà del decennio 1980, e soprattutto negli anni 1990, la qui preconizzata interpretazione della teoria di Marx alla luce della critica del valore, o (includendo la moderna relazione fra i sessi) della critice della dissociazione e del valore, è sorta, fra gli altri combattenti, come una specie di UFO nel campo del dibattito della critica sociale. Dopo i tentativi falli di metterla a tacere, essa è stata coinvolta in un'accesa polemica con entrambe le parti, ossia, tanto con l'Ortodossia recente quanto con la Nuova Lettura di Marx (ed essa, da parte sua, non ha potuto fare a meno di rispondere), non essendo ancora oggi completamente chiaro se sia la nostra insistenza sulle definizioni fondamentali del Marx critico del feticcio oppure se sia la critica trasformativa del Marx del "movimento operaio", formulata in questo preciso senso, che motiva la maggior enfasi. Questo non solo ha una connotazione identitaria per motivi nostalgici, ma deve anche rimanere nel cuore della teoria per continuare a poter essere "corretto" sullo stesso piano superficiale sociologico (più concretamente, nel senso dell'ideologia della classe media di sinistra postmoderna), mentre che "l'altro" Marx continua ad essere ignorato oppure svalorizzato come se fosse un po' "tonto".
Tuttavia, la critica della rivoluzione teorica incompiuta deve contenere in sé gli impulsi per la sua prosecuzione, e non per la sua revoca parziale o totale. La questione è: andare con Marx oltre Marx, o senza Marx dietro Marx? Un ulteriore sviluppo trasformativo - se è questo che viene chiesto sul serio e non solo per finta - nel senso di un adattamento alle relazioni capitalistiche del XXI secolo, presuppone la critica della teoria di Marx unicamente nel senso dei suoi limiti storici relativi e la sua collocazione in rapporto alla nostra attuale posizione storica. Dal punto di vista dell'apprezzamento qui preconizzato, la delimitazione storica al XXI secolo è stata doppia, essendo i due momenti legati.
Da una parte, sebbene la rivoluzione teorica di Marx rappresenti una rottura con la razionalità illuminista del capitalismo, in accordo con le condizioni dell'epoca e con le sue forme di espressione teorica, essa conserva le scorie di tale razionalità (come, soprattutto, la metafisica borghese della storia e del progresso nella sua rappresentazione hegeliana). Una rottura pià ampia non era neppure possibile nelle condizioni storiche date, dal momento che il capitale e la ragione avevano ancora davanti un lungo sviluppo a partire dalle sue stesse basi. E' per questo che la critica categoriale della costituzione feticista del capitale inciampa, a volte, nei resti dell'ontologia borghese contenuta nel pensiero di Marx. Dall'altra parte, Marx lega necessariamente la sua teoria, sotto molti aspetti, al movimento operaio allora incipiente, il cui obiettivo immanente, tuttavia, era soltanto il suo riconoscimento come soggetto funzionale sul terreno delle categorie capitaliste: un compito che faceva parte della stessa "modernizzazione" capitalista, e non della rottura con essa. Da qui nasceva una tensione, non solo fra la teoria di Marx e l'ideologia borghese del movimento operaio, ma anche in seno alla stessa teoria di Marx. La vecchia ortodossia allora aveva risolto questa tensione, in gran misura unilateralmente, facendo ricorso al paradigma della modernizzazione e del riconoscimento. Così, possiamo caratterizzare tutto il marxismo fino ad oggi come un "marxismo del movimento operaio" sotto il controllo (o il vincolo) delle categorie del contesto formale capitalista. Ma oggi, all'inizio del XXI secolo, il capitalismo si è già sviluppato fino a rendere nota la sua essenza feticista e la sua maturità per la crisi. Proprio per questo, il marxismo finora esistente si deve esaurire in tutte le sue correnti, nella misura in cui l'intento della modernizzazione e del riconoscimento è diventato puramente e semplicemente irrilevante.
Al contrario, la critica a Marx da parte della sua Nuova lettura, soprattutto nella versione di Michael Heinrich, è, in accordo con il suo percorso, di natura molto più strettamente filologica, senza un inquadramento storico approfondito e, in questa riduzione, legata soprattutto alla scienza economica borghese e al suo rispettivo sviluppo accademico, ponendo la questione della "rottura (di Marx) con il campo teorico dell'economia politica" (Heinrich) in una penombra sospetta, come verrà dimostrato. Questo si applica specialmente al problema di sapere in che relazione la critica di Heirich a Marx si trova con l'economia neoclassica borghese e con l'ideologia postmoderna (a loro volta, legate).
Ora, potrebbe sembrare che l'Ortodossia recente si opponga e resista alla discussione intorno alla critica di determinati elementi della teoria di Marx che qui si definisca per affermare la sua vecchia identità, ma questo è vero solo fino ad un certo punto. Evidentemente, i grandi capi di una lettura che, inn termini globali, di preferenza è orientata secondo modelli di comprensione tradizionali (o, in ogni caso, per una narrazione lineare ed ininterrotta del marxismo), si agitano davanti all'espressione "doppio Marx" che è da tempo corrente nella teoria critica della dissociazione e del valore, o con la determinazione, da essa risultante, di un Marx "essoterico" ed un Marx "esoterico" - differenziazione dell'opera di Marx che avviene per la prima volta in Stefan Breuer (1977). Queste designazione vennero usate dallo stesso Marx (in Teorie sul Plusvalore) per Adam Smith, il vero fondatore della "scienza economica" moderna. Secondo Marx, il lato "essoterico" della teoria di Smith consiste nel cominciare a fare una semplice descrizione dei fenomeni capitalisti, ossia, a determinare le categorie solo rispetto al loro modo di essere superficiali. La parte "esoterica" di Smith, al contrario, si sarebbe sforzata, anche se in modo erroneo ed affermativo, di determinare teoricamente l'essenza del "nesso interno" categoriale. W.F. Haug ora insorge contro la possibilità che si possa procedere secondo questa differenziazione, seppure in un altro modo, per lo stesso Marx: "Uno dei fenomeni grotteschi della forma verbalmente radicale di misurarsi con Marx nel post-comunismo consiste nell'applicare retroattivamente una simile differenziazione al suo autore, Marx" (Haug). Per Haug, e non solo per lui, è insopportabile vedere designati i momenti di mera teoria della modernizzazione, della metafisica del progresso e "del movimento operaio" della teoria di Marx, come "essoterici" e storicamente decadenti, e i momenti critici del feticcio, riferiti al carattere di fine in sé della "ricchezza astratta" e al "soggetto automatico" del valore, al contrario, essere designati come "esoterici" e dotati di vitalità futura.
Nell'invettiva di Haug viene espressa soltanto la caparbietà nel voler interpretare la teoria di Marx nell'orizzonte della supposta infinita "storia della modernizzazione", sulla base di fragili premesse ispirate tanto dalla Realpolitik quanto dall'opportunismo del movimento e sul terreno delle categorie fondamentali del capitalismo, che non deve essere messo in discussione, né teoricamente né praticamente. Questa opzione, però - ed è in questo che consiste la dialettica di un proseguimento di un marxismo che viene supposto ininterrotto e solo modificato secondo la modernizzazione - non può essere attuata senza operare, sotto diversi aspetti, delle rotture non ammesse. Così, da un lato, anche la supposta ortodossia è stata da tempo bucherellata cone un formaggio svizzero, dal modo di pensare postmoderno - cosa che non costituisce quasi sorpresa, dal momento che l'ortodossia stessa ha smesso di offrire qualche resistenza sul piano categoriale, e la grettezza dell'analisi, fenomenologicamente sociologica e "praxeologicamente" politicastra, deve rimanere sottomessa al positivismo del discorso decostruttivista postmoderno, ad essa conforme.
Dall'altro lato, l'Ortodossia recente (e molto più i suoi cugini dell'Est del vecchio "socialismo reale") ha sofferto un colpo tale, col collasso della RDT e dell'Unione Sovietica che, alla fine non si è alzata in piedi e l'arbitro della storia teorica ha dovuto contare fino a dieci. Gli occhi tumefatti, il naso disfatto ed il cervello ridotto in pappa, ora anche il marxista residuale di ferro ritiene di doversi trascinare verso nuovi lidi: "Che in quest'ambito andiamo sempre oltre Marx, è sottinteso" (Haug). Ma come, ed in che stato, e soprattutto: per dove? Guarda dove stai andando, è tutto quello che possiamo dire; soprattutto quando Haug continua facendo una citazione di sé stesso: "Per il pensiero marxista, si deve considerare escluso il riferimento a Marx in termini acritici" (ivi). Anche qui occorre, all'inverso, interrogarsi sul contenuto e sulla tendenza della critica a Marx, che quanto meno a partire dal 1989 è alla portata di tutti, invece di dichiarare una nuova e piacevole passeggiata del discorso e andare a dare una benevola occhiata. L'integrazione politichese dell'Ortodossia recente (che si trova già nell'orbita del Linkspartei) fa proprio sospettare che la critica di Marx intrapresa abbia come obiettivo, innanzitutto, la legittimazione delle necessità di partecipazione e di adattamento, al fine di leccarsi le ferite dopo essere stati messi al tappeto dalla storia reale. Con simili premesse, il rifiuto apparentemente ortodosso di una storicizzazione del Marx del movimento operaio assomiglia ad una critica di Marx ispirata meramente dallo spirito dell'epoca, essa stessa revisionista, che regredisce fino a prima del Marx "essoterico".
Pertanto, lo sfondo che sta dietro l'intenzione di un più o meno chiaro ripudio di Marx, sia da parte dell'Ortodossia recente che da parte della Nuova Lettura di Marx, è costituito, da un lato, dal collasso del "socialismo reale", la fine della Guerra Fredda e la terza rivoluzione industriale e, dall'altro lato, dalla necessità e dall'ideologia postmoderna sull'orizzonte di una coscienza della classe media di sinistra. In questo confronto si decide se avrà luogo una trasformazione della teoria di Marx, nel senso di un avanzamento della rivoluzione teorica, o nel senso di un revisionismo di nuovo tipo. Al centro di questo processo si trovano necessariamente le categorie fondamentali della critica dell'economia politica ed il loro statuto. Rispetto a questo ci sono, almeno, cinque gruppi di questioni che devono essere trattati e chiariti, non potendo il presente saggio fare altro che delimitare solo il terreno, in modo da fornire un panorama delle linee guida dell'inevitabile conflitto teorico.
Il primo gruppo riguarda la questione di sapere in che misura le categorie di Marx non rappresentano mere categorie teoriche o un "modello" meramente ipotetico, bensì categorie reali o, secondo Marx, "forme oggettive di esistenza", alle quali corrispondono "forme oggettive di pensiero". In quest'ultimo approccio, però, la differenza tra la situazione storica reale e la sua riflessione teorica non è ancora del tutto appianata. Nella teoria, lo statuto delle categorie dev'essere diverso dalla realtà. Da qui consegue il famoso "problema di esposizione" nello sviluppo sequenziale della teoria di Marx, che è stato sistematizzato dalla Nuova Lettura di Marx, ma in una maniera non adeguatamente risolta.
Il secondo gruppo di questioni si riferisce alla storicità delle categorie in duplice senso. Da un lato, è in causa il suo statuto nella storia pre-moderna o pre-capitalista. Dovrebbero essere intese come trasversali alle formazioni o addirittura trans-storiche, almeno per quel che riguarda le culture dette superiori a partire approssimativamente dalla rivoluzione neolitica, oppure si applica, in senso stretto, solo al capitalismo? In cosa consiste allora la differenza, e come può la costituzione storica primordiale del capitale venire tradotta in categorie? Dall'altra parte, si deve determinare lo statuto delle categorie nella storia interna del capitalismo. Si tratta di forme di esistenza intrinsecamente dinamiche, che possono solo apparire come sempre uguali nell'astrazione teorica, o sarebbero statiche in sé, confrontandosi così con una storia di accadimenti esteriori, e meramente empirica? Dalla risposta a questa domanda dipende non solo sapere se un'esposizione definitiva del "capitale in generale" è del tutto possibile, ma anche se esiste un limite storico interno alla valorizzazione del capitale (teoria della crisi).
Il terzo gruppo si occupa della relazione fra categorie e totalità capitalista ovvero il "processo globale" (Marx) del capitale, che è trattato solamente nel terzo volume dell'opera principale di Marx. Qui, la questione dello statuto delle categorie si riferisce alla relazione fra la particolarità e la generalità sociale. Potrebbero le categorie della critica dell'economia politica essere concettualmente rappresentate nella merce e nel capitale, considerati individualmente, o si tratta dell'incontro di categorie della totalità che, in quanto tali, si applicano solo al tutto e appaiono non corrette dal punto di vista dei soggetti economici individuali e della loro condotta? Questo significherebbe anche che il concetto di "valore individuale" di Marx è errato, dovuto solamente al suo "problema di esposizione", nel quale implicita ed inavvertitamente si manifesta "l'individualismo metodologico" delle scienze sociali borghesi, ostruendo la prosecuzione della rivoluzione teorica.
Il quarto gruppo attiene allo statuto delle categorie nella relazione fra essenza ed apparenza. Si tratta, nel caso delle categorie della critica dell'economia politica, di determinazioni dell'essenza di un "apriorismo trascendentale" che non può manifestarsi immediatamente in quanto tale, ma costituisce così, ancora, la realtà sociale, oppure i fenomeni capitalistici possono essere compresi direttamente nelle categorie e possono esistere sotto forma indipendente?
Come categorie reali trascendentali, non possono essere empirici; e, se venissero intesi come empirici, non necessiterebbero di definizione trascendentale. Nel primo approccio, teoria ed empiria non possono fondersi l'una con l'altra e le apparenze devono essere, innanzi tutto, decifrate; nel secondo, l'essenza e l'apparenza, e insieme ad esse anche la teoria e l'empiria, coincidono immediatamente, ossia le stesse categorie sono immediatamente empiriche. In tal caso, esistono solamente, a ben vedere, le apparenze, da un lato, e la loro osservazione "scientifica", dall'altro.
Il quinto gruppo di questioni costituisce, in un certo qual modo, la conclusione dell'approccio categoriale totale. Lo statuto delle categorie della critica dell'economia politica sarà positivo o negativo? La parola "positivo" deve qui essere intesa nel senso di un'oggettività esteriore neutra che un soggetto della conoscenza affronta. Questa è la costellazione fondamentale del mondo della scienza che esclude il concetto di critica e, con essa, per la verità, anche il sottotitolo del Capitale di Marx. In questo caso, la critica dev'essere sostituita da un'etica ugualmente esteriore. Le categorie non sono, in questa prospettiva, meri modelli del pensiero (come indicato nel primo gruppo), ma si relazionano anche con un'oggettività indiscutibile le cui "leggi" devono solo essere identificate e trattate in maniera strumentale. Se, al contrario, lo statuto delle categorie sarà negativo, anche la sua conoscenza può essere solo negativa, ossia, viene processato soltanto secondo il modus della critica dell'oggetto stesso, che dev'essere distrutto e le cui "leggi" devono essere abolite.
Da questa breve rassegna già emerge che una prosecuzione della rivoluzione teorica di Marx sarà, in termini epistemici, fondamentalmente critica della scienza, e dovrà farla finita con qualsiasi intendimento positivista del capitale, che finora è stato caratteristico della totalità del marxismo del movimento operaio (sia dell'ortodossia che del revisionismo) e che è rinato allegramente dalle ceneri come una riformulazione postmoderna. Un momento essenziale in questo superamento del pensiero positivista è costituito, per la critica radicale, dallo "individualismo metodologico", non solo nella forma riferita prima, nel terzo gruppo, ma come momento globale di tutti gli aspetti di una reinterpretazione della critica dell'economia politica. Qui, non si tratta solo di una diffusa ideologia borghese "della totalità", ma della definizione accurata della relazione fra il contesto sociale globale, come determinazione dell'essenza, e le apparenze o micro-"unità" riproduttive individuali di questo tutto sociale; ossia, della critica di un modo di pensare predominante nelle scienze sociali che, al posto della totalità (negativa), nel suo contesto di mediazione, colloca la mera "astrazione intellettuale" (Hegel) dell'azione individuale (per esempio, il cosiddetto atto di scambio) come essenziale e costitutiva.
Non è per caso che questo problema rimane alieno al marxismo ed è stato tematizzato, nella migliore delle ipotesi, in modo tanto marginale quanto insufficiente.
La parola d'ordine è rischiare tutto. La conseguenza può consistere solamente in un programma esplicito di critica categoriale e di rottura categoriale pratica, ossia, in un globale "programma di abolizioni" (Karl Korsch). E' proprio a questo sviluppo di energia negativa che si riferisce il concetto di trasformazione teorica, con il quale già si affronta solo un revisionismo fondamentale di vari colori sotto forma di marxismo residuale e post-marxismo. Trasformazione o revisione, ecco il problema. Per questo, ciò che sta all'ordine del giorno è il confronto, e non un eclettismo accademico post-moderno. In un nuovo empito polemico, il problema può innanzi tutto essere rappresentato con particolare chiarezza, in quanto contesto storico-sociale globale, nella realtà e nel concetto di denaro. Il denaro è la manifestazione fondamentale dell'essenza; esso è categoria e, allo stesso tempo, fenomeno palpabile, crocevia della storia e oggetto visibile dell'abolizione. E' perciò che è in quest'oggetto che la determinazione categoriale negativa può distruggere con la massima incisività l'esaltazione positivista dei fatti e la grettezza fenomenologica.

- Robert Kurz -

fonte: Crìtica Radical

domenica 29 marzo 2015

Van!

van

Il segretario tenace
di Juan Form

Jan Van Heijenoort possedeva un dono per la matematica: poteva risolvere, con un solo colpo d'occhio, equazioni a tre incognite. Per questa ragione, aveva ricevuto una borsa di studio per il Liceo St-Louis di Parigi, ma non fu certo questo il motivo per cui, all'età di vent'anni, divenne il segretario, il traduttore e la guardia del corpo di Leon Trotsky, sebbene la situazione in cui si trovava Trotsky, durante il suo esilio, fosse una somma di incognite quasi impossibile da risolvere per un cervello noemale. Com'è noto, Stalin aveva espulso dall'Unione Sovietica il suo acerrimo nemico, ma quasi immediatamente, dopo averlo fatto, decise di porre rimedio nel suo solito modo ad un simile errore: facendolo uccidere. Per riuscirci, gli ci vollero quasi dieci anni, e buona parte di un tale ritardo fu dovuto alla presenza, silenziosa e fedele, di Van Heijenoort accanto a Trotsky.
"Ragazzo, il suo cognome è impronunciabile. La chiameremo Van!", esclamò la moglie di Trotsky quando il robusto giovane arrivò sull'isola di Prinkipo, di fronte a Istanbul, nel 1932, senza altro bagaglio se non una macchina da scrivere con i caratteri cirillici. Le sue uniche referenze erano una conoscenza del russo (imparato da solo, per mezzo di un dizionario ed un libro di grammatica rubato in una biblioteca) e la sua provata fedeltà: figlio di un operaio e di una cameriera, Van aveva rinunciato alla borsa di studio ed aveva abbandonato gli studi, per dedicare la sua vita alla causa. La situazione dei Trotsky a Prinkipo era precartia: nessun paese li voleva accogliere, il governo turco aveva dato loro un rifugio, ma in incognito. Non avevano documenti, confinati in quell'isola, sotto la custodia della polizia, e privi di risorse: dovevano pagarsi tutte le loro spese. I diritti d'autore dei libri di Trotsky e gli articoli pubblicati sui giornali occidentali, pagavano a malapena le spese. In casa, l'attività era febbrile: sia di giorno che di notte si sentiva il rumore delle macchine da scrivere, mentre Trotsky andava da una stanza all'altra dando ordini, dettanto lettere, ricercando dati nei suoi archivi. Le donne di casa, oltre a battere a macchina, si occupavano della cucina e delle pulizie. Gli uomini, armati di pistole, di notte facevano i turni di guardia, e la mattina uscivano per andare a pescare il pranzo, oltre a fare il loro lavoro di dattilografi. Erano tutti perpetuamente esausti e continuava a non arrivare nessuna buona notizia.
Con l'ascesa al potere, in Germania, di Hitler, per Trostky si era aperto un nuovo fronte e si erano chiuse le entrate degli unici diritti d'autore più o meno sicuri che aveva ricevuto fino ad allora. Adesso, oltre a denunciare le manovre di Stalin, doveva mettere in guardia il mondo sul fatto che Hitler avrebbe trascinato l'Europa in guerra. Doveva anche andar via da Prinkipo, di nascosto: prima in Francia, poi in Norvegia, quindi in Messico. Sempre la medesima routine: scarsità di risorse, lavoro febbrile, vigilanza insonne, continue cattive notizie. I volontari dichiaravano forfait e dovevano essere rimpiazzati. Tutti tranne Van. Quando Trotsky si perse in un bosco in Norvegia, Van lo salvò dalla morte per congelamento. Quando a Guernavaca il cavallo di Trotsky si imbizzarrì, Van lo rincorse e lo salvò (anche se era la prina volta nella sua vita che montava a cavallo). Quando bisognava finire un lavoro, e Trotsky non aveva più la testa per farlo, c'era sempre Van, che si trattasse di un articolo per la stampa, di una lettera confidenziale o di una questione di donne (c'è chi dice che la storia d'amore di Van con Frida Kahlo servì a far sì che Trotsky si liberasse di lei). Quando la moglie di Van litigò, in cucina, con la signora Trotsky, Van la spedì a Parigi ( e dal momento che era incinta, Van potè conoscere sua fgli solamente qualche anno dopo). Quando Trotsky e signora ricevettero la notizia della morte dei loro figli (il suicidio di Zina, prima, quando stavano a Prinkipo, e l'avvelenamento di Liova quando già si trovavano in Messico), la reazione fu la stessa in entrambi i casi, quella di rinchiudersi nella loro camera da letto per tre giorni, e Van, l'unico autorizzato ad avvicinarsi, era incaricato di portar loro il tè, facendolo passare dalla porta socchiusa.
E così, nel novembre del 1939, Trotsky disse a Van. "Hai vissuto così tanti anni alla nostra ombra che ora è necessario che tu viva un po' per te stesso", e lo mandò a studiare la situazione interna del Socialist Workers Party, il partito trotskista nordamericano. Viveva in camere in affitto, faceva lavori da idraulico per pagarsi il trasferimento da una città all'altra, mentre preparava coscienziosamente la sua relazione. Si trovava per le strade di Baltimora, quando venne a conoscenza, dai titoli dei giornali, dell'assassinio di Trotsky. E crollò. "Solamente lo studio della matematica mi ha permesso di conservare il mio equilibrio interno", dirà in un libro che scriverà quarant'anni dopo. Il libro era su Trotsky, sebbene ora Van fosse professore emerito di Matematica e Logica ad Harvard e a Stanford, con un proprio ufficio su ciascuna delle due coste degli Stati Uniti.
All'età di 33 anni, dopo che era finita la guerra, era riuscito ad entrare nei corsi gratuiti dell'Università pubblica di New York. Si era laureato e poi aveva preso il dottorato, prima in matematica e poi in logica. Era stato l'unico in grado di mettere in ordine le carte lasciate da  Gödel, un compito che veniva considerato titanico, e decisivo per il mondo dei numeri. Aveva continuato a lavorare per venti ore al giorno, come ai tempi di Prinkipo, solo che adesso dedicava dodici ore alla matematica e soltanto otto ore a Trotsky. Mentre i suoi colleghi accademici si riposavano dalle fatiche quotidiane, lui si dedicava a rintracciare, classificare, tradurre ed ordinare tutte le carte di Trotsky disseminate nelle tappe accidentate dell'esilio. Ottenne che Harvard acquistasse quelle decine di migliaia di documenti e che aprisse un Archivio Trotsky, da cui poi si potesse passare a pubblicare ordinatamente tutta l'opera. Egli stesso viaggiva per portare dall'Europa e dal Messico vecchi bauli pieni di fogli, per poi leggerli fino a farsi bruciare gli occhi.
La cosa sorprendente è che tutto questo lo faceva avendo perso ogni fede nel bolscevismo: dopo la morte di Trotsky, Van era entrato in un maelstrom di interrogativi. "Mi disposi ad esaminare il passato, ruminando uno ad uno mille dubbi, a domandarmi se i bolscevichi, con lo stabilire un regime verticale e con l'annullare ogni opinione pubblica, non avessero preparato il terreno per quell'enorme fungo velenoso dello stalinismo. Era tutto in rovina. Mi dovevo costruire un'altra vita." Ma in quest'altra vita, aveva continuato a dare otto ore di veglia per la causa che aveva ormai abbandonato. "E' stata una delle macchine intellettuali più incredibili che abbia mai conosciuto", ha detto di lui lo storico Pierre Broué. Il suo unico lusso era quello di avere due uffici, uno ad Harvard e l'altro a Stanford. Viaggiava per tutto il mondo con una piccola valigia dentro cui portava tutti i suoi beni. Nessuno dei suoi quattro matrimoni era durato, ma tutti i suoi figli lo amavano. Nel 1986, lo chiamarono a Stanford per avvisarlo che la sua quarta moglie stava perdendo la ragione. Viaggiò a Città del Messico e si sistemò a casa dell'ex-moglie, la tranquillizzò. Ma quando si stese sul divano del soggiorno per un'ora di sonno, lei gli sparò tre pallottole in testa e poi si suicidò sparandosi in bocca.
Jan Van Heijenoort è sepolto in una tomba del Panteón Francés a Città del Messico, proprietà di una famiglia che non era la suia. La tomba di Trotsky, con il suo museo, non è lontana dalla sua, ma assai pochi dei pellegrini che vengono a visitarla in gruppo poi si avvicinano al Panteón Francés.

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Fonte: Pagina 12