venerdì 6 marzo 2015

Tutti, per sempre

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La democrazia, che trappola!
di Anselm Jappe

"Mai un candidato ha speculato in maniera così volgare sulla volgarità delle masse", scriveva Marx riferendosi a Napoleone III. Numerosi abitanti dell'Italia o del Brasile devono aver avuto la medesima sensazione quando hanno visto arrivare al potere un Berlusconi o un Collor de Mello. Si poteva avere, allora, l'impressione che la "democrazia", duramente conquistata, fosse stata improvvisamente cancellata, dal momento che l'utilizzo "spoliticizzante" dei media e dell'industria del trattenimento aveva permesso ai potenti di far eleggere dal popolo, "democraticamente", chi più a loro piaceva. La differenza fra Napoleone III ed i suoi emuli moderni (1) sta nel fatto che questi hanno costruito la loro fortuna politica sull'uso smodato dei media e sulla notorietà che la televisione ha loro conferito. Lo hanno fatto con un tale successo, che i loro avversari hanno cominciato a chiedere di poter equamente condividere simili vantaggi (2), mentre dichiaravano virtuosamente che non era bello vendere un uomo politico come se si vendesse un detersivo. La riduzione della politica a "mero spettacolo" è stata, generalmente, criticata un po' da tutte le parti e, soprattutto, da quelli che si sono trovati, momentaneamente, in svantaggio sul terreno del confronto. Chiunque voglia apparire come un critico serio e preoccupato per i destini della società, reclama che la "politica", quella vera, seria, con la p maiuscola, sia ricollocata di nuovo sul suo trono.
Per un'impresa del genere, ci si può certamente rivolgere a qualcuno che finora "era conosciuto male e, quando non lo era, era conosciuto come il male" (Asger Jorn): costui è Guy Debord, testa pensante dell'Internazionale Situazionista (1957-1972) ed autore de "La società dello spettacolo" (1967). Dopo essere stato per molti anni oggetto di culto, negli ambienti che si pretendevano rivoluzionari, Debord gode da qualche tempo di una vasta reputazione, proprio in quella "società dello spettacolo" che aveva combattuto per tutta la sua vita, conclusasi nel 1994. Infatti, e prima di tanti altri, era stato Debord a dire che "Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione" e che lo spettacolo è la produzione principale della società attuale", è "l’affermazione dell’apparenza, e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come pura apparenza" perché "quando il mondo reale si tramuta in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali". Ciascuno - scrive Debord, nel 1988, nei "Commentari alla Società dello Spettacolo" - conosce il mondo solo attraverso la mediazione delle immagini scelte da altri, i quali non lo fanno disinteressatamente. "L'immagine costruita e scelta da qualcun altro diventa il principale legame dell'individuo con il mondo che, prima, egli guardava da sé in qualsiasi posto andasse... Il flusso delle immagini travolge tutto e, in maniera analoga, è un'altra persona che comanda a suo piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile.
In realtà, Debord non mette al centro della sua analisi solamente la televisione, come presunta fonte di tutti i mali, dal momento che, allo stesso tempo, sottolinea che "Lo spettacolo non può essere compreso come l’abuso del mondo del vedere, il prodotto delle tecniche di diffusione di massa delle immagini" e che "Se può sembrare che lo spettacolo, preso sotto l’aspetto ristretto dei ‘mezzi di comunicazione di massa’, che sono la sua manifestazione superficiale più soffocante, invada la società come una semplice strumentazione, questa in realtà non è per nulla neutra, ma è proprio la strumentazione che conviene al suo auto-movimento totale". Come vedremo, lo spettacolo non è altro che la forma assunta dal capitalismo nell'epoca in cui l'economia ha raggiunto la piena indipendenza irresponsabile. Ma questo poco importa ai giornalisti o ai pensatori in cerca di citazioni: estrapolata dal suo contesto, una piccola frase sullo "spettacolo" può ben servire come ornamento pseudo-critico per i discorsi da fare proprio in televisione (3). Inoltre, in tal modo si contribuisce a quel recupero banalizzante di cui attualmente è oggetto la teoria di Debord, dopo che trent'anni di ostracismo non sono riusciti a farla dimenticare (4).
La nostalgia della "vera politica" - considerata identica al "confronto democratico" - che avrebbe bisogno di essere salvata dalla demagogia di coloro che manipolano i cervelli inondandoli con immagini trasmesse dai media, è conseguenza del concetto molto positivo di "politica, che ha sempre caratterizzato quasi tutta la sinistra. Ma Debord non propone assolutamente di difendere la politica, neppure quella "rivoluzionaria", dalla distorsione e dalla superficialità introdotte dallo spettacolo; al contrario, mostra come, tanto la politica quanto la società dello spettacolo, siano risultati del feticismo della merce e che entrambi entrano in crisi quando entra in crisi tutta la società basata sul feticismo della merce. Tale caratterizzazione della politica, in quanto categoria feticistica, contraddistingue le poche teorie attuali che non hanno abbandonato la categoria della totalità sociale come, al contrario, hanno fatto, non solo il pensiero borghese ma anche quasi tutte le correnti che erano nate dalle idee di Marx e che riprendono il pensiero positivista con qualche variante. Questo, che oggi regna in maniera incontrastata, è solito assolutizzare ed ontologizzare i diversi campi in cui viene suddiviso lo spazio empirico della società, dichiarando "metafisico" e "superato" ogni tentativo di trovare il loro principio comune. "Le immagini", i "mezzi di comunicazione" o "la politica" appaiono come categorie che conservano una logica propria. Reinterpretato sotto quest'ottica, il concetto di spettacolo non appare essere molto diverso da qualcosa come la “mediologia” de Régis Debray (5) o dalle affermazioni di Jean Baudrillard, per i quali, d'ora in avanti, tutto è un'immagine che non riflette più alcuna "realtà". Ma, in Debord, la "immagine" non è un fattore circoscritto, separato dalla totalità sociale. "Spettacolo" è ogni sostituzione del vissuto e ogni sua rappresentazione, ogni situazione in cui la contemplazione passiva di un'idea, di un'immagine - in senso lato - si sostituisce al vivere in prima persona. Lo stalinismo, per esempio, era anche uno spettacolo; l'Unione Sovietica e i partiti comunisti dell'Occidente offrivano una semplice immagine della rivoluzione. Mentre esisteva un proletariato inquieto, essi garantivano - nell'interesse comune di tutti i proprietari del mondo, ad Est come ad Ovest - che l'identificazione con le forme false della rivoluzione (o con le presunte rivoluzioni, molto distanti, nel Terzo Mondo) impedisse ogni vera attività critica nell'immediato. "Chi sta sempre a guardare, per sapere cosa viene dopo, non agisce mai; così dev'essere il buon spettatore" (Debord; Commentari). Tutto quel che manca alla vita reale viene consumato sotto forma di illusioni compensatorie, facendo dimenticare, così, la povertà scandalosa della vita quotidiana, individuale, reale - povertà ancora più scandalosa quando confrontata con le possibilità create dallo sviluppo delle forze produttive. L'orgoglio, per un attore, può essere un meccanismo spettacolare allo stesso modo in cui lo può essere il culto di Che Guevara, gli integralismi ed i nazionalismi, lo sport o il terrorismo, i sindacati ed i partiti. Mentre la religione era la proiezione della potenza umana verso il cielo, dove ci sarebbe una vita apparentemente indipendente, lo spettacolo è la sua proiezione sui portatori terreni ugualmente distanti dal potere degli uomini, che non sono riconosciuti dalle proprie creature che essi hanno generato. Lo spettacolo è quindi la forma più elevata di alienazione e del feticismo della merce.
Tuttavia, il concetto di spettacolo non rappresenta una semplice teoria della "manipolazione" o della "falsa coscienza"; teorie che erano di moda negli anni 1960. Lo spettacolo è qualcosa di molto differente rispetto ad una banale propaganda che fa apparire le cose diverse da come realmente sono (come avrebbe potuto credere, ad esempio, l'ingenuità interessata di Louis Althusser). La riduzione del reale ad immagine, la degradazione dell'essere all'avere e, poi, all'apparire sono solo l'aspetto più visibile della tendenza sociale alla "astrazione" che costituisce il "modo di essere concreto" dello spettacolo. Debord - che deve molto al libro "Storia e coscienza di classe" del giovane Lukács - indica, nel secondo capitolo della "Società dello spettacolo", l'origine dell'astrazione nella forma-merce (o forma-valore). Questa è la "forma-cellula" (Marx) di tutta la società borghese e non solo della sua economia. Le implicazioni del concetto di forma-valore - di cui, anche in Debord, si trovano spesso solo indizi, seppure preziosi - non incidono tanto sulle considerazioni relative all'economia intesa come sfera in sé (che forse, in quanto "base, determinerebbe la "sovrastruttura", come insegna il marxismo positivista), quanto, al contrario, sul concetto di "fenomeno sociale totale" (Marcel Mauss). La stessa formazione della "economia" e della "politica" in quanto sfere separate, sconosciuta nei periodi pre-capitalisti, è una conseguenza della forma-merce. Poiché il pensiero borghese ontologizza, abusivamente, tali sfere. Il valore di scambio, com'è noto, è determinato dalla quantità di lavoro astratto contenuto nella merce, annullando tutte le differenze qualitative dei lavori e dei prodotti. Questo processo estende il suo effetto di astrazione a tutta la vita sociale: non conta nient'altro come essere concreto, e come quantità di denaro. Solo una lunga abitudine fa sì che, perciò, la coscienza comune non percepisca più la follia inclusa nel fatto che, a titolo di esempio, l'inquinamento atmosferico "costi" meno delle perdite che una riduzione del traffico infliggerebbe all'industria automobilistica. Prima di qualsiasi giudizio morale, la follia qui sta nel fatto di considerare due cose del tutto distinte - la salute degli individui e gli interessi dell'industria - secondo un unico parametro quantitativo, oltre che completamente astratto, cioè, il denaro. Ecco, allora, la veridicità dell'affermazione marxiana, secondo la quale "il valore d'uso diventa forma fenomenica del suo contrario, del valore" (Karl Marx, Il Capitale). Qui l'astrazione diventa reale. Infatti, è evidente - sebbene Debord non faccia esplicitamente tale distinzione - che non si tratta di astrazione del pensiero, di astrazione filosofica, ma di "astrazione reale" (Sohn-Rethel). Non si tratta di "falso" riflesso della realtà nelle menti umane, ma di una realtà "falsa", in quanto privata delle sue qualità concrete ed in cui le astrazioni (per esempio, il lavoro astratto trasformato in valore e, poi, in denaro) diventano realtà materiali - per quanto sia difficile, per la coscienza positivista, concepire che una cosa possa essere, allo stesso tempo, una realtà ed un'astrazione. L'astrazione non è una cattiva abitudine del pensiero che si cura sostituendo le idee vere a quelle false, tanto meno mutando le circostanze che generano tali idee false, ma solamente abolendo la sottomissione reale del contenuto concreto alla forma astratta. La predominanza dell'immagine non è segnale ed espressione più alta di una tale astrazione; come la tecnica e la scienza, anche l'immagine è determinata dalla socializzazione operata dalla forma-merce. Lo spettacolo è, quindi, il processo in cui le immagini si ricostituiscono in un insieme dotato - almeno apparentemente - della coerenza che la realtà ha perso da molto tempo. La merce ha ridotto tutto a semplice quantità; la qualità esiste soltanto come immagine presentata all'ammirazione degli spettatori.
Pertanto, se per Debord lo spettacolo non riporta ad una logica immanente propria della "immagine", neppure la "politica" è il polo "positivo", il polo dell'intervento cosciente in grado di regolare e limitare il polo negativo, cioè, il regno dell'economia autonomizzata di cui lo spettacolo è la traduzione visibile. Esaminando i testi situazionisti degli anni 1960, quando le ideologie e l'enfasi sulla "politica" erano arrivate al loro apice, si nota, innanzitutto, che i situazionisti evitano accuratamente di definire "politica" la propria attività. Dichiarano, di frequente, di rifiutare la "vecchia politica specializzata" e la "politica intesa in senso tradizionale". Ne "La società dello spettacolo", Debord crede di riconoscere le premesse di un movimento rivoluzionario di tipo nuovo, basato sul "rifiuto della vecchia politica specializzata, dell'arte e della vita quotidiana. Nella rivista Internazionale Situazionista, nel 1964, si dice: "Le parole 'movimento politico’ definiscono oggi l'attività specializzata dei capi dei gruppi e dei partiti che dalla passività organizzata dei loro militanti ottengono la forza oppressiva del loro potere futuro. L'IS non vuole avere niente in comune con il potere gerarchizzato, non importa sotto quale forma si presenti. L'IS, pertanto, non è né un movimento politico né una sociologia della mistificazione politica". Vuole, al contrario, contribuire ad un nuovo movimento proletario di emancipazione: "Fondata sul principio della spontaneità delle masse, tale attività è incontestabilmente politica, a meno che non si neghi questa qualità agli stessi agitatori." ( Internationale situacionniste, n° 9, 1964, p. 24.). Alla domanda "partecipate o no alla politica?", i situazionisti rispondono "Sì, ma solo ad una - lavoriamo ... per l'unificazione e per l'organizzazione teorica e pratica di un nuovo movimento rivoluzionario" per "andare oltre i fallimenti della vecchia politica specializzata" ( Idem, n° 9, p. 42.). Proponiamo "nuove forme di azione contro la politica e l'arte" (. Idem, n° 11, 1967, p. 32.). Già all'inizio, avvertono che "l'obiettivo dei rivoluzionari non è altro che la soppressione della politica (il governo delle persone che cede il passo all'amministrazione delle cose)" ( Idem, n° 2, 1958, p. 9.). Naturalmente, tale rifiuto della politica non significa, assolutamente, una rinuncia all'attività, alla "prassi", e neppure dev'essere inteso nel senso del vecchio anarcosindacalismo che rifiutava qualsiasi azione politica a favore della lotta sindacale soltanto. In quanto attività separata dagli altri settori della vita sociale e dell'esistenza quotidiana, ed in quanto contemplazione delle azioni degli altri in luogo di un agire proprio, la politica, per i situazionisti, rappresenta un'alienazione nella stessa proporzione dell'arte. Un punto centrale del programma situazionista era il tentativo di "superare" l'arte, nel senso di realizzarla e di sopprimerla allo stesso tempo, a favore della "rivoluzione della vita quotidiana" e della "creazione continua di situazioni". Tale critica situazionista della politica come spettacolo trova poi, durante gli anni 1970, molta ripercussione nei movimenti sociali che trasformavano vari aspetti della vita sociale, fino ad allora considerati "neutri" o "privati" - abitazioni, trasporti, ambiente, strutture familiari, ecc. - in spazi di antagonismo sociale; questo ha avuto un seguito, in forma addomesticata, negli anni 1980 (movimenti alternativi, ecologismo, ecc.).
La "fine della politica", negli anni 1960, era intesa dai situazionisti come rifiuto della politica, come la sua desiderata abolizione da essere realizzata attraverso un intervento esterno, rivoluzionario. Diversamente, poco dopo ebbe inizio il processo di autodistruzione della politica che si è reso visibile soprattutto negli ultimi anni. Di conseguenza, nuove correnti di critica sociale resero abbastanza esplicito il fatto di mettere in discussione la politica in quanto tale, in termini che si cerca qui di riassumere (6). Così come i situazionisti constatarono che l'arte non aveva più bisogno di essere distrutta, ma era già distrutta - e perciò doveva essere superata in una forma superiore - attualmente si può constatare che anche la politica è distrutta. Questa convergenza nello sforzo di abbattere quella vacca sacra che è la "politica" dimostra, d'altra parte, che le diverse critiche fondamentali della società delle merci, seppure sorte in contesti ed epoche diverse e con punti di partenza differenti, sono destinate ad incontrarsi.
La "politica" non è un mezzo neutro, una forma esistente in ciascuna società e suscettibile di essere riempita da qualsiasi contenuto, ma è una forma specifica in cui si sviluppano le relazioni fra i soggetti del mercato. Si tratta di una forma indiretta di socializzazione. Nella società basata sulla produzione di merci, il legame sociale è esterno agli uomini, dal momento che questi non si socializzano immediatamente nella produzione (7), ma solo nello scambio che sviluppa attraverso la trasformazione di ogni prodotto dell'attività sociale in una determinata quantità di lavoro astratto. La democrazia, è evidentemente la forma più completa di una tale politica perché corrisponde a quella libertà formale che è costitutiva dello scambio capitalista (diversamente, per esempio, dalla servitù della gleba). La politica è "l'altro lato" necessario della società della merce, senza la quale questa si disgregherebbe immediatamente nell'anomia  e nella guerra di tutti contro tutti. E' un vincolo esterno, separato dai suoi portatori, alienato, che sostituisce il vincolo interno che, nella società pre-capitalista, veniva prodotto insieme alla produzione materiale. Inoltre, lo Stato moderno, cioè, la politica, assicura le infrastrutture (trasporti, educazione, ricerca, ecc.) che sono sempre più grandi, e senza le quali la creazione del valore non potrebbe avvenire, ma che, in sé stesse, non sono produttrici di valore e che, in ogni caso, superano la capacità d'investimento dei capitali isolati. Il destino della politica è legato alla traiettoria storica dell'economia della merce.
La spettacolarizzazione della politica non è, assolutamente, la sua saturazione, ma è, al contrario, l'esaurimento della sua logica storica. Lo stesso processo che ha portato a quello che si presenta come un'invasione di immagini, cioè, alla completa penetrazione della logica del valore, dell'astrazione, in tutti i settori della vita sociale, ha anche reso superflua la "politica" con la P maiuscola. Però non nel senso idilliaco per il quale ora sarebbe possibile passare ad una semplice "amministrazione delle cose", ma nel senso che, progressivamente, viene sottratto terreno a quello che si appoggia alla politica. Il continuo aumento delle spese per le infrastrutture, cos' come la fine dell'ultimo boom capitalista - o fordista - e la rapida diminuzione, grazie soprattutto alla rivoluzione microelettronica, del lavoro veramente "produttivo" in senso capitalista (cioè, produttivo del valore di scambio, o che è in grado di utilizzare forza lavoro secondo gli standard del mercato mondiale) comportano un esaurimento della sostanza del valore e quindi, in maniera assai banale, dei "fondi" disponibili. Senza mezzi finanziari e a causa di questo, lo Stato perde facilmente le sue possibilità di intervenire nei processi di riproduzione. La decadenza mondiale della politica in quanto istanza regolatrice della vita sociale si è espressa in modi differenti: come rifiuto della politica da parte dei "cittadini, come perdita di sovranità da parte degli Stati nazionali, come riduzione neoliberista delle competenze dello Stato. La politica è stata ridimensionata nei confronti di questo ruolo indispensabile, ma subordinato, che la caratterizza strutturalmente nella società delle merci, anche se, da alcuni decenni, le necessità connesse alla fase scendente di tale società (superamento delle forme pre-capitaliste, integrazione di tutta la popolazione nella logica della merce) hanno potuto, temporaneamente, far sembrare che il ruolo della politica fosse cresciuto. La "spettacolarizzazione" della politica,la sostituzione dell'argomento con lo spot pubblicitario e del programma di governo col tentativo di apparire in televisione con la maggior frequenza possibile, sono solo gli aspetti più visibili di questa mutazione che marca un'epoca. La politica non gode più di alcuna autonomia o di alcuna libertà di decisione, ma è ridotta alla politica economica ed a un solo tipo di politica economica: lo sforzo, spesso disperato, di mantenere la competitività del proprio paese sui mercati mondiali. Le differenze fra le forze politiche si riducono, allora, quasi a zero; non si tratta di una degenerazione ma, semmai, di qualcosa di assolutamente logico, se il sorriso telegenico di un aspirante ad essere un uomo politico vale più delle sue promesse, oltretutto irrealizzabili.

zabriskiepoint

L'ininterrotto retrocedere della politica davanti alle forze scatenate dal mercato mondiale e dinanzi all'autodistruzione della società così avviata, rende - è chiaro - completamente inutile ed ingenuo il misto di moralismo e di keynesismo, proposto continuamente dal fratello nemico del neoliberismo, ovvero, dal resto della sinistra. Questa, moderata o "radicale", continua a voler imporre in maniera volontaristica, per mezzo della politica, delle regole alla società delle merci. Tuttavia, non è mai riuscita a comprenderla o a combatterla in quanto totalità sociale. La dismissione da parte dello Stato di ampli settori di riproduzione sociale, non è il frutto della diabolica strategia di un presunto mega-soggetto chiamato "capitale", inteso come un circolo di persone capaci di dettare leggi alla storia, ma è il risultato inevitabile di un processo che la sinistra si rifiuta di vedere: la crisi globale di qualcosa che essa non vuole assolutamente riconoscere come problema - il denaro e la merce. Invece, proprio la globalizzazione ed il neoliberismo sono quello che dimostrano che non si può più modificare le categorie di base della società delle merci, dal momento che ogni misura politica a spese del capitale, in un determinato paese, induce solo a dislocare in un altro posto.
Tuttavia, il trionfo del neoliberismo, apparentemente più "realista" in quanto vuole liberare la "mano invisibile" del mercato dagli ostacoli della politica, dura solamente per un breve momento storico. Assomiglia all'entusiasmo di chi si inebria della velocità di un'automobile che, in realtà, si trova in caduta libera dall'alto di una scogliera. L'alternativa alla graduale estinzione della politica non è, certamente, l'automatismo del mercato. La riflessione sulla politica deve diventare una riflessione sulla fine della politica e sulla forma di totalità della società moderna, cioè, la forma-merce. Il fatto che costituisca, per la coscienza borghese, una "forma a priori" apparentemente naturale ed auto-evidente, mai percepita consapevolmente, non impedisce che essa condizioni tutta la vita "politica".
I situazionisti furono quelli che cominciarono a mettere in discussione la "politica", anche se, per quanto concerneva gli altri aspetti, avevano partecipato al clima di effervescenza politica del '68; per esempio, l'esaltazione della "autogestione" e dei "consigli operai". Spesso, una tale tematica è stata un'illusione poiché, in quanto continuano ad esistere economia di mercato e denaro, anche le autogestioni più radicali, perfino quelle realmente libere da ogni deformazione burocratica, obbediranno alle stesse logiche cui si deve conformare qualsiasi soggetto economico. E' costitutivo dei soggetti del pensiero borghese credersi "liberi" e fare astrazione di ogni coercizione che deriva da leggi di entità feticiste che la società ha creato senza sapere e senza volere. Il valore e la sua espressione tangibile, il denaro, sono forme a priori che stanno al di sopra di ogni volontà cosciente dei soggetti, la quale si esprime in una forma già determinata - alle cui leggi poi è necessario conformarsi - cioè, come esigenza di denaro o di potere politico. La maggior libertà nella sfera politica e la "democrazia" più radicale sono vuote quando non possono apportare altro che non sia l'esecuzione delle leggi cieche dell'auto-movimento dell'economia. Tali leggi, per dirlo ancora una volta, oggi non hanno origine da necessità ineludibili che derivano dallo "scambio organico con la natura", ma da deformazioni speciali che la forma-valore imprime alle forze produttive. Influenzare "politicamente" gli effetti del lavoro astratto e del denaro senza superare la loro logica di base non è mai stato strutturalmente possibile; finora gli sforzi in questa direzione hanno solo avuto, negli anni passati, una funzione correttiva, per la quale una massa ancora crescente di valore permetteva una qualche misura redistributiva. Se, realmente, la società fosse capace di dettar legge alla sua economia, invece di riceverla da essa, non si tratterebbe di una società feticista. Ma, se l'economia della merce può essere rimossa dalla volontà dei soggetti, tuttavia essa rimane ugualmente intangibile dalla forma politica che tale volontà può assumere. I situazionisti, sostenendo l'abolizione del denaro, del valore di scambio, della merce e dello Stato, seguivano una linea di principio molto al di là dell'illusione politicista, mettendo a fuoco l'essenziale del problema.
Nel 1967, Debord distingueva due forme di spettacolo: lo "spettacolo concentrato" dei regimi totalitari - stalinismo, fascismo, regimi militari dei paesi "in via di sviluppo" - dove ciascuno è costretto ad identificarsi con un'ideologia imposta in maniera poliziesca, e lo "spettacolo diffuso" delle società occidentali, basato su un'ampia scelta di merci nelle quali l'individuo è spinto a vedere la sua felicità. Nei Commentari del 1988, Debord osserva come la successiva evoluzione abbia portato, in tutto il mondo, al predominio di una combinazione di questi due tipi, che lui chiama "spettacolo integrato". Questo si basa sulla vittoria generalizzata dello spettacolo diffuso, ma senza disdegnare il contributo delle tecniche autoritarie e manipolatrici sviluppate dallo spettacolo concentrato. Lo spettacolare integrato è ancora più perfetto dei suoi predecessori, poiché ha invaso tutta la società, rimodellandola secondo le proprie esigenze e distruggendo al suo interno anche gli ultimi resti della realtà autonoma, quali quelli che erano, una volta, il sindacalismo o i giornali, le città o i libri. Lo spettacolo può far credere gli individui, isolati e privi di qualsiasi accesso indipendente al mondo,
quello che vuole, dal momento che non esiste più alcuna possibilità di verifica. Non avendo più nemici da temere, lo spettacolo integrato può liberarsi dai modi di repressione molto costosi e può permettersi una facciata di democrazia. Ma mentre la democrazia classica borghese dei tempi pre-spettacolari corrispondeva, in parte, effettivamente all'elemento di libertà che affermava di essere, la democrazia spettacolare è, in fondo, il peggior totalitarismo. Essa "è una società perfetta per essere governata: e la prova è che tutti quelli che aspirano a governare, vogliono governarla con gli stessi metodi". Come non pensare immediatamente, leggendo queste pagine di Debord, ai cambiamenti occorsi in America Latina negli ultimi 15 anni? (8) Debord non vi si riferisce esplicitamente, ma le sue tesi sono confermate dal modo in cui, nonostante l'assenza di una significativa pressione popolare, i poteri chiaramente dittatoriali, in America Latina, hanno abbandonato il palco. La democrazia spettacolare è pienamente realizzata quando gli intellettuali di sinistra sono liberi di discutere Marx sulla stampa o alla televisione, e quando i cittadini hanno il diritto di votare un presidente di sinistra - il quale, nel caso venisse eletto, sarebbe costretto ad assumersi il sorprendente compito di adeguare il paese al mercato mondiale impazzito (9) - mentre altri cittadini più sfortunati, perché vivono in strada, o nelle selve dove si dovrebbe esercitare il libero mercato, vengono trattati con metodi che potrebbero innescare nostalgie di tempi meno "democratici" (10). Oggi, la libertà politica può essere coniugata perfettamente con la più feroce repressione sociale. La descrizione che fa Debord delle reti segrete che amministrano, con totale disprezzo per le leggi borghesi, tutte le questioni della società, senza apparire, è particolarmente adatta per l'America Latina. Qui si vede anche quanto il potere politico visibile sia ormai una carcassa vuota, incapace di farsi sentire sia da una banca che da un commissariato di polizia, e di quanto sia, allora, inutile la sua conquista. Si capisce perché i colpi di Stato di una volta, con carri armati e blindati  che circondavano il palazzo presidenziale, non siano più di moda (11). Non a caso, tutte le società moderne rivendicano, diversamente da quel che faceva il nazismo, di essere democratiche; perfino il generale Pinochet, il quale, più che abolire la democrazia, aveva voluto "bagnarla tutta nel sangue".
Ma l'opposizione alla democrazia spettacolare non può più, certamente, svolgersi sotto le bandiere della lotta per la "vera democrazia". Quando ha ridotto tutto il suo programma alla parola d'ordine della "democratizzazione" e dei "diritti umani" (12) - eventualmente con la scusa che questo, in certi paesi, rappresenterebbe un notevole passo in avanti rispetto alle precedenti forme di dominio - la sinistra ha dimostrato ancora una volta la sua disponibilità a cadere in tutte le trappole e a proporsi come alternativa per la gestione del sistema delle merci. La fine della politica cammina di pari passo con quello che abitualmente si chiama fine della "democrazia". I movimenti anticapitalisti e rivoluzionari hanno sempre creduto che il capitalismo fosse incompatibile con la democrazia - perfino Marx, ad un certo momento, ha pensato che il capitalismo non potesse sopravvivere all'introduzione del suffragio universale - ed hanno visto in ogni progresso della libertà e dell'uguaglianza, in ogni concessione di "diritti" a nuove categorie della popolazione, un territorio sottratto al dominio borghese, una conquista da difendere ostinatamente contro gli inevitabili tentativi di annullarla. Ma con questa lotta, i movimenti democratici, anche quelli più radicali, non hanno fatto altro se non aiutare il capitalismo moderno a superare i suoi retaggi ancora pre-borghesi e quasi feudali, basati sulle immutabili differenze sociali di casta. Queste vestigia sono sopravvissute per molto tempo. Il movimento operaio e le altre forze che hanno lavorato per la democratizzazione pensando di combattere il sistema capitalista - e dovendo, in effetti, accordarsi con i suoi rappresentanti empirici - lo hanno spinto, in maniera involontaria, verso la sua forma completa che prevede proprio l'uguaglianza e la libertà astratte di tutti i soggetti del mercato. La democrazia spettacolare è la conseguenza logica dell'unica democrazia possibile nella società della merce, cioè, la democrazia dei venditori di merci, liberi ed uguali. Mentre la società intera viene governata dalle leggi cieche di un'economia autonomizzata, quale che sia la forma dell'amministrazione "politica" della società, essa continuerà ad essere sempre costretta a seguire il "Diktat" che lo sviluppo della merce impone. Una democrazia in un senso completamente diverso, intesa come una società che fa coscientemente la propria storia e che riconduca tutte le sue creazioni - l'economia, la politica, la religione, ecc. - alla decisione in comune, invece di essere da esse governata, sarà possibile soltanto dopo aver superato la subordinazione dell'attività umana alla forma-merce.
Se la fine della politica non viene assunta coscientemente come compito e come possibilità di liberarsi da una categoria feticistica, il rischio è che la politica possa essere sostituita da forme ancora peggiori. Naturalmente non da un nuovo fascismo, ma da una nuova barbarie, da una "economia del saccheggio" come ultimo stadio del libero mercato. La fine logica della società della merce è la disintegrazione fino alla guerra di bande, alla mafia, fino all'insufficienza violenta degli ultimi resti di ricchezza ancora in circolazione. Alla fine della sua evoluzione, lo Stato tende a trasformarsi nuovamente in quello che era all'inizio: una banda armata. L'esempio jugoslavo è eloquente.
E' necessario che quelli che sono ancora i pochi fili della critica radicale della società della merce si incontrino, e trovino la loro udienza. Solo una critica di questo tipo è "realista", dal momento che la società della merce forse può essere abolita, ma non può essere mai riformata, come viene dimostrato ogni giorno. Solo una critica di questo tipo può rivendicare il fatto di aver saputo avvalersi delle più profonde intuizioni di Marx. Diversamente, il malcontento, che cresce ogni giorno di fronte alle follie dell'economia autonomizzata ed ai disastri ecologici, potrebbe essere recuperata da forze interessate soltanto a canalizzarlo verso forme impotenti. Le varie chiese sono già in agguato per proporre i loro rimedi. Ma è anche stato detto: "E' possibile ingannare qualcuno per sempre. E' possibile ingannare tutto per qualche tempo. Ma non è possibile ingannare tutti per sempre".

- Anselm Jappe - Pubblicato sulla Revista Praga, n° 4, 1997. -

NOTE:

(1) - Il testo di Marx in questione - "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte" - è, d'altronde, lo stesso dove si piò leggere la famosa frase che recita che la tragedia della storia si ripete come farsa.

(2) - In Italia, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, nel 1994, in gran parte ottenuta grazie al lavoro di propaganda realizzato dai canali delle sue televisioni private, vennero proposte, ed in parte promulgate, leggi che pretendevano di assicurare a tutti i concorrenti politici un adeguato accesso ai media, anche a quelli privati.

(3) - Infatti, recentemente, in Italia, si è visto arrivare alla carica di direttore di uno dei canali della televisione di Stato un personaggio che, da tempo, dichiara a destra e a manca la sua ammirazione per Debord, e raccomanda ai telespettatori di leggere "La società dello spettacolo" per potersi meglio proteggere dalla televisione: più o meno come il criminale pentito può essere un ottimo poliziotto e come un passato da universitario marxista non pregiudica una grande carriera politica sotto la bandiera del neoliberismo.

(4) - In realtà, negli ultimi anni si parla come non mai di Debord e dei situazionisti ma, in generale, lo si fa presentandoli come una semplice avanguardia artistica, o come un fenomeno dall'ammirevole stile letterario, oppure come precursori del 1968; però, non si riconosce loro quasi mai una critica radicale, su base marxista, del mondo attuale.

(5) - Bruttissima copia di André Malraux, Debray, nella traiettoria che, da pseudo-guerrigliero, lo ha portato ad essere il consigliere di tutti i presidenti, non ha mai smesso di elucubrare una pomposa "mediologia", essa stessa assai mediatica (Régis Debray - VITA E MORTE DELL'IMMAGINE Una storia dello sguardo in Occidente - Edizioni Il Castoro - 2010).

(6) - Un'analisi di questo processo, che prendiamo qui in considerazione, si trova soprattutto nei testi di Robert Kurz e della rivista tedesca Krisis.

(7) - Per essere più precisi: oggi, la produzione è direttamente socializzata sul piano materiale (qualsiasi produzione presuppone infrastrutture enormi). Però non lo è sul piano sociale, poiché l'orizzonte del soggetto economico non è mai la società e le sue necessità, tanto meno le necessità reali, ma solo la creazione di valore di scambio al di sopra considerazione riguardo le conseguenze.

(8) - Senza dimenticare che l'inaspettata conversione dei paesi dell'Est ad un tipo abbastanza particolare di democrazia - ed il ruolo giocato dai servizi segreti, e da varie mistificazioni, in questo cambiamento - ha messo in evidenza, improvvisamente, una notevole conferma delle analisi di Debord.

(9) - Quando, in tempo di crisi, i padroni della società permettono che la sinistra si avvicini al potere, forse pensano, secondo la massima di Baltazar Gràcian: "L'abile medico, che non è riuscito a guarire il suo paziente, non manca mai di chiamare un altro medico che, sotto il nome di consulto, l'aiuti a sollevare la bara".

(10) - Debord osserva, nei Commentari, che "si sa ... quello che sono gli squadroni della morte in Brasile".

(11) - Debord sottolinea che il ruolo d'avanguardia che Russia e Germania hanno avuto nella formazione dello spettacolo concentrato, e gli Stati Uniti nello spettacolo diffuso, per quanto riguarda lo spettacolo integrato, esso va riferito a Francia ed Italia. A questo proposito, Debord avrebbe potuto citare anche il Messico. A partire dagli anni 1920, quando lo spettacolo mondiale stava facendo solamente i primi passi, una ferrea oligarchia riuscì, in quel paese, a governare mantenendo una serie di regole democratiche, con qualche elezione qua e là per l'opposizione, con un margine di libertà d'opinione e di organizzazione sconosciuta negli altri paesi latino-americani, ed appoggiando, nell'ambito della politica estera, governi e movimenti rivoluzionari. Con tutto ciò, quel partito dal nome così eloquente esercitò un controllo della società molto più perfetto di quanto i loro colleghi riuscissero a fare in altri paesi, restando al potere per più tempo di qualsiasi altro regime politico in quel secolo. Ed è ben noto che, quand'era necessario, sapevano anche ricorrere ad altri metodi, così come sapevano cancellare le prove di questo con un'abilità degna dello spettacolo integrato, il quale non era ancora stato instaurato. Del resto, Debord vi allude nel capito XXVIII dei Commentari.

(12) - Oltre al fatto che enfatizzare la "democrazia, in molti paesi, soprattutto in Italia e in Francia, è diventato l'ultimo rifugio degli accademici di sinistra e dei vecchi stalinisti che non si sono convertiti, a suo tempo, in heideggeriani o popperiani, e che devono però avere un qualche cavallo di battaglia per poter evitare di essere esclusi dai dibattiti televisivi.

fonte: EXIT!

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