martedì 31 dicembre 2019

La vita …

« Ci sarebbe anche lui nel quadro, alla maniera di quei pittori del Rinascimento che si riservavano sempre un minuscolo posto fra la folla dei vassalli, dei soldati, dei vescovi o dei mercanti; non un posto centrale, né un punto privilegiato e significativo in una data intersecazione, lungo un asse particolare, secondo questa o quella prospettiva illuminante, nel prolungamento di un certo sguardo carico di significato a partire dal quale potrebbe costruirsi tutta una reinterpretazione del quadro, ma solo un posto apparentemente innocuo, come se fosse stato fatto così, per accidente, un po’ per caso, perché l’idea è saltata fuori da sola, come se non si desiderasse troppo far notare la cosa, come se dovesse essere una firma per iniziati e basta, qualcosa come un marchio di fabbrica solo permesso all’autore dal committente dell’opera, qualcosa che non doveva essere noto che a pochi e subito dimenticato: morto il pittore, poi, sarebbe diventato un aneddoto trasmissibile di generazione in generazione, di studio in studio, una leggenda cui nessuno avrebbe più creduto, fino al giorno in cui se ne fosse riscoperta la prova, grazie a fortunati controlli di concordanza o confrontando il quadro con degli schizzi preparatori ritrovati nelle soffitte di un museo, oppure in modo del tutto fortuito, come quando, leggendo un libro, si trovano frasi già lette altrove: e forse allora ci si renderà conto di quanto c’era sempre stato di un po’ particolare in quel piccolo personaggio, non solo una maggiore accuratezza nelle rifiniture del volto ma anche una maggiore neutralità, o un certo modo di chinare impercettibilmente il capo, qualcosa di simile alla comprensione, a una specie di dolcezza, a una gioia forse sfumata di nostalgia. »

Georges Perec - La vita istruzioni per l'uso - Capitolo 51 - Camere di servizio, 9 - Valéne -

lunedì 30 dicembre 2019

Sacrificatori, vittime e sapienti

«Il Goethe che, con singolare coraggio, - come ricorda Thomas Mann - aggiunse la sua firma alla condanna a morte di un’infanticida, sapeva bene quale senso abbiano i sacrifici umani. E in questo senso Thomas Mann aveva ragione nello scrivere di Goethe "quale esponente dell’età borghese". Il Faust non è forse opera di un poeta faustiano? Nell’istante in cui gli contrapponiamo gli anti-faustiani Demoni o Fratelli Karamazov, ci accorgiamo che la nozione di "grandezza" ci si sforma nelle mani tanto da renderci incapaci di porgerla. È davvero un problema di demitologizzazione. Si tratta di trovare scampo dal vicolo chiuso dei grandi sacrificatori o delle grandi vittime: e, per trovar scampo, non bastano i grandi sapienti, giacché la storia ci insegna quanto breve sia il passo dalla gnosi al manicheismo.» ( Furio Jesi - Spartakus - Simbologia della rivolta )

sabato 28 dicembre 2019

A strati, come cipolle

«Balzac stesso, che pretendeva di creare i suoi personaggi fittizi come se fossero dagherrotipi, disse al suo amico Nadar, il primo e più famoso fotografo ritrattista di tutta la Francia, che anche lui aveva il terrore di essere fotografato. Balzac, con le sue tendenze mistiche, poteva immaginare l'essere umano solo come se fosse un essere costituito da più strati ottici - come una cipolla - del quale ciascuna fotografia rimuoveva ed archiviava lo strato in superficie, staccandolo così dalla persona fotografata. La fotografia successiva rimuove lo strato successivo e così via - fino a causare la scomparsa delle persona che veniva fotografata, trasformandola così in una fantasma senza corpo. Edgar Allan Poe, che aveva scritto anche lui sul miracolo della fotografia, generalizzava questa fantasmagoria, arrivando alla tesi per cui le immagini in generale sarebbero fatali per il loro soggetto ("Il Ritratto Ovale"). Il pittore di Poe ritrae la sua amata senza accorgersi che nella misura in cui il ritratto ad olio acquista il colore della carne umana, l'amata diventa sempre più pallida. Con il suo difetto relativo al deterioramento dei pigmenti, la pittura applica il suo effetto fotochimico contro l'essere umano stesso. Quando il pittore di Poe completa il suo quadro, l'amante muore. Ancora una volta, spetta all'analisi mediatica sottolineare come gli spettri o (come direbbe Jürgen Link) i simboli collettivi storici si appoggino alle tecnologie. Le paure di Balzac o di Poe descrivono il fatto che viene evidenziato dalla teoria di Arnheim, secondo il quale con la fotografia sarebbe nata una tecnica di archiviazione che, per la prima volta, riproduceva l'oggetto rappresentato nella sua inconcepibile materialità».  

(Friedrich Kittler - "Optische Medien".)

venerdì 27 dicembre 2019

« Peccato l’argomento! »

La vera storia della coppia più folle della comicità italiana dai primi anni di vita, alle prime uscite serali in compagnia di artisti come Piero Manzoni e Lucio Fontana, le canzoni in osteria, l'approdo al cabaret, il debutto in televisione e i film girati insieme. Una pausa di 25 anni. E... Taaac! Un ritorno all'insegna di una comicità che con le galline, dei cani molto magri, il mare a Milano e tante belle gioie non riesce a passare mai di moda.

(dal risvolto di copertina di: "Cochi e Renato. La biografia intelligente", di Andrea CiaffaroniSandro Paté. Sagoma editore.)

La comicità? Parla milanesco
- di Stefano Bartezzachi -

Era il 2005, ma alla Iulm di Milano, fermata Romolo della metro verde, ne parlano ancora. Alla discussione della tesi di laurea di cui era l'argomento Enzo Jannacci si presentò regolarmente, cioè con quattro ore di ritardo. Data l'eccezionalità della circostanza, la commissione non sì ritirò a deliberare il voto prima di avergli chiesto cosa pensasse del lavoro del laureando. Bene, ne pensava: e lo disse. Aggiunse però una clausola: "Peccato l'argomento». Un campione tanto rappresentativo dell'eloquenza jannacciana non poteva che diventare, diversi anni dopo, titolo del libro ricavato da quella tesi. Autore di testi e libro era Sandro Paté (Peccato l'argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci, Log editore 2014), che di mestiere fa il copywrighter e il content manager ("oh, yes", chioserebbe il suo biografato), ma che da allora ha continuato a coltivare la sua vocazione parallela. Dopo un libro dedicato a Guido Nicheli, quello di Milano-Cortina, due giri di Rolex, Paté ora firma assieme ad Andrea Ciaffaroni, "Cochi e Renato. La biografia intelligente" (Sagoma editore), e quella sua vocazione si definisce meglio: diventare cronista postumo ed etnologo di quel "giro" (milieu, koinè, semiosfera) costituito dalla comicità milanese. Se ci si consente il neologismo, Paté si propone come un autorevole studioso del "milanesco". Il "milanesco" è qualcosa che rende liturgico l'uso dell'aggettivo (peraltro privo di senso) "stralunato". Facciamo un esempio. «La gallina non è un animale intelligente, ma denudata, oliata, portata a centoventi gradi perde ogni scontrosità e diventa molto buona». È una battuta? Ad accontentarsene si può anche rispondere di sì, ma non è una gran battuta. Per come entrava nello sketch di Cochi e Renato era però parte di un mondo, il mondo che si sprigionava dall'incontro di un poeta e di un contadini. Lassù, a milletré.
Chiamasi insomma qui, e per mera sintesi giornalistica, "milanesco" una parlata solo occasionalmente dialettale, caratterizzata da intonazione, vocali strane, strascicate e aperte o chiuse un po' a sproposito, e ritmo interiettivo sincopato. Nonché, e ovviamente, i precetti morettiani invertiti: "la Silvia" e non "Silvia", "cagare" e non "cacare", "figa" e non "fica". Non certo per contribuire ai nuovi e ridicoli campanilismi. Anzi fra Milano e Roma, in fatto di parlar chiaro e svelto, sin dai tempi di Porta e Belli le cose migliori vennero non da spallate ma da spalleggiamenti reciproci, come per esempio fra Gassman e Sordi nella Grande Guerra. Il nome di "milanesco" esce proprio dall'idea che fine a neanche tanto tempo fa il milanese poteva funzionare come il romanesco di oggi (e di sempre): una logica ancora prima che una lingua, un'inflessione che è uno sguardo sul mondo, nonché un repertorio sempre aggiornato e rinnovato di materiali sillabici e concettuali disponibili per l'assemblaggio istantaneo di battute pronte. Cabaret? Comicità? Flavio Oreglio, che è noto per ragioni di catarsi ma del cabaret è anche archivista e studioso, distingue: «oggi basta che uno dica due cazzate che subito si dice "quello lì è un comico". Sarebbe come definire matematico il mio amico Carlo perché ha l'abitudine di dire "tutto sommato"». E poi puntualizza: «Il cabaret può aprire a discorsi e mondi molto vasti che comprendono l'arte, la poesia, la canzone d'autore, il disegno satirico...». Tanto vasti i discorsi, da far star vicini, per dire, Piero Manzoni e Enrico Beruschi, Massimo Boldi e Renato Vallanzasca. Basta scorrere l'indice dei nomi della biografia di Cochi e Renato di Paté per appurarlo. Il "milanesco" era infatti una lingua per tutti, come hanno dimostrato Giorgio Porcaro e Diego Abatantuono che ne fecero l'irresistibile pidgin del loro integratissimo terrunciello. Tra i padri fondatori va certo annoverato Dario Fo, che è stato maestro di Jannacci e tutti gli altri fino almeno a Paolo Rossi, ma che però ha poi preferito inventarsi non una ma almeno un paio di altre lingue sue personali (il Grammelot e il Padàn, da tenersi distinti), lingue che era il solo a saper parlare ma che in compenso potevano essere intese sino a Stoccolma. Gli innesti da fuori - da fuori Milano e/o dal giro stretto del cabaret - comprendono nomi come Umberto Eco e Oreste del Buono, e diramazioni che poi giungono sino allo Zelig di viale Monza e a quello di Cologno Monzese, come a dire Mediaset.
Quel mondo là è ampiamente inabissato e ora sta trovando chi lo racconta. Si va per aneddoti, frammenti di memoria collezionati da appassionati come Paté, messi in fila da protagonisti come Teo Teocoli, a volte ricostruiti dagli eredi diretti, per esempio il Paolo (Enzovic) Jannacci, o la Marina (Beppova) Viola, a cui si devono libri testimoniali anche difficili da scrivere, perché il milanesco è un mondo ampiamente malandrino e fa frizione con convenzioni borghesi come ad esempio la famiglia. Tutto può servire per ricostruire uno humour che corrisponde a un modo di parlare qui e là ancora funzionante (per esempio nel lavoro di Ale e Franz). Uno humour che è anche un controcanto necessario a bilanciare i trionfalismi dei grattacieli nuovi, della Scala, eccetera. "Bauscia" è la parola milanese per che tende a dare sempre bei voti a sé stesso. Cosa che diventa più accettabile se quel voto è espresso nel purissimo "milanesco" di Cochi e Renato: "Bravo, sette più".

- Stefano Bartezzaghi - Pubblicato su Repubblica del 14/12/2019 -

giovedì 26 dicembre 2019

Uomini sacri

Tuttavia, contrariamente ad Agamben, Robert Kurz non parte semplicemente dal presupposto secondo cui oggi siamo tutti potenzialmente «homo sacer», ma a tal proposito ne assume quelle che sono le differenziazioni. Fin dall'inizio, insieme ad ogni tipo di superflui: vecchi, disabili, mendicanti, disoccupati a lungo termine, ecc. abbiamo, che abbiamo da un lato, dall'altro abbiamo gli «ebrei visti come personificazione del potere e dell'alienazione, nei quali veniva proiettato l'enorme potenziale di alienazione della moderna società feticista».
In tale contesto, bisogna distinguere tra campo di concentramento, prigioni, case di lavoro e Auschwitz, nella misura in cui quest'ultimo è stato «il capo di sterminio per lo sterminio», dal momento che non aveva alcuna altra finalità (Kurz, 2003, p.360s.). Ed ancora oggi, nel periodo di disintegrazione del capitalismo, quella che si realizza è l'«esclusione inclusiva (...) secondo un modello razzista e antisemita la cui struttura è polarizzata a partire da quella che è una "vita indegna di essere vissuta", da una parte, e dall'altra nella proiezione fantasmatica di un principio di "razza aliena" la quale dev'essere sterminata» (Kurz, 2003, p.362).
Ora, ciò che attira l'attenzione, nonostante tutta l'insistenza che viene fatta sulle differenziazioni, è che sia nella critica di Deuber-Mankowsky, così come in quella di Kurz, ad Agamben, manca il riferimento agli zingari, dei quali - essendo stati assassinati ad Auschwitz similmente a come è avvenuto con gli ebrei - alla fine non viene in nessun modo tenuto conto.
Gli zingari, come gruppo di popolazione, non solo venivano considerati «razza straniera», come avveniva con gli ebrei, ma vennero anche realmente dichiarati «banditi» (vogelfrei) varie volte nel corso della storia della modernizzazione, contrariamente agli ebrei. Dobbiamo ripetere e ricordare alcune delle affermazioni finora sostenute, al fine di dimostrare quale sia stata la dimensione reale del dramma dell'antiziganismo nella Modernità e nel capitalismo, mettendo in evidenza, in tale contesto, il ruolo avuto dall'homo sacer dello zingaro, che appare chiaramente evidente. A questo punto, bisogna nuovamente ancora una volta fare riferimento a Wolfgang Wippermann: «Non sono a conoscenza di alcun fenomeno parallelo, in cui un intero gruppo etnico, tutto un popolo, sia stato dichiarato come bandito. Questo costituisce un caso a parte nella storia giuridica tedesca» (Wippermann, 1999, p. 95). La persecuzione degli zingari viene spiegata, da un lato, attraverso il processo di imposizione della disciplina nella Modernità e a partire dall'emergere dell'«etica protestante» e, dall'altro lato, per mezzo della «xenofobia», che ha risparmiato i vagabondi e i mendicanti. La cosa si legava all'attribuzione di poteri magici e alla recriminazione nei confronti degli zingari, a causa della loro carnagione scura, che venivano visti come alleati con il diavolo. Ancora prima dell'antiziganismo razzista, esisteva già un  antiziganismo religioso.
Come abbiamo dimostrato in questo saggio, nel 20° secolo si erano già avuti «campi di concentramento per zingari» nella Repubblica di Weimar: «I Sinti e i Rom continuavano ad essere discriminati come prima, sebbene fossero cittadini tedeschi che pagavano le tasse e dovevano svolgere il servizio militare (...). In diverse città, i Sinti venivano obbligati a vivere in "campi per gli zingari", alcuni dei quali, per esempio a Francoforte, venivano perfino denominati ufficialmente come "campi di concentramento"» (Wippermann, 1999, p. 101).  La «peculiarità zingara era già nota fin dalla metà del 19° secolo attraverso registri speciali e poteva essere vista nei documenti di identificazione». Inoltre, ricordiamo che: «I Sinti e i Rom erano un gruppo di popolazione che veniva discriminato secondo una forma che non ha paralleli, veniva privato dei suoi diritti e sorvegliato per motivi essenzialemente razzisti. Venivano sottomessi a delle leggi speciali  ed erano cittadini con diritti ridotti» (Wippermann, 1997, p. 114 s.), e questo sia al tempo dell'Impero così come nella Repubblica di Weimar, sebbene che le «leggi sugli zingari» fossero chiaramente incostituzionali.
Come abbiamo già detto, pur senza arrivare a menzionare nella sua argomentazione i Sinti e i Rom, Kurz constata quanto segue: «A caratterizzare lo stato di eccezione propriamente detto, dal momento che raramente è esistito prima della Modernità, è una manifestazione particolare di "anomalia", accompagnata da una specifica modalità di internamento di quelle che sono parti significative della popolazione; in realtà è da tutto questo che proviene il concetto di "campo di concentramento". In tal caso, non si tratta di prigioni convenzionali inquadrate dal diritto penale, ma piuttosto di "registrazioni" precedenti o al di fuori di ogni diritto. In questo caso, la registrazione avviene al di là di ogni azione da parte degli organismi di mediazione; diventa immediata» (Kurz, 2003, p. 352).

- da: Roswitha Scholz, "Il sesso del capitalismo. Teorie femministe e metamorfosi postmoderna del capitale" -

mercoledì 25 dicembre 2019

Prigionieri!

Scritto a quattro mani da due figure di spicco del mondo che si muoveva oltre il limite della legalità negli anni settanta, alternando un racconto milanese con uno torinese, Figli delle catastrofi affronta spaccati di vita segnati fortemente dalla ribellione: Stefanini è stato un bandito e ha fatto parte della più importante batteria di quagli anni: la banda Vallanzasca, protagonisti di rapine e conflitti a fuoco che hanno segnato in maniera indelebile la cronaca. Panizzari è stato uno dei fondatori dei Nuclei armati proletari, il suo nome era nell’elenco dei 13 prigionieri di cui le Brigate rosse avevano chiesto la liberazione in cambio del rilascio di Moro. Alternando le due voci, in un dialogo di ricordi serrato e veloce come il più accattivante dei noir, Figli delle catastrofi narra gli enormi cambiamenti nel sottobosco della malavita, con tanta azione e le riflessioni profonde di chi quel mondo lo ha attraversato. Uno spaccato di cronaca e di storia recente che è al tempo stesso una lettura di vite condotte sul margine, a cui è difficile rimanere indifferenti.

(dal risvolto di copertina di: Giorgio Panizzari e Tino Stefanini, "Figli delle catastrofi. Ribelli e rivoluzionari", prefazione di Davide Steccanellale Milieu edizioni, collana Banditi senza tempo 15,90€)


Panizzari, un bambino figlio delle catastrofi
- di Gioacchino Criaco -

I punti di instabilità iniziale, secondo Renè Thom, non sono soggetti a configurazioni caotiche, ma sono soggetti a forme topologicamente stabili e ripetibili, addirittura indipendenti dal substrato, nel senso che le forme di stabilità del caos sono indipendenti dal fenomeno fisico analizzato, sia esso fisico, chimico, biologico, linguistico, storico, psicologico o altro ancora. Così, tra una condizione iniziale che porta all’equilibrio 1, e quella che porta all’equilibrio 2, esistono delle condizioni iniziali (instabili), per le quali non è possibile prevedere se il risultato sarà 1 o 2, in questi casi, si dice che il sistema è in condizioni catastrofiche e una piccola variazione delle concentrazioni iniziali in una direzione o l’altra, può comportare fortissime differenze sui risultati finali.
Per Giorgio Panizzari, fra i fondatori dei nuclei armati proletari (Nap), in carcere dal 1970, lui e gli extralegali della sua generazione sono figli di una catastrofe, forse impossibile da evitare e che, comunque, nessuno ha cercato di impedire. Per lui il primo arresto è arrivato a quindici anni, bambino, una fase della sua vita in cui era, lui, terrorizzato, dall’uso della violenza, dalla prospettiva spaventosa di causare ad altri un dolore fisico. Ora Giorgio Panizzari ha settant’anni, 50 vissuti intensamente dentro una galera, si sente ancora figlio non di un contesto sociale ma di un procedimento matematico, milioni di volte provato dalla vita. Dice che non avrebbe fatto scelte diverse, tornando indietro, che non c’erano altre scelte, per questo non è mai diventato un pentito, un dissociato, non ha mai cercato scorciatoie alla pena inflittagli. Ha resistito alla prigione mentale del sentirsi carcerato, sentendosi al massimo prigioniero, e sugli anni detti di piombo è sicuro che ormai non abbia più senso alcuna discussione: tutti i treni sono stati persi, i protagonisti sono passati altrove.
Non c’è un ragionamento da fare che non sia altro che un rivangare ricordi. Adesso scrive, scrive della sua galera, lo fa con Tino Stefanini, uno degli ultimi superstiti della banda della Comasina, anche lui con mezzo secolo dentro. Parlano delle amicizie estreme, di quell’affetto potente che cinge vite paradossali. Giorgio ha presentato il suo libro Figli delle Catastrofi, da solo, lui ha avuto il permesso di farlo, a Tino, il magistrato di sorveglianza ha negato il permesso, nella sala della presentazione c’è un amico di Tino, galeotto, a lui un altro magistrato ha dato il permesso di assistere alla presentazione del libro di Tino. E Renato Vallanzasca, che sta in carcere con Tino, se n’è uscito con una delle sue battute: “hanno avuto paura che Tino rubasse, anche se a una presentazione ci sono solo libri, e Tino non ha mai rubato libri, e poi qua il libro è pure suo”. Ci sono ancora bambini, anche se stanno a settanta e passa anni, che continuano a essere figli delle catastrofi, frutti di un modello matematico che nessuno prova a cambiare.

- Giocchino Criaco - Pubblicato sul Riformista del 17/11/2019 -

martedì 24 dicembre 2019

Dall’alto in basso

Sicuri di sé, compiaciuti, perennemente affascinati dal proprio riflesso nell'acqua. Armati di smartphone e ansiosi di scattare l'ennesimo selfie per rendersi protagonisti della scena. Le forme che può assumere il narcisismo sono tante, fino a renderci innegabilmente odiosi. Ma il narcisismo è sempre un deplorabile nemico? Non sempre, risponde il filosofo Simon Blackburn. E con un'arguta analisi che parte dai miti del passato, attraversa le epoche storiche, filosofiche e letterarie e arriva fino agli slogan pubblicitari di oggi, attingendo alla sapienza di Aristotele, Cicerone, Erasmo, Rousseau, Adam Smith, Kant e Iris Murdoch, Blackburn offre un'esplorazione a tutto tondo delle tante, variegate e a volte singolari forme che può assumere l'amor proprio. Tuttavia, sostiene Blackburn, se l'egoismo è un male da combattere, non lo è invece la cura dell'io: guardarsi allo specchio e magari ammettere di non poter resistere a certe pulsioni è segno di grande sincerità verso se stessi. Quale essere umano, infatti, non ha mai desiderato ricevere delle lodi? E chi di noi, nel soffrire o gioire per gli altri, riesce a dimenticare completamente se stesso?

(dal risvolto di copertina di: Simon Blackburn, "Specchio delle mie brame. Pregi e difetti del narcisismo". Carbonio editore.)

L'epoca della passione soprattutto per sé stessi
- di Anna Li Vigni -

«Se gli altri si esaminassero attentamente, come faccio io, si scoprirebbero pieni di inanità e di insensatezza. Liberarmene non posso senza liberarmi di me stesso. Ci siamo tutti immersi, chi più chi meno». Parole sensate quelle di Michel de Montaigne. L'esistenza umana è un faticosissimo sottoporsi a un gioco di specchi: sia esteriori in quanto riflettiamo le opinioni che la società rinvia su di noi, sia interiori, in quanto ci sottoponiamo ad un costante autoesame.  In queste condizioni, mantenere l'equilibrio può risultare davvero difficile. Il filosofo inglese Simon Blacknurn, nel brillante pamphlet intitolato "Specchio delle mie brame. Pregi e difetti del narcisismo", prova a smascherare l'imperante narcisismo odierno, presente in molte diaboliche trovate del marketing pubblicitario - per esempio di prodotti che promettono di renderci dei «vincenti» - nonché nel mondo della politica, per dimostrare quanto esso sia divenuto un'emergenza sociale, resa estrema dalla pervasiva propagazione in rete. Narciso era un bellissimo ma orgoglioso giovinetto, che altezzosamente rifiutava ogni proposta d'amore: fu così che, specchiandosi in una fonte, finì per innamorarsi della sua stessa immagine. Il mito è noto: in fondo, Narciso fece male solo a sé stesso. Oggi il narcisista è più pericoloso perché è glamour - ironizza lo scrittore -; essere narcisisti è un punto d'arrivo per chi aspira a salire su un piedistallo sociale per poi rimanervi saldamente ancorato, potendo provare il piacere di guardare all'umanità dall'alto in basso.
Vari studi di psicologia hanno identificato quattro principali aspetti del narcisismo: leadership/autorità; egocentrismo/ammirazione di sé; superiorità/arroganza; sfruttamento degli altri/sensazione che tutto sia dovuto. Il povero pastorello del mito era solo un egocentrico. Ma pensiamo a quanti leader di vari settori della vita sociale possono rientrare in ognuna di queste categorie. Purtroppo siamo abituati ad assistere al triste spettacolo dell'arroganza, dell'autoesaltazione, della denigrazione degli altri da parte di molti che affollano le pagine web degli haters a livello globale. Potrebbe sembrare strano che persone di tal genere possano riuscire a imporsi sugli altri e avere successo. Eppure è così. In un esperimento condotto da Belinda Board e Katarina Fritzon, sono stati messi a confronto, in due gruppi, importanti uomini d'affari e pazienti psichiatrici di un centro di detenzione inglese. Ebbene: i due gruppi di pazienti erano indistinguibili, anche se nei manager era presente una maggiore predisposizione all'istrionismo.
L'innamorato di sé stesso, pur essendo in realtà un insicuro patologico, appare affascinante e ha presa sugli altri, perché li fa sentire inferiori incutendo in loro un sentimento di sudditanza: riesce nell'arte finissima di destare l'ammirazione, se non l'invidia, di coloro che in verità egli disprezza con tutto sé stesso. Pur dipendendo dall'opinione altrui, egli nutre un orgoglio smisurato, in realtà solo un fragile paravento che cela ai suoi stessi occhi le proprie mancanze. Filosofi di tutti i tempi hanno cercato di insegnare un metodo per arginare questo vizio abbastanza comune.
Lasciando da parte gli impraticabili rigori dell'imperativo categorico di Kant, molti pensatori - a partire da Aristotele, passando per Hume - suggeriscono il metodo «sbagliando si impara», considerano cioè la virtù un percorso a ostacoli, fitto di cadute e di riprese, verso il miglioramento di sé. Tutta la questione verte sul concetto di autostima, un'attitudine sana e salvifica volta ad avere rispetto per sé stessi, ma che può sfociare in un narcisismo dannoso per sé e per gli altri. Lo sottolinea Rousseau, che pure era un gran narcisista, distinguendo fra un virtuoso amour de soi ed un vizioso amour prope.
Blackburn non ha ricette per la felicità o la virtù, ma mette in guardia i lettori dal non farsi contagiare dallo «spirito dei tempi», che fa dell'avidità di ricchezza il valore portante della società, che considera il narcisismo necessario per sopravvivere - soprattutto sui social network - e l'umanità e il decoro valori obsoleti e fuori moda.

- Anna Li Vigni - Pubblicato sul Sole dell'8/12/2019 -

lunedì 23 dicembre 2019

la hojaldra y el mole

«Adorno a Puebla»
di John Holloway

Non sappiamo esattamente in che data Theodor Adorno arrivò a Puebla, e neppure come ci fosse arrivato. C'è che dice che sia arrivato passando dalla Grecia e grazie al suo allievo Kosmas Psychopedis. Altri raccontano l'abbia fatto attraverso l'Argentina e durante la rivolta del 2001/2002. L'unica cosa che sappiamo di sicuro è che era stato visto ad un incontro nella Selva Lacandona con il comando zapatista, poche settimane prima di arrivare a Puebla. Lo sappiamo perché l'incontro è stato ben documentato in una articolo di  Sergio Tischler dal titolo: “Bakhtin e Benjamin nella Selva Lacandona”. È vero che Sergio in questo articolo non parla di Adorno, ma appare evidente a tutti quelli che erano presenti che ci fossero anche Ernst Bloch e Theodor Adorno. Probabilmente Sergio non li ha visti a causa dei passamontagna che indossavano. Sia come sia, sappiamo che Adorno arrivò a Puebla poche settimane dopo, durante un primo di novembre circa trent'anni dopo la sua morte, così come sappiamo che gli piaceva così tanto la hojaldra y el mole che decise di restare. Conosceva Sergio fin dall'incontro in Chapas, ed è per questo che si fermò ad assistere al seminario sulla Soggettività e la Teoria Critica. Da allora è diventato una presenza costante.
Il soggiorno in Chapas ha avuto senza dubbio un'influenza decisiva sulle idee di Adorno dopo il suo arrivo a Puebla. Lì trovò, nella pratica dei zapatisti, qualcosa che aveva cercato per tutta la vita, soprattutto dopo Auschwitz: la speranza in un mondo dove davvero non c'è più speranza. È questo il tema centrale della sua Dialettica Negativa. Adorno non è Bloch: non torna dall'esilio dicendo che «ora dobbiamo imparare la speranza». Il tono è molto più negativo: «come possiamo continuare a vivere quando sappiamo che l'unica ragione per cui restiamo vivi è che condividiamo la disumanità che ha reso possibile questa catastrofe?» Il tono è negativo ma non disfattista. La sua opera è una continua ricerca, la ricerca di una via d'uscita per un mondo che si sta chiudendo, una via d'uscita che si sta chiudendo.
Ecco perché ci interpella in maniera così diretta. Ecco perché rimaniamo affascinati da lui, nonostante tutto, malgrado la sua impenetrabilità. Ora, nel 2019, nel Messico e in tutto il mondo viviamo sul filo del rasoio, sospesi tra speranza e disperazione, e Adorno tutto questo lo esprime meglio di chiunque altro. Come fare a continuare a vivere, in un mondo in cui osserviamo tutti gli orrori del Messico, dell'Argentina, del Brasile, della Germania, della Gran Bretagna, della Spagna, del mondo in cui viviamo ogni giorno?

Come continuare a vivere? Come fare a trovare una speranza? La risposta di Adorno è nei termini dell'identità e della non identità. Auschwitz è stata l'espressione suprema del pensiero identitario. L'identità materiale e concettuale nasce dall'equivalenza inerente al scambio di merci. In questo modo, Adorno estende la critica che fa Marx nel secondo capitolo de Il Capitale. Marx dice che se abbiamo una società basata sullo scambio di merci, avremo una personificazione degli esseri umani, vale a dire, un'astrazione e un'individualizzazione degli esseri umani riguardo a quello che è il loro ruolo sociale in quanto portatori di merci. Credo sia questa l'idea che Adorno sviluppa nella sua critica filosofica dell'identità. Il capitalismo si caratterizza per il dominio dell'identità, come momento del dominio della merce. Il dominio dell'identità è allo stesso tempo il dominio della logica formale, di questa derivazione o concatenazione logica mortale che si trova al centro della critica di Marx al Capitale. La ricchezza umana, questo meraviglioso movimento assoluto del divenire umano, esiste - ci dice Marx fin dalle prime righe del Capitale - sotto forma di merce. Da una tale base sociale deriva una sequenza di morte: se c'è merce, allora abbiamo valore; se abbiamo valore, dunque lavoro astratto; se lavoro astratto allora denaro; se c'è merce-valore-lavoro astratto- denaro, ecco identità, interviene Adorno, e continua poi Marx: quindi capitale; se c'è capitale, allora sfruttamento; se sfruttamento, ecco che abbiamo accumulazione; e qui arriva Pasukanis che aggiunge: se c'è merce, e tutto il resto, ecco allora Stato; e noi possiamo continuare: se c'è accumulazione, ecco che abbiamo distruzione della campagna e delle altre forme di vita; se c'è accumulazione allora c'è guerra; se c'è accumulazione c'è riscaldamento globale; se c'è riscaldamento globale c'è annientamento. È questa logica identitaria, questa logica totalitaria, che va integrando questa logica formale che oggi stiamo vivendo: se c'è merce allora c'è annichilimento umano o, per essere ancora più chiari: se continua ad esistere il dominio del denaro saremo costretti a proseguire lungo la strada dell'estinzione.
Dov'è la vita in una simile sequenza fatale? Dov'è la speranza di un mondo degno di essere vissuto? Nella non-identità, in tutto quello che rompe con l'identità.
Nello stesso modo in cui, nel Capitale, Marx elabora un mondo soggiacente e latente, fatto di ricchezza, di valore d'uso, di lavoro concreto (ma senza che esso mostri realmente quello che è il suo potenziale rivoluzionario), anche per Adorno esiste un mondo sovversivo, nascosto, un anti-mondo, il mondo della non identità. Forse sarebbe meglio parlare di anti-identità, perché è ovvio che esiste un antagonismo tra l'identità e la non identità, ma egli non usa questo termine (o almeno non lo usava prima di arrivare a Puebla). La non identità è tutto ciò che non rientra nell'identità, tutto quello che trabocca, ciò che non si lascia sottomettere dentro l'identità totalizzante, una forza sotterranea, sovversiva, particolarizzante.
Noi riconosciamo le non identità. Le riconosciamo perché, con altri colori, le abbiamo visto in Bloch, come un non ancora, come se questo mondo che non potrebbe esistere esistesse già come un non ancora, in quanto forza del potenziale che viene negato. Ma qui, con Adorno, la non identità non è tanto un sogno quanto piuttosto una minaccia, una forza minacciosa, un pericolo. Una minaccia per loro, per i dominatori, per le identità. La ragione borghese, identitaria, «ha avuto paura del caos. Ha tremato davanti a quello che, al di sotto della sua sfera di dominio, insisteva nella minaccia e si rafforzava in proporzione al suo stesso potere» (Akal, pag.31). Quello che per loro è minaccia, per noi è speranza, è questa forza caotica non identitaria che continua ad esistere qui, sotto la sfera del dominio dell'identità, e rimane minaccioso e si rafforza in maniera proporzionale al potere dell'identità. Riconosciamo la non identità, perché lo siamo. Siamo noi questa minaccia che non fa parte dell'identità, che trabocca da essa, siamo noi la forza caotica e minacciosa che incute paura al dominio dell'identità, questa forza che si rafforza proporzionalmente al potere dell'identità, al potere del capitale. La Dialettica Negativa è una ricerca, un tentativo di recuperare teoricamente la forza della non identità che assai spesso perdiamo di vista. «La dialettica è la coscienza conseguente della non identità» (Akal, pag.17).

L'opera di Adorno è, alla fine, un inno alla non identità, a tutto quello che non si adatta, a ciò che non è subordinato al dominio dell'identità, al dominio del denaro. Adorno è profondamente anarchico, sebbene io sospetti che prima di arrivare a Puebla non se ne sia mai reso conto. Una domanda chiave per un congresso su Adorno (in particolare, un congresso su quell'Adorno che ha continuato a crescere dopo essere morto) attiene al significato politico della non identità. Se il dominio del capitale è il dominio dell'identità, allora una politica anticapitalista non può essere altro che una politica anti-identitaria. Ma cosa significa questo? Adorno non ci è molto di aiuto. Quel che sorprende è che la questione non sia mai stata sollevata nel corso della sua vita. Per esempio, nel documento in cui parla con Horkheimer sulla possibilità di scrivere insieme un manifesto comunista, non parla di una politica anti-identitaria. Sembra che egli abbia concepito la questione dell'identità solamente in termini filosofici. E in ciò credo che il suo dialogo con gli zapatisti sia stato molto importante: gli aperto un'altra forma di pensare alle implicazioni politiche delle sue idee filosofiche. Quindi la domanda che ci viene posta: che cosa significa dire che la politica anticapitalista va intesa come politica anti-identitaria? Non ha una risposta, ma diverse idee:
Innanzitutto, si tratta di una politica della latenza, che parte da ciò che è nascosto, da ciò che non è sottomesso ed esiste sotto la superficie. In questo, riconoscimento e sensibilità giocano un ruolo importante: il riconoscimento delle molteplici forme di mancanza di sottomissione in noi e negli altri, il rifiuto di squalificare gli altri solo perché in superficie appaiono essere sottomessi. Questo processo di riconoscimento e di visibilizzazione ha svolto un ruolo importante negli ultimi trent'anni (donne, indigeni, gay, ecc.) in quanto ci sono sempre delle resistenze che non riconosciamo. Una politica della latenza è una politica di tutto ciò che esiste sotto la superficie, che lotta dentro, contro e oltre il primato del soggetto, il primato dell'identità. È chiaro che la non identità, ciò che è latente, si trova ad essere contaminato dal soggetto, dall'identità. Sarebbe assurdo pensare ad una purezza rivoluzionaria, sarebbe un modo di riprodurre il pensiero identitario, capitalista.
Una politica anti-identitaria è una politica di resistenza e di ribellione. L'identità è un attacco costante, un processo di identificazione, di totalizzazione, di subordinazione alla logica della distruzione. È per questo che la non identità dev'essere intesa come anti-identità, come resistenza attiva. L'identificazione è un attacco totalizzante, omogeneizzante, ed è questo il motivo per cui la resistenza anti-identitaria è una lotta de-totalizzante che cerca di creare un mondo fatto di molti mondi che cerca a sua volta di emancipare quelle differenze che ora non possono esistere come differenze, ma solo come contraddizioni. Pensare una politica di differenze, ci invita a pensare ad una moltitudine di lotte diverse, ciascuna dalla propria parte: lotta di donne, lotta di indigene, lotta di ecologisti, ecc. Questa è una tendenza molto forte nelle attuali politiche di resistenza, ma ci appare come se fosse pericolosa, in quanto ci impedisce di vedere l'unità di un attacco che ci sta spingendo all'estinzione, ci impedisce di vedere il primato del soggetto, l'unità e la forza dell'aggressione monetaria-capitalista-identificante.
Una politica anti-identitaria si oppone ad una politica delle differenze, all'idea della resistenza vista come una moltitudine di identità distinte: donne, indigene, curdi, neri, ecc. È chiaro che c'è un flusso costante di ribellione, che a volte la grande spinta contro il dominio può apparire palpabile in un luogo piuttosto che in un altro, ora è in Rojava, in Cile, in Ecuador, Colombia, Chiapas, Hong Kong, l'attuale lotta delle donne in tanti posti diversi, ma nel momento in cui queste lotte assumono un'identità si perdono. Il grande merito degli zapatisti, è stato quello di rifiutare l'etichetta di una lotta indigena e proclamare di essere indigeni e molto altro.
Una politica anti-identitaria è una politica che si oppone alle definizioni, anti-classificatoria, anti-istituzionale, antistatale, irrequieta, è una ricerca incessante, un rifiuto dell'idea che ci possa essere già una risposta. Non abbiamo nessuna risposta. Continuiamo a rimanere seduti in un treno logico-identitario che ci sta portando verso l'estinzione. Ed è per questo che è importante parlare di Adorno a cinquanta anni dalla sua morte, e circa venti dopo dal suo arrivo a Puebla.

- John Holloway, novembre 2019.

Este texto pertenece a la Conferencia inaugural en el Congreso «La Teoría Crítica: 50 años después de Adorno», Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades Alfonso Vélez Pliego, Posgrado de Sociología, BUAP, Seminario Subjetividad y Teoría Crítica, Puebla, México, 27 de noviembre de 2019. Enviado por el autor para su publicación en Comunizar.

fonte: Comunizar

domenica 22 dicembre 2019

Maledette zanzare!!

Un'opera pionieristica e innovativa di narrativa saggistica che offre un nuova drammatica prospettiva sulla storia dell'umanità, che ci mostra come, nei millenni, la zanzara sia stata la singola forza che con maggior potenza abbia determinato il destino dell'umanità. Perché in India e in Africa il cocktail preferito dai coloni inglesi era il gin tonic?, Chi deve ringraziare Starbuck per il suo dominio globale? Che cosa è stato a proteggere per millenni la vita dei Papi? Perché la Scozia ha ceduto la sua sovranità all'Inghilterra? Durante la Rivoluzione americana qual è stata l'arma segreta di Washington? La risposta a tutte queste domande, e a molte altre, è la zanzara. In tutto il nostro pianeta, fin dagli albori dell'umanità, questo nefasto parassita, all'incirca delle dimensioni e del peso di un seme d'uva, si è trovato in prima linea in qualità di Tristo Mietitore delle popolazioni umane, e come agente finale del cambiamento storico. Nella misura in cui la zanzara trasformava i paesaggi della civiltà, agli esseri umani veniva inconsapevolmente richiesto di rispondere a quello che era il suo penetrante impatto. La zanzara ha determinato il destino degli imperi e delle nazioni, ha distrutto e paralizzato economie intere, e ha deciso il risultato di guerre cruciali, nel mentre che, nella sua strada, uccideva quasi metà dell'umanità. Lei (è solo la femmina che morde) ha mandato al creatore un totale stimato di 52 miliardi di persone - su un totale di 108 miliardi in quella che è stata la nostra relativamente breve esistenza. In quanto maggior fonte di sterminio che abbiamo mai conosciuto, ha svolto un ruolo di primo piano nel plasmare la nostra storia umana, superiore a quello di qualsiasi altra creatura vivente con cui condividiamo il nostro villaggio globale. Riuscite a immaginare per un momento un mondo senza zanzare mortali, o senza zanzare? La nostra storia e il mondo che conosciamo, o che pensiamo di conoscere, sarebbe stata completamente irriconoscibile. Spinto da intuizioni sorprendenti e da una narrazione frenetica, The Mosquito è la straordinaria storia mai raccontata del regno della zanzara attraverso la storia umana ed il suo indelebile impatto sul nostro moderno ordine mondiale.

(dal risvolto di copertina di: Timothy C. Winegard - The Mosquito. A Human History of our Deadliest Predator - Dutton, New York.)

A cosa servono le zanzare
- di Arnaldo Benini -

Lo storico inglese Denis Mack Smith, nella Storia d’Italia dal 1861 al 1958 ha scritto che la piaga della malaria venne sradicata grazie a nuovi insetticidi portati dai soldati inglesi e americani, e che «forse non sarebbe esagerato affermare che questo fu il principale avvenimento di tutta la storia italiana moderna». La malaria venne «sradicata» non per l’eliminazione degli agenti patogeni (cinque specie di Plasmodium), ma per la decimazione (non l’estirpazione) delle zanzare (le anofele) che li diffondevano. Delle oltre 3.500 specie di zanzare, poche centinaia trasmettono malattie. Per l’uomo le più temibili sono l’anofele, presente ovunque e che trasmette la malaria, e l’aedes, che nelle regioni tropicali e subtropicali diffonde la febbre gialla, di cui muoiono da 30 a 50mila persone all’anno. L’autore di questo studio «sull’armata delle zanzare» non è un entomologo, ma un docente di storia in un’università del Colorado. Si occupa soprattutto della guerra dell’umanità contro il suo nemico più mortale, l’anofele, che da circa 3000 anni trasmette la malaria. Il fragilissimo insetto è «più mortale della forza umana, delle armi e delle menti dei generali». Secondo Winegard le zanzare, avendo ucciso, diffondendo malaria, febbre gialla e dengue, metà del genere umano, hanno determinato la storia più di ogni altro evento. L'insetticida DDT sparso in Italia durante la seconda guerra mondiale dagli alleati prima di avanzare verso nord, era efficace contro le zanzare e costava poco. I parassiti della malaria sono però sopravvissuti. In paesi come Sri Lanka, Cina, Venezuela, Algeria, Argentina, dichiarati malaria-free, la malattia è riapparsa («Nature» 573, 7, 2019). A dispetto della medicina e della scienza, che pur molto hanno raggiunto, le zanzare, per il carico micidiale che si portano appresso, al quale si sono aggiunti i virus Zika e West Nile (che ha già fatto alcuni morti), rimangono gli animali più pericolosi. Alexander von Humboldt, nel 1822, ammoniva che in America Latina il pericolo maggiore non erano gli animali feroci e le popolazioni ma la «plaga de las moscas», il tormento delle zanzare.
La specie umana, nonostante la fragilità fisica, è riuscita a prevalere su tutte le altre, tranne che sui parassiti: virus, batteri, vermi e funghi. Dopo secoli d'ignoranza e d'impotenza, s'è imparato a contenerli, ma non ad eliminarli, perché non si sa come estirpare una specie. Sono tornate la tubercolosi polmonare e in Medio Oriente, specie nella martoriata Siria, la poliomielite. I parassiti sono invincibili perché capolavori biologici di sopravvivenza. I loro alleati nell'attacco ad altre specie, e nella loro diffusione planetaria, sono le zanzare, le cui tracce risalgono a 190 milioni di anni orsono. Nei loro fossili c'è sangue di dinosauri. Si sono vinte molte battaglie, tant'è che la malaria non è più la tragedia di pochi decenni orsono, ma la guerra è perduta in partenza, anche perché l'uomo, alterando il mondo, facilita le zanzare a diversificarsi e a moltiplicarsi. Le zanzare diffondono oltre quindici malattie, da virus, batteri, vermi e funghi, le più frequenti delle quali sono la malaria e, nelle regioni tropicali e subtropicali, la febbre gialla. Di malattie diffuse dalle zanzare muoiono più di 800.000 persone l'anno. Solo le femmine anofele pungono assorbendo sangue e immettendo uno o più di uno dei parassiti della malaria. Nell'uomo si moltiplicano nel fegato. Dopo circa due settimane il batterio entra in circolo provocando febbri altissime, anemia, sincopi, diarrea, vomito, encefaliti. Il parassita si trova nelle ghiandole salivari della zanzara e induce la soppressione del suo anticoagulante, per cui la quantità di sangue assorbita ad ogni puntura è minima. Ciò induce la zanzara a pungere più volte, e ogni volta trasmette il parassita. È uno stratagemma del plasmodium per aumentare la diffusione.
Lo storico, prima delle sventure indotte dalle zanzare, traccia le condizioni in cui esse avvennero. Mette conto di leggere il libro già per le descrizioni delle circostanze sociopolitiche in cui le malattie fecero stragi. La guerra greco-persiana del V secolo a.C. fu decisa dalla malaria e dalla dissenteria che colpirono la metà delle truppe persiane. Alessandro Magno, durante la megalomane invasione dell'Asia, morì di malaria a 31 anni. I nugoli di zanzare delle 310 miglia quadrate delle paludi Pontine attorno a Roma, che Giulio Cesare, dice Plutarco, aveva previsto di bonificare, contribuirono a proteggerla da Cartaginesi, Germani e Unni, ma indebolirono progressivamente l'impero. I popoli dell'Africa occidentale erano resistenti alla malaria, e per questo furono vittime, più di altre popolazioni, dell'orrendo mercato degli schiavi. Durante la seconda guerra mondiale medici nazisti a Dachau, e americani in ospedali e prigioni infettarono miglia di persone di malaria alla ricerca di medicamenti. Il numero dei morti fu elevato ma mai esattamente accertato. Questi sono alcuni dei molti eventi di cui si occupa il libro. Winegard non ricorda che anche i linguaggi possono essere influenzati dalle zanzare. Il filologo Friedrich Schürr sostiene che il dialetto romagnolo - da lui studiato per decenni e incomprensibile per chi non è di quelle parti - è la lingua più prossima alle celtiche, prelatine. Ciò sarebbe dovuto alle zanzare delle paludi del ferrarese e del ravennate, che tennero alla larga Longobardi e Franchi. Romani, Bizantini e Goti evitavano di uscire dalle città. Winegard discute una circostanza inquietante. Esseri umani e zanzare fanno parte della biosfera e dell'ecologia globale. L'equilibrio tra le specie tiene in piedi la natura vivente. A differenza di altri insetti, le zanzare non favoriscono l'impollinazione. Il loro unico scopo ecologico sembra essere la trasmissione d'agenti patogeni, in particolare la malaria, che ha ridotto notevolmente la popolazione umana e di altre specie. La loro limitazione o estirpazione contribuirebbero alla crescita dell'umanità, che già ora si teme che vada oltre ogni bilanciamento biologico.

- Arnaldo Bernini - Pubblicato sul Sole dell'8/12/2019 -

Il più sanguinario dei predatori
- di Ermanno Bencivenga -

Una storia è un racconto; la Storia documenta il nostro passato. In italiano, la parola è la stessa, anche se qui ho scelto di scriverla, in un caso, con l'iniziale maiuscola. Nella lingua in cui Timothy Winegard ha scritto The mosquito, le parole sono due, «story» e «history»; ma la parentela è ovvia. È naturale interrogarsi in proposito: chiedersi quale sia il fondamento della relazione; se ci dica qualcosa su come leggere questi due diversi prodotti, come forse trarre da un giudizio sull'uno un giudizio sull'altro. Ci sono storie insensate, come quelle con cui si dilettano i personaggi della Cantatrice calva di Ionesco, sineddoche dell'insensatezza dell'intera commedia (o anti-commedia); ma in un caso del genere c'è qualcosa di profondamente sensato che l'autore ci sta comunicando. Ci sta parlando della vacuità, dell'autoreferenzialità di una certa forma di vita. Lo fa in modo indiretto, suggerendo con delicatezza il suo messaggio mentre mette alla berlina degli idioti. È facile fraintenderlo, e pensare che basti mettere alla berlina degli idioti. Ne scaturiranno montagne di comicità (si fa per dire) demenziale, in cui il suo lampo di genio è degradato in un tic, la sua rivelazione necessaria viene avvilita ripetendola a perdifiato e trasformandola da un annuncio in un tormentone. Come quell'altra rivelazione che Duchamp offrì con il suo orinatoio e, una stazione di via crucis dopo l'altra, ha reso molti musei templi del vuoto. Una storia, insomma, merita di essere letta, e scritta, se evoca un senso. Lo stesso vale per la Storia: la semplice registrazione di eventi non è degna di attenzione; il reality non è neanche realtà perché le intuizioni senza concetti sono cieche, perché nulla esiste (e può essere visto) se non ci insegna qualcosa.
The mosquito documenta la nostra sempiterna lotta con il più sanguinario dei predatori: la zanzara. Winegard spiega che eventi di decisiva importanza ne sono stati determinati. Né morì (sostiene) Alessandro Magno, nel fiore degli anni e delle sue capacità di conquista; ne fu distrutta la spedizione degli ateniesi in Sicilia; Annibale fu scoraggiato dalla sua cospicua presenza nelle paludi pontine dall'attaccare Roma; ne furono messi in fuga  visigoti e unni e falcidiati i crociati. Colombo la trasportò in America e lì il feroce insetto fece strage delle popolazioni locali che non avevano sviluppato difese immunitarie. Siccome invece gli africani le difese le avevano, fu complice nell'istituzione della schiavitù, e poi anche nella sua scomparsa: durante la Guerra civile, ritardò il successo del Nord abbastanza a lungo da convincere Lincoln a dichiarare l'emancipazione e arruolare reggimenti di neri.
Tutto molto interessante, direbbe il seduttore di Kierkegaard prima di cambiare pagine e rivolgersi a qualcosa di diverso e altrettanto interessante. (Che cosa fa tendenza in questo momento nella rete?) Ora sappiano di avere sempre avuto un nemico formidabile. E allora? C'è un nemico ancora più formidabile: la morte. Supponiamo che qualcuno scriva un libro nel quale dimostra, dati alla mano, che tutti gli esseri umani che sono mai vissuti hanno dovuto, prima o poi, soccombere alla morte. Sarebbe una conclusione inoppugnabile; e la si potrebbe seguire e confermare in ogni epoca. Ma non avrebbe senso, perché senso è ciò che fa differenza, da cui impariamo una lezione, e in un inesorabile sempre identico diluvio di zanzare  non si vede che lezione si possa imparare. È come guardare pietre sparpagliate sul pavimento di un museo, o come una di quelle «storie» dei personaggi di Ionesco: «Una volta un gallo volle fare il cane. Ma non ebbe fortuna perché tutti lo riconobbero immediatamente».

- Ermanno Bencivenga - Pubblicato sul Sole dell'8/12/2019 -

venerdì 20 dicembre 2019

Clang! Una danza di parole

«Oggi dovremmo capire come servirci dell’ironia per difenderci dai pericolosi dogmatismi dell’epoca nostra. In particolare, dal dogmatismo dell’immediato che è appunto quello dei nostri politici, i quali, magari, non concepiscono che ci sia qualcosa come l’ironia.» Giulio Giorello, filosofo della scienza e matematico, si confronta con il tema dell’ironia, che definisce «un’arma di costruzione di massa»: di massa nel senso che può essere utilizzata da chiunque. L’ironia si dimostra capace non solo di smantellare intere fortezze, infiltrandosi con le sue domande impertinenti, ma di costruire lei stessa nuovi castelli, a patto che si sia consapevoli che questi sono dei veri e propri castelli in aria, così come sono di sabbia le fortezze che man mano gli esseri umani costruiscono nel tempo. Ottimi esempi di ironia si trovano in quella combinazione di serietà e umorismo che ci è stata regalata dai fumetti, da Topolino, ai Peanuts a Tex. Ma anche in tante opere letterarie: dalla critica di Jonathan Swift alle pretese dei dotti di formare una corporazione di privilegiati nei Viaggi di Gulliver alla suprema ironia di Robert Musil, che nell’Uomo senza qualità descrive il protagonista come colui che aspira a quella stessa condizione ideale che il suo critico era così pronto ad attribuirgli, o ancora l’irriverente ironia di James Joyce, che prende di mira persino il buon Dio, che «ha scritto il folio di questo mondo, e l’ha scritto sbagliato». Anche la scienza nei momenti creativi, quando cioè distrugge un paradigma costituito e comincia a costruire un’alternativa, usa l’ironia. Non solo, è capace di servirsene come strumento di alta retorica e di sottile comunicazione della novità. Non era ironico, forse, Giordano Bruno quando nella Cena de le Ceneri difendeva un universo «senza margine» contro il mondo chiuso di Aristotele? Ecco allora disvelata tutta la potenza dell’ironia, che «nel solco di quell’Illuminismo che ha rappresentato un modello coraggioso di ricerca e di rispetto della verità, segnatamente della verità scientifica», si dimostra un’arma civile per combattere schemi, categorie e istituzioni rigide, grazie alle sue doti a un tempo distruttive e creative.

(dal risvolto di copertina di: Giulio Giorello, "La danza della parola", Mondadori.)

Sembra ironia ma è la verità
- di Giuseppe Antonelli -

«Speravo che i professori dell’università potessero dirmi se c’è pericolo che un tale sisma possa colpire anche qui!», dice Zio Paperone. E quando Paperino gli risponde che «i professori potrebbero fare soltanto delle supposizioni!», ribadisce: «Ho bisogno di fatti, non di supposizioni». A riportare con grande evidenza questa citazione nel suo ultimo libro è proprio uno che di lavoro fa il professore universitario. Non è ironico? Certamente sì. Ma non c’è nulla di cui stupirsi, visto che il nuovo libro di Giulio Giorello — professore ordinario di Filosofia della scienza all’Università di Milano e saggista di grande successo — è tutto dedicato all’ironia: La danza delle parole. L’ironia come arma civile per combattere schemi e dogmatismi (Mondadori).
«Un’arma di costruzione di massa», la definisce fin dalle prime pagine, vagheggiandone lo specifico insegnamento come materia scolastica. Anche arma d’istruzione di massa, dunque: perché «l’ironia è uno strumento di conoscenza». E nell’era d’odio in cui viviamo anche un antidoto all’ira, sia pure in una prospettiva non irenica. Perché «l’ironia è una forma di espressione che può essere estremamente aggressiva, ma non è violenta»: ben diversa dal sarcasmo, con le sue risate sardoniche (che in questi strani tempi di famelici gattini si oppongono a quelle sardiniche).
È nel linguaggio, d’altronde, che l’ironia vive e agisce, volteggiando leggiadra sulla tetragona rigidità dei dogmi. «Una danza di parole», appunto: immagine prettamente filosofica, giacché proviene da un passo di Nietzsche. E a passo di danza Giorello si libra nella natura ibrida dell’ironia («ambiguità e ironia spesso si accompagnano»), tenendo sempre il tempo giusto con il consueto gusto dell’accostamento inaspettato. C’è l’ironia socratica del «so di non sapere», quella di Galileo verso il Simplicio sostenitore della cosmologia aristotelica, quella illuministica di Voltaire sul «migliore dei mondi possibili», ma anche quella dei gialli di Agatha Christie, quella dei film di Chaplin, quella delle storie a fumetti.
Anzi: per Giorello, già autore nel 2013 di un libro intitolato La filosofia di Topolino (scritto con Ilaria Cozzaglio e pubblicato da Guanda), «il fumetto è il territorio ironico per eccellenza». Come quando, in una storia uscita nel pieno della guerra fredda, Topolino ed Eta Beta si ritrovano ad attraversare la cortina di ferro. E quella, chiudendosi al passaggio del loro aereo, fa lo stesso rumore che avrebbe fatto un iron curtain: letteralmente, il «sipario di ferro» che divideva palco e platea in caso d’incendio. «Clang!». Questo sì che è ironico: quasi un «ironic curtain» … (Se il personaggio di Eta Beta sarà poi accantonato per un lungo periodo, nota qui Giorello, è perché «agli occhi della Walt Disney, era così ironico da offuscare lo stesso Topolino»).
Fumettistico è anche il «Bang!» che campeggia nella copertina del libro, con tanto di lampo e nuvolette a rendere lo sparo a salve di quest’arma civile. Ma l’ironia non fa rumore e non ha un suono riassumibile in un simbolo; agisce in silenzio, dissimulata sottotraccia. Come spiegava già il Giambullari, letterato del Cinquecento, «è uno occulto dileggiamento, che non si conosce da le parole come il “contrario”, ma o da la pronunzia o da la persona». Anche nei fumetti, in effetti, non ha un suo segno: come l’aureola che sottolinea l’assenza o la lampadina per l’illuminazione di un’idea («Eureka!»). L’ironia ha una sua grammatica, certo: «Per fare dell’ironia bisogna avere una certa padronanza del linguaggio, o del gesto». E, tutt’al più, una sua punteggiatura. Come quella sequenza di tre punti esclamativi (!!!) per cui a metà Ottocento un grammatico aveva coniato la definizione di «punti di gran meraviglia, o di scherno, o d’irrisorio compatimento» (che, a dire il vero, sembra inclinare più verso il sarcasmo). Negli stessi anni, d’altra parte, i grammatici discutevano dell’opportunità di creare un autonomo «punto ironico»: «volendo con tal cifra accennare che ivi è un parlar coverto», spiegava Basilio Puoti. La sua proposta era quella di renderlo con il rovesciamento — a suo modo, un altro contrario — del punto esclamativo (¡); anche se, etimologicamente, ci sarebbe stato forse meglio un interrogativo (¿).
La parola ironia, infatti, viene dal greco eironeía: finzione, dissimulazione (ironica, appunto); vocabolo connesso a sua volta col verbo eíromai: interrogo, domando (fingendo, appunto, di non sapere). «Un gioco ironico sugli altri lo è anche su sé stesso», ricorda Giorello citando ancora Nietzsche («Guai a quel maestro che non sa ridere di sé stesso»). Ecco, allora, un dialogo tratto da una storia di Tex Willer. Il ranger arriva, con il suo pard, in un carcere della Louisiana. Il direttore del carcere si presenta: «Ben Oldfield! È un piacere incontrare i leggendari Tex Willer e Kit Carson! Il vostro autorevole parere sarà per me prezioso …». E Kit Carson gli risponde: «Uhm! Non siamo filosofi né pensatori». Nel libro di un filosofo non è anche questo (auto)ironico?

- Giuseppe Antonelli - Pubblicato sul Corriere del 7/12/2019 -

giovedì 19 dicembre 2019

A luci spente

«I movimenti che mancano di una visione sono ciechi. Ma, cosa assai peggiore, i visionari senza movimenti sono gravemente inabili. Senza una forte lotta sociale per costruire un mondo post-scarsità, i visionari del tardo capitalismo rimarranno solo dei semplici mistici tecno-utopici.» (A.B.)

L'automazione e il futuro del lavoro
- di Aaron Benanav -

Il mondo è in subbuglio per quanto riguarda i discorsi sull'automazione. I rapidi progressi rispetto all'Intelligenza Artificiale, l'apprendimento automatico e la robotica sembrano essere destinati a trasformare il mondo del lavoro. Nelle fabbriche più avanzate, aziende come la Tesla stanno puntando alla produzione «a luci spente», in cui processi lavorativi completamente automatizzati, senza che abbiano più bisogno di mani umane, possono produrre al buio.
Nel frattempo, nelle sale illuminate dove si svolgono i convegni e i congressi di robotica, sono in mostra macchine che giocano a pingpong, cucinano cibi, fanno sesso e perfino intrattengono conversazioni.
I computer non stanno solamente sviluppando nuove strategie per giocare a Go, ma si vocifera che stiano anche scrivendo sinfonie che arrivano a far piangere il pubblico.
Vestiti in camice bianco, oppure indossando tute per la realtà virtuale, negli ospedali i computer stanno imparando a identificare i tumori, e ben presto nei tribunali svilupperanno delle vere e proprie strategie legali.
Già ci sono camion che viaggiano attraverso gli Stati Uniti senza che vi sia alla guida alcun autista; da qualche parte si muovono cani robot che stanno attraversando pianure desolate trasportando armi da guerra.
Stiamo vivendo in quelli che sono gli ultimi giorni nei quali gli essere umani lavoreranno?
Sta forse per essere revocato quello che una volta Edward Bellamy ha chiamato l'«Editto dell'Eden», quando gli «uomini» - almeno quelli che tra loro sono i più ricchi - diverranno come dei?

- Aaron Benanav  -

Part 1: Automation and the Future of Work 1, NLR 119, September October 2019

Part 2: Automation and the Future of Work 2, NLR 120, November December 2019

mercoledì 18 dicembre 2019

Quinto Stato?

Diritti approssimativi, salari bassi, contratti a termine: è la società del Quinto Stato. Il precario non condivide il lavoro di fabbrica, non vive negli stessi quartieri, non frequenta le sezioni locali dei sindacati e dei partiti. È parte di un insieme eterogeneo, fluido, disperso, difficile da organizzare e mobilitare, trascurato dalla politica. A connettere i precari ci sono solo i canali ‘freddi’ di internet e dei social media.Quali misure potranno essere adottate per proteggere questo gruppo sempre più esteso?
Ai primi del Novecento il Quarto Stato viene descritto come classe oppressa ma autoconsapevole e compatta, portatrice di interessi universali di emancipazione: operai, contadini e braccianti chiedevano che venisse loro riconosciuto un potere politico (tramite diritti) che fosse in linea con la loro rilevanza economica e sociale.Gli ‘oppressi’ oggi esistono ancora, ma sono meno visibili di un secolo fa e sicuramente molto meno organizzati. Sono le persone economicamente vulnerabili, con un lavoro instabile, che non godono di prestazioni sociali sufficienti. Sono loro, i lavoratori sottopagati e/o precari, che compongono il ‘Quinto Stato’, un insieme variegato e fluido la cui domanda di tutela e protezione è ormai ineludibile.Una risposta possibile a tali richieste è la strategia dell’investimento sociale, magari sorretto da un reddito di base universale e incondizionato, capace di fornire sicurezze e protezioni calibrate sulle nuove modalità di lavoro. L’altra risposta è più ambiziosa (l’autore la definisce ‘riformismo 2.0’): mettere a frutto i processi di globalizzazione e la rivoluzione digitale al fine di realizzare un nuovo modello di società.

(dal risvolto di copertina di: Maurizio Ferrera, "La società del Quinto Stato", Laterza.)

Dopo il Quarto Stato c'è il precariato
- di Valerio Castronovo -

Dagli ultimi decenni del secolo scorso le società più avanzate del Primo Mondo, e oggi anche quelle più dinamiche del cosiddetto Terzo Mondo (a cominciare dalla Cina e dall'India) stanno vivendo una fase intensa di trasformazioni sotto ogni profilo. E ciò per via di un mutamento di paradigmi e procedimenti tecnologici sempre più rapido e incisivo nella nuova era della Rete e della globalizzazione.
Sono così venute incrinandosi in Occidente determinate strutture economiche e forme di occupazione, norme e relazioni sociali, concezioni culturali e consuetudini di vita che, per un aspetto o per l'altro, avevano a che fare con la centralità dell'industria manifatturiera, quale motore ed emblema, dal secondo dopoguerra, di un binomio fra economia di mercato e democrazia, opportunità di ascesa sociale e Stato di diritto, all'insegna di un neo-capitalismo legittimato dagli sviluppi del Welfare di matrice keynesiana. Ciò che aveva contribuito ad assicurare, alla fine degli anni Ottanta, il successo di un sistema caratterizzato perciò da un "cerchio virtuoso" (per dirla con Ralph Darhendorf) rispetto al modello alternativo costruito dall'Unione Sovietica e declinato sia pur con alcune varianti dalla Cina maoista e dal altri regimi comunisti.
Senonché, questa sorta di universo sia politico ed economico, sia sociale e culturale, che per tanti anni aveva continuato a far aggio e testo, ha conosciuto man mano negli ultimi tempi i contraccolpi di un processo di profondi cambiamenti di cui esso è stato promotore e protagonista al suo interno per poi suscitare una trafila di ripercussioni all'esterno tali da investire il suo stesso perimetro e contesto.
Da un'ampia diagnosi di quanto è così avvenuto, in seguito a quella che Maurizio Ferrara definisce la «Grande trasformazione 2.0», prende il via l'analisi svolta dal politologo milanese, che si raccomanda per l'ampiezza di visuali e la chiarezza di giudizi, dedicata alle cause e alle connotazioni di un fenomeno come il precariato. Egli non lo considera come qualcosa di residuale, una specie di interstizio, riassorbibile senza particolari difficoltà nell'ambito dell'assetto ereditato dal passato, bensì come una delle espressioni per eccellenza dei radicali cambiamenti di scenario e di prospettiva susseguitisi con la transizione post-industriale e il peso crescente assunto dai servizi, in quanto hanno determinato congiuntamente, insieme all'obsolescenza o al declino di determinate risorse e competenze, un depauperamento generalizzato di possibilità e carriere di lavoro, di specifici progetti e percorsi, di margini di libertà e d'iniziativa individuali.
Di qui la formazione di un nuovo strato sociale, ben diverso da quello che un tempo era il «Quarto Stato», ossia un proletariato che, pur situato ai gradini più bassi della società, aveva una propria fisionomia omogenea e poteva avvalersi tanto di certi strumenti man mano più robusti e inclusivi di rappresentanza ed emancipazione sociale (dai sindacati alle cooperative, ai partiti di sinistra) che del supporto di un complesso di principi e assunti ideologici, per lo più d'ispirazione marxista, per agire e orientarsi. Oggi quello emerso alla ribalta, che viene definito col nome di «Quinto Stato», è composto invece da una numerosa ed eterogenea schiera di lavoratori senza un collante comune e pervasivo, e quindi fluida e indistinta, priva di riferimenti e di chance tali da tradurre la sua pur massiccia consistenza in una vigorosa forza d'urto politica e sociale.
Tuttavia quella dei «precari» potrebbe dar luogo, secondo il sociologo inglese neomarxista Guy Standing (autore di un libro di larga risonanza, uscito nel 2011) a una nuova «classe esplosiva», portata, per le sue avvilenti condizioni di indigenza e di emarginazione sociale, a dar battaglia conto il "sistema", ovvero contro le élite e la globalizzazione, il neoliberismo e la finanziarizzazione del capitalismo mondiale, anche in virtù delle connessioni fra le due diverse componenti rese possibili dai media e dai network. Ma, come Ferrera osserva giustamente, questo genere di «risveglio sociale» non ha prodotto finora «solo mobilitazioni emancipative» ma anche «regressive di stampo xenofobo o neofascista».
Ad ogni modo, non si può certo sottovalutare, e tantomeno esorcizzare, una questione cruciale come quella del proletariato, che concerne soprattutto le giovani generazioni e concorre ad accentuare i motivi di instabilità e di conflittualità che minacciano il nostro futuro. È dunque pienamente condivisibile l'augurio dell'autore che sia innanzitutto l'Europa ad impegnarsi nella ricerca di soluzioni altrettanto eque ed efficaci per impedire una pericolosa deriva dovuta all'approfondimento delle disuguaglianza e delle ingiustizie intergenerazionali. Per ora, tuttavia, il nodo dirimente a questo riguardo consiste nelle persistenti remore politiche e culturali che allignano, nell'ambito dell'Unione europea, ed affrontare una sfida ancorché ineludibile.

- Valerio Castronovo - Pubblicato sul Sole del 1° dicembre 2019 -

Servizio Minimo

Servizio Minimo

Bisogna gustare quella che è l'ironia della situazione. Ci sono delle persone che si stanno battendo per la loro pensione in un mondo che da qui a vent'anni è votato alla devastazione. Sarebbe come vedere dei futuri annegati, aggrappati alla loro zattera, discutere dei vecchi tempi mentre aspettano di venire inghiottiti dai flutti. In caso di pensionamento, il lavoro salariato continuerà ad esserci; ma se non viene abolito, allora per il mondo sarà il disastro.
Ai nostri giorni, non esiste utopia che sia più pericolosa del capitalismo. Il presunto «realismo» di coloro che lo difendono è delirante. È una sorta di bizzarro pragmatismo, pronto a sacrificare la vita sulla Terra pur di poter mantenere una forma di società. Un «realismo» che promette di distruggere la realtà!
Ma il movimento sociale è altrettanto malato. Volersi tenere, per conservarle, le briciole delle lotte passate è una ambizione folle. Non ne abbiamo più il tempo. Il 20° secolo è ormai dietro di noi, alle nostre spalle. E la storia non si è congelata, in ibernazione. Ci troviamo all'alba di grandi cambiamenti. La situazione è rivoluzionaria. Ma le coscienze, ancora non lo sono.
Eppure, tuttavia, non crollerà tutto dall'oggi al domani. Tra le rovine ci saranno delle guerre, delle guerre per le rovine. Quel che già si sta delineando, è il mantenimento violento della proprietà per mezzo di una transizione fascista, la quale ha come suo orizzonte il formicaio cibernetico. E nei freddi sogni cibernetici, la catastrofe viene amministrata dall'Intelligenza Artificiale. Questa è una delle possibilità. L'altra possibilità è la rivolta.
La società, nella sua metamorfosi, reca un periodo di rivolte. La lotta di classe sfrutta il minimo pretesto per cercare di risorgere ai quattro angoli del mondo. In Francia, se l'onda dei Gilet gialli si è infranta, oggi vediamo che va ad alimentare una profonda corrente che aggrega l'insieme di quelli che sono i movimenti recenti. Essi sono gli affluenti di questo fiume.
A gettare oggi, inconsciamente, le persone nella strada, è questa lotta profonda. È questa lotta che tiene insieme e fa andare avanti lo sciopero. Ed è sempre di questa lotta che, per il momento, ne approfittano i sindacati. Questi opportunisti cercano di farla ripiegare sulla strada della sconfitta. Inquadrano i cortei, e castrano i suoi slogan. I governanti se ne compiacciono, la borghesia torna a respirare. Gli è che i sindacati sono ragionevoli, e con loro viene reso possibile il teatro del «dialogo». Coloro i quali hanno vissuto le rivolte dell'anno scorso, riescono a vedere solo la possibilità di un sinistro ritorno all'ordine.
Ma anche nel caso che i sindacati non venissero sopraffatti, perfino se riuscissero a superare questo confuso rifiuto del dominio del capitale a favore di una difesa dello «stato sociale», la faccenda sarebbe solo rinviata. Lo vedono tutti che esistono le classi. E con un banchiere-presidente, la democrazia non riesce più a mascherare quella che è la loro lotta. Non rimane altro da fare che lasciare che la lucidità riesca a recuperare il proprio ritardo. «Tutto ciò che noi facciamo» - diceva Marx «è mostrare al mondo il vero motivo per cui in realtà esso lotta, e la coscienza è una cosa di cui deve impossessarsi, perfino contro la sua propria volontà.» Con il tempo, questa è diventata una questione di vita o di morte.

fonte: http://www.lisez-veloce.fr/

martedì 17 dicembre 2019

L'età della fantasia, secondo la definizione di Vico

Anno Domini 1165, Costantinopoli. Per strade tortuose, tra le mani dell'imperatore Manuele Comneno arriva una lettera inattesa e forse inattendibile. A scrivere è l'oscuro Prete Gianni: sedicente gran monarca delle Indie, discendente dei Re magi, sovrano supremo di un immenso territorio incantato dimora di ciclopi ed elefanti, intende offrire alla cristianità la sua amicizia per combattere da alleati la minaccia dei Mori infedeli. Scherzo naïf o macchinazione diplomatica, quell'improbabile epistola comparsa dal nulla avrebbe proliferato per oltre cinquecento anni, legittimando guerre di conquista, trattati fantasma, spedizioni senza ritorno alla ricerca di un personaggio fantomatico e un regno inesistente. Se la Storia è tradizionalmente il tentativo di ricostruire la verità dei fatti, questa vicenda ci ricorda che spesso fatti veri vengono messi in moto da menzogne, imposture, distorsioni - quelle che oggi chiameremmo fake news ma che invece sono vecchie quanto l'umanità. Ben prima dei forum sulle scie chimiche esistevano infatti le dicerie degli untori, e prima del piano Kalergi si moltiplicavano infinite logge segrete, rosacrociane, templari, e prendeva forma la teoria del complotto giudaico-massonico che avrebbe portato agli sciagurati Protocolli dei Savi di Sion utili ai più neri fascismi. In questa nuova edizione Errico Buonanno aggiorna e amplia il suo almanacco favoloso di vere storie false, rigoroso nelle fonti e ironico nel piglio, che ci restituisce l'immagine borgesiana della Storia come una piazza in cui da sempre mercanteggiano coscienza e sogno, luce e fantasmagoria, verità e finzione. Dalla Donazione di Costantino all'invenzione del kilt scozzese, dalla cabala al Santo Graal, le frottole più incredibili - almeno in apparenza - si sono inverate nel mondo. Ma non serve indignarsi, anzi: "Sarà vero" è anche un sincero tributo al potere dell'immaginazione, perché se quella che Umberto Eco chiamava «la forza del falso» è in grado di riplasmare la realtà che conosciamo, significa anche che non esiste un limite a ciò che possiamo sognare.

(dal risvolto di copertina di: Errico Buonanno, "Sarà vero. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia". Utet.)

I più grandi autori di autentiche patacche
- di Carlo Carena -

Recentemente in queste pagine Stefano Salis raccontava la storia di una falsa notizia e di un falso bibliografico relativi al Sidereus Nuncius di Galileo Galilei. L'episodio va ad aggiungersi alle centinaia di fake news, grandi e piccole, che hanno costellato la storia politica, letteraria, religiosa dalla più remota antichità. A volte semplicemente ridicole e beffarde, ma altre volte incisive e di portata enorme. Non solo futili divertimenti, ma anche perversi, maligni strumenti con cui ingannare il prossimo o sovvertire solide e importanti realtà, fino ai giorni nostri. Né dà una rassegna Errico Buonanno, scrittore che anche in proprio ama le trasformazioni della realtà e i giochi a rimpiattino con i suoi lettori, in "Sarà vero". Il volume, apparso la prima volta presso Einaudi nel 2009, ora può essere già ristampato in una nuova edizione "aggiornata e ampliata" da nuove ricerche e nuove comparse. Dietro un libro simile stanno Borges e Manganelli, Eco e il grande Grafton con "Falsari e critici" (1990, Einaudi 1996). La messe delle falsificazioni stipa interi scaffali, spiegava Grafton, e corre dalle origini della civiltà occidentale fino all'epoca contemporanea.
Ai vertici, per la sua portata enorme e tragica, sta la falsa Donazione con cui Costantino imperatore, guarito miracolosamente dalla lebbra, investe il vescovo di Roma e i suoi successori fino alla fine del mondo della «supremazia sopra tutte le chiese per tutte le terre». Inizio del più che millenario potere anche temporale dei papi e fonte di rivolte e scismi devastanti, quella donazione era una pura invenzione, come fu sagacemente e facilmente dimostrato mille anni dopo, a metà Quattrocento, in uno dei primi capolavori della filologia moderna e dell'emersione dall'età d'oro della fake news: la De falso credita et ementita Costantini donazione analizzata da Lorenzo Valla su basi sia contenutistiche che formali.
Cosa non ha inventato il Medio Evo è quasi incalcolabile e supera ogni nostra immaginazione. Quell'arco lunghissimo di anni divenne per paradosso filosofico o per intrighi di potere una fiera della falsità, un «eldorado di falsari, congiura da operetta, trionfo della frode, autentica civiltà del falso» secondo la definizione di Buonanno. Ed età della fantasia secondo la definizione di Vico. Anche Alessandro Magno, si fa per dire, di alcune sue esperienze nella spedizione asiatica al vecchio maestro Aristotele, genio universale, stende un parco delle meraviglie con mostri marini grandi come isole, alberi parlanti, leoni più grossi dei nostri tori, uomini con sei mani...
Sovrani impostori un po' dappertutto in Europa; il Prete Gianni sovrano cristiano delle Indie del Paradiso terrestre ai pressi della Torre di Babele, e in Abissinia e fino in Irlanda, un ideale pantagruelico per secoli bui e penosi, dove - scriveva personalmente quel collega a Federico Barbarossa, lasciando l'Europa a bocca aperta - fluivano delle sorgenti lac et mel e i fiumi portavano nelle loro acque pietre preziose, e vi dimoravano tutti gli animali della terra tranne i serpenti velenosi, e anche i merli sono bianchi e le cicale mute e gli abitanti sono pigmei o giganti. Eppure anche quella lettera, così com'era, fomentò esplorazioni, ricerche, spedizioni; e ispirò meno gravemente qualche cenno e verso a Boccaccio, Ariosto, Tasso e Shakespeare. E se qualcuno non avesse creduto alle parole di quel sublime monarca, avrebbe trovato informazioni sicure su di lui e sul suo impero da un testimone, un inglese stabilito in Francia, John Mandeville, che senza mai essere uscito di casa descrisse nei suoi Viaggi le peregrinazioni da lui compiute per trentaquattro anni in Europa, Asia e Africa, e dalle parti della Cina, dove appunto s'imbatté in quel reame colmo di meraviglie e di enormità e nel raccapricciante arcipelago di Giava. Qui i padri divoravano i figli, i figli i padri, i mariti le mogli, le mogli i mariti. Ci sono giganti con un occhio solo in mezzo alla fronte come Polifemo, altri senza testa e con gli occhi e bocca nelle spalle, e le labbra tanto grandi che le rivoltano e se ne servono come cappuccio per riparare il volto dal sole.
Di tutt'altro genere, commoventi, le meraviglie della Terrasanta, la vera meta per cui si mosse Mandeville e su cui torna ripetutamente per dirci che là si trova ancora l'Arca di Noè incagliata sulla cima del Monte Ararat e ola si può scorgere a occhio nudo nelle giornate limpide. Altrettanto nella Samaria si può vedere ancora il pozzo presso cui Nostro Signore parlò alla Samaritana; e nella valle di Dothan si vede ancora il pozzo in cui fu calato Giuseppe dai suoi fratelli. Anche nelle antiche letterature non si finisce più di vagare perlomeno nell'incerto se non nell'autentico falso. Delle decine e decine di opere adunate nel Corpus Hippocraticum una buona metà è apocrifa, e anzi lui stesso, il sommo medico, è una patacca: «non è mai esistito» (Wilamowitz). Altrettanto sono stati tramandati come veri trattati falsi dell'altro principe dei medici, Galeno. La stragrande maggioranza delle commedie attribuite a Plauto è apocrifa. Apocrifi alcuni vangeli e la corrispondenza tra Seneca e san Paolo, come dimostrò Erasmo raffinatamente e spiritosamente.
Queste sono ancora quisquiglie rispetto alle demolizioni a cui attese un gesuita seicentesco, al quale accenna Buonanno nel capitolo finale. Costui, Jean Hardouin, ci racconta nei Prolegomena che mentre approntava un'edizione della Storia naturale di Plinio il Vecchio, uno scienziato a metà, «nel mese di agosto del 1690 cominciai a subodorare qualche frode negli scritti di sant'Agostino e simili; nel successivo mese di novembre sospettai di tutti e nel maggio del 1692 scoprii il tutto dopo aver trascritto lunghi estratti di scrittori greci e latini»: e cioè che l'intera letteratura greca e latina, eccetto Plinio e qualche verso di Orazio e di Virgilio georgico (che però «non pensò mai nemmeno per un attimo di scrivere l'Eneide»), sono un falso di monaci medievali sfaccendati. Altrettanto deve dirsi di molti scritti di Padri della Chiesa e di molte opere d'arte: la Colonna Traiana è anch'essa trecentesca.
Eppure ancora nel secolo seguente, quello dei Lumi, uno dei più strepitosi successi letterari furono i Canti di Ossian, «frammenti di antica poesia raccolti sugli Altopiani di Scozia» attribuiti ad un antico bardo e invece opera del loro editore, James Macpherson. Operazione ripetuta un secolo dopo con il medesimo scopo apologetico in Sardegna con la pubblicazione di certe Carte d'Arborea trecentesche che comprovano (comproverebbero) la magnificenza del Medioevo sardo. Di quegli anni, come nei nostri Diari di Hitler, è anche l'exploit più strepitoso tra tutti quelli citati dal Buonanno. Nel 1865 un autodidatta francese esperto di genealogie e di numismatica, Vrin-Denis Lucas, contraffà e rifila per 140mila franchi al matematico accademico Michel Chasles un corpo di 27.350 autografi di famosissimi personaggi storici: Moliére, Racine, Shakespeare, e anche Dante, Attila, Carlo Magno, Giovanna d'Arco, una lettera d'amore di Cleopatra a Cesare e una della Maddalena a Lazzaro, nonché quella vergata da Giuda Iscariota prima d'impiccarsi; e tutte vergate in francese!
Processato e imprigionato quella volta e altre per motivi simili, il Vrin-Denis alla fine se ne torna bel bello a vendere libri antichi a Chateaudun. D'altra parte nel suo piccolo anche Alessandro Manzoni inventò e creò un manoscritto seicentesco da cui trascrisse «con eroica fatica», addomesticandone la lingua, la storia dei due innamorati; e Cervantes si dice non padre patrigno di quella del famoso Hidalgo narrata negli annali della Mancha dallo storico arabo Cide Hamete Benengeli.
Si può concludere con un brano del nostro Autore in riferimento ai Canti di Ossian. Da sempre ci sono due modi per fare la storia: costruire il futuro o fabbricare il passato, e dei due il secondo «è il più sottile e anche il più efficace». Oppure torniamo a Grafton e raccogliamo anche la sua conclusione, dell'importanza, involontaria, di tante fonti create con la cosciente volontà di ingannare, e dell'ottima qualità di tanta parte di esse. Secondo un proverbio ben noto ai poliziotti, cita Grafton, «Per scoprire un ladro ci vuole un ladro»; così sulla parete dello studio del detective letterario potrebbe benissimo stagliarsi quest'altro, che «Per scoprire un falso ci vuole un falsario».

- Carlo Carena - Pubblicato sul Sole dell'8/12/2019 -