venerdì 20 dicembre 2019

Clang! Una danza di parole

«Oggi dovremmo capire come servirci dell’ironia per difenderci dai pericolosi dogmatismi dell’epoca nostra. In particolare, dal dogmatismo dell’immediato che è appunto quello dei nostri politici, i quali, magari, non concepiscono che ci sia qualcosa come l’ironia.» Giulio Giorello, filosofo della scienza e matematico, si confronta con il tema dell’ironia, che definisce «un’arma di costruzione di massa»: di massa nel senso che può essere utilizzata da chiunque. L’ironia si dimostra capace non solo di smantellare intere fortezze, infiltrandosi con le sue domande impertinenti, ma di costruire lei stessa nuovi castelli, a patto che si sia consapevoli che questi sono dei veri e propri castelli in aria, così come sono di sabbia le fortezze che man mano gli esseri umani costruiscono nel tempo. Ottimi esempi di ironia si trovano in quella combinazione di serietà e umorismo che ci è stata regalata dai fumetti, da Topolino, ai Peanuts a Tex. Ma anche in tante opere letterarie: dalla critica di Jonathan Swift alle pretese dei dotti di formare una corporazione di privilegiati nei Viaggi di Gulliver alla suprema ironia di Robert Musil, che nell’Uomo senza qualità descrive il protagonista come colui che aspira a quella stessa condizione ideale che il suo critico era così pronto ad attribuirgli, o ancora l’irriverente ironia di James Joyce, che prende di mira persino il buon Dio, che «ha scritto il folio di questo mondo, e l’ha scritto sbagliato». Anche la scienza nei momenti creativi, quando cioè distrugge un paradigma costituito e comincia a costruire un’alternativa, usa l’ironia. Non solo, è capace di servirsene come strumento di alta retorica e di sottile comunicazione della novità. Non era ironico, forse, Giordano Bruno quando nella Cena de le Ceneri difendeva un universo «senza margine» contro il mondo chiuso di Aristotele? Ecco allora disvelata tutta la potenza dell’ironia, che «nel solco di quell’Illuminismo che ha rappresentato un modello coraggioso di ricerca e di rispetto della verità, segnatamente della verità scientifica», si dimostra un’arma civile per combattere schemi, categorie e istituzioni rigide, grazie alle sue doti a un tempo distruttive e creative.

(dal risvolto di copertina di: Giulio Giorello, "La danza della parola", Mondadori.)

Sembra ironia ma è la verità
- di Giuseppe Antonelli -

«Speravo che i professori dell’università potessero dirmi se c’è pericolo che un tale sisma possa colpire anche qui!», dice Zio Paperone. E quando Paperino gli risponde che «i professori potrebbero fare soltanto delle supposizioni!», ribadisce: «Ho bisogno di fatti, non di supposizioni». A riportare con grande evidenza questa citazione nel suo ultimo libro è proprio uno che di lavoro fa il professore universitario. Non è ironico? Certamente sì. Ma non c’è nulla di cui stupirsi, visto che il nuovo libro di Giulio Giorello — professore ordinario di Filosofia della scienza all’Università di Milano e saggista di grande successo — è tutto dedicato all’ironia: La danza delle parole. L’ironia come arma civile per combattere schemi e dogmatismi (Mondadori).
«Un’arma di costruzione di massa», la definisce fin dalle prime pagine, vagheggiandone lo specifico insegnamento come materia scolastica. Anche arma d’istruzione di massa, dunque: perché «l’ironia è uno strumento di conoscenza». E nell’era d’odio in cui viviamo anche un antidoto all’ira, sia pure in una prospettiva non irenica. Perché «l’ironia è una forma di espressione che può essere estremamente aggressiva, ma non è violenta»: ben diversa dal sarcasmo, con le sue risate sardoniche (che in questi strani tempi di famelici gattini si oppongono a quelle sardiniche).
È nel linguaggio, d’altronde, che l’ironia vive e agisce, volteggiando leggiadra sulla tetragona rigidità dei dogmi. «Una danza di parole», appunto: immagine prettamente filosofica, giacché proviene da un passo di Nietzsche. E a passo di danza Giorello si libra nella natura ibrida dell’ironia («ambiguità e ironia spesso si accompagnano»), tenendo sempre il tempo giusto con il consueto gusto dell’accostamento inaspettato. C’è l’ironia socratica del «so di non sapere», quella di Galileo verso il Simplicio sostenitore della cosmologia aristotelica, quella illuministica di Voltaire sul «migliore dei mondi possibili», ma anche quella dei gialli di Agatha Christie, quella dei film di Chaplin, quella delle storie a fumetti.
Anzi: per Giorello, già autore nel 2013 di un libro intitolato La filosofia di Topolino (scritto con Ilaria Cozzaglio e pubblicato da Guanda), «il fumetto è il territorio ironico per eccellenza». Come quando, in una storia uscita nel pieno della guerra fredda, Topolino ed Eta Beta si ritrovano ad attraversare la cortina di ferro. E quella, chiudendosi al passaggio del loro aereo, fa lo stesso rumore che avrebbe fatto un iron curtain: letteralmente, il «sipario di ferro» che divideva palco e platea in caso d’incendio. «Clang!». Questo sì che è ironico: quasi un «ironic curtain» … (Se il personaggio di Eta Beta sarà poi accantonato per un lungo periodo, nota qui Giorello, è perché «agli occhi della Walt Disney, era così ironico da offuscare lo stesso Topolino»).
Fumettistico è anche il «Bang!» che campeggia nella copertina del libro, con tanto di lampo e nuvolette a rendere lo sparo a salve di quest’arma civile. Ma l’ironia non fa rumore e non ha un suono riassumibile in un simbolo; agisce in silenzio, dissimulata sottotraccia. Come spiegava già il Giambullari, letterato del Cinquecento, «è uno occulto dileggiamento, che non si conosce da le parole come il “contrario”, ma o da la pronunzia o da la persona». Anche nei fumetti, in effetti, non ha un suo segno: come l’aureola che sottolinea l’assenza o la lampadina per l’illuminazione di un’idea («Eureka!»). L’ironia ha una sua grammatica, certo: «Per fare dell’ironia bisogna avere una certa padronanza del linguaggio, o del gesto». E, tutt’al più, una sua punteggiatura. Come quella sequenza di tre punti esclamativi (!!!) per cui a metà Ottocento un grammatico aveva coniato la definizione di «punti di gran meraviglia, o di scherno, o d’irrisorio compatimento» (che, a dire il vero, sembra inclinare più verso il sarcasmo). Negli stessi anni, d’altra parte, i grammatici discutevano dell’opportunità di creare un autonomo «punto ironico»: «volendo con tal cifra accennare che ivi è un parlar coverto», spiegava Basilio Puoti. La sua proposta era quella di renderlo con il rovesciamento — a suo modo, un altro contrario — del punto esclamativo (¡); anche se, etimologicamente, ci sarebbe stato forse meglio un interrogativo (¿).
La parola ironia, infatti, viene dal greco eironeía: finzione, dissimulazione (ironica, appunto); vocabolo connesso a sua volta col verbo eíromai: interrogo, domando (fingendo, appunto, di non sapere). «Un gioco ironico sugli altri lo è anche su sé stesso», ricorda Giorello citando ancora Nietzsche («Guai a quel maestro che non sa ridere di sé stesso»). Ecco, allora, un dialogo tratto da una storia di Tex Willer. Il ranger arriva, con il suo pard, in un carcere della Louisiana. Il direttore del carcere si presenta: «Ben Oldfield! È un piacere incontrare i leggendari Tex Willer e Kit Carson! Il vostro autorevole parere sarà per me prezioso …». E Kit Carson gli risponde: «Uhm! Non siamo filosofi né pensatori». Nel libro di un filosofo non è anche questo (auto)ironico?

- Giuseppe Antonelli - Pubblicato sul Corriere del 7/12/2019 -

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