I libri della notte; forse cento, forse mille
« Dobbiamo a Lucie Delarue-Mardrus questa frase straordinaria: “Gli orientali non hanno alcun senso dell’Oriente. Il senso dell’Oriente siamo noi occidentali, noi rumi ad averlo. (E mi riferisco a quei rumi, comunque abbastanza numerosi, che non sono dei tangheri)”. Per Sarah queste righe condensano tutto l’orientalismo, l’orientalismo come sogno, l’orientalismo come compianto, come esplorazione sempre delusa. I rumi si sono infatti impadroniti del territorio del sogno e sono stati loro, dopo i narratori arabi classici, a sfruttarlo e a percorrerlo, al punto che tutti i viaggi si misurano con quel sogno. Tanto che nasce un ricco filone costruito proprio su questo sogno, nel quale il viaggio non è più necessario, il cui esponente più illustre è forse Marcel Proust con la sua Ricerca del tempo perduto, cuore simbolico del romanzo europeo: Proust fa delle Mille e una notte uno dei suoi modelli – il libro della notte, il libro della lotta contro la morte. Come Sheherazade lotta ogni sera, dopo l’amore, contro la sentenza che incombe su di lei raccontando una storia al sultano Shahriyar, così ogni notte Marcel Proust prende la penna, molte notti, dice, “forse cento, forse mille”, per lottare contro il tempo. Più di duecento volte, nella Ricerca, Proust fa allusione all’Oriente e alle Notti, che conosce nelle traduzioni di Galland (quella della castità dell’infanzia, quella di Combray) e di Mardrus (quella più torbida, più erotica, dell’età adulta) – lungo tutto il suo immenso romanzo tesse il filo d’oro del meraviglioso arabo; Swann ode un violino come un genio uscito da una lampada, una sinfonia rivela “tutte le pietre preziose delle Mille e una notte”. Senza l’Oriente (quel sogno in arabo, in persiano e in turco, apolide, chiamato Oriente) non ci sarebbe Proust, non ci sarebbe Alla ricerca del tempo perduto. » - (da: Mathias Énard. Bussola. Edizioni E/O) -
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