lunedì 16 dicembre 2019

Situazione

«Blocco»
- di Blog Carbure -

Possiamo vedere il Blocco come se fosse una strategia efficace in quelli che sono gli attuali rapporti di forza? Qual è la relazione tra il movimento che inizia il 5 dicembre e quei movimenti che stanno scuotendo il Medio Oriente e l'America Latina? Si tratta di un tentativo assai generale di qualificare le forme che potrebbe assumere una crisi mondiale del capitale.
In un certo qual modo, il Comitato Invisibile su una cosa ha ragione: il potere è logistica - e questa è solo una piatta tautologia - dal momento che il potere è il potere di fare delle cose. Ma sottolinearlo serve soprattutto   a fare riferimento al fatto che «il potere» non negozia più, e che in tempi di crisi esso rinuncia perfino ad apparire come la sintesi neutra dei diversi interessi di classe, per apparire come ciò che è: il dominio di una classe. Quindi, la favola dell'interesse generale - la democrazia nelle sue varie forme – svanisce davanti alla realtà dell'interesse superiore dell'economia (la quale sarebbe perciò la vera sintesi sociale), che è quell'altro feticcio del dominio di classe. La gestione dello sciopero diventa quindi una questione di mantenimento dell'ordine, e, in effetti, una questione di logistica. Di conseguenza, coloro che contestano non sono più degli avversari con cui si dialoga, ma dei trasgressori, dei contravventori: dei radicalizzati. Non bisogna più negoziare, ma si deve «sbloccare», fisicamente. La repressione è il necessario corollario dell'assenza di dialogo, nello stesso momento in cui si manifesta, viene simultaneamente giustificata. Ma laddove il Comitato Invisibile ha visto una debolezza, la prova secondo cui lo Stato non poteva più produrre della legittimità simbolica ma può «solamente» controllare il territorio, va anche ricordato che, negli attuali rapporti di forza, la logistica non è solo il punto forte dello Stato, ma è anche il mezzo attraverso il quale esso intende durare per sempre: gli ci sono voluti mento di 3 settimane per evacuare le rotatorie dei Gilet gialli e fare cessare i blocchi. Ed è inoltre proprio dovuto al fatto che lo Stato ha vinto la battaglia logistica, che la contestazione è stata riportata sulla strada, laddove viene di nuovo trattata logisticamente dalla polizia. E visto il mondo in cui tutto questo sta andando, bisogna porsi ancora una volta la domanda: ci possiamo battere contro la Stato sul terreno della circolazione? E possiamo davvero farlo, praticamente, e non dal punto di vista tecnico, tenendo conto della situazione delle forze coinvolte, vale a dire, «possiamo paralizzare il paese»? E, dopo tutto, per fare che cosa?
Quello che si verifica in una situazione come questa, è che ad ogni movimento di portata maggiore, coloro che entrano nella lotta si trovano di fronte ad un muro che riduce effettivamente quella che è la loro azione ad un problema di logistica. La gestione ideologica della questione da parte dello Stato, avviene a partire dalla sola prospettiva del ritorno alla normale fluidità dell'ordine circolante delle cose: squalifica politica delle posizioni, marginalizzazione a partire dalla qualifica di estremismo, dispersione immediata di qualsiasi manifestazione, che viene trattata come turbativa dell'ordine pubblico, «sblocco» istantaneo, mobilitazione delle persone che non scioperano per ristabilire il normale funzionamento, ecc. Qui, la «normalità» appare per quella che è, una violenza permanente, ma appare così solo a quelli che sono entrati nella lotta a partire dal fatto che subiscono tale violenza. Per tutti gli altri, la normalità, è la normalità, punto. A questo punto la domanda è: fino a che punto lo Stato, attorniato da coloro per i quali la normalità è ancora desiderabile, può continuare a negare l'esistenza di coloro per i quali questa normalità diventa sempre più insopportabile? È questa dinamica di «stallo» che ci porta a pensare la guerra civile come se fosse sempre contenuta nella situazione attuale, in qualsiasi parte del mondo, dalla peggiore delle dittature fino alle democrazie solide. Ed anche lì, ci troviamo a tremare davanti all'idea di impantanarci in una guerra civile in cui lo Stato conserva tutti i suoi mezzi logistici: la Siria di Bashar-al-Assad è lì a ricordarci di cosa è capace uno Stato che riesce ad aggregare dietri di sé una parte della popolazione contro l'altra. Tutto ciò può durare, e qui la durata diventa l'annientamento programmato.
Ecco perché oggi ogni movimento che comincia ad estendersi, entra immediatamente in una zona sconosciuta, piena di incertezze e piuttosto terrificante, nella quale le sole prospettive sono quelle di un ritorno ad un «normale» che diventa sempre più invivibile, dove l'alternativa è tra l'essere schiacciati ed il caos della guerra civile. Per il capitale, la fine della politica, non è altro che la guerra. Si vedono queste condizioni come si stanno verificando in Francia, in un movimento «classico» che, se vogliamo, in una lotta contro la riforma delle pensioni vede questa logica distruttiva dispiegare le sue premesse, mentre venti o trent'anni fa si traduceva in una sorta di danza nuziale ritualizzata tra le «parti sociali» e lo Stato, e questo ci dice quanto sia profonda la crisi nella quale siamo entrati. Ciò che si sta preparando in Francia, ovviamente, non ha alcuna misura comune - quantitativamente parlando - con ciò che sta accadendo in questo momento in Cile o in Iraq, ed ogni situazione va compresa per sé stessa, ma tutto ciò indica comunque una situazione generale, la quale è davvero globale. Il punto comune tra il modo in cui lo Stato francese affronta il movimento contro la riforma delle pensioni, ed i movimenti come quelli in atto in Medio Oriente o in America Latina, consiste in questa situazione nella quale lo Stato non ha più niente da dare (e nei casi precedenti, la crisi dello Stato redditiere, estrattore e redistributivo non faceva altro che manifestare questa situazione in maniera ancora più violenta) e in cui in realtà non ci aspettiamo più niente da lui, mentre tuttavia questa rimane l'unica prospettiva di lotta: «la gente vuole la caduta del regime», ovunque, dappertutto, all'infinito. Ed è proprio in questo che consiste il vero e proprio «blocco», in questo interminabile faccia a faccia con lo Stato. Oggi, vederlo in maniera diversa dalla prospettiva di una crisi rivoluzionaria mondiale sarebbe una follia, significherebbe fare del nichilismo, vorrebbe dire non prevedere in questo quadro alcuna prospettiva comunista.
In tale prospettiva, le lotte evolveranno come possono, in quanto non esiste alcuna avanguardia in grado di dare una direzione a queste lotte. La radicalità non la si trova né nelle idee né nelle persone, bensì nella situazione. Tuttavia, sarebbe irresponsabile non sottolineare questo semplice fatto: le «lotte sulla circolazione» e la strategia del blocco, così come la pura prospettiva rivoltosa, sono destinate alla sconfitta. La loro unica prospettiva è quella di riuscire a destabilizzare lo Stato per costringerlo a migliorare quelle che sono le condizioni di esistenza delle masse proletarie, che il capitalismo esclude o lascia fuori dalla sua «normalità», ma una tale prospettiva inclusiva non è più all'ordine del giorno. In un caso simile, allo Stato spetta solo organizzare lo sblocco e il ritorno all'ordine, cosa per cui possiede in abbondanza i mezzi per riuscire a farlo. Qualsiasi cosa pensino alcuni  sognatori, sul terreno della logistica non riusciremo ad essere più efficienti dello Stato, né facendo uso del blocco, né attraverso la rivolta. Tutt'al più, nel migliore dei casi, se la crisi si generalizza, possiamo ottenere un cambio di quello che è il personale politico che andrebbe ad organizzare il ritorno alla normalità; mentre, nel peggiore dei casi, ci schiacceranno. Quello che lo slogan «blocchiamo tutto!» non dice, è «per fare cosa?» Esattamente, per quale «vittoria»? E con quali possibilità di riuscita? Di fronte alla prospettiva di questo fallimento programmato, bisogna al contrario dire che un movimento rivoluzionario che cominci a darsi la possibilità di prevalere non ha altra scelta che quella di attaccare la produzione, di impadronirsi degli elementi produttivi, e cominciare a praticare una produzione senza scambio, gratuitamente; impadronirsi dei mezzi di circolazione, piuttosto che cercare di bloccarli a tutti i costi, ecc., vale a dire mettere immediatamente in atto il comunismo. È solo in questo quadro, in cui il movimento cominci a rendere possibile la vita al di fuori del capitale, in cui la lotta non si limiti più al mortale faccia a faccia con lo Stato, che la rivolta ed il blocco possono giocare un ruolo positivo. Inutile dire, che siamo ancora assai lontano da questo.

- Blog Carbure - Pubblicato il 1° dicembre 2019 – [il “corsivo” è mio]

fonte: Blog carbure

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