giovedì 31 ottobre 2019

Gentiluomini di fortuna

Un uomo barbuto, legato mani e piedi a una zattera di fortuna, galleggia alla deriva nell'oceano Pacifico. Così, nel lontano 1967, si inaugura l'epopea di Corto Maltese, antieroe per eccellenza e icona del fumetto mondiale. Nelle sue tante avventure, Pratt ha lasciato trapelare solo piccoli indizi su quello che è accaduto al suo personaggio prima di quell'indimenticabile apparizione. Oggi, a più di cinquant'anni dal fulminante esordio, Canales e Pellejero squarciano il velo su quel passato misterioso e raccontano l'appassionante catena di eventi che portarono Corto a ritrovarsi in balia delle onde, condannato a morte certa dagli uomini del suo stesso equipaggio.

(dal risvolto di copertina di: "Il giorno di Tarowean. Corto Maltese" di Rubén Pellejero, Juan Díaz Canales. Lizard.)

Corto Maltese. Alle origini del mito
- di Francesco Fasiolo -

Barba incolta, seminudo, negli occhi la follia di chi è stato legato su una zattera alla deriva: così ci è apparso per la prima volta Corto Maltese. Era il 1967 e Una ballata del mare salato è ancora oggi la sua avventura più conosciuta, oltre a essere opera fondamentale per la storia del fumetto. Lo spazio di qualche pagina e Hugo Pratt avrebbe fatto assumere al marinaio l’immagine diventata icona in tutto il mondo: avventuriero sì, ma con un suo stile da “gentiluomo di fortuna” e l’aplomb di chi sa di essere un uomo libero da catene e pregiudizi. Ma cosa era successo prima? «Mi sono sempre chiesto chi avesse legato Corto su quella zattera nell’oceano Pacifico», confessa Rubén Pellejero, il disegnatore che insieme allo sceneggiatore Juan Díaz Canales ha raccolto dal 2015 l’impegnativa eredità del personaggio. Da questa curiosità nasce Il giorno di Tarowean (Rizzoli Lizard, in libreria dal 22 ottobre), terzo albo di Corto realizzato dai due autori spagnoli. Un’avventura esotica e ricca di sotto-trame che comincia esattamente un anno prima della Ballata: il primo novembre 1912, nel giorno di tutti i santi o delle sorprese, detto appunto Tarowean.

Il nuovo albo è ambientato soprattutto nelle isole del sud est asiatico. In particolare vi concentrate sul Regno di Sarawak, ex colonia britannica che oggi è una regione della Malesia. Che tipo di lavoro di documentazione avete svolto?

CANALES: «Come per le altre storie di Corto, le prime influenze sono state letterarie: Stevenson e Jack London su tutti. Ed è grazie a Emilio Salgari che ho appreso dell’esistenza del Regno di Sarawak: nei Pirati della Malesia è la terra governata dal Rajah bianco, nemico di Sandokan. Successivamente ho fatto delle ricerche storiche su quella zona del Borneo e ho scoperto che si adattava perfettamente allo spirito avventuriero di Corto Maltese».

PELLEJERO: «Juan mi passava immagini di personaggi e località e poi mi documentavo. Oggi con internet è tutto più facile, ma io evito di concentrarmi solo sull’uso di elementi fotografici: preferisco ricostruire quei luoghi nella mia mente. Il risultato è un mix di realtà e immaginazione, un mondo credibile ma non necessariamente tutto reale».

In una sequenza il capo dei Dayak, nativi dell’isola, dice a Corto: “La guttaperca (sostanza simile alla gomma) sembra avere dato alla testa dei bianchi, che ci obbligano a sfruttare i boschi fino ad esaurirla, lasciandoci senza risorse”. Il tema dello sfruttamento dell’ambiente è quanto mai attuale: il riferimento è voluto?

C: «Sì, ma non volevo che sembrasse forzato. All’epoca non esisteva una coscienza ecologica, ma possiamo immaginare che le popolazioni indigene avessero capito bene che il colonizzatore bianco sfruttava loro e i loro territori in nome del denaro. L’importante per l’uomo occidentale è il guadagno, non le foreste che bruciano: questo era un problema già allora, dunque non ho inventato nulla ma piuttosto ho rappresentato una realtà storica».

Corto è nato editorialmente nel 1967 e le sue avventure sono ambientate nei primi tre decenni del secolo scorso. È dunque a tutti gli effetti un’espressione del Novecento. Cosa può dire ai lettori di oggi?

C: «È stato molto intelligente da parte di Pratt collocare il suo personaggio in un periodo così denso di trasformazioni. L’era dell’imperialismo e del colonialismo si avviava verso la fine, e dopo la Seconda guerra mondiale sono cominciati quei processi che hanno portato alla globalizzazione. Attraverso Corto esploriamo gli anni in cui tutto stava cambiando e un certo mondo stava morendo: questo può aiutarci a comprendere meglio oggi la fine delle ideologie e il capitalismo contemporaneo».

P: «E poi i valori di Corto restano attuali: l’empatia verso il prossimo, la ricerca della libertà non solo per se stessi, ma anche per gli altri. Quel secolo rappresenta questo tipo di libertà: c’erano molte frontiere naturalmente, ma il semplice fatto di viaggiare poteva essere un’avventura e una scoperta».

C: «Stava finendo l’era delle grandi esplorazioni ma nel mondo in cui si muoveva Corto era ancora possibile arrivare in luoghi nuovi e sconosciuti. E questo, da un punto di vista narrativo, è una miniera d’oro».

Dopo “Sotto il sole di mezzanotte” ed “Equatoria” come si evolve nel nuovo albo il rapporto tra lo stile di Pellejero e quello di Pratt?

P: «Stavolta mi sono lasciato trasportare dal tratto molto di più rispetto ai due albi precedenti. E per quanto riguarda il colore, voglio allontanarmi da una lavorazione tipo acquarello per arrivare invece a un colore piano, netto, che dà più forza alle immagini e le rende più narrative. Anche se forse si direbbe il contrario, non ho studiato troppo lo stile di Pratt: cerco sempre di fondere in modo naturale alcuni elementi prattiani con il mio modo di disegnare. Ho fatto degli sforzi mentre disegnavo il personaggio per via della sua estrema complessità a livello fisico. Fare un omaggio a Corto Maltese è facilissimo. Disegnarlo nelle vignette, farlo muovere, sorridere, esprimere emozioni, è molto più difficile».

Ambientando l’albo prima della “Ballata” continuate a svelarci aspetti del Corto giovane. Sta accadendo anche per un altro gigante del fumetto italiano, Tex: una serie Bonelli è appositamente dedicata ai suoi anni giovanili.

C: «Questo risponde a un interesse sincero del lettore che vuole sapere come sono diventati eroi i personaggi più amati. Ma è sempre successo, da Don Chisciotte a Romeo e Giulietta, che qualcuno riprenda i personaggi più famosi per creare nuove avventure. Anzi, è proprio questo che definisce un classico».

P: «E Corto Maltese lo è, Pratt era un autore immenso. Quando un’opera resta nel tempo e arriva a definire una scuola e un modo di raccontare, allora diventa un classico. Ai giorni nostri è difficile ottenere questo risultato, perché il ventaglio di offerte è sempre più vasto».

Della vicenda di Corto Maltese non conosciamo la fine. Pratt (morto nel 1995) ci ha lasciato qualche indizio: in una sua opera, “Gli scorpioni del deserto”, ci ha detto che è “sparito” durante la guerra civile spagnola. Affronterete questo tema prima o poi?

C: «Forse, ma non abbiamo fretta. Pratt altre volte ha detto che il suo marinaio è sopravvissuto alla guerra ed è diventato cieco: ha voluto lasciare nel mistero l’ultima parte della vita di Corto e la sua morte».

P: «Ci sono ancora tante storie da raccontare prima di arrivare a toccare questo argomento. E poi il fatto che Pratt abbia scritto che Corto è “sparito” durante la guerra civile ci dà margine per immaginare le avventure che potrebbe aver vissuto dopo quei durissimi anni».

C: «Certo, sarebbe un Corto molto diverso da quello di cui ci stiamo occupando ora, dal momento che avrebbe circa cinquant’anni. Sarebbe una grande scommessa scriverne, ma per ora… meglio restare nell’ambiguità».

- Intervista di Francesco Fasiolo - Pubblicata su Robinson del 19/10/2019 -

mercoledì 30 ottobre 2019

Pacchi

La critica del valore come confezione ingannevole
- di Thomas Meyer -

1. Introduzione
Sono già passati alcuni anni dalla scissione di Krisis e dalla conseguente dissoluzione di quello che era il suo contesto precedente (cfr. Kurz, 2004). Anni durante i quali i testi di Krisis (e di Streifzüge) sono stati criticati più volte da Exit. [*1] Sia che si trattasse di una critica riduttiva del lavoro, o che nascondessero ed ignorassero le critiche al sessismo, all'antisemitismo e al razzismo, sia che esprimessero un punto di vista della classe media degli uomini precarizzati (cfr. Scholz, 2005). Con il riferimento positivo al «software libero», insieme allo scandalo delle merci che si presume non siano più tali, vale a dire, con la propaganda dei cosiddetti «beni universali», così come con la presunta «sorella delle merci», divenne evidente la fissazione sulla sfera della circolazione e l'adesione all'individualismo metodologico (cr. Kurz, 2008).
A partire dalla pubblicazione del libro "La Grande Svalorizzazione" (Lohoff; Trenkle 2012), il termine di «merci di second'ordine» (obbligazioni, prodotti finanziari, ecc.) ha cominciato a circolare in diversi testi di Ernst Lohoff, nei quali le merci di prim'ordine rappresentano i beni di consumo abituali (mele, automobili, armadi, ecc.). Le «merci di second'ordine» sarebbero la «nuova merce di base», in quanto nuova «base della valorizzazione del valore» al posto ed in sostituzione della forza lavoro (Lohoff 2016, 17) e, infine, le merci di second'ordine sarebbero la nuova «merce-denaro» che avrebbe sostituito l'oro (Lohoff 2018, 11). Mentre la nuova merce denaro « [esiste] solo dal lato delle attività di bilancio della banca centrale» (ivi, 38). La crisi del capitalismo viene negata a partire dal fatto che si afferma, in tutta serietà, che l'accumulazione di capitale fittizio non è affatto fittizia, e che il lavoro non è assolutamente l'unica fonte di produzione di plusvalore. Anche Norbert Trenkle condivide questo punto di vista, scrivendo nella postfazione alla nuova edizione del Manifesto contro il Lavoro: «Nella nostra visione di allora, l'accumulazione nei mercati finanziari aveva fondamentalmente un carattere di apparenza - al contrario della "accumulazione autentica" che avveniva attraverso l'utilizzo della forza lavoro - e, perciò, ci sembrava logico che ben presto avrebbe raggiunto i suoi limiti. Ciò ha portato anche a poter fare delle affermazioni molto generiche ed astratte sulla dinamica del mercato finanziario e sulla sua logica interna, nonché sui suoi effetti sociali. Tuttavia, se solo si considera la lunga durata dell'era del capitale fittizio, tutto ciò appare estremamente insoddisfacente ed indica una debolezza dell'analisi teorica. È per tale motivo che, più recentemente, abbiamo progressivamente concentrato la nostra attenzione sull'analisi della storia interna all'era del capitale fittizio. Questo, tuttavia, ha richiesto una precisazione del concetto di capitale fittizio, e un corrispondente strumento categoriale, per mezzo del quale si possa comprendere la moltiplicazione del capitale fittizio in quanto forma specifica dell'accumulazione di capitale. In primo luogo, doveva essere spiegato su che cosa si basava il potenziale di accumulazione specifico del capitale fittizio, il quale non è in alcun modo meramente "apparente", e, in secondo luogo, da cosa derivano i limiti interni di questa forma specifica di accumulazione del capitale, e come essi vengono raggiunti. Sono passati già alcuni anni, da quando Ernst Lohoff ha compiuto questo passo teorico nel libro "La Grande Svalorizzazione" [...] Se ora comprendiamo l'accumulazione di capitale fittizio, non più solo come "accumulazione apparente", bensì come una forma specifica di accumulazione che segue le sue proprie leggi (e possiede i suoi propri limiti interni), allora possiamo anche mostrare in maniera più dettagliata quali conseguenze tutto ciò abbia sulla categoria del lavoro - e quindi sulla massa di persone che dipendono dalla vendita della loro forza lavoro. Per prima cosa, emerge che il lavoro, dal punto di vista economico, soffre di una perdita fondamentale di senso nel momento in cui il capitale ormai non aumenta più essenzialmente per mezzo dell'uso della forza lavoro, ma si riferisce innanzitutto direttamente a sé stesso.» (Trenkle, 2019).
L'«assurda teoria della pseudo "economia politica"» (Kurz, 2008, 166) di Lohoff verrà perciò sottoposta ad una critica più dettagliata. Qui ho fatto riferimento alla precedenti critiche a "La Grande Svalorizzazione" (cf. Czorny 2016; Hüller 2015, 345-357), ma mi riferisco soprattutto ai testi più recenti di Lohoff (Lohoff 2014, 2016, 2018) e non a "La Grande Svalorizzazione". Prima di far questo, ricorderò ciò che è essenziale a proposito del lavoro astratto, della merce denaro e del processo capitalistico di valorizzazione in quanto processo sociale globale.

2. Il lavoro astratto, il «processo globale» e la merce-denaro
Per svolgere una critica del modo di produzione capitalista che cerchi di lasciarsi alle spalle le carenze del marxismo del movimento operaio, è assolutamente indispensabile prendere nota di quello che è il concetto negativo di lavoro astratto e mostrare il processo di produzione capitalistico come processo globale. [*2] Sotto vari aspetti, il marxismo del movimento operaio ha fallito a causa di questo, e la stessa cosa è accaduta a molti che oggi si riferiscono a Marx (come Michael Heinrich, Rainer Trampert ed altri). La critica marxista tradizionale ha insistito, di fatto, sul piano della circolazione, in quelli che sono stati i rapporti di proprietà sempre tematizzati nella distribuzione e nella lotta di classe. Ad essere considerato uno scandalo non è stato il plusvalore sottratto ai lavoratori. Ciò è ovviamente dovuto al fatto di rimanere in un'ontologia borghese del lavoro, e nell'ontologizzare o destoricizzare le categorie reali in generale. Chiaramente, questo pensiero a-storico era stato diffuso già da Engels, il quale assumeva la validità della legge del valore riferendola già a migliaia di anni fa (in: Supplemento e aggiunta al Terzo Libro del Capitale). In una variante ritardataria del capitalismo moderata dallo Stato, insieme alle relazioni borghese di genere, alla tecnocrazia e alla mania di dominio della natura, ecc., sono state queste le conseguenze per il marxismo del movimento operaio. Ciò dimostra che il marxismo, nelle sue manifestazioni abituali, è stato il motore della stessa modernizzazione.
Insieme all'ontologia del lavoro ed all'incapacità di comprendere la distruttività del lavoro astratto, in maniera conseguente, è stata anche sostenuta una teoria della crisi i cui rappresentanti, tuttavia, erano estremamente minoritari, pur rimanendo essa stessa riduttiva nei termini dell'ontologia del lavoro e della circolazione (cfr. a proposito della teoria della crisi di Luxemburg e di Grossmann: Kurz, 2005). Ai marxisti, una crisi del capitalismo sembrava concepibile solo come il risultato di una volontà collettiva (rovesciamento della classe capitalista da parte della classe lavoratrice, ecc.), vale a dire, non si riusciva a vedere la possibilità di una crisi di quella che era la sostanza del capitale, cioè, una crisi proprio del lavoro astratto. La fine del capitalismo sembrava quindi concepibile solo passando attraverso la presa del potere da parte del proletariato, e questo significava solo che il proletariato (sotto l'orientamento e la guida del partito «di avanguardia») avrebbe preso il controllo della bottega (cfr. Kurz, 2005, 189ss.). «Superare senza recuperare» («Überholen ohne Einzuholen») si diceva nella RDT!
L'avversione nei confronti di una teoria della crisi ha soprattutto a che vedere con il fatto che «la minaccia e la sfida di collasso oggettivo della valorizzazione, dovuto alla sue stesse contraddizioni, [...] potrebbe, per così dire, rubare il mestiere al proletariato, alla meravigliosa classe operaia, lasciandola disoccupata, non solo nel senso della riproduzione immediata, ma anche come soggetto storico. È questa la causa più profonda della fobia per l'idea di collasso. Qui, sostanzialmente, non si tratta nemmeno di una questione di riflessione critica sull'economia, nel contesto della teoria marxista della crisi, ma di una coerenza ideologica di base, che può essere colta solamente ricorrendo alla critica dell'ideologia, e non alla teoria della crisi» (Kurz, 2205, 189.). Rimanere a livello di circolazione, rappresentando un'ontologia del lavoro, alla fine porta all'abbandono della negatività e alla vera distruttività del lavoro astratto, per cui le conseguenze distruttive del modo di produzione capitalistico rimangono esposte non sufficientemente (se non addirittura non esposte). Ne "La Sostanza del Capitale", Robert Kurz ha scritto:
«Sotto i dettami di questa produzione e realizzazione di ricchezza astratta, ogni giorno cessano, per mancanza di redditività e solvibilità, produzioni destinate anche alle necessità elementari, in quanto la produzione di merci distruttive per necessità distruttive (non solo quelle che riguardano l'industria degli armamenti) viene ulteriormente rafforzata. Ma non è solo in tal senso che l'astrazione del contenuto delle necessità si afferma massicciamente nel processo di produzione. Anche i contenuti della produzione in sé apparentemente non distruttivi vengono modellati distruttivamente, nel senso del lavoro astratto. Se vengono creati pomodori senza cura per il sapore ed in funzione di quelle che sono le norme di confezionamento per le reti di distribuzione su scala continentale, oppure se le mele vengono trattate con la radioattività per prolungare la loro durata, o se gli alimenti in generale vengono snaturati nell'esclusivo interesse dell'obiettivo della valorizzazione, e tutta la ricchezza storicamente accumulata a partire da una molteplicità di piante e di animali si perde a favore di una "povertà di varietà", ridotta nel nome della semplificazione economico-imprenditoriale, se nella costruzione delle case, fatta sotto l'imperativo della riduzione dei costi, imposto dall'economia imprenditoriale, vengono utilizzati materiali pregiudiziali per la salute, o emerge una divisione disfunzionale dello spazio che è un insulto all'estetica: allora, è il contenuto materiale ad essere guidato dalla determinazione della valorizzazione, e non il contrario; e con il crescente sviluppo capitalista, questo avviene in misura storicamente crescente.» (Kurz, 2004, 1119.).
La distruttività e la follia della produzione capitalista sono, pertanto, già evidenti nel cosiddetto valori d'uso e nella loro produzione. Una critica teorica che si limita alla mera ridistribuzione dei valori d'uso (ossia, dei beni) oppure nell'assumere il controllo dell'apparato produttivo esistente (e dell'apparato statale), nell'essenziale, finirebbe sicuramente per fallire. La pratica che ne deriverebbe sarebbe altrettanto riduttiva o assurda.
Un secondo grave deficit consiste nel rimanere al livello del capitale individuale. In parte, ciò è dovuto alla problematica, o alla difficoltà di esposizione dell'opera stessa di Marx, nella misura in cui il Primo Volume de Il Capitale dà certamente l'idea che esista qualcosa di simile a dei valori definibili individualmente (cfr. cf. Kurz 2012, 167ss. [2014, 170ss.]). Dall'altro lato, però, questo è anche conseguenza di un rifiuto a pensare: Pertanto, si potrebbe sempre sostenere che, a livello di capitale individuale, per il capitale le cose non possono andare male, dopotutto, in quanto alcuni conglomerati stanno intascando dei profitti succulenti, insieme ai numerosi benefici fiscali che vengono loro gettati in bocca da tutti i tipi di regimi corrotti. Ma quello che è il punto di vista del capitale individuale, non riesce a comprendere la dinamica capitalistica della valorizzazione, ossia, il processo globale che prevale dietro le spalle degli attori, come se fosse un disastro contro di loro. La coercizione silenziosa della concorrenza continua: se si potesse determinare il lavoro «contenuto» nel prodotto individuale e, di conseguenza, il valore del suo lavoro individuale (ad esempio, attraverso un «calcolo retroattivo») [*3], ed il capitalista realizzasse effettivamente sul mercato (con una vendita andata a buon fine) ciò che ha prodotto dentro le sue quattro mura, la cosa non sarebbe chiara, perché non si saprebbe in che misura avrebbero realmente concorso i singoli capitali individuali; come dice Marx, non sarebbe chiaro che ciò significa che non è il tempo di lavoro in sé a determinare il valore, bensì è il tempo di lavoro socialmente necessario (cfr. Marx 2005, 53s.).
Naturalmente, la prospettiva del capitale individuale è anche la prospettiva del soggetto borghese limitato sul mercato. In ultima analisi, si arriva a questa prospettiva nell'economia politica borghese che non ha idea di un livello totale del capitale, poiché assume che in ultima analisi il capitale totale sarebbe solo il risultato della somma, o dell'estrapolazione della prospettiva dei capitali individuali. L'economia politica e la «teoria del valore individuale» sono, pertanto, caratterizzati dal cosiddetto individualismo metodologico, che non prende in considerazione il fatto che il «tutto» ha una sua propria qualità rispetto all'«individuale», e non solo: ma anche che il «tutto ha un suo potere occulto, che esercita nei confronti dell'individuale» determinandone la forma. È esattamente questo ciò che rende così speciale il feticismo della produzione di merci. Già nei Grundrisse, Marx afferma che, nella società borghese, l'«interesse privato è in sé un interesse socialmente determinato» (Marx, 1953, 74). Il «tutto» costituisce, quindi, il presupposto dell'«individuale».
Spiega Kurz: «Ma se questa totalità, o "processo globale" - in quanto feticcio del capitale o "soggetto automatico" - costituisce il vero presupposto e, quindi, la determinazione dell'essenza della sua relazione resasi autonoma nei cofronti dei propri attori, ai quali è sfuggita di mano, di modo che così anche i produttori privati, o il capitale individuale, si trovano, in realtà, socializzati "alle loro spalle" prima ancora di impegnarsi empiricamente nelle relazioni di mercato. Questi, in quanto attori reali, possono consumare solo attraverso il mercato, a posteriori, ciò che oggettivamente esiste già a priori, vale a dire, attraverso la mediazione universale, la mutua dipendenza e la suddivisione profondamente gerarchizzata della riproduzione sociale. [...] Ciò che costituisce questi attori, e che non appare, in quella che è la loro limitata percezione, come un oggetto distinto - vale a dire, l'entità presupposta del "processo globale" -, tale entità, in un modo composto di fatti immediati, scompare. Pertanto, i concetti ordinari della relazione di capitale vengono, da un lato, definiti in maniera soggettivistica, sia dal marxismo tradizionale che nell'economia politica o nel pensiero postmoderno, mentre, dall'altro lato, quella che è la ragione condizionante non riconosciuta come tale assume la forma dell'oggettività positiva e insormontabile propria delle "leggi" esterne.»  (Kurz 2012, 173, 177) [Kurz 2014, 153, 157].
  I capitali individuali non realizzano la quota di valore cui miravano all'interno delle loro quattro mura, ma la quota che riescono ad attrarre attraverso la concorrenza contro altri capitali (ivi, 181 [160]. La concorrenza determina anche se un capitale individuale possa realizzare per sé una parte del valore sociale globale. La circolazione e la produzione sono momenti di un processo globale che non possono essere separati l'uno dall'altro. Qui, la produzione di valore e la realizzazione del valore si decompongono. La produzione è «essenzialmente produzione di valore» e produce «l'oggettualità del valore in un processo di astrazione reale», «mentre la circolazione determina quale sia la quantità socialmente valida di quella oggettualità di valore nel "realizzarla"» (Kurz 2005, 221). Kurz continua ad argomentare (contro Michael Heinrich): «Socialmente, il lavoro concreto non è altro che la manifestazione del lavoro astratto; socialmente, il dispendio di forza lavoro non è altro che un quantum di lavoro astratto. Ma questo carattere sociale del lavoro in quanto realmente astratto non può prendere immediatamente forma, poiché la relazione di produzione non è una relazione immediatamente sociale, ma si presenta sotto forma di unità di produzione separate ("imprese"). Ciò non significa, tuttavia, che nel capitalismo il modo specifico di socializzazione sia solo il modo di circolazione [...] ma significa piuttosto che la circolazione trasmette soltanto il carattere sociale specifico della produzione. [...] Dal punto di vista sociale, ciascun processo di produzione individuale non è niente più che una frazione del dispendio di una massa sociale totale di lavoro astratto. La "validità" del dispendio può, pertanto, essere solo sociale totale, ma non può presentarsi come tale. Perciò, tale rappresentazione appare immediatamente come tempo di lavoro, ma solo nella sua forma trasformata come denaro, come prezzo realizzato. Poiché la merce individuale entra in circolazione come oggettività del valore, come una qualità sociale che è già "fantasmogaricamente" ridotta a lavoro astratto, ecco che la quantità di questo lavoro astratto può solo apparire, ed essere determinata, nell'oggettualità trasformata e cosificata del denaro. Il feticismo del lavoro astratto visto come fine in sé stesso appare nel feticismo del denaro come se fosse un fine in sé stesso» (ivi, 224s.). L'individuale viene quindi determinato dalla totalità, dal processo globale capitalista. Una teoria monetaria deve tener conto anche di questo.
Marx ha già sottolineato quale fosse il carattere di merce del denaro, prendendo le distanze da una teoria simbolica del denaro. Dal momento che il denaro può essere sostituito per mezzo di un simbolo, è nata l'idea secondo la quale il denaro in sé fosse solo un simbolo, un mero mezzo di informazione sul prezzo. Quest'idea secondo cui il denaro è privo di sostanza, sia solo un simbolo, è ancora oggi generalizzata, per cui si dice in molte situazioni che il denaro è tutto ciò che può funzionare come denaro. Questo concetto è, in sé, un'espressione della miope soggettività del mercato, e deriva dal malinteso ideologico della circolazione, per cui il capitalismo si occuperebbe solo dello scambio delle merci. Ma anche qui il livello del capitale individuale, del partecipante individuale al mercato, è fuorviante: nella teoria di Marx, il denaro «smette di essere uno strumento passivo, o un "mezzo di informazione" passivo per i partecipanti al mercato, e diventa la forma in cui si manifesta il fine in sé irrazionale capitalista, e non si limita ad essere, proprio per questo, una merce universale, ma, piuttosto, la "merce regina": è impossibile che quello che è il mezzo propriamente detto del fine in sé possa essere una forma speciale più o meno trascurabile finalizzata all'uso domestico che ne fanno i soggetti del mercato, ma, nella sua specificità rispetto alla "popolazione delle merci", deve assumere un'importanza centrale (negativa) e determinare, esso stesso, i soggetti del mercato, anziché essere determinato da loro come se fosse una semplice fiche da gioco per le loro azioni presunte come "libere".» (Kurz, 2014, 188.). Ciò, tuttavia, significa anche che il denaro va pensato a partire dal singolo atto di scambio, ma dev'essere «derivato dal processo capitalistico globale» (ivi, 214), vale a dire che solo il denaro «può essere spiegato a partire dal "processo globale"» (ivi, 216). Sebbene tutte le merci siano valore e valore d'uso (nelle quali merci, il valore d'uso è solo una manifestazione del valore, dal momento che la produzione di un valore d'uso avviene in quelle che già sono condizioni di valorizzazione capitalistica), il valore d'uso della merce denaro consiste nella sua oggettualità stessa del valore. Il valore d'uso della merce denaro consiste nell'«esprimere o rappresentare in termini reali il valore astratto di tutte le altre merci (la sua paradossale oggettualità del valore astrattamente sensibile, in quanto oggetto rappresentativo dell'energia del lavoro astratto passato)» (ivi, 215).  Il movimento del fine in sé del capitale D-M-D' è la metamorfosi del denaro in merce e della merce in più denaro: quella parte della massa totale del valore che un capitale individuale riesce ad attrarre attraverso la concorrenza, deve essere in grado di trasformarsi in denaro, ed il denaro deve esprimere quella parte. In tal modo, la «massa del valore totale delle merci [...] deve duplicarsi nella massa del valore totale del denaro» (ivi, 219). Diversamente, la massa di valore non potrebbe essere realizzata e le «metamorfosi del capitale» (ivi, 220) non potrebbero essere completate. Quindi, se ci si trova di fronte ad un'accumulazione di capitale nella sfera finanziaria che non è più proporzionale al capitale reale, questa accumulazione di capitale, al contrario di quello che crede Lohoff, è in realtà solo un'accumulazione apparrebbe, e sicuramente non ha niente a che vedere con la produzione di plusvalore (vedi sotto). A meno che l'accumulazione di capitale non dipenda dal dispendio di lavoro astratto, in un caso simile, in ultima analisi, andiamo a finire nel punto di vista dell'economia politica borghese  e nella sua teoria del valore soggettivo, alla quale Lohoff presumibilmente si oppone.

3. Krisis senza teoria della crisi
Ciò dovrebbe aver chiarito che quello che Robert Kurz definisce la merce-denaro in quanto espressione della sostanza del lavoro, in quanto mezzo per conservare il valore. Rappresentando la merce-denaro come una sostanza funzionale, non importa se sia l'oro o qualsiasi altra cosa, ad essere cruciale è che essa sia espressione della sostanza del lavoro reale, vale a dire, del lavoro astratto che viene effettivamente speso in maniera proficua. Per cui è un po' strano che Lohoff collochi Robert Kurz tra i metallisti (Lohoff, 2018,9). Ciò dimostra solamente che non ha capito quale fosse la posizione di Kurz.
Pertanto, quando il denaro abbandona la convertibilità in oro, ciò non significa che il denaro prima fosse essenzialmente solo un simbolo,e che dipendesse realmente da un corpo d'oro (o di un altro metallo prezioso), ma che piuttosto l'abolizione della convertibilità in oro è l'espressione di una crisi nella sostanza del lavoro stesso (cfr. Kurz, 2005 b, 114ss.), e di certo non pone la questione di «dove si deve andare a cercare la merce-denaro dopo la separazione definitiva del denaro dall'oro avvenuta all'inizio degli anni '70» (Lohoff, 2018, 8). Come già accennato nell'introduzione, nei suoi ultimi testi Lohoff sostiene che l'accumulazione fittizia non è fittizia o solo apparente. La logica è piuttosto scarsa e ricorda il positivismo di Michael Heinrich (cfr. Kurz, 2012, 294ss.). Quindi, Lohoff scrive: «Chiunque non intenda violentare la realtà empirica del capitalismo attuale deve, pertanto, partire dalla quella che è la tendenza stessa della formazione di capitale inerente al denaro ed ai mercati di capitali» (Lohoff, 2016,7). E in un altro punto, un po' più dettagliato: «Il presupposto secondo il quale qualsiasi aumento di capitale sociale  totale possa sempre essere attribuito all'effettivo precedente utilizzo di lavoro, è lontano da riuscire a definire la caratteristica principale della nostra epoca, e solo costringendolo con la forza può essere allineato con quelli che sono gli sviluppi empirici degli ultimi trent'anni. Sono le proporzioni stesse che parlano da sé sole un linguaggio ben chiaro. Quale gigantesco aumento nella produzione  globale di plusvalore avrebbe dovuto esserci stato negli ultimi trent'anni, se avesse dovuto fornire materiale per l'enorme aumento delle attività finanziarie globali , portandole da 12 a 231 miliardi di dollari? In che modo il "valore totale dei derivati in circolazione è potuto arrivare a 12 volte il PIL mondiale, se si pretende che esso rappresenti solo un plusvalore redistribuito? Dopotutto la massa di plusvalore è sempre significativamente inferiore al PIL, il quale rappresenta la somma di tutti i tipi di profitti e rendimenti. Perciò, si potrebbe anche supporre che un litro di latte può essere trasformato in 100 kg. di formaggio» (Lohoff, 2014, 11). Nella sua argomentazione, Lohoff assume di fatto che non esiste capitale fittizio ( o che quella finzione, sia in sé soltanto fittizia), poiché solo in quel modo può aver senso attribuire sostanza di valore reale ai derivati in circolazione. In caso contrario, la metafora di Lohoff potrebbe essere letta al contrario: se 100 kg di formaggio venissero prodotti  a partire da un litro di latte, il formaggio potrebbe solo essere fittizio.
Lohoff chiama «capitalismo inverso» (Lohoff, 2016, 13) il fatto che, a partire dal decennio degli anni '70, l'economia reale sia diventata un'appendice del capitale finanziario. Nel capitalismo inverso, la «merce di base» (ossia, la merce che può creare plusvalore) non è più il lavoro, «bensì la merce capitale-denaro e la sua capacità occulta di duplicarsi nella vendita» (ivi, 17s.). La radicale mutazione causata dal neoliberismo e dall'ascesa del capitalismo finanziario, viene interpretata nel senso che si tratta di una mera mutazione strutturale radicale avvenuta all'interno del capitalismo, una mutazione in quello che è il modello di accumulazione, per così dire, e non viene presa in considerazione in maniera adeguata su quello che è lo sfondo del dissolversi della sostanza del lavoro, in quanto Lohoff suppone che la sostanza del lavoro non sia più così tanto importante e decisiva, ma sia stata semplicemente sostituita, o potrebbe essere sostituita, da una nuova merce di base in grado di accumulare capitale (senza precisare che crei plusvalore). Ecco com'è! Lohoff, pertanto, scrive in vari luoghi che il capitalismo finanziario non è più l'espressione di una crisi, bensì, in ultima analisi, è «autosufficiente» (per lo meno, fino al 2008) (per esempio, ivi, 16, 28). Il fatto che il capitalismo finanziario abbia effettivamente «funzionato» per molto tempo, viene frainteso, nel senso che qui ormai non esiste più una crisi di accumulazione: «Con la crisi del fordismo, il capitalismo aveva raggiunto il suo limite storico in quanto sistema che usava sempre più lavoro vivente. Esso poteva perciò solo superare la crisi (!) e tornare sulla strada della crescita (!), poiché la liquidazione della precedente produzione di valore aveva raggiunto una qualità del tutto nuova. A partire dagli anni '80, la dinamica della creazione fittizia di capitale aveva assunto il ruolo di vero (!) motore della crescita» (Lohoff, 2018, 7). Lohoff non vuole sapere cosa stia realmente crescendo, e che cosa questo significhi per la società nel suo complesso. Dal momento che il capitalismo trainato dalla finanza deve consumare quello che è il suo proprio futuro per poter ritardare la sua propria miseria, esso diventa l'espressione stessa del limite interno della valorizzazione del capitale, e non è affatto in alcun modo un motore autosufficiente della nuova dinamica di crescita. Sebbene la creazione fittizia venga usata per «investire», così come è stato ben detto, e quindi «riciclare» il capitale fittizio nell'economia reale (cfr. Kurz, 2005b, 236ss.), in modo tale che la crescita viene vita di fatto come un fatto isolato (!), e tuttavia il punto di partenza resta «non valido» per la società nel suo insieme.
Perciò, scrive Kurz in "Denaro senza valore", nel contesto dello scoppio della bolla immobiliare avvenuto alcuni anni fa in Spagna: «Chi non possiede denaro (valore) per i costi di produzione non può, di fatto, produrre, e chi non ha denaro (valore) per la domanda non può, di fatto, consumare. Se dai due lati il potere di acquisto corrispondente è stato presumibilmente finanziato attraverso i crediti che ormai non possono più essere onorati, o attraverso le bolle finanziarie, il gioco delle ombre finisce [...] Quella che si presume sia una gioiosa produzione di profitti, con tutti gli attributi dell'aumento relativo e assoluto del plusvalore, si dissolve nel fragore grandioso della svalorizzazione; come avviene attualmente in Spagna, la congiuntura apparentemente elevata, sostenuta dalla bolla immobiliare, sta cedendo, dando luogo, bruscamente e senza soluzione di continuità, ad una profonda recessione con una disoccupazione di massa galoppante, la quale non avrebbe potuto avvenire qualora si fosse trattato di una produzione di plusvalore reale.» (Kurz, 2014, 305). Per Lohoff, niente di tutto questo è un problema. Secondo Lohoff, le merci di second'ordine, vale a dire, le cosiddette merci del mercato dei capitali, consentono un'accumulazione di capitale senza accumulazione di valore: «Come feticcio della merce di second'ordine, il feticcio del capitale non esiste in quella falsa apparenza, secondo la quale il capitale potrebbe essere costituito per mezzo della produzione di merci provenienti dal mercato di beni che non hanno alcuna valorizzazione preventiva; invece, il feticcio speciale delle merci del mercato di capitali, ottiene che la formazione di capitale possa davvero separarsi dalla produzione del valore precedente. [...] Il lavoro produttivo che non è stato ancora fatto, e che probabilmente non verrà mai fatto, assume la forma di capitale. Qui, la formazione di capitale non è basata, pertanto, sulla produzione di valore, ma è il risultato dell'anticipazione di valore» (Lohoff, 2014, 42).
Perciò, quando Lohoff parla ripetutamente di accumulazione di capitale senza accumulazione di valore, sembra aprire una dualità tra valore di scambio e valore (cfr. anche Hüller 2015, 352). Ma questa separazione tra valore e capitali ha «senso» solo se vengono separate circolazione e produzione. Alla fine, la formulazione di «accumulazione di capitale senza accumulazione di valore» ricorda la peculiare invenzione di Lohoff di merci che, in realtà, non hanno alcuna caratteristica di merce (cfr. Kurz, 2008). L'«accumulazione di capitale senza accumulazione di valore» è, pertanto, un'altra delle assurde teorie della pseudo «economia politica» inventate da Lohoff (ivi, 166).
Se ormai il plusvalore non può più essere realizzato al livello della società nel suo insieme, ciò significa anche che non viene prodotto sufficiente plusvalore. Ciò per cui allora i singoli capitali competono è una massa sociale globale di valore sempre più decrescente: «La mancanza di domanda in quanto mancanza di potere di acquisto nella forma del denaro, non è altro che il rovescio della medaglia di una mancanza di di sostanza del valore degli stessi prodotti in quanto merce, vale a dire, di una mancanza generale di produzione di valore.» (Kurz, 2012, 259).  [Kurz 2014, 232]
Il capitalismo si basa sul dispendio di lavoro astratto; il lavoro astratto è, pertanto, necessariamente la sostanza del capitale; ed il capitale dipende da un dispendio sufficientemente grande e redditizio di lavoro astratto. Secondo Lohoff, le merci di second'ordine si sono fatte carico dell'accumulazione, al posto del lavoro astratto, in quanto «nuova merce di base», e nelle banche centrali in quanto «nuova merce-denaro», e così, in questo modo, il dissolversi della sostanza del lavoro astratto ai fini della crescita, ecc., apparentemente non è più un problema. Questo giudizio ha essenzialmente a che vedere con il fatto che Lohoff rifiuta il concetto di sostanza in generale, nel momento in cui dice: «Il capitale non è una cosa, ma una relazione sociale che appare come se fosse una cosa, e, pertanto, la sua moltiplicazione è anche il risultato delle relazioni sociali» (Lohoff, 2018, 29), e non il risultato dell'accumulazione di lavoro astratto in sé. Rimane un segreto di Lohoff, come lui voglia stabilire un limite interno del capitale, senza un concetto di sostanza. [*4]
Anziché rimanere ammirati per la «lunga durata dell'epoca del capitale fittizio», come avviene nell'intervista citata all'inizio, la questione non dovrebbe essere quella di rivedere la propria teoria della crisi, ma sarebbe necessario, piuttosto, esaminare in dettaglio come faccia il movimento di svalorizzazione del capitale totale a concretizzarsi e dove esso si manifesti, empiricamente (circuiti del deficit [*5] nella UE, negli USA/Cina, boom della costruzione edilizia ed esplosione simultanea degli affitti, ecc.). Visto il modo in cui Lohoff/Trenkle formulano la loro posizione, possono essere classificati nel positivismo di un Michael Heinrich. Ed è altrettanto sorprendente che Lohoff e Trenkle utilizzino l'«argomento» secondo cui la crisi non può essere poi così seria e fondamentale, visto che il «capitalismo spinto dalla finanza» esiste da diversi anni, ragion per cui il capitale fittizio non può essere poi così fittizio. Questa obiezione assomiglia all'«argomento» per cui il «"collasso" deve avvenire in una maniera talmente istantanea da far sì che un individuo, nel soffrire di un grave infarto del miocardio, debba cadere immediatamente morto. Se, perciò, il capitalismo non si è sbriciolato in polvere né dopo la bolla di Internet [...] né [...] dopo il grande crollo finanziario del 2008/09, allora, in maniera  analoga, dev'essere frettolosamente assunta la “invalidazione empirica” della teoria radicale della crisi, visto che la presunta “profezia”, dopo tutto, ancora una volta non sarebbe stata confermata. Vale a dire che la metafora viene presa alla lettera, in maniera donchisciottesca, dal momento che l'orizzonte temporale della spiegazione teorica si è ridotto ad una specie di attualità quotidiana. Viene cancellata quella che è la differenza tra il tempo attuale - il presente, ossia il tempo del mondo della vita quotidiana - ed il tempo storico» (Kurz 2012, 362 [2014, 325]).
In ultima analisi, non è chiaro perché stiamo ancora parlando di una crisi del capitalismo o di un limite interno, una volta che sono state gettate fuori bordo tutte le giustificazioni per poter continuare a farlo!
Essi sottolineano che anche l'accumulazione fittizia non apparente «ha i suoi propri limiti interni» (vedi sopra), ma nei testi più recenti non viene spiegata quali siano questi limiti, e quale sia la loro relazione con la desustanzializzazione del capitale, vale a dire, con il limite interno del capitale. Ne "La Grande Svalorizzazione" appare chiaro che per Lohoff ormai non esista più, oggettivamente, un limite interno, ma il limite interno viene stabilito dall'assenza di un «portatore di speranza» (!), vale a dire, un capitale individuale o un'industria attraverso i quali l'accumulazione di capitale fittizio possa continuare. Per esempio: «La capacità di espansione di capitale fittizio si mantiene o cade, in ultima analisi, insieme alle prospettive che vengono offerte ai portatori di speranza dell'economia reale. [...] La creazione di capitale fittizio dipende quindi da una risorsa che non può essere creata dallo stesso capitale finanziario: dai portatori di speranza dell'economia reale. [...] Per coprire ora la necessità esponenzialmente crescente di nuovi titoli di proprietà, nel corso dello sviluppo del capitalismo inverso, da un lato, l'utilizzo di portatori di speranza già attivati va intensificato di conseguenza, facendo loro accumulare titoli di proprietà sempre nuovi; dall'altro lato, sono regolarmente necessari nuovi portatori di speranza che possano sostituire quelli che si sono esauriti. Finché il rifornimento sarà garantito, anche il potenziale di capitalizzazione anticipata dal capitalismo inverso verrà garantito. Se verrà arrestato temporaneamente, ci sarà un'irruzione della crisi, come quello avvenuto per la new economy, che potrà essere superata caso per caso implementando nuove speranze. Tuttavia, se il rifornimento di portatori di speranza si interromperà in maniera permanente, per il capitalismo inverso ciò significherà il più grande disastro immaginabile» (Lohoff; Trenkle 2012, 258s.). Anche astraendo rispetto a quello che è il punto di vista di Lohoff sull'economia politica, l'inconsistenza delle spiegazioni di Lohoff è incredibile. Se la sfera finanziaria dipende, in ultima analisi, dall'economia reale, vale a dire, dalla sostanza del lavoro, come è stato scritto anche ne "La Grande Svalorizzazione", allora nel capitalismo finanziario non c'è niente di autosufficiente, e non si può parlare in alcun modo parlare di merci di second'ordine, che avrebbero sostituito il dispendio di lavoro come «merce di base» e che creerebbero plusvalore, o che rappresenterebbero la nuova merce-denaro.

4. Disonestà e denuncia
Con questo dovrebbe essere chiaro che ormai riferire a Krisis una teoria della crisi, non è più realmente giustificabile, e che Krisis, a rigor di termini, dovrebbe smettere di usare l'etichetta di «critica del valore». Sarebbe in qualche modo disonesto e assurdo rendere la teoria della crisi virtualmente impossibile, e allo stesso tempo, tuttavia pubblicizzarsi come «Critica della società delle merci». Ragion per cui, sembra si tratti di uno scherzo riuscito male, quando Krisis pubblica una nuova edizione del Manifesto contro il Lavoro. Comunque, per Krisis, una certa disonestà sembra essere un'abitudine. Così, già era apparso chiaro nel libro La Grande Svalorizzazione che Trenkle e Lohoff non sentivano affatto il bisogno di riferirsi a Robert Kurz come degno di nota nel divulgare la teoria crisi, dal momento che non viene nemmeno menzionato l'articolo iniziale centrale, «La crisi del valore di scambio» (cfr. Kurz 1986) [Kurz 2018].
Sebbene la critica della dissociazione sia stata respinta da Trenkle/Lohoff, la cosa appare ora essere piuttosto diversa, in una recente intervista: non solo ci si riferisce positivamente ad esse, ma dicono senza ridere che sono stati proprio loro a dare inizio alla critica del soggetto, cosa di cui la critica della dissociazione-valore sarebbe stata presumibilmente incapace di fare. Nell'intervista, Trenkel dichiara: «Il teorema della dissociazione-valore rappresenta un passo importante nello sviluppo teorico della critica del valore, in quanto mette sistematicamente in relazione la struttura patriarcale della società capitalista con la forma storicamente specifica della socializzazione attraverso la merce, il valore ed il lavoro. Questo la differenzia fondamentalmente dagli approcci critici comuni al femminismo, i quali normalmente procedono in termini meramente additivi ed in tendo il patriarcato come una forma addizionale di dominio, insieme al dominio di classe e al dominio razziale, la cosiddetta tripla oppressione. Contrariamente a tale relazione esterna, fra differenti forme di dominio, il teorema della dissociazione-valore insiste sulla connessione costitutiva interna tra dominio maschile e società capitalista. Di conseguenza, la socializzazione attraverso il valore dipende necessariamente dalla produzione costante di un "altro" dissociato, inscritto come femminile, nel quale vengono esternalizzati tutti quegli elementi che non trovano posto nella razionalità mercantile oggettivata. [...] Pertanto, in linea di principio, concordiamo con il teorema della dissociazione sviluppato inizialmente da Roswitha Scholz. Tuttavia, riscontriamo un'insufficienza nel fatto che lì il valore sia pensato solo come un principio strutturale astratto, in un meta-livello (!) e, in tal modo, la forma soggetto appaia come una specie di appendice del valore (!), determinato da questo. Questo inoltre limita la critica della dissociazione-valore ad un meta-livello molto astratto, che deve perciò essere completato per mezzo di annessi della critica dell'ideologia e della psicologia sociale. Quindi, dopo la rottura con Robert Kurz e Roswitha Scholz, abbiamo cercato di sviluppare il teorema della dissociazione a partire dalla prospettiva di una critica fondamentale del soggetto. Ci sono alcuni testi, soprattutto di Ernst Lohoff e Karl-Heinz Lewed [...]» (Lohoff; Trenkle 2018).
Lohoff arriva perfino alla denuncia. In un testo del 2017, che trattava del dibattito «Due Libri - Due Punti di Vista», Lohoff ha criticato Robert Kurz per essersi riferito positivamente a Rudolf Hilferding (cfr. Kurz 2005b, 246ss.). Hilferding avrebbe avuto una comprensione del capitalismo incompatibile con l'«approccio della critica del valore». Hilferding «[concepiva» il "dominio del capitale finanziario" sociologicamente», equiparandolo alla «successiva abolizione della concorrenza e della legge del valore», e aveva affermato che «un cartello capitalista generale controllato dalle banche sarebbe andato presumibilmente a sostituirla» (Lohoff, 2017). In proposito, si tratta di tutti i punti che Kurz aveva criticato in Hilferding (cfr.  Kurz 2005b, 321ss.). Ma quando si legge Lohoff, si finisce per avere l'impressione che Kurz non lo abbia fatto. Apparentemente, Lohoff è convinto che il suo pubblico sia del tutto stupido. Così come Karl-Heinz Lewed  (vedi sopra) confida nel fatto che nessuno legga davvero Robert Kurz, ed evita di fare qualsiasi sforzo per controllare. È scandaloso che Lohoff scriva nello stesso testo che Robert Kurz, con il suo libro "Denaro senza valore", avrebbe «dichiarato non valide le basi della critica del valore che avevamo elaborato insieme» e «distrutto nuovamente tutto ciò che gli altri avevano laboriosamente costruito nell'arco di decenni» (Lohoff, 2017). Bisogna di certo notare che una rivoluzione teorica non può essere attuata in un solo colpo, cosicché molti aspetti rimangono per quanto incompiuti ed immaturi - per esempio, lo status delle società premoderne in contrasto con la costituzione del feticcio del patriarcato produttore di merci, oppure la comprensione del capitalismo in quanto processo globale - in modo che così alcune cose già scritte vengono nuovamente riviste in parte. Ma se andiamo a guardare ciò che Lohoff e Trenkle rivedono, ovvero, che l'accumulazione di capitale fittizio non sarebbe del tutto apparente e che l'accumulazione avviene per mezzo delle relazioni sociali e non attraverso il dispendio di lavoro astratto, ecco che allora la differente qualità della revisione appare evidente. Lohoff è ancora più sfacciato quando accusa Robert Kurz di avere una concezione naturalistica del lavoro astratto, vale a dire, un «concetto fisiologico-meccanico della sostanza del lavoro» (ivi) sebbene Kurz abbia confutato da molto tempo tale interpretazione (cfr. Kurz 2005, 214ss.) e abbia mostrato come tali interpretazione derivi da un fraintendimento o da una incomprensione del concetto negativo di lavoro astratto! Ma, con questo, non aveva ancora raggiunto il vertice dell'insolenza: Lohoff pensa seriamente che ora non si tratti di parlare di «accumulazione fittizia», perché, diversamente, avremmo un «problema di delimitazione di quelle che sono le diverse varietà del sogno anacronistico di un ritorno ad un capitalismo "solido" basato sul lavoro onesto» (Lohoff, 2017).
Ragion per cui, basta con la sostanza del capitale e la teoria della crisi, che viene addirittura considerata come radicale di destra! Perciò, riassumendo correttamente: la Krisis di oggi non è altro che un involucro, una confezione bugiarda e ingannevole, che non ha più niente a che vedere con la critica del valore. [*6]

- Thomas Meyer - Pubblicato su Exit! il 20/10/2019 -

NOTE:

[*1] - Si vedano anche i testi della rubrica della home di exit!: https://www.exit-online.org/text1.php?tabelle=aktuelles&index=34 ; per la critica di Streifzüge, si veda soprattutto Kurz 2010 e Scholz 2017.

[*2] - Ovviamente, va presa sul serio anche la relazione di dissociazione sessuale, che non è affatto una contraddizione secondaria (cfr. Scholz 2011), così come altri campi tematici in cui il marxismo ha fallito, o dei quali possedeva una comprensione riduttiva o nulla, come possiamo chiaramene vedere, ad esempio, nell'antisemitismo. Si riteneva che l'antisemitismo fosse solo una «manovra diversiva» contro la classe lavoratrice. Ciò significava non solo che l'antisemitismo non era capito, ma che era gravemente minimizzato. Jakpb Walcher, per esempio, nel suo libro "Ford o Marx", critica l'antisemitismo di Henry Ford e conclude: «Come possiamo vedere, l'antisemitismo di Ford non è molto pericoloso (!) per gli ebrei. Assai più pericoloso è per il proletariato e per la piccola borghesia sofferente, perché, messo in atto con grande abilità e con enormi mezzi finanziari, dissuade i lavoratori dalla loro lotta vitale contro il sistema capitalista, contro i suoi beneficiari ebrei e non ebrei, e umiliandoli ne fa dei paraurti nella lotta di un gruppo sfruttatore contro gli altri» (Walcher 1925, 106s.).

[*3] - Hüller ha dimostrato fino a che punto sia assurda una simile impresa sulla base della «produzione a cupola» (cfr. Huller 2019, 18ff.)

[*4] - Lo ha già sottolineato  Bernd Czorny. (cfr. Czorny 2016.)

[*5] - Anche nel giudizio di Lohoff a proposito di questo concetto, appare evidente una revisione della teoria della crisi. Afferma: «Il termine, che si basava sul concetto di economia politica del deficit commerciale, è stato coniato in quella che è stata una fase di elaborazione teorica della critica del valore, in cui la teoria delle merci di second'ordine non era ancora stata formulata. Il termine suggerisce un trasferimento unilaterale di merci. Nella realtà, però, non si tratta di un trasferimento unilaterale, ma dello scambio di differenti categorie di merci» (Lohoff 2016, 27). Perciò, niente di così importante.

[*6] - E ancora meno con la critica della dissociazione-valore, naturalmente. Ma in ogni caso quelli di Krisis non avevano tale pretesa, anche se recentemente pretendevano di attribuirsi il teorema della dissociazione, come dimostra l'intervista con Lohoff/Trenkel del 2018. Vedi sopra.

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Trenkle, Norbert: Das Manifest gegen die Arbeit zwanzig Jahre später – Nachwort zur vierten Auflage, 2019, online: http://www.krisis.org/2019/das-manifest-gegen-die-arbeit-zwanzig-jahre-spaeter/. Trad. port.: Vinte anos do Manifesto contra o trabalho. Adendo à quarta edição alemã. Online: http://www.krisis.org/2019/vinte-anos-do-manifesto-contra-o-trabalho-adendo-quarta-edio-alem/

Walcher, Jakob: Ford oder Marx – Die praktische Lösung der sozialen Frage [Ford ou Marx. A solução prática da questão social], Berlin 1925.

fonte: Exit!

lunedì 28 ottobre 2019

Lavori «pensanti»!

Dominio e sottomissione sono i due termini di un rapporto di potere fortemente asimmetrico che innerva la storia dell’umanità e che nella civiltà occidentale ha conosciuto numerose metamorfosi. Di questa vicenda millenaria il libro offre una magistrale ricostruzione, mettendo a fuoco alcuni momenti esemplari e sempre soffermandosi sulle teorie filosofiche che hanno plasmato i nostri modi di pensare, sentire, agire, e sulle implicazioni antropologiche, politiche e culturali connesse ai cambiamenti. A partire dalla tradizione antica della schiavitù che trova in Aristotele la sua più potente legittimazione, il racconto si snoda lungo i secoli per concentrarsi sull’evoluzione delle macchine chiamate a sottrarre il lavoro umano prima agli sforzi fisici più pesanti, poi a quelli mentali più impegnativi. Un processo che continua oggi con i prodigiosi sviluppi dei robot e degli apparecchi dotati di Intelligenza Artificiale o, detto altrimenti, con il trasferimento extracorporeo di facoltà umane come l’intelligenza e la volontà, e il loro insediamento in dispositivi autonomi.

(dal risvolto di copertina di: Remo Bodei, "Dominio e Sottomissione". Il Mulino.)

Servi e Padroni Postmoderni
- di Carlo Bordoni -

La dominazione (dell’altro, degli animali, della natura) è sempre attuale. Fa parte di quella hybris che ha accompagnato l’umanità fin dalle origini. L’utilizzo degli animali da lavoro è del resto ancora frequente e nel frattempo la macchina ha sostituito l’uomo nei lavori pesanti e lo sta superando in quelli «pensanti». La macchina, da una parola greca che significa «astuzia», poiché inganna la natura, ha finito per diventare antagonista dell’umano, riducendo l’occupazione e minacciandone la supremazia.
Di questo percorso da dominatori a (probabili) dominati, traccia le fila Remo Bodei nel saggio Dominio e sottomissione (il Mulino, pp. 407, € 28), dall’antichità classica a oggi. Un lungo percorso di liberazione: da una parte la liberazione dei dominatori dalla fatica, seguendo un processo di «esosomatizzazione», per esternare funzioni e apparati dal proprio corpo. Dall’altra parte, quella dei sottomessi, alla ricerca dell’affrancamento e dell’autonomia. In questa categoria rientrano ora anche le macchine dotate della facoltà di pensiero. Un problema già anticipato da Karel Capek, inventore del termine «robot», e ufficializzato da Philip K. Dick nel libro Il cacciatore di androidi, da cui fu tratto il film Blade Runner di Ridley Scott. Così l’evoluzione dell’intelligenza artificiale ha aperto le porte a un’insolita lotta di classe: il diritto degli esseri artificiali alla loro dignità. Potrebbe essere la nuova frontiera della libertà.

- Carlo Bordoni – Pubblicato sul Corriere del 20/10/2019 -

sabato 26 ottobre 2019

Ora tocca al Mercato!!

Una nuova visione sul futuro dell'umanità sta rapidamente guadagnando slancio. Di fronte a un'emergenza climatica planetaria, una giovane generazione sta promuovendo un dibattito sull'ipotesi di un Green New Deal e dettando il programma di un audace movimento politico capace di rivoluzionare la società. Sono i Millennial a farsi carico del problema del cambiamento climatico. Se il Green New Deal è diventato un tema fondamentale nella sfera politica, nel mondo delle imprese sta emergendo un movimento parallelo che nei prossimi anni scuoterà le fondamenta dell'economia globale. Settori chiave dell'economia si stanno prontamente sganciando dai combustibili fossili a favore dell'energia solare ed eolica, più a buon mercato e accompagnate da nuove opportunità di business e occupazione. Nuovi studi stanno suonando l'allarme: migliaia di miliardi di dollari in combustibili fossili per i quali non esiste più un mercato potrebbero creare una bolla suscettibile di scoppiare entro il 2028, provocando il crollo della civiltà dei combustibili fossili. Il mercato sta parlando e i governi, se vogliono sopravvivere e prosperare, dovranno adattarsi. In questo libro Jeremy Rifkin, teorico dell'economia, espone il pensiero politico e il piano economico per il Green New Deal di cui abbiamo bisogno in questo momento critico. La convergenza fra la bolla dei combustibili fossili fuori mercato e una visione politica verde apre la possibilità di un passaggio a un'era ecologica post carbonio, in tempo per prevenire l'aumento della temperatura che ci farebbe superare il limite oltre il quale tornare indietro diverrebbe impossibile. Con venticinque anni di esperienza nel promuovere cambiamenti simili a questo nell'Unione europea e nella Repubblica popolare cinese, Rifkin presenta la sua visione su come rivoluzionare l'economia globale e salvare la vita sulla Terra.

(dal risvolto di copertina di: "Un green new deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l'audace piano economico per salvare la Terra", di Jeremy Rifkin. Mondadori.)

Jeremy Rifkin, profeta imperfetto
- Abbiamo parlato con uno dei saggisti e attivisti più discussi al mondo, in Italia per presentare un libro sul collasso della «più grande bolla finanziaria della storia» -
di Valentina Lovato

«Siamo di fronte alla più grande bolla finanziaria della storia. Vale 100 miliardi di euro e io penso che collasserà, insieme a tutto il sistema economico basato sui combustibili fossili, intorno al 2028». Jeremy Rifkin è uno dei più famosi e discussi attivisti ambientali del pianeta e, mentre è seduto in una sala dell’albergo Four Seasons di Milano per presentare il suo ultimo libro, Un Green New Deal Globale, pubblicato da Mondadori, parla della fine del capitalismo e dell’avvento di un nuovo mondo ecologicamente sostenibile con la naturalezza di chi descrive il sorgere del Sole domattina. «Ci serve un piano», continua, «e velocemente». Ma nelle sue parole non si sente la disperata urgenza e l’indignazione di Greta Thunberg: Rifkin parla con la sicurezza inscalfibile di qualcuno che il futuro lo ha già visto.
Sono in molti a credere che Jeremy Rifkin sia in effetti una specie di profeta. In oltre venti best-seller pubblicati negli ultimi 40 anni ha dipinto grandi scenari futuristici, arrivando a volte a cogliere temi e argomenti che sarebbero divenuti rilevanti con anni di anticipo. Ha partecipato a un numero incalcolabile di conferenze in giro per il mondo. È ascoltato dalle persone più potenti della Terra, siano essi manager della Silicon Valley, ministri europei o leader cinesi, ma è anche odiato dalla destra conservatrice, che lo accusa di usare l’ambientalismo come scusa per introdurre nuove tasse e aumentare i poteri dello Stato. Ed è detestato da una parte significativa della comunità scientifica, che non gli perdona le sue dure critiche contro le biotecnologie e la genetica, portate avanti spesso con toni e tattiche spregiudicate.
Il libro che sta presentando in Italia è un saggio lungo poco più di duecento pagine, zeppo di cifre, dati e fatti che Rifkin utilizza con abilità per dipingere quella che secondo lui è l’inevitabile soluzione al cambiamento climatico: un’alleanza di governi, mercati e comunità locali per cambiare il nostro sistema economico dal basso. Il tour di presentazioni del libro è intenso. Martedì a Milano il suo ufficio stampa aveva fissato mezza dozzina di interviste, mentre nel pomeriggio lo aspettava un incontro con i ragazzi di Fridays for Future, il gruppo di manifestanti contro il cambiamento climatico ispirato da Greta Thunberg. Il giorno prima era a Roma per dare altre interviste e incontrare il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. A settembre ha presentato il libro in Germania, dove è una specie di star, oltre che un consulente della cancelliera Angela Merkel, invitato con tutti gli onori alle feste del suo partito. Nelle prossime settimane sarà il turno di Spagna e Francia. A Milano, nella saletta scelta per le interviste, Rifkin accoglie i giornalisti in piedi e con un sorriso affabile. Sul tavolo c’è una grossa tazza di caffè decaffeinato. «Non vuoi vedere gli effetti che fa l’eccesso di caffeina su un uomo di 76 anni», scherza Rifkin, nella prima di diverse battute sulla sua età. Di caffeina comunque non ha bisogno: nonostante gli anni Rifkin trabocca di energia e sembra far fatica a rimanere seduto per l’ora intera che dura l’intervista. Quando parla del libro, però, diviene calmo, preciso e concentrato sul suo interlocutore. Snocciola numeri e date con agilità e senza bisogno di consultare appunti.
La tesi del suo libro, in sostanza, è che l’industria dei combustibili fossili è destinata a collassare su sé stessa entro i prossimi dieci anni. Questo collasso porterà con sé l’avvento di un nuovo modello sociale ed economico, innescato e facilitato dagli Stati, ma basato soprattutto sulla cooperazione orizzontale e sulle comunità locali. Nella parte più originale e convincente del suo libro, Rifkin descrive come molto presto le grandi società petrolifere ed energetiche dovranno fare i conti con i loro “stranded asset”, letteralmente i “beni spiaggiati”: investimenti costati miliardi di dollari destinati a rimanere infruttuosi a causa della concorrenza sempre più efficace delle fonti di energia rinnovabili. Rifkin prevede che presto le concessioni estrattive di petrolio e gas acquistate per centinaia di milioni di dollari saranno abbandonate perché infruttuose, che i gasdotti e gli oleodotti oggi in costruzione sono destinati a non essere mai attivati, mentre le nuove centrali a gas saranno già divenute anti-economiche rispetto a pannelli solari e generatori eolici quando arriverà il momento di metterle in funzione. I mercati azionari internazionali starebbero già reagendo a questo pericolo imminente. «Negli ultimi anni», spiega Rifkin, «11 mila miliardi di dollari sono stati disinvestiti dal settore, è la più grande fuga di massa da un settore economico della storia». È questa la bolla a cui Rifkin si riferisce, destinata a scoppiare generando cambiamenti sismici in tutta l’economia mondiale.

Il problema, al momento, è che questa grande massa di capitali fuggiti dall’industria dei combustibili fossili non ha ancora una via di sbocco. Non esistono grandi progetti di riconversione alle energie rinnovabili pronti a essere messi in moto non appena arriveranno i soldi per finanziarli. «Chiedete a un sindaco di una delle 9 mila città che hanno aderito agli accordi sul clima di Parigi», dice Rifkin con un sorriso sardonico. «Vi farà vedere una decina di autobus elettrici e una quindicina di edifici a impatto zero». È qui che entrano in gioco i gruppi di individui e le comunità locali. Secondo Rifkin, il cosiddetto “Green New Deal” sarà un fenomeno decentralizzato. Non saranno gli Stati e i governi a creare giganteschi conglomerati pubblici incaricati di gestire la costruzione di infrastrutture miliardarie. Saranno invece cooperative di cittadini, amministrazioni locali e piccole comunità a farsi carico di questo compito, sfruttando – un pezzetto per volta – l’enorme massa di capitali liberati dai disinvestimenti nell’industria fossile. «La soluzione sono le cooperative, l’azione diffusa dal basso», sostiene Rifkin. «Se sei una grande società verticale, come fai a installare un pannello solare sopra ogni tetto? Il sole e il vento sono fonti di energia distribuite, devi raccoglierle un poco per volta e quindi condividerle collettivamente».
Per essere un libro sul cambiamento climatico, Un Green New Deal Globale parla poco dell’attuale crisi climatica. I dati principali e le più fosche previsioni sul futuro sono elencati rapidamente nelle pagine dell’introduzione. Dal primo capitolo, invece, Rifkin inizia a occuparsi di quello che gli interessa veramente: dipingere un grande affresco immaginifico su come questo “Green New Deal” mondiale si svilupperà nei prossimi decenni. Leggendo il suo libro e ascoltandolo argomentare, Rifkin dà l’impressione di parlare di qualcosa che considera sicuro, inesorabile: degli eventuali ostacoli si occupa rapidamente, oppure nemmeno li considera (in tutto il libro, per esempio, non si parla una sola volta delle proteste dei “gilet gialli”, nate dall’aumento di una tassa sui carburanti).
A Rifkin i dettagli interessano relativamente poco. Quando si tratta di spiegare come finanziare la parte statale del suo piano, per esempio, Rifkin scrive che in gran parte i soldi esistono già e quelli che mancano si potranno trovare mettendo qualche tassa in più ai super-ricchi e tagliando un po’ di spese militari. Anche se il libro è pieno di numeri e citazioni (le note occupano 30 pagine in fondo al volume), Rifkin non li utilizza per definire un piano concreto, un programma economico con i suoi costi, i suoi vinti e vincitori. Quello che gli interessa è dipingere un cammino che, nelle sue pagine, appare inevitabile.
Come la pochette di seta lucida infilata nel taschino della giacca, il tono profetico e la capacità di cogliere in anticipo temi e argomenti che sono o saranno al centro del dibattito politico è un marchio di fabbrica per Rifkin. Figlio di una famiglia benestante di Denver, in Colorado, che gli ha permesso di frequentare le migliori università del paese, Rifkin ebbe il suo battesimo politico alla fine degli anni Sessanta con le proteste contro la guerra del Vietnam. Il suo interesse passò presto dalla politica internazionale allo strapotere delle grandi aziende. La sua prima protesta contro l’industria petrolifera risale al 1973, quando insieme a un gruppo di attivisti gettò una serie di barili di petrolio vuoti nel porto di Boston, in ricordo delle proteste per il tè dei rivoluzionari americani due secoli prima. All’epoca, più che per i danni causati dall’industria petrolifera all’ambiente, Rifkin era preoccupato dal suo potere economico. A fare da ponte verso il terreno della difesa dell’ambiente e del cambiamento climatico sarebbe stata la questione più controversa della sua carriera, che ancora gli suscita le critiche più profonde: la battaglia contro le biotecnologie.

Iniziata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta come una lotta politica contro i laboratori che producevano armi per la guerra batteriologica, la protesta di Rifkin si trasformò presto in una guerra generalizzata contro le nuove tecnologie di manipolazione genetica. La sua campagna contro quelli che divennero noti come “Organismi Geneticamente Modificati”, o OGM, ebbe un successo travolgente e, anche se alla fine le sue richieste per un bando totale furono respinte, la sua visibilità aumentò moltissimo. Trascinato dal suo successo, Rifkin ingaggiò una sfida personale con la comunità scientifica, accusandola di essere composta da arroganti tecnocrati che pretendevano il diritto di prendere decisioni che invece avrebbero dovuto appartenere alla politica e al dibattito pubblico.
Tra i suoi libri, pochi hanno suscitato reazioni più indignate di Dall’alchimia all’Algenia, un attacco frontale alle biotecnologie, alla genetica e alla teoria dell’evoluzione di Darwin pubblicato nel 1983. La critica più feroce a questo testo fu quella del biologo di Harvard Stephen Jay Gould, che nel suo articolo “L’integrità e Mr. Rifkin” definì il libro di “un trattato di propaganda anti-intellettuale astutamente mascherato da testo accademico”. Gould accusava Rifkin di utilizzare tutti i più disonesti trucchi retorici conosciuti per dare sostanza a un attacco ingiustificato; e per farlo, sosteneva, finiva con il commettere una montagna di errori. Come quando per mettere in dubbio la teoria della selezione naturale di Darwin, Rifkin sostenne che il naturalista britannico era stato influenzato nelle sue elaborazioni teoriche dalla sua visita alle isole Galapagos, che Rifkin descrisse come un luogo selvaggio in cui condor e giaguari inseguono le loro prede o divorano carogne tra i fumi tossici dei vulcani. Gould, correttamente, ricorda che nessuno di questi animali vive alle Galapagos, un arcipelago che colpì Darwin per la ragione opposta: era un paradiso naturalmente pacifico e privo di predatori terrestri.
Lo scontro tra Rifkin e la comunità scientifica proseguì per quasi due decenni. Nel 2001 il settimanale Time dedicò alla lunghissima questione un articolo in cui Rifkin era definito “L’uomo più odiato dalla scienza”. Tra le campagne intraprese negli anni, Time ricordava il suo tentativo di bloccare la partenza di uno Space Shuttle sostenendo il rischio che un incidente facesse piovere plutonio sulla Florida. Rifkin venne descritto come «un esperto nell’arte marziale dell’attivismo», padrone di ogni sorta di tecnica, leale e sleale, e arrivato a un tale livello di successo da potersi permettere uno studio di avvocati in grado di sfornare sei cause all’anno contro grandi società, governi e laboratori di biotecnologie.
Oggi Rifkin liquida in fretta quel periodo e sostiene che adesso il suo ufficio legale si occupa di altro: l’epoca delle grandi battaglie legali è terminata. Rifkin ha siglato una specie di armistizio con la comunità scientifica e nella sua battaglia per la difesa dell’ambiente si è allineato con il consenso della maggior parte degli esperti. Anche se rimane un fermo nemico degli OGM, nonostante le sue argomentazioni sulla loro pericolosità si siano dimostrate infondate, il tema non è più al centro dei suoi interessi. E quella con gli scienziati non è l’unica tregua che Rifkin ha stipulato. L’attivista anti-compagnie petrolifere pronto a fare causa al governo statunitense sembra essere arrivato a un qualche tipo accordo anche con l’establishment politico ed economico. Lo si vede per esempio nel suo ambiguo rapporto con il capitalismo.
Rifkin si è spesso occupato in passato della fine del lavoro manuale, sostituito da un grado sempre più alto di automatizzazione. Ne parlò la prima volta nel 1995, in uno dei suoi libri di maggior successo – La fine del lavoro – in cui ipotizzava un mondo utopico, post-capitalista e post-scarsità non così diverso da quello immaginato da Karl Marx. Oggi gli stessi argomenti sono molto frequenti nel dibattito che si svolge nelle università e sulle pagine dei principali quotidiani internazionali, in cui si affrontano catastrofisti e teorici dell’avvento di un “comunismo automatizzato di lusso“. Ma come ha scritto Howard A. Doughty nella recensione di uno dei suoi numerosi libri sul tema, per quanto Rifkin utilizzi argomenti che appaiono simili a quelli dei teorici di sinistra più radicali, è difficile togliersi la sensazione che se Evo Morales e Alexis Tsipras sono da una parte della barricata, il business di Rifkin è dispensare consigli all’altro lato.

È una sensazione difficile da togliersi anche oggi, in cui più che di automatizzazione Rifkin preferisce parlare di clima. «Per tutta la vita ho criticato vari aspetti del capitalismo di mercato», scrive Rifkin nel suo ultimo libro. «Questa volta, tuttavia, e con questo sconvolgimento, il mercato è un angelo custode che vigila sull’umanità». Mentre Greta Thunberg utilizza i forum mondiali in cui viene ospitata per criticare ferocemente l’attuale classe dirigente, Rifkin parla in modo entusiasta degli impegni presi dagli Stati per combattere il cambiamento climatico. Quella che per molti è l’anonima e poco convincente agenda climatica e sociale adottata dall’Unione Europea, “Europa 2020”, per Rifkin è uno «storico cambio di paradigma». Sembra inevitabile, visto che in quanto consulente della Commissione Europea ha avuto un ruolo importante nell’ispirarla. Nella recensione del libro per il New York Times, Jeff Goodell sembra cogliere la stessa trasformazione quando descrive Rifkin come troppo impegnato a «baloccarsi con le tecnologie e le teorie economiche» per occuparsi di aspetti centrali della crisi climatica, come la giustizia sociale o l’oltraggio morale. Rifkin si difende sostenendo di non essere un ingenuo ottimista. «Vado a letto disperato, ma mi sveglio ottimista», racconta mentre spiega che ci saranno grandi difficoltà nel mettere in atto il percorso che delinea, ma che questi ostacoli potranno essere superati con la mobilitazione dal basso. Se da un lato Rifkin sembra impegnato soprattutto a trovare argomenti per farsi ascoltare dai potenti, dall’altro non ha ancora perso la sua vena originale di attivista che punta prima di tutto a mobilitare le persone in nome di una causa. Le pagine migliori del suo libro sono probabilmente quelle in cui fa appello ai giovani e in cui chiede loro di impegnarsi nella politica e nella vita delle loro comunità, celebrando i risultati di Alexandria Ocasio-Cortez e Greta Thunberg. Rifkin, insomma, è una figura strana: un profeta di successo che invece di essere riscoperto tardivamente, quando le sue previsioni inascoltate si rivelano corrette, ha ottenuto in vita l’attenzione dei potenti, anche se probabilmente per farlo ha dovuto pagare un prezzo, cioè ritagliare il suo messaggio in modo da tenere fuori tutto ciò che i potenti non vogliono sentirsi dire. Nonostante questo – e gli errori e le critiche – Rifkin rimane un autore da centinaia di migliaia di copie e un simbolo dell’attivismo per milioni di persone. Questo è forse il suo più grande successo e lui, in qualche modo, sembra saperlo. Quando gli chiediamo qual è il suo più grande risultato dopo mezzo secolo di attivismo, risponde di getto: «Hanging on there». Resistere ancora. Sembra difficile dargli torto.

- Valentina Lovato - Pubblicato su Il Post il 24/10/2019 -

venerdì 25 ottobre 2019

Cuore e fibra: un’opinione da condividere

Catalogna, ottobre 2019: quando veniamo accecati dalle fiamme delle barricate ed assordati dagli spari della polizia

A proposito dei recenti avvenimenti, e tuttora in corso, in Catalogna, voglio proporre qui il punto di vista di Tomás Ibáñez, di Barcellona:

« Come non potrebbe rallegrarsi, un cuore anarchico, quando c'è un certo numero di persone che non solo sfida, ma addirittura attacca le forze repressive, assumendosi tutti i rischi che ne derivano?
Come potrebbe, la fibra anarchica, non vibrare all'unisono quando ci sono persone che gridano contro gli arresti, esigendo la liberazione dei prigionieri e domandando la fine della monarchia?
Come non lasciarsi coinvolgere da una rivolta tumultuosa e, se il nostro fisico lo permette, come non cercare di essere in prima linea in una simile battaglia?
È chiaro che le barricate, gli incendi, gli scontri corpo a corpo contro la polizia infiammano quello che è il nostro immaginario libertario, e fanno ribollire il nostro sangue. Inoltre, siamo ben consapevoli che è a partire da episodi di lotta di questo tipo che a volte nascono avvenimenti sovversivi imprevedibili che superano di gran lunga quelle che sono le motivazioni e le circostanze iniziali delle rivolte.
È quindi inutile dire che capisco perfettamente come un settore dell'anarchismo abbia potuto rispondere energicamente all'appello lanciato dal governo catalano e dalle organizzazioni nazionali indipendentiste per protestare contro la condanna di alcuni membri del precedente governo e dei due dirigenti delle stesse organizzazioni nazionali indipendentiste. Inoltre, comprendo perché questi settori dell'anarchismo affermino di non aver risposto a quegli appelli, ma che comunque sarebbero scesi per conto proprio e di propria iniziativa nella strada. Capisco tutto questo, ma mi è difficile riuscire a nascondere alcuni dubbi che mi tormentano.
Quello stesso cuore anarchico al quale alludevo non dovrebbe forse rimanere in qualche modo perplesso nel trovarsi coinvolto in una rivolta incoraggiata da quelle che sono le più alte istanze del potere politico?
Quella fibra anarchica, non dovrebbe sentirsi un po' a disagio a causa degli innegabili echi nazionalisti della lotta cui partecipa? Tale perplessità e tale disagio, a mio avviso, forse dovrebbero indurre ad una piccola pausa dello slancio combattivo, in modo di cerca delle risposte ad alcuni interrogativi. Perché:

- Siamo d'accordo (oppure no?) sul fatto che le istituzioni catalane e le organizzazioni nazionali indipendentiste è dato tempo che sollecitano, e lo fanno in maniera reiterata, nel momento in cui sarebbe stata resa nota la sentenza, lo scatenarsi di una massiccia reazione popolare?
- Siamo d'accordo (o no?) sul fatto che questa risposta popolare, oltre a suscitare la naturale simpatia da parte di coloro che lottano contro il sistema, fa parte integrante di quello che è il lungo "processo" messo in atto al fine di avanzare verso l'indipendenza nazionale della Catalogna?
- Siamo d'accordo (o meno?) che senza l'azione instancabile delle istituzioni e dei loro mezzi di comunicazione, nonché senza la mobilitazione permanente delle organizzazioni nazionali indipendentiste, difficilmente la risposta avrebbe raggiunto le dimensioni che ha avuto?
- Siamo d'accordo (oppure no?) che se le manifestazioni e gli assembramenti sono così di massa, ciò è perché alcune centinaia di migliaia di persone accorrono, e che sono, nella loro immensa maggioranza, profondamente nazionalisti?

Sicuramente, per mettersi in mezzo, non si tratta di aspettare che una rivolta presenti degli innegabili aspetti anarchici, anche perché ciò significherebbe, nella pratica, la rinunzia ad ogni azione. Tuttavia, l'assenza di discernimento circa le rivolte cui noi dobbiamo partecipare, e nelle quali dobbiamo lottare, annulla anche quella che è l'eventuale efficacia emancipatrice delle nostre azioni. Il che equivale ad un'assenza di azione o, peggio ancora, a delle azioni controproducenti. Impegnarsi in delle lotte popolari che sono tutt'altro che anarchiche, come quelle del Cile o dell'Ecuador, hanno delle giustificazioni che mancano alle lotte sostenute dal potere e che hanno echi nazionalisti. Esigere la liberazione dei prigionieri e delle prigioniere? Ciò, ovviamente, va da sé! Ma questo senza correre a rispondere al fischio di coloro che ci chiedono di manifestare per questo genere di richiesta solo quando si tratta di prigionieri e di prigioniere nazional-indipendentisti. I miei dubbi sul rispondere a questo genere di appelli, spariranno assai velocemente non appena vedrò che vendo lanciati anche per domandare la liberazione di un altro genere di prigionieri e di prigioniere. Diversamente, sarà per me assai difficile non pensare che la mia repulsione per la prigione viene strumentalizzata e messa al servizio di valori ed obiettivi che sono ben lontani dall'essere quelli che io difendo in quanto libertario. Per quanto belle siano le fiamme delle barricate, e per quanto scandalose possano essere le pallottole sparate dalla polizia, non dobbiamo lasciare che quelle fiamme ci impediscano di vedere quali sono i percorsi ingannevoli che esse illuminano, né dobbiamo lasciare che quegli spari ci impediscano di poter ascoltare e comprendere le lezioni che ci insegna la lunga storia delle nostre lotte emancipatrici. »

- Tomás Ibáñez (Barcelone, octobre 2019) -

fonte: Le blog de Floréal