Proust e Artaud, Musil e Hesse, Joubert e Rousseau: questi alcuni degli autori scandagliati nel Libro a venire. Qui Maurice Blanchot affronta di petto le questioni primarie della scrittura: l’oscura esigenza di scrivere e la morte a cui è condannato ogni autore – quella cui si consegnò Blanchot stesso –; l’antica necessità di mettere l’infinito in una parola e la lotta contro il demone della vocazione; l’incontro con l’immaginario e lo scontro con le leggi segrete del racconto; la metamorfosi del tempo in spazio narrativo e l’insufficienza del linguaggio; il dolore della lettura e l’incomunicabilità della critica letteraria. Soprattutto affronta la domanda ineludibile: dove va la letteratura? Blanchot prova a immaginare la morte dell’ultimo scrittore, col quale sparirebbe il piccolo mistero della scrittura. Non è improbabile: l’era senza parola è già stata e sarà ancora realtà. Un’epoca in cui non solo non esisteranno nuove opere, ma sarà vieppiù impossibile rifugiarsi nelle antiche, perché i signori di quel tempo decreteranno il rogo della Biblioteca di Alessandria, di tutti i libri e di tutti i saperi. Allora l’arte sarà morta, e sorgerà una nuova dittatura. Oppure verrà il Libro: quello premeditato da Mallarmé nel 1866, che Blanchot descrive come un libro a più facce – una rivolta verso il Nulla, un’altra verso la Bellezza. Un libro senza autore, impersonale. Un libro assente, che poggia sul riconoscimento dell’irrealtà, che non sussiste davvero, non si può tenere in mano: un passato inconsumato e un avvenire impossibile. Un libro senza lettore. Raccolta di brevi saggi pubblicati a partire dal 1953 sulla Nouvelle Revue Française sotto il titolo «Recherches» e apparsi in volume nel 1959, Il libro a venire è fedele alla propria ispirazione originaria: mantenere aperta la ricerca in quel territorio in cui trovare è mostrare tracce e non inventare prove. Frutto dell’età aurea della letteratura, della critica e della filosofia francesi del Dopoguerra, è un’opera che sa nominare l’innominabile, dotata di una forza che supera passaggi di secolo, mutamenti sociali e tecnologici, declino delle arti. Il capolavoro di uno dei massimi teorici novecenteschi della letteratura, che non cessa di parlarci.
(dal risvolto di copertina di: Maurice Blanchot, "Il libro a venire". Il Saggiatore.)
Gli scrittori credono di andare all’inferno ma si limitano a scendere in strada
- di Walter Siti -
Quand’ero giovane, il tipo di critica letteraria «alla Blanchot» mi dava sui nervi: mi disturbava il suo uso troppo frequente di concetti totalizzanti e vagamente terroristici come il Vuoto, l’Abisso, l’Altro, la Mancanza, l’Essere che riflette se stesso e compagnia cantando; mi puzzava un po’ di onanistico, di sublime a buon mercato. Adesso, rileggendo a sessant’anni di distanza il suo Livre à venir, mi è più facile storicizzare: Blanchot, con la sua lunga operosissima vita, ha fatto da ponte tra l'avanguardia storica del surrealismo e la neo-avanguardia del noveau roman, attraversando la voga dell'esistenzialismo.
Si è sentito seguace di Breton, è stato affascinato da Heidegger e da Bataille ma ha fatto in tempo a discutere e a sostenere il «grado zero dell'avventura» di Barthes e i ragionamenti di Tel Quel. Basta scorrere l'indice del Libro a venire per trovarci i suoi autori di riferimento: Proust e Artaud, Mallarmé e Joyce e Musil e Beckett, e (sia pure meno che in altri libri) il suo amato Kafka e l'orfismo di Rilke. Insomma tutto il pantheon del modernismo novecentesco, con una preferenza per le scritture estreme e sperimentali; un panorama eurocentrico attratto dalla sfida oltre il limite, dall'origine che ogni opera realizzata tradisce, dall'incompiuto e dall'interminabile.
Il canto delle Sirene è seduttivo perché è insoddisfacente, la letteratura è come Euridice che si vuole riportare alla vita solo per verificarne eternamente la morte; il Libro che ogni autore non cessa di scrivere è per definizione futuro perché l'ispirazione sottrae l'opera al tempo e la fa precipitare verso un destino sempre perdente rispetto alla Storia che museifica e divora.
Detto questo, storicizzato quel che c'è da storicizzare, che resta di vivo e attuale in questo libro di Blanchot, che cosa ci può ancora servire nel dibattito odierno sulla letteratura? Partirei da un'osservazione su Rousseau, che nelle Confessioni rifiuta lo stile letterario perché sa che «la letteratura è quella maniera di dire che dice mediante la maniera»; ciò significa riconoscere l'importanza della forma al di là di qualunque estetismo - quando oggi sentiamo affermare, per impazienza contenutistica, «non importa il come, l'importante è quello che si comunica», sarebbe bene non dimenticare che in letteratura «quel che si comunica» dipende dal «come».
La letteratura è uno spazio in cui il linguaggio si specializza e in cui alcune caratteristiche (l'ambiguità e l'ambivalenza della parola, il suo spessore capace di sorprendere l'autore stesso, l'infinito incistato nella logica del pensiero emotivo), che in altri tipi di scrittura sono accessorie, diventano l'essenziale.
Blanchot non si stanca di investigare il cuore inquieto del testo letterario, quel «movimento meraviglioso e terribile che lo scrivere esercita sulla verità»; se la logica della scrittura fa affiorare il nascosto sotto l'esplicito, allora davvero la letteratura espone a un rischio, perché non sempre il senso che si rivela con tremore è quello che si cercava, e non sempre coincide con una buona coscienza. Ma se nel prender forma del testo letterario c'è una quantità di imponderabile, e l'autore non è del tutto padrone del proprio testo, non vuol dire che non sia responsabile di ciò che scrive, né che la letteratura sia sganciata dalla realtà: «ogni parola che comincia, comincia rispondendo».
Alla fine degli anni Quaranta Blanchot entrò in polemica con Sartre sul tema dell'impegno: a Sartre premeva il «progetto» come scuola di libertà, come «riflessione soggettiva di una società in rivoluzione permanente», mentre a Blanchot interessava la libertà come infinito rischio del linguaggio, come apertura alla «notte» e dunque in ultima analisi come confronto con la morte. Rileggendo ora quella polemica, vien voglia di esclamare «ce ne fossero!» - adesso che alla letteratura si chiede appena di «fare del bene» o di essere «utile» nel mostrare il male per combatterlo.
La curiosità e la serietà di Blanchot lo portano a veder chiari gli incunaboli di quel che ora si è sviluppato fino ad esplodere: parlando del progressivo estendersi dell'impersonalità (da Musil a Beckett fino all'école du regard) preconizza un tempo in cui domineranno «esperienze vissute senza che nessuno le viva». E già allora si lamenta che gli scrittori «credendo di scendere all'inferno, si limitassero a scendere in istrada», e che spesso l'opera letteraria «cercasse di essere pubblicata prima di essere». In un velenoso ultimo capitolo intitolato «Il potere e la gloria» delinea il progressivo declinare delle ambizioni letterarie: dalla gloria alla reputazione, da questa alla notorietà e a «tutte le frivolezze politiche dello spettacolo» - fino a coloro che «sono pronti a credersi autorizzati a giudicare su tutto perché scrivono» e «si precipitano a dei giudizi definitivi su quel che è appena accaduto». Si intende, sessant'anni fa.
- Walter Siti - Pubblicato sulla Stampa del 12/10/2019 -
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