Quando Lirnesso viene conquistata dai Greci, Briseide, sopravvissuta al massacro della sua famiglia, viene portata via dalla città come un trofeo e consegnata ad Achille. A diciannove anni diventa concubina, schiava, infermiera, assecondando qualunque necessità dell'eroe splendente. Ma non è sola. Insieme a lei innumerevoli donne vengono strappate dalle loro case e consegnate ai guerrieri nemici. Ed è così che confinate nell'accampamento - e nella tenda di Achille - Briseide e le sue compagne assistono alla guerra di Troia e raccontano ciò che vedono. Episodi entrati nel mito, ma anche quelli che non sono stati registrati dalle cronache ufficiali perché legati alla miserabile vita delle ragazze. Da Agamennone a Odisseo, da Achille a Patroclo, da Elena a Briseide, Pat Barker racconta la guerra più famosa di tutti i tempi dal punto di vista delle donne.
(dal risvolto di copertina di: Pat Barker, "Il silenzio delle ragazze". Einaudi).
Il grido degli ultimi capovolge il passato
- di Pierluigi Battista -
Figura non di primissimo piano che si è fatta strada con fatica nelle nostre reminiscenze scolastiche, la schiava Briseide, almeno nel mondo dei libri e dell’immaginario, finalmente vede restituiti i suoi diritti. Sale imperiosamente sul palcoscenico della storia, impone il suo punto di vista che nell’Iliade, in cui appariva piuttosto come comparsa tra una folla di comparse, era semplicemente ignorato. Letteralmente contribuisce a raccontare un’altra storia finora negata, calpestata, disprezzata: la storia delle vittime, perché la storia tramandata è quella scritta dai dominatori, da chi ha avuto sempre in mano lo scettro del comando, il privilegio di imprimere le proprie gesta nella memoria e di proiettare la propria immagine nel futuro.
Questo audace ribaltamento viene realizzato in un libro straordinario come Il silenzio delle ragazze di Pat Barker, tradotto da Carla Palmieri e pubblicato da Einaudi Stile libero. Chi non ricorda Achille, il figlio della dea Teti e di Peleo, la gloria del grande guerriero, la sua forza, la sua disperazione per l’uccisione dell’amico Patroclo, la sua sete di vendetta, il suo combattimento con il rivale troiano Ettore, battuto e poi trascinato nella polvere, con il suo carnefice che ne scempia il cadavere, circondato non dall’orrore, ma dall’ammirazione dei seguaci? E sì certo, si ricorda anche il suo clamoroso litigio con Agamennone, che aveva per posta il possesso di una schiava di nome, appunto, Briseide: due predatori arroganti in lotta tra di loro. Tutto qui, per Briseide soltanto un trattamento marginale. Ma se si ascoltasse la sua voce soffocata nel silenzio, scrive Pat Barker, se si prestasse attenzione a quello che ha da dire e raccontare la vittima, allora l’immagine di Achille cambierebbe radicalmente: «Il grande Achille, il luminoso, splendido Achille; Achille simile a un dio. Ma Achille, per noi, era solo un macellaio».
Un macellaio, lo splendido e luminoso Achille? Certo, se si acquisisce il punto di vista di Briseide, la donna di Lirnesso conquistata dai Greci che vide tutta la sua famiglia trucidata, la città ridotta a un cumulo di cenere. E lei, rapita, resa schiava insieme alle sventurate donne sopravvissute al massacro, considerata una «cosa», stuprata, contesa da chi aveva fatto strage della sua famiglia.
Non è solo un espediente letterario, è proprio quello che si dice il cambio di un paradigma: si inforcano altri occhiali, ci si mette all’ascolto di un’altra versione dove la vittima è chiamata a raccontare una storia mai sentita. Dove il marginale diventa centrale, il silenzio loquace, il casuale necessario. È lo stesso processo di rovesciamento realizzato da un libro di Kamel Daoud, Il caso Meursault, tradotto e pubblicato da Bompiani, in cui si ribalta il punto di vista dello Straniero di Albert Camus, e l’arabo ucciso da Meursault, l’assassino, il carnefice, diventa il protagonista della storia, il punto nero del libro di Camus che in queste pagine si prende tutto il centro della scena.
I silenziati che conquistano fieramente la parola. La storia era unica perché unico è sempre stato il punto di vista, ma ora con l’ingresso tumultuoso delle vittime, il quadro diventa una pluralità di storie, conflittuali tra di loro, non già un tutto armonico, ma una ricca molteplicità e discordanza di voci. Conflitto. Contraddizione. Discordia. Briseide e l’arabo di Kamel Daoud vengono appunto a seminare discordia: è questo che mette in discussione certezze che sembravano inscalfibili, punti di vista che sembravano invulnerabili.
La storia raccontata dalle vittime della Storia sin qui tramandata, dunque. È un’esagerazione? Un concentrato di anacronismi, un proiettare la nostra sensibilità in un passato che ne era sprovvisto, un passato in cui le donne come Briseide erano e dovevano necessariamente essere bottino di guerra su cui esercitare da parte dei vincitori un pieno diritto di stupro, di violenza, di umiliazione?
In un altro contesto e con altre vittime, sulla questione dello schiavismo nella storia degli Stati Uniti si assiste a un rovesciamento analogo. Mosso probabilmente dalle stesse pulsioni. 1619 Project è il titolo di una devastante inchiesta del «New York Times» in cui l’intera storia nordamericana, infatti, viene riletta a partire dal punto di vista degli schiavi africani che vennero deportati negli Stati Uniti e sulla cui forza lavoro in catene venne costruita la grande mitologia della supremazia statunitense. Lo schiavismo come macchia originaria e indelebile, con i protagonisti della democrazia americana, compresi i padri fondatori George Washington e Thomas Jefferson, che sono stati proprietari di schiavi mentre nella Costituzione americana venivano esaltate l’eguaglianza e la libertà.
1619 è l’anno precedente all’arrivo dei Padri Pellegrini sulle coste del Massachusetts dopo due mesi di navigazione sulla nave «Mayflower», 1620 appunto. Nel 1619 un’imbarcazione pirata scoprì invece nella stiva di un vascello portoghese 33 africani provenienti sembra dall’Angola, incatenati come schiavi. Era solo l’inizio di una migrazione forzata che avrebbe deportato nel tempo circa dodici milioni di uomini e donne messi in schiavitù e provocò la morte di circa due milioni di vittime durante il trasporto di carne umana da un continente a un altro. Scrive il «New York Times»: «Noi non siamo figli di una lotta di indipendenza, ma di una “schiavocrazia” che ancora adesso plasma la nostra vita sociale».
Forzature, esagerazioni, troppa enfasi retorica, certo. Il termine «schiavocrazia» è eccessivo, provocatorio, estremo. Ma dopo una spaventosa guerra civile che insanguinò gli Stati Uniti e portò all’abolizione della schiavitù voluta dal presidente Abraham Lincoln, ancora negli anni Sessanta del XX secolo, praticamente ieri, i diritti civili dei neri non avevano avuto pieno riconoscimento, e scene come quelle terribili del film Mississippi Burning descrivevano una realtà drammatica del profondo Sud.
Quello che conta, però, è l’atto di rovesciamento di prospettive: rileggere l’intera storia americana a partire dal 1619 con gli occhi di uno schiavo in catene costretto in una stiva con i suoi fratelli sfortunati. Capire che cosa è stata la storia americana a partire da un essere umano i cui fratelli erano proprietà di grandi uomini carichi di gloria e rispettati in tutto il mondo pur essendo proprietari di schiavi. Mettersi nei panni di chi ha subito, di chi ha pagato il prezzo più elevato, di chi non ha mai avuto alcuna voce in capitolo, di chi è stato vittima dell’oppressione razziale e a cui è stato negato il diritto di parola. Ora quella parola diventa di nuovo nella disponibilità di chi non ha mai potuto raccontare e perciò è tutta la storia americana a essere riscritta. Certamente contestata, ma forse anche arricchita, plurale, e dunque più veritiera.
Mentre le frange intolleranti e fanatiche del «politicamente corretto» vogliono sottoporre a censura il passato e cancellarne le tracce per decreto amministrativo, le vittime che finalmente scrivono la storia, al contrario, danno qualcosa in più, arricchiscono e rendono più screziato il quadro d’assieme. I fanatici vorrebbero annichilire l’Iliade, Pat Barker rompe il «silenzio delle ragazze» e lascia scorrere la drammatica narrazione della schiava Briseide.
Non è una svolta indolore, i detentori del monopolio della parola soffrono e recriminano per la rottura di quel monopolio. Essere costretti a mettersi nei panni delle vittime è complicato, produce resistenze e malumori. Ma le vittime che vogliono raccontare la storia hanno messo in moto un processo irreversibile. E questa svolta contagia tutti i campi. Pochi hanno notato che nella recente delibera del Parlamento europeo sulla presunta (ma descriverla così è davvero una forzatura) equiparazione tra nazismo e comunismo, i Paesi promotori sono stati tutti vittime del comunismo. Chi non è stato vittima può pensare che le idee in cui ha creduto, da questa parte del Muro di Berlino, tra le democrazie che rispettano la libertà d’espressione e i diritti fondamentali, godano di una superiorità morale e siano state dettate da intenzioni generose. Ma le vittime conoscono solo la terribile oppressione subita, non le buone intenzioni. Circolava tra i comunisti al potere nell’Est Europa la battuta secondo la quale per fare una buona frittata occorresse rompere molte uova innocenti. Se le uova potessero parlare, riscriverebbero la storia dalla parte delle vittime innocenti. Odierebbero i nomi degli aguzzini ancora onorati nella toponomastica sopravvissuta alla caduta dei regimi comunisti. Ci direbbero: guardate che la storia dell’Europa è una storia che ha facce molto diverse e che in una buona parte della Mitteleuropa chiamata stupidamente, protestava il grande scrittore ceco Milan Kundera, «Europa dell’Est», la data della liberazione dal nazismo ha conosciuto in seguito il precipitare in un nuovo totalitarismo: basta leggere i libri di Sándor Márai per capirlo. Le vittime finalmente parlano. Non nel vittimismo lamentoso, ma nella rivendicazione di un diritto alla parola calpestato. Briseide esce dalle «retrovie della storia» e conquista il centro del campo aperto. Bisogna ascoltarla, per capire ciò che siamo stati.
- Pierluigi Battista - Pubblicato sul Corriere del 20/10/2019 -
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