Violenza e Barbarie
- Un piccolo saggio sulle origini remote del bolsonarismo -
di Marildo Menegat
Il sociologo tedesco Norbert Elias ha trascorso gran parte della sua vita a spiegare un paradosso. Nello stesso periodo in cui scriveva la sua opera maggiore, "Il processo di civilizzazione", l'Europa - e la Germania, in particolare - viveva il processo opposto. La risposta di Elias è sempre stata quella di un coordinamento temporale. Per lui, la civiltà sarebbe il risultato di un periodo a lungo termine, non comprensibile in brevi periodi. In tal modo, all'inizio degli anni '90, spiegava gli anni successivi al 1945, fino alla sua morte, come una sorta di verità occulta di quello che era stato il periodo delle Grandi Guerre. Nondimeno, per quale ragione sarebbe possibile parlare oggi di barbarie? Quali sono i criteri che possono essere utilizzati al fine di spiegare un evento così ampio e sconcertante, il quale consentirebbe di rendere un simile argomento un ampliamento della capacità di comprensione della realtà, e non solo, piuttosto, una mera retorica moralistica? Il controllo della violenza nella vita quotidiana, sembrava fosse una prova incontrovertibile della vittoria della civiltà nei confronti delle forze che le si oppongono. Nonostante il numero dei morti nei conflitti del 1914-18 e del 1939-45, ritenere irrimediabilmente compromessa ogni prospettiva di considerare il XX secolo come se fosse stato un successo per le virtù della pace, si è sempre rilevata un'impresa discutibile. Lo stesso Elias suggerisce di distinguere una pressione civilizzatrice rispetto a quella che è stata una tendenza de-civilizzante. Le pressioni sono parte del processo di civilizzazione, e possono essere perfino più costanti di quanto si immagini. Le tendenze, tuttavia, sono invece un movimento più complesso, che suggerisce qualcosa che assomiglia ad una forza gravitazionale che agisce in maniera intermittente in un determinato senso, in questo caso dissolutivo. Le morti, nelle Grandi Guerre, che si contano a milioni, facevano parte della violenza organizzata dallo Stato. Sono state, secondo la ben nota formulazione di Clausewitz, un sottoprodotto della politica, quando questa era incapace di operare attraverso le sue istituzioni ordinarie, ed ha iniziato ad agire con altri mezzi, apertamente distruttivi. Perfino anche il gran numero di morti nelle guerre civili, come nella Russia del periodo tra il 1917 ed il 1923, o nella Spagna del 1936-39, si differenziano qualitativamente da quello che oggi è il tipo della violenza attuale. In tutti questi casi, lo Stato ha esercitato il suo monopolio dell'uso della violenza. Nelle guerre civili di "una volta", le quali facevano parte dei processi rivoluzionari, ciò che veniva contestata era la direzione degli affari pubblici, ma non l'esistenza del monopolio statale, mentre invece la violenza di oggi è il risultato di una «dissociazione catastrofica» (Kurz, 2014) che rivela l'impossibilità per lo Stato Nazione di continuare ad esistere. Come ha osservato Paul Virilio, questa guerra permanente ormai non è più propriamente una guerra civile, bensì una guerra « [...] contro i civili [...] che provoca l'emigrazione panica delle popolazioni locali - saccheggiate, estorte, violentate - verso gli ultimi Eldoradi dove ancora esiste uno Stato di Diritto » (Virilio, 1999, p.74). Si tratta di un'Idra che ha invaso la vita quotidiana, diffondendosi ovunque.
La difficoltà a spiegarsi quella che è la violenza in Brasile, è associata a questo problema - ricorrente nella tradizione critica - che riconosce quelle che sono le basi della situazione paradossale della realtà come se fossero una dualità costitutiva il paese, la quale, da un lato, si definisce a partire dalle aspirazioni del modello di civiltà occidentale - quello di uno Stato di Diritto dipendente dal Mercato - mentre, dietro le sue spalle, si (de)forma, come se fosse normale, a partire dalla convivenza con quelli che sono gli aspetti più abietti delle relazioni che intrattengono le masse socializzate per mezzo della dinamica produttrice di merci, un modo di orrori. In questo senso, civiltà e barbarie sono sempre stati momenti tesi che, almeno in apparenza, avevano tutta l'aria di essere una particolarità nazionale. Ma i limiti di questo schema esplicativo della realtà, non sono stati sufficienti a tentare un'altra spiegazione dell'anomia costitutiva di questo stato di cose. Analizzandolo storicamente, si può dire che c'è stato un taglio qualitativo dell'esercizio quotidiano delle «pressioni de-civilizzanti», avvenuto a partire dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione accelerate del paese, negli anni '30. Dal momento che questo processo è stato una modernizzazione recuperatrice (Kurz, 1993), quando questo era ancora possibile, nella prima metà del XX secolo, non si è potuto realizzare senza l'uso brutale e sfrenato della violenza dello Stato, che veniva garantita e confermata nelle relazioni sociali. L'opinione comune tra i settori illuminati, secondo cui, dai tempi della schiavitù e della Vecchia Repubblica (1889-1930) non ci sono stati cambiamenti significativi in quelle che erano le forme e le ragioni della violenza, e che a mantenere vive simili modalità è stata solamente la polizia, non si rende conto che il processo di assunzione di un carattere territoriale da parte del capitale, nella misura in cui afferma le sue forme di rendimento e la relativa autonomia dello Stato, ha bisogno di creare queste pratiche ogni qual volta una parte significativa della popolazione, che si presume formata da soggetti monetari, su questa base è priva delle condizioni di esistenza. In altri termini, si trovano in equilibrio sul filo del rasoio tra essere soggetto e non avere denaro. Le modernizzazioni di recupero sono state possibili soltanto come parte di un meccanismo di compensazione che la grande crisi del capitalismo che si è prodotta tra gli anni 1910 e 1945. Tali modernizzazioni sono consistite in una terza ondata di industrializzazione. A differenza della prima, che interessò soprattutto l'Inghilterra, e la seconda, che non andò molto al di là della Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone e pochi altri paese d'Europa, la terza esplosione industrializzatrice spinse allo sviluppo parte della periferia, sulle basi della moderna tecnologia della seconda rivoluzione industriale, allora in voga. Pertanto, fin dal suo inizio, la modernizzazione del Brasile ha comportato uno sviluppo avvenuto su delle basi di risparmio di forza lavoro. Essa aveva bisogno, simultaneamente, di imporre brutalmente il lavoro, visto come unica soluzione possibile di esistenza delle masse, e, allo stesso tempo, l'esclusione di una parte di tali masse (soprattutto neri e indigeni) dalle forme elementari del diritto e dai più modesti impieghi sul mercato del lavoro.
Questa tensione si andò formando e si rese evidente negli anni della dittatura militare (1964-85). In un commento estemporaneo rispetto al nucleo della sua analisi, in un libriccino collettivo del 1982, che fa un bilancio della violenza brasiliana in quel momento storico contemporaneo, Roberto Da Matta ci offre una buona immagine di ciò che stava accadendo: « [...] la violenza sembra essersi trasformata in moneta corrente dell'attuale mondo quotidiano » (Da Matta, 1982, p.13). Per l'Illuminismo, le relazioni di scambio sul mercato servano da schema basilare di quello che è un modello di comprensione esente dalla violenza. Quando questo schema salta per delle ragioni diverse, come per esempio l'impossibilità, per una parte significativa di membri della società, di realizzare le loro necessità attraverso la vendita della loro forza lavoro, allora diventa probabile che le condizioni elementari di pacificazione che si presupponevano abbiano buone probabilità di venire sospese. Ciò che rimane di queste relazioni, è la violenta irruzione dei legami sociali tra le monadi reificate. Il carattere di insignificanza sociale dei soggetti monetari de-monetarizzati si mostra, perciò, come il rovescio di quest'immagine: in assenza di denaro per poter sostanzializzare i soggetti della modernizzazione, ecco che è la violenza a diventare moneta comune. La trasformazione di questa violenza accidentale in un diritto alla vita o alla morte di quelli che sono gli «spossessati dal denaro», è una delle mutazioni che avviene nel periodo della dittatura. Questo dettaglio, inclusivo, non è passato inosservato all'analisi, fatta da Roberto Schwarz alcuni anni prima del commento di Da Matta, del saggio "A dialética da malandragem" ["La dialettica del delinquente"]di Antônio Cândido. Il movimento tra ordine e disordine, caratteristico della vita sociale, nel quale i gruppi subalterni realizzano quelle mediazioni che permettono loro di garantirsi la sopravvivenza, descritto vividamente da Cândido nel suo saggio, dice Schwarz (1987), aveva assunto caratteri sociali negli anni '70, allorché la dittatura fece della tortura un metodo di governo. Nell'originale elaborazione di Cândido, probabilmente manca una spiegazione per una fase ben precedente di sviluppo delle leggi di mercato, quando le relazioni di favore aiutavano a tenere legato un insieme sociale libero, mentre ora questa brutale dialettica rivela i modi in cui regge questa totalità sociale senza forza inclusiva. Nel momento anteriore, pertanto, quest'oscillazione tra ordine e disordine non tendeva ad una soppressione durevole dell'ordine, mentre ora il disordine è la pressione dominante e l'ordine è solo il risultato dei metodi eccezionali del terrore statale. Probabilmente potrebbe essere questo all'origine remota del bolsonarismo e di quello che è il suo più profondo ed inconscio senso storico di una rivoluzione conservatrice, nella quale si infrangono le linee della negoziazione politica e sociale con le classi popolari, e si dà inizio ad un'acutizzazione delle pressioni de-civilizzanti che no si sono mai attenuate. Secondo Paulo Sérgio Pinheiro (1982), ciò potrebbe essere attestato dalla continuità tra la lotta alla sovversione e la guerra contro il crimine portata avanti dalla Polizia Militare (PM), creata nel 1969 dal decreto legge 667, con cui le diverse polizie vennero subordinate e centralizzate sotto l'esercito. È questo il legame strutturante di un ordinamento che inventa, «negli esponenti dei sotterranei della dittatura», un corpo tecnico dedicato al lavoro sporco (Antares, 2014), senza il quale l'ordine sociale borghese alla periferia del capitalismo, nelle condizioni in cui si è sviluppato in Brasile, sarebbe inattuabile:
«Dopo la decimazione del dissenso armato, questi gruppi d'assalto perdono quelle che erano le motivazioni che avevano presieduto alla loro costituzione. E tornano a riferirsi alla criminalità comune. Le vecchie forze militari statali hanno ampliato il loro ruolo "politico" tradizionale, senza tuttavia abdicare allo stile e ai metodi che avevano sviluppato nel corso del periodo dell'arbitrio. [...] Insieme ai metodi convenzionali di maltrattamento e tortura, la polizia militare [...] mantiene il potere di abbattere il nemico senza correre rischi legali. Il nemico non è più il "terrorista", ma il criminale comune infiltratosi nelle masse popolari [...]» (Pinheiro, 1982, p. 60).
Questa situazione storica si accompagna ad un processo, anche se lento, già attivo di collasso sociale presente dall'inizio degli anni '80. Tanto l'estensione dell'apparato poliziesco, quanto la violenza che tale apparato mobilita per affrontare la delinquenza comune, dimostra come quello che è in atto non sia « [...] una politica di lotta al crimine, ma il consolidamento di una determinata concezione di Stato e di società. Questa attribuzione confonde [...] la repressione politica [...] e la repressione comune [...] » (Pinheiro, 1982, p. 65). Il senso di guerra che viene attribuito alla lotta contro la guerriglia urbana si estende al crimine. La guerra civile (la quale, a rigore, non è semplicemente una modesta «lotta armata») comincia la sua transizione, in cui passa da un quadro classico antico di lotta per il potere, e si trasforma in una guerra di nuovo tipo. Negli anni '80, le pressioni de-civilizzanti, che si erano esacerbate negli anni della dittatura, cominciano ad acquisire i contorni nitidi di una tendenza che si è approfondita solo da allora.
- II -
Un mutamento così profondo, di ciò che Elias chiamava economia delle emozioni del processo civilizzatore, dev'essere inteso come un'alterazione del principio di realtà. Via via, e nella misura in cui il processo di valorizzazione si è desustanzializzato, con la crescente eliminazione del lavoro vivente, la tensione esistente tra la sfera della legge ed il mondo delle necessità è apparsa come più totalitaria. L'universo degli individui esclusi dalle condizioni di realizzazione delle forme basilari della socializzazione per mezzo delle merci ha comportato un disordine di questa logica dominante, la quale doveva essere ripristinata con la forza. Come ha osservato Kurz (2018), « [...] una relazione di violenza sociale autoritaria [...] appare evidente nello stato di eccezione » (Kurz, 2018, p.54). In una simile prospettiva, il dominio giuridico diviene sempre, e sempre più un autoritarismo sostenuto dalla violenza barbarica. La preservazione con mezzi arbitrari delle norme di condotta esterne, conferma l'esistenza di uno stato di insicurezza che sta alla base di una vasta alterazione delle abitudini sociali, che costringe gli individui ad un doppio lavoro di autocontrollo. In questo contesto, la non violenza è diventata una scelta che si deve misurare sempre più con un sentimento contrario, che si è formato generalmente all'ombra di un evento violento, sentito come troppo frequente e vicino, che echeggiava, mobilitava e si aspettava una reazione immediata del medesimo ordine. Di conseguenza, la non violenza ha smesso di essere la base concordata, per quanto oscillante, di una prospettiva comune secondo cui la pace è sempre vantaggiosa - o l'unica condizione - per lo sviluppo delle relazioni umane libere. In questa impasse, la difesa della pacificazione si è indebolita ed è diventata sempre più un progetto differito e, col tempo, sempre più assente dall'orizzonte delle aspettative degli individui. È come se la società, improvvisamente, fosse scomparsa ed avesse lasciato questi individui soli ed immersi in strane relazioni con degli sconosciuti che li minacciano ovunque. La costituzione storica di questo quotidiano, con forti tonalità paranoiche, viene accompagnata dagli sforzi per aumentare e rendere sempre più presente la polizia militare nello spazio urbano. Ancora nel 1980, per esempio, la PM di Rio de Janeiro aveva un contingente di 23.000 soldati e pretendeva di essere presente in ogni angolo della città. Nel 2010, questo contingente è arrivato a 60.000, vale a dire, quasi triplicando in 30 anni, mentre la popolazione è cresciuta ad un ritmo assai più modesto. Nel medesimo delirio di presenzialismo, il comandante della PM di San Paulo, in una relazione all'Assemblea Legislativa del 1981, parlava del desiderio (per fortuna impossibile) di collocare un PM per ogni isolato, cosa che avrebbe richiesto un contingente di 144.000 soldati! Questa crescita della polizia mostra tutta la potenza di una politica di sterminio che avviene sotto forma di una guerra contro il crimine. È stato questo sterminio, fondamentalmente di giovani e di adulti neri, che era alla base di quella che è stata la svolta di violenza verificatasi negli ultimi anni della dittatura.
La spiegazione di questa esplosione di violenza quotidiana e, in un certo senso, del mutare delle sue caratteristiche, segnata ora da un elevato numero di morti per cause esterne, ha ancora bisogno di essere articolata per mezzo di elementi facenti parte di una nuova costellazione che comincia insieme al verificarsi dell'inizio di una grave crisi strutturale del capitalismo. La dinamica essenziale del formarsi di questa costellazione comincia a manifestarsi attraverso il collasso degli sforzi di modernizzazione della periferia. In dieci anni, non solo sono stati fatti a pezzi e spinti alla bancarotta paesi come il Brasile, l'Argentina e il Messico, a causa di debiti che non possono essere onorati, e che hanno reso impossibile il proseguimento di qualsiasi pretesa di sviluppo, ma anche quelle potenze militari come l'ex Unione Sovietica, senza dimenticare altri paesi un tempo di successo, come la ex Jugoslavia, che sono entrati in un processo comune di dissoluzione di quelle che sono le loro forme di vita sociale. Gli sforzi di adeguamento ideologico che hanno cercato di contrassegnare questi collassi come se fossero un fallimento delle politiche economiche eterodosse, nello stesso momento in cui viene affermata, dall'altra parte, la vittori trionfale del (neo)liberismo, non sono durati più di qualche ora. Le ripetizioni catastrofiche delle crisi del capitalismo - rispetto a cui, è sempre bene ricordare come un simile concetto non riguarda solo una realtà economica, bensì una forma sociale totale - da quando questi eventi si sono manifestati con così tanta intensità da non escludere più nessuno. Gli elementi della nuova costellazione, pertanto, diventano parte importante di questa esplosione di violenza. Ci sono alcuni dati che possono illustrare ed allargare la portata di questa argomentazione. Il primo di questi dati, riguarda il numero degli omicidi in Brasile: nel 1979, la media era quella di 11.194 morti l'anno, ma già nel 1998 si era arrivati a 41.138, ottenendo così una media di 27 morti ogni 100.000 abitanti. Il secondo dato riguarda l'incarcerazione di massa; nel 1990 il numero di prigionieri era di 90.000, e vent'anni dopo arrivava a mezzo milione. Il rapporto tra incarcerazione e mercato del lavoro è stato più volte evidenziato. In questo caso, la crisi può e deve esser vista a partire da quelli che sono i suoi effetti.
In questa spiegazione, il passaggio più audace, forse, è quello di caratterizzare il quadro che si forma negli anni '90 come se si trattasse di un nuovo tipo di guerra civile. In un saggio risalente all'inizio di questo secolo, intitolato "A epidemia da guerra", Hobsbawm (2002) formula un importante contributo in questa direzione, che ci consente di mettere in fila quelle che sono le caratteristiche comuni tra eventi contemporanei apparentemente così disparati. Secondo lui, La fine del sistema di potere delle due superpotenze, avvenuta alla fine degli anni '80, ha cambiato in maniera significativa la natura delle guerre: « All'inizio del 21° secolo [...]», egli dice, «[...] ci troviamo in un mondo in cui le azioni armate non si trovano più essenzialmente nelle mani dei governi o dei loro agenti autorizzati, e in cui i partiti in lotta non hanno caratteristiche, status o obiettivi comuni, tranne essere disposti ad usare la violenza » (Hobsbawm, 2002). Oltre all'erosione del monopolio dell'uso della violenza statale, con questa perdita di sovranità, c'è stata anche un'importante alterazione rispetto alle vittime di questa guerra: « il fardello della guerra è passato sempre più dalle forze armate ai civili, che non solo ne sono state le vittime, ma sono sempre più diventate oggetto di operazioni militari » (Hobsbawm, 2002). Nelle principali città brasiliane, alla «guerra alla criminalità», negli anni '80 e '90, è stata assegnata la formula americana della «guerra alla droga», che è servita da facciata per le operazioni armate delle polizie contro bande di trafficanti che hanno fatto migliaia di vittime tra la popolazione civile disarmata. Non è una novità che, in ambito interno, ci sia stata una relazione tra la fine della guerra fredda - quando la dittatura ha perseguitato i militanti delle organizzazioni comuniste e ha creato la «Lei de Segurança Nacional» - e l'inizio della mobilitazione delle forze armate e delle polizie contro il traffico di droga. Il crescente consumo di droghe, tuttavia, ha avuto a che vedere solo a livello periferico con un cambiamento nel comportamento del genere di quello che era stato indotto dalle proteste del movimento hippie. Da queste parti, i conflitti che girano intorno ad un aumento della permissività dei costumi e alla domanda di droga, sembra abbiano avuto una base sociale più ampia, così come delle ragioni esistenziali, o di protesta, meno coscienti rispetto a quelle del movimento che era emerso negli Stati Uniti. Droghe come la cannabis, ed il suo uso cosciente, hanno un parallelo con il consumo di alcol, e assai spesso il loro consumo condivide lo stesso pubblico. In tal senso, l'idea secondo cui le classi popolari non facciano uso di cannabis è un vecchio pregiudizio. L'accresciuto senso di insicurezza e l'imprevedibilità dell'irruzione della violenza, che è sempre più aumentata, come abbiamo visto, oltre che ad un maggiore autocontrollo, ha richiesto che numerosi settori della popolazione ampliassero quelle che sono le loro strategie di evasione. In tal senso, tutto indica che lo stesso aumento nell'uso di droghe sia in relazione con il modo in cui la violenza ha alterato le normali condizioni di percezione della realtà, creando così un circolo vizioso di retro-alimentazione.
Storicamente, questo quadro di una guerra civile di nuovo tipo incominciò ad armarsi negli stessi anni 1981-3 in cui esplose la crisi del debito estero. Questa crisi ha prodotto quello che è stato il peggior tracollo dopo il 1929. In questo periodo, che poi si rivelò essere un «decennio perduto», la disoccupazione fu gigantesca per una società che si reggeva in maniera così tanto precaria. In città come Rio, che fu in prima linea per quel che riguardava un simile processo, ci fu una combinazione di diversi fattori locali, come il trasferimento nel 1960 della capitale federale a Brasilia, insieme ad un inizio precoce di disindustrializzazione, prima che questa diventasse una tendenza nazionale, che poi rese tutto più veloce e più drammatico. Perciò, lo sforzo di rimuovere questo tema dal campo delle analisi moralistiche o cospiratorie, è essenziale al fine di dimostrare quanto la violenza, in gran misura, faccia parte degli elementi centrali della dinamica della totalità di questa forma sociale, in una congiuntura storica nella quale il capitalismo tende ad approfondire il suo carattere barbaro. Questo non è estraneo a quelle che sono le necessità dell'economia, che si organizza sempre più frequentemente a partire da attività che, almeno dal punto di vista giuridico, sono illecite. Com'è noto, nella storia del capitalismo questo aspetto è sempre stato molto relativo. Il commercio degli schiavi, per esempio, è stato essenziale per l'accumulazione primitiva del capitale. Oggi si fa finta che sia proibito. Lo smercio di droghe, inteso come una modalità dell'economia politica della barbarie, dove la rapina costituisce il suo asse dominante ed il suo perno, mobilita, a partire dalla metà degli anni '80, somme di denaro di tutto rispetto, nonché contingenti non disprezzabili di lavoratori precari. Sono pochi gli individui direttamente coinvolti in questo commercio, quelli che accumulano un qualche patrimonio o una fortuna, e la stragrande maggioranza viene arrestata o muore assai rapidamente. Il discorso poliziesco sui facili guadagni di queste attività è solo un'omelia domenicale, dal momento che non parte dalla constatazione reale di come si producono quelli che sono i suoi momenti di horror.
Inoltre, la circostanza per cui questo commercio di droga sia territorializzato nelle baraccopoli deve essere vista sotto l'angolatura di questa dinamica economica del collasso. Vista che questa è un'attività la cui finalità è quella di trasformare denaro in più denaro, e deve preoccuparsi in maniera continua della sua redditività, riducendo i costi, ecco che allora l'enorme disponibilità di manodopera per un'attività ad alto rischio non è qualcosa di secondario.
L'idiozia alla quale si riduce la teoria neoliberista non aiuta certo a decifrare le basi di questa situazione. In questi luoghi, il capitalismo mostra con tutta la sua forza quello che è la sua situazione di crisi e la verità del suo funzionamento. Il fatto che il capitale sia portatore di orrore, lo ha dovuto scoprire perfino cappuccetto rosso, quando ha dovuto scegliere fra il lupo cattivo ed il cacciatore. Quest'attività in questi territori, è lo scenario di un'alternativa di sopravvivenza piuttosto perversa per ampi settori della popolazione che sono rimaste sotterrate sotto la crisi. Non sono queste persone a governare i propri destini e a minacciare l'esistenza ed il benessere della società, ma ad esserlo sono piuttosto le relazioni feticistiche basate sulla produzione di merci che rendono superflue le loro vite, sebbene meritino ancora di essere vissute e, per questa stessa ragione, lo fanno avventurandosi negli ultimi spazi economici in cui è possibile vendersi, come avviene nel caso del commercio delle droghe. Situati in un tale limbo, questi individui sono diventati oggetto di operazioni militari il cui mandato è semplicemente quello dello sterminio. I conflitti per il dominio del territorio e le dispute riguardo i mercati della droga hanno prodotto un numero di morti che somiglia a quello degli altri conflitti nel resto del mondo. Nella stessa epoca, la guerra dei Balcani ha creato una situazione assai simile. Dal momento che le forme astratte dell'economia erano la forza che sosteneva la coesione delle relazioni sociali, quando con la crisi si sono disfatte, tutti si sono messi a combattere. A causa delle loro pratiche illecite di sopravvivenza o per il loro colore della pelle, o per la religione o il sesso, determinati gruppi sono diventati sacrificabili: « La Jugoslavia mi fa riaffiorare bei ricordi. La mia infanzia felice prima della guerra. [...] Nessuno si aspettava la guerra. [...] Improvvisamente, ecco che il tuo stesso esercito ti spara contro. I tuoi amici cominciano a spararti addosso...» Le diverse latitudini di un processo sociale totale, nel crollare, scatenato patologie molto simili: la simulazione della continuità della logica della trasformazione del valore in più valore viene mantenuta per mezzo di un indice di violenza sempre più aperto e crescente. Noti il/la lettore/lettrice che l'origine di questo quadro, identificata alla fine degli anni '70, aveva in sé molto di quello che era una situazione di collasso sociale incipiente in atto. La dittatura preparava l'arsenale per qualcosa che, senza spere cosa sarebbe effettivamente stato, era già da allora una scelta appropriata e poco discussa di quello che un modello di manutenzione poliziesca dell'ordine socioeconomico, che non poteva realizzare le proprie finalità senza affermarsi nel bel mezzo di uno «stato di guerra». Alla periferia del capitalismo, lo Stato aveva anticipato il suo indebolimento a partire dal collasso stesso dell'economia globale. Lo scenario qui descritto è un sintomo di questa crisi, e implica «una grande differenza tra il 21° ed il 20° secolo: l'idea secondo cui la guerra avvenga in un mondo diviso in aree territoriali sotto l'autorità di governi effettivi che posseggono il monopolio dei mezzi pubblici di potere e di coercizione [questa idea] smette di poter essere applicata » (Hobsbawm, 2002).
- III -
Presentare qui un concetto storico strutturale di violenza, il quale contrasta con i metodi delle discipline accademiche che raccolgono per mezzo di ricerche empiriche tutta la loro verità, può apparire problematico. Tuttavia, solo una lettura affrettata può considerarlo tale, o riduzionista. Questa concettualizzazione si sostiene a partire da una critica radicale di quelle che sono le basi della forma sociale considerata nel suo sviluppo storico. Per le discipline che fanno parte de cerchio illuminista (incluso il marxismo tradizionale) e che ontologizzano queste basi - come il lavoro, il valore, la merce, il denaro - e da esse derivano il senso teleologico del progresso delle forme giuridiche e politiche, la violenza è per lo più, in maniera predominante, un fattore extraeconomico, vale a dire, una brusca rottura di un accordo normativo, o l'esclusione da questo accordo di alcuni settori delle classi subalterne. Ma la società borghese è un continuo processo di astrazione, nel quale la natura e gli esseri umani, con i loro corpi sensibili, devono essere negati. Perciò, la reificazione, che racchiude in sé la forma coagulata di questo processo sociale, è in sé essa stessa un'immensa violenza che dev'essere soggettivamente astratta dagli individui - finché non esplode. Un approccio critico alla violenza, fatto a partire dalla relazione con lo schema di base della socializzazione del valore, rivela una faccia occultata del dominio sociale: le forme impersonali di astrazione, le quali si strutturano come meccanismi burocratici di organizzazione statale, o come oggettivazioni della forma valore che tendono a creare un'apparenza di realtà vuota di accadimenti. In una simile prospettiva critica, lo Stato è sempre una macchina oppressiva, perfino (e sempre di più) nella forma della democrazia occidentale. Non avviene diversamente con le relazioni di socializzazione, che possono essere vissute con maggior violenza nei paesi periferici, ma non c'è modo di eliminare la violenza, in quanto base per imporre le forme di esistenza che sono sottomesse a priori alle necessità dell'accumulazione del capitale, in special modo nelle circostanze dell'impossibilità della sua realizzazione. Anche quando può essere stabilita la relazione con la dinamica dell'accumulazione, come avviene in situazione di grave recessione o di catastrofi naturali, queste cause di solito vengono assunte dall'arco teorico illuminista come cause momentanee o secondarie. Per questo campo teorico, l'idea di una regressione permanente è inconcepibile, allo stesso modo in cui le forme di esistenza d questa società mantengono il paradosso di essere sempre una barbarie civilizzata. In questo modo, non sto affermando che tale chiave esplicativa esaurisca la comprensione dei fenomeni della violenza. Ma è, certamente, la più completa.
Negli ultimi quarant'anni, gli sforzi dei governi di tutto il mondo hanno avuto tutti un unico obiettivo: impedire che il capitale accumulato soffrisse di una grande svalorizzazione. Ciò nonostante, la forza lavoro, le merci e i mezzi di produzione si sono ridotti a rottami. Le bolle finanziarie hanno creato dei potenti meccanismi di ritardo di questa svalorizzazione, ma il prezzo sociale pagato alla fine ha continuato ad essere alto. Le scosse sul mercato finanziario ci sono state in maniera progressiva e in spazi di tempo sempre più brevi e, alla fine, hanno lasciato l'impressione del ronzio di una miccia ancora accesa che annuncia la prossima esplosione. La crisi del 2008 è ben lontana dall'essere stata superata ed ha alzato di un gradino quello che è il livello di distruzione della vita quotidiana. Già nella crisi del 2001, quando esplose la bolla dell'economia digitale e la borsa di New York era a rischio, venne stabilita quali fossero le relazioni tra guerre di ordinamento, dissoluzione sociale e guerre civili. Negli ultimi dieci anni queste relazioni si sono del tutto fuse e amalgamate.
La miccia corta della svalorizzazione generalizzata del capitale ha reso le guerre - o la loro preparazione - un fenomeno centrale del presente, al punto che la politica oramai ha ceduto il proprio posto a questi nuovi mezzi. Dal momento che non si tratta di una guerra convenzionale, per ora ad essere in corso è solo del suo primato sui diritti sociali e lo stritolamento della massa dei superflui. In quest'ottica, il bolsonarismo è il rappresentante di questa violenza terrorista che si alimenta dell'orrore quotidiano nelle strade, ed è un punto di arrivo nel passaggio dall'attività poliziesca difensiva - come dovrebbe essere in una democrazia - alle nuove modalità offensive, iniziate, senza mai essersi interrotte, fin dal 1969. Si tratta di una formulazione politica degradata ad un ricatto delle bande armate provenienti dalle cantine della dittatura, le cui ramificazioni partono dagli uffici della Polizia Militare, attraversano le Forze armate e si insediano nei gruppi di miliziani. In cambio della cattura dello Stato, alleandosi con un programma neoliberista liquidazionista di quelli che sono i resti dell'economia, queste bande acquisiscono il salvacondotto per rafforzare socialmente le strutture di un'economia di saccheggio della ricchezza ancora esistente. L'invasione dell'Iraq del 2003 aveva chiarito il cambiamento di livello delle guerre a partire da allora. In queste guerre, nel loro movimento interno di valanghe, non ci sono più nemmeno le condizioni per poter simulare, alla fine, una pacificazione o una ricostruzione dei territori colpiti. Dopo il 2008, il collasso ha guadagnato velocità e forza e, grazie ad esperienze come quella brasiliana, ora queste bande di miliziani sono necessarie per sostenere il governi, mentre le masse cominciano a fuggire.
Le possibilità di uscire da questa crisi mantenendo un certo livello di razionalità che possa evitare traumi acuti, sono poche ed improbabili. Come è stato argomentato in tutto l'articolo, questo processo si è formato in continuità con le soluzioni che la dittatura aveva rappresentato di fronte all'impasse di un'economia periferica e all'inizio del presentarsi di un limite logico interno all'accumulazione. L'articolazione di un governo poliziesco di collasso sociale, insieme alla strutturazione di un'economia di saccheggio che ha funzionato sia a livello macroeconomico che nella quotidianità delle classi popolari e anche, sempre più, delle classi medie, è stato un limite del processo di ri-democratizzazione ed un punto debole del potere costituente della società brasiliana dopo 20 anni di arbitrio militare. Questo limite era il punto di incontro tra la crisi del capitalismo iniziata negli anni '70 - e che si era approfondita negli anni '80, come può essere dimostrato dalla crisi del debito estero - e le domanda democratica attenuata. Uno scontro tra le aspirazioni in espansione ed un principio di realtà troppo ristretto per sostenerlo. Come se si pretendesse di appoggiare un gigante sul guscio di una noce rotta. Ma questo non è stato altro che l'inizio del limite della società produttrice di merci. Continuare ad esistere, per questa società, implicava non dover affrontare, o comprendere come un'impotenza inaccettabile, quella che era la massiccia presenza della polizia nella vita quotidiana. Tutto ciò faceva parte di una lezione che era stata messa a tacere.
Le milizie non sono semplicemente una regressione dei costumi politici. Sono un passo avanti nella gestione della barbarie. Dal momento che sono un prodotto del caos, si trovano nella posizione di poter seminare nell'arido terreno in cui si riproducono. Una sinistra in grado di affrontare questa nuova sfida, dovrà rompere con tutto quello che fino a ieri è stato considerato di sinistra. O così, o ancora più barbarie.
- Marildo Menegat - Pubblicato su Argumentum v.11 n°2 del 2019 -
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Fonte: Baierle & Co.
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