mercoledì 31 marzo 2021

Non ho più sonno!

Nelle nostre società iperattive e stressate, sempre più numerosi sono coloro che giunti al momento di andare a letto fanno fatica ad addormentarsi. È una condizione strettamente connessa alla svalutazione del sonno che la modernità, con la sua smania di produrre, ha inaugurato assieme alla progressiva erosione del buio, sempre più illuminato. La veglia notturna in passato non aveva una prevalente connotazione di frustrante incapacità, di attesa ansiosa; il più antico degli eroi, Gilgamesh, soffriva di insonnia per un eccesso di energia e di voglia di agire, e quanti sono i paladini delle antiche battaglie che la notte pregustavano il piacere dello scontro mattutino? Personaggio dopo personaggio, esempio dopo esempio, Eluned Summers-Bremner cuce in un unico variegatissimo patchwork le tante forme di insonnia che la letteratura di ogni epoca e civiltà ci racconta. Dall’antica Mesopotamia all’Iliade e l’Odissea, dalla Cina all’India, dall’Europa al Giappone. Attraverso una lettura godibilissima, andiamo alle radici dell’insonnia e scopriamo che l’arte, non meno della scienza, è stata lo strumento con cui l’uomo ha cercato nei secoli di comprenderla, descriverla e superarla. I medici e i filosofi del medioevo e del Rinascimento, per esempio, la consideravano un sintomo dell’innamoramento, della melanconia, e persino della possessione demoniaca. La medicina moderna invece tende spesso ad associarla a stati di sofferenza psicologica, da cui il sempre più diffuso ricorso ai farmaci. Ma come se la cavavano i nostri antenati? E cosa ne pensano della veglia e del buio le civiltà diverse da quella occidentale, figlia dell’Illuminismo? Pagine intriganti, piene di risposte

(dal risvolto di copertina di: Eluned Summers-Bremner, "Insonnia". Donzelli.)

Ci stiamo perdendo il sonno
- Tenera era la notte -
- di Marco Belpoliti -

Anche il sonno non è più quello di una volta. Le frequenti pubblicità dedicate a rimedi per combattere l’insonnia dimostrano che oggi le persone faticano sempre più a prender sonno. Da disturbo legato all’avanzare dell’età – da vecchi si dorme sempre meno – l’insonnia si sta trasferendo nella popolazione adulta e anche in quella più giovane. Senza dubbio uno degli effetti del Covid 19 è stato alzare il livello di ansia nelle persone condizionandone la capacità di dormire con facilità. Qualcosa di analogo era accaduto in America dopo l’attentato alle Twin Towers nel 2001: il numero delle persone che soffrivano di questo disturbo era raddoppiato dopo l’evento. Si calcola che trascorriamo circa un terzo della nostra vita dormendo, ma questa quantità va diminuendo progressivamente. Oltre alla veglia e al sonno c’è infatti un terzo stato dell’esistenza: l’insonnia, tempo singolarmente inconoscibile, tempo dell’attesa. Ma cos’è esattamente l’insonnia? I medici la definiscono l’incapacità abituale di addormentarsi o di continuare a dormire quando lo si desidera o se ne ha bisogno, scrive Eluned Summers-Bremmer in "Insonnia" (Donzelli), storia culturale di questo stato di veglia. Quando cala la notte l'ormone sedativo della melatonina, basso durante il giorno, cresce poiché la sua sintesi avviene nella tarda serata, tra le 21 e le 22, mentre diminuisce di colpo verso le 7-8 del mattino preparandoci al risveglio. Tempo di riposo e ristoro il sonno ha cambiato decisamente il proprio significato. Per gli antichi era una parte attiva della vita umana, la cui unica differenza rispetto alla veglia era data dal buio. Gli dei potevano fare visita ai mortali con sogni profetici, e questo momento di oblio era in stretta relazione con la parte attiva dell'esistenza. La svalutazione del sonno è un risultato della modernità, scrive Summers-Bremner nel suo saggio, i cui rilegge la letteratura mondiale attraverso i personaggi insonni. Questo cambiamento è avvenuto verso la fine del Medioevo per diventare di fatto irreversibile con l'avvento della moderna economia capitalista. Lo sintetizza nel 1997 in una battura uno psichiatra anglosassone, William Dement: «La mente non dorme mai!». Lo scienziato israeliano Peretz Lavie in "Il meraviglioso mondo del sonno" (Einaudi) mette l'accento su quello che accade nel nostro cervello durante il sonno: la mente lavora per noi. Lavoro: questo è ora il sonno. Ma tutto questo non sembra bastare, come ha sottolineato Jonhatan Crary in "24/7" (Einaudi). Secondo il docente della Columbia University il sonno sarebbe rimasto l'ultimo terreno che l'economia non ha ancora conquistato completamente e colonizzato in modo definitivo. Come si è arrivati all'insonnia attuale, che colpisce molti esseri umani in ogni parte del mondo?
Noi pratichiamo giornate lavorative molto più lunghe dei nostri genitori, e questo ci offre sempre meno tempo libero; inoltre i processi di globalizzazione hanno reso il lavoro di tutti continuamente riconfigurabile, facendo sì che le preoccupazioni entrino nella vita domestica. L'uso delle tecnologie informatiche e dei social è diventato invasivo a scapito di momenti liberi, dove è invece possibile la riflessione personale, per cui il sonno si fa strada più facilmente. Le luci artificiali hanno esteso il dominio del giorno rispetto alla notte, come ha spiegato Wolfgang Schivelbusch in "Luce" (Pratiche). La notte illuminata non solo prolunga il lavoro, ma accentua anche gli stati di eccitazione e d'ansia che abitavano in precedenza il giorno. Ora l'insonnia è un disturbo di tipo nevrotico, dicono gli psicologi. Perché nel mondo antico non esisteva l'insonnia così come la conosciamo oggi? Perché i nostri antenati non avevano il senso di proprietà individuale del tempo, e del debito che questo crea. Il tempo è denaro, ha spiegato Jacques Le Goff ricostruendone la genealogia nel medioevo. Il nuovo tempo mercantile ha spostato l'angoscia riservata al proprio destino nell'Aldilà nel regno quotidiano dell'al di qua: la consapevolezza dell'angoscia del tempo è un aspetto significativo dell'insonnia, scrive Summers-Bremner.
Questo stato di sospensione appare come «il luogo in cui due agenti imperscrutabili, il sonno e la notte, si ritrovano in uno scontro di confine, in cui un esito felice è possibile solo se entrambe perdono terreno». Per gli antichi, fatte le dovute distinzioni tra le diverse civiltà, l'insonnia è «l'insieme dei sogni scuri e bramosi all'interno di altre condizioni oscure: il sonno, la notte e la morte, la più profonda». L'attesa di vivere sempre più a lungo è legata all'insonnia, come mostra la figura creata da Bram Stoker, Dracula (1897) alle soglie del XX secolo. Tra il 1740 e il 1900 gli eventi mondiali cominciarono infatti ad accelerare sempre più. Ci fu poi l'arrivo di sostanze che accrescevano lo stato di veglia, come il tè e il caffè, oltre allo zucchero, che da solo rese possibile sul piano energetico, scrive Sidney W. Mintz in "Storia dello zucchero" (Einaudi), l'esplosione della rivoluzione industriale.
E oggi? L'insonnia è senza dubbio un prodotto dell'intensificazione della vita nervosa dei nuovi lavoratori informatici, ovvero di noi tutti. Il lockdown prodotto dal virus ha rotto le barriere tra il lavoro e il riposo, tra l'ufficio e la casa, aumentando l'ansia e dilatando nel contempo quello spazio incerto e indefinito in cui irrompe l'insonnia.

- Marco Belpoliti - Pubblicato su Robinson del 6/3/2021 -

martedì 30 marzo 2021

Domande

Il tuo sciopero generale o la tua rivoluzione politica, riescono a fare questo... ?
- di Jehu -

«Il 12% delle spedizioni globali passa attraverso il canale di Suez. Ragion per cui l'Evergreen dovrebbe riuscire a darvi una qualche idea dell'impatto che avrebbe qualsiasi sciopero a livello industriale con una partecipazione del solo 12%. Per avere un grande impatto, non c'è alcun bisogno che partecipi il 100% dei posti di lavoro. I LAVORATORI hanno TUTTO il potere.»
(Tweet di: Emerican Johnson - NonCompete - BANNED ON FACEBOOK)

Un tale su Twitter che si fa chiamare "Emerican Johnson" ha richiamato l'attenzione sul caos causato in queste due ultime settimane al trasporto marittimo globale, quando una nave da carico piena di container è rimasta incagliata nel Canale di Suez bloccando quello che è stato stimato come il 12% di tutto il traffico marittimo. La stima dell'ammontare dei costi conseguenti a questo incidente, lo si poteva leggere sparso su tutti i giornali e i media, ma una fonte coraggiosa li ha inchiodati a qualcosa che supera i 400milioni di $ l'ora, per tutti i sei giorni durante i quali la nave è rimasta bloccata.
Emerican è rimasto talmente impressionato dal danno causato al capitale da questo incidente - che ha equivalso a una versione globale dell'ingorgo durante l'ora di punta - da essere arrivato a dichiarare che tutto questo ha dimostrato il potere potenziale posseduto dalla classe operaia nella sua lotta contro il capitale.
«Non c'è alcun bisogno che partecipi il 100% dei posti di lavoro» in uno sciopero generale per avere un serio impatto sul capitale! Con ogni probabilità ce la potremmo cavare anche con solo il 12%.
A partire da quanto ha dichiarato, mi è venuto da chiedermi: Non siamo forse appena passati, lo scorso anno, attraverso una dimostrazione assai più grande di quella che è la capacità di resistenza del modo capitalistico di produzione, quando forse fino al 50% dell'attività economica dei paesi dell'OCSE è stata bruscamente interrotta, in quanto misura di emergenza per riuscire a rallentare per un anno la diffusione della pandemia? Se io fossi quel genere di persona che coltiva una qualche illusione sul fatto che una rivoluzione politica marxista, o una strategia di sciopero generale anarcosindacalista abbiano una qualche speranza di successo nel riuscire ad abbattere questo modo di produzione; ecco, allora riconsidererei seriamente una di queste due strategie alla luce dell'esperienza dell'anno scorso.
Voglio dire, quello che abbiamo qui è un chiaro caso di Stato borghese che, in un paese dopo l'altro, ferma parzialmente l'accumulazione su una scala che finora non era mai stata immaginata, perfino dai più radicali. Eppure, secondo quelli che sono i commenti di tutti questi stessi radicali, il modo di produzione non si trova in alcun modo in pericolo di collasso a causa di questo assalto frontale da parte degli stessi capitalisti!
Certo, si potrebbe argomentare che questo sforzo fatto lo scorso anno non era inteso a rimpiazzare il capitalismo con un altro modo di produzione, ma allora dovrebbe essere dimostrato che una sostituzione era necessaria. Il comunismo non ha proprietà, non ha lavoro salariato, e non ha Stato. E tutto ciò che gli viene richiesto è che queste tre cose - proprietà, lavoro salariato e Stato - non esistano più. Quella che c'è stata non era una sostituzione. Non è niente.

Ma sto divagando.

Il vero punto qui, è che nell'ultimo anno il modo di produzione ha patito, per mano del suo stesso Stato borghese, assai più danni di quanti, per generazioni, i radicali abbiano mai realisticamente immaginato di imporgli.
Visto che tutto questo danno non gli è stato fatale, mi piacerebbe sapere quale danno possibile potrebbe mai essere imposto al capitale da una qualche possibile rivoluzione politica, o da qualche sciopero generale - oppure anche da una combinazione delle due cose che abbia una qualche speranza di superarlo?

- Jehu - Pubblicato il 30/3/2021 su The Real Movement -

lunedì 29 marzo 2021

La "password" è: Beckett

Nella famosa conferenza di Foucault, Che cos'è un Autore?, tenuta nel febbraio del 1969 presso la Società francese di Filosofia, fin dall'inizio non solo viene posta  la relazione tra letteratura e filosofia, ma anche la tensione permanente esistente tra il detto e lo scritto, tra il visivo e l'uditivo. Foucault cita Beckett senza menzionarne il nome, ne «parla» la citazione senza indicare in alcun modo quelle virgolette che, graficamente, arrivano e indicano la citazione, il sovrapporsi della voce del filosofo alla frase dello scrittore. (Che importa chi è che parla? - è ciò che noi sentiamo dire da Foucault, o meglio «Qu’importe qui parle?», mentre nella versione scritta appaiono le virgolette senza che il nome di Beckett venga menzionato).

La frase di Beckett, può essere trovata in uno dei testi sparsi che sono stati riuniti nel volume "Novelle e testi per nulla", pubblicato da Einaudi nel 1967. Il libro contiene il racconto L'Expulsé, scritta in francese nel 1946 e pubblicato sulla rivista Fontaine (n° 57, dic.1946-gen.1947); il racconto Le Calmant, sempre dello stesso periodo, e anche il racconto La Fin, del 1945, che precedentemente era apparso, in versione mutila e con un altro titolo (Suite), sul numero del 10/7/1946 di Les Temps Modernes. La seconda parte del libro - "Textes pou rien", da cui deriva la frase che viene usata da Foucault - contiene 13 brevi testi scritti in francese da Beckett nel 1950 (alcuni vennero pubblicati su Les Lettres Nouvelles, nel maggio del 1953, altri sulla rivista Monde Noveau, nel maggio-giugno 1955.

Andando avanti nella sua conferenza, ben dopo l'apertura nella quale non appaiono le virgolette, Foucault ritorna sulla frase di Beckett, menzionando qui però anche il suo nome ed ampliando la frase stessa, riportandone anche quella che era la sua seconda parte: «Per il tema da cui vorrei partire, prendo in prestito la formulazione che ne dà Beckett, "Qu’importe qui parle, quelqu’un a dit qu’importe qui parle". In questa indifferenza, credo si debba riconoscere uno dei principi etici fondamentali della scrittura contemporanea.» L'apertura della conferenza è la celebrazione della riflessione che viene esposta: un nome viene nascosto, però rimane evocato nei suoi riferimenti fino a quando non viene recuperato - in una sorta di ritornello, per dirla con Deleuze - per poi essere ampliato, posizionato come una specie di password, di parola chiave in grado di dare accesso «a uno de principi etici fondamentali della scrittura contemporanea».

fonte: Um túnel no fim da luz

domenica 28 marzo 2021

Passeggiando …

Camminare: un comportamento anticapitalista
- di Carlos Madrid -

In quest'epoca sconsiderata, camminare la strada senza fretta e senza un obiettivo utilitario è una vera e propria resistenza. Nega la produzione incessante. Rivendica la città come spazio pubblico. E reintroduce il pensare-guardare: l'aprirsi al mondo senza la mediazione dei mercati. Nel Libro "Alice nel paese delle meraviglie", c'è un momento in cui lo Stregatto dà ad Alice un consiglio per farla uscire dalla situazione in cui si trova: «Arriverai da qualche parte, solo se cammini abbastanza lontano». Si tratta di una frase che noi, i sopravvissuti di questo XXI secolo, possiamo raccogliere e torcere, fino ad estrarne nuovi significati. Perché camminare può servire per raggiungere il luogo desiderato, ma anche - esercizio al quale si rinuncia sempre più - a riconoscere il luogo che abitiamo. Per pensare. A partire da questa seconda concezione, ci sono molti pensatori e pensatrici che dedicano ore a una cosa simile. Tanto al fine di esercitarlo, quanto allo scopo di riflettere su quale sia il suo ruolo nella nostra vita quotidiana. Gli è che, come dice il filosofo e scrittore Santiago Alba Rico, «fino a una ventina d'anni fa, camminare era normale; mentre oggi è diventata una prescrizione medica o un atto di sana disciplina». Pertanto, nei suoi articoli apparsi su diverse pubblicazioni e in alcuni dei suoi libri, come"Ser o non ser (Un cuerpo)" [Essere o non essere (un corpo)], il pensatore ha dedicato molte parole a descrivere le qualità di quest'arte. Questa forma di interagire con quello che ci circonda, è condiviso anche dalla giornalista Anna Maria Iglesia. La sua tesi di dottorato, pubblicata lo scorso anno, parla di tutti che praticano la passeggiata ed ha per titolo La revolución de las “flâneuses”. Per l'autrice, l'importanza del camminare risiede nell'occupare lo spazio pubblico, nel mostrarsi alla società. «Per me, il camminare, come sostiene Rebecca Solnit, è importante in quanto rivendicazione del soggetto che ha diritto a stare nello spazio pubblico. Significa che la strada non è una concessione, ma ci appartiene», argomenta. Anna Maria Iglesia ha passato cinque anni a scrivere una tesi su quelli che passeggiano, a prescindere dal genere, femminile o meno. A partire da questo, arrivò per lei un momento in cui si chiese che fine avessero fatto le donne che fra le altre cose, negli ultimi anni,  avevano anche occupato le strade. A questa sua smemoratezza, intese riparare con il libro. «Bisogna chiedersi dove sia la donna nello spazio pubblico: perché non le viene permesso di stare in strada/intendendo con questo che la donna di strada è una prostituta. E quest'ultima associazione reca in sé la convinzione secondo cui una donna non dovrebbe trovarsi per strada, tanto meno a certe ore. Difendere queste donne significa valorizzare la lotta della donna per una sua auto-legittimazione nello spazio pubblico», sostiene.

Nel momento in cui lo spazio-tempo si allinea con il pensiero.
Perché camminare - contrariamente a quella che è la percezione che ne abbiamo - serve in gran parte a pensare. Si tratta di un momento nel quale lo spazio-tempo si allinea con il pensiero, attraverso uno sguardo che osserva. «Pensare e guardare sono attività straordinarie, indispensabili alla sopravvivenza umana. Pensare e guardare, soprattutto, sono esperienze sempre più eccezionali. Ed è per questo che, come disse Stevenson, bisogna passeggiare, camminando senza fretta e in libertà, senza la disciplina di un percorso fisso, passando così dall'interno all'esterno, dalla meditazione al mondo», sottolinea Alba Rico. In sostanza, passeggiare visto come un modo di aprirsi all'esterno.
Da parte sua, Anna Maria Iglesia segue l'idea di camminare che aveva Rosseau, il quale diceva che per lui pensare implicava uscire per fare una passeggiata. «C'è tutta una corrente letteraria e filosofica che segue tale linea, che per camminare intende una forma di pensare, di rallentare il ritmo, di astrarsi rispetto ad una determinata occupazione. Il camminare ha in sé qualcosa di ozioso, non è produttivo. Si tratta di un atto che abbandona la logica produttiva nella quale ci troviamo immersi al fine di poter essere utili». Si tratta, pertanto, di uno stadio al quale perveniamo nel momento in cui riduciamo la velocità dei nostri corpi e, di conseguenza, dei nostri cervelli. Qualcosa che non è possibile alla velocità di quelle che sono le nostre macchine, come diceva nel secolo scorso Stefan Zweig. «Noi non camminiamo alla velocità di un corpo; né pensiamo alla velocità di un cervello. Ciò implica che tralasciamo tutte le esperienze indissociabili da queste velocità antropometriche: le cerimonie, il corteggiamento amoroso, gli acquisti fatti nelle piccole botteghe, l'attesa in generale, compresa ad esempio quella della maternità, sempre più incompatibile con i ritmi produttivi e i flussi di immagini delle nuove tecnologie», sosteneva il filosofo.
I nuovi ritmi vitali, ritiene Alba Rico, ci hanno travolto e fanno fatto sì che la velocità smettesse di essere un mezzo per trasformarsi in un soggetto. «La velocità è il soggetto che presiede alle nostre vite, convertitesi ora in un mezzo e, a volte, in un ostacolo alla velocità. La velocità accelera i nostri corpi e, se non riusciamo ad andare al ritmo che essa ci impone, essa ci lascia indietro, oppure fa  a meno di noi. Il corpo stesso diventa come una spazzatura che ci intralcia», conclude.
In tal modo, la velocità è stata fissata nella nostra vita dal capitalismo, ed è stata essa ad averci proibito delle cose semplici come la noia, l'attenzione e l'attesa. Anche il camminare è stato dimenticato a partire dal fatto che non è un atto produttivo; e, secondo la logica capitalista, pertanto inutile. «Il nostro tempo è incentrato per farlo essere produttivo o consumista. Il tempo libero, inteso come un tempo per uscire dalle logiche di mercato, è stato ridotto al minimo. Il filosofo coreano Byung-Chul Han dice anche lui qualcosa del genere: siamo passati dall'epoca in cui ci veniva imposto un certo lavoro, ad un tempo in cui ora siamo noi che imponiamo a noi stessi la produzione. Ciò significa che nella nostra società, il tempo per le cose inutili è completamente scomparso», sostiene Anna Maria Iglesia.

Recuperare il camminare
Se le cose stanno così, allora non c'è modo di riuscire a recuperare il camminare? «Vedo che ora è difficile, che ci troviamo imprigionati nel capitalismo, in quella che è una logica di produzione difficile da infrangere. È necessario rimanere consapevoli, in ogni momento, di tutto quanto quello che ci circonda e del modo in  cui ci influenza. Di tutto ciò che consumiamo - e qui non sto facendo riferimento solo agli acquisti, a cosa si compra, ma anche ai discorsi, ai messaggi, ai luoghi, a tutto quello che ci viene imposto. Quando arriveremo ad esse coscienti di tutto questo, allora, a quel punto, saremo in grado di cambiare», risponde al giornalista.
Già, Alba Rico è convinta del fatto che abbiamo perso l'esperienza, la quale ora dev'essere convertita in un sabotaggio premeditato della macchina della velocità. Qualcosa  che è già avvenuto perché «chi passeggia, se lo desidera, lo fa al di fuori dei circuiti della funzionalità capitalistica».  Per poter passeggiare occorre avere tempo, che non abbiamo; serve volontà, che dev'essere confiscata all'intrattenimento industriale; e abbiamo bisogno di uno spazio adeguato, che va sottratto in un universo occupato dalle automobili. Anche così, persiste un margine di speranza. E risiede nell'esercitare il passeggio, la passeggiata; una cosa che innesca una serie di cambiamenti. Cambiamenti che «richiedono come loro condizione, che la nostra società e la nostra economia si trasformino. E fare questo è un cammino lungo e difficile. Nel frattempo, possiamo tentare, a volte, di abbandonare il velocissimo corpo astratto e tornare a quello antico, a quello originale e singolare; a quello che garantisce vincoli e legami: con il mondo e con gli altri corpi». Il filosofo conclude dicendo: «Che a volte possono essere insopportabili, ma senza di essi non esiste apprendimento, né piacere profondo, né futuro».

- Carlos Madrid  - Pubblicato il 25/11/2020 su  blogdaconsequencia -

sabato 27 marzo 2021

Capolavori ?!?

Che cos’è l’arte? Qual è la sua forza? Queste le domande che Alfred Gell solleva in Arte e agency, convinto che le statue di Michelangelo e i tatuaggi maori pongano i medesimi problemi e sollevino alcune delle più importanti questioni che l’antropologia deve discutere. L’origine del potere che gli oggetti artistici esercitano su di noi dipende dal modo in cui vengono realizzati: veniamo incantati dalla tecnica con cui uomini diversi da noi forgiano i materiali. Il marmo e la pelle incorporano i gesti che li hanno modificati, le intenzioni di coloro che li hanno trasformati, e agiscono come persone in carne e ossa. Sono agenti sociali. Testo all’avanguardia all’epoca della sua stesura, torna a esserlo oggi tanto per comprendere processi artistici à la Damien Hirst e installazioni che mettono in scena corpi viventi, artefatti d’uso comune e dispositivi tecnologici, quanto per dialogare proficuamente con posizioni filosofiche come le teorie dell’embodiment e della mente estesa, i nuovi materialismi e l’estetica contemporanea.

(dal risvolto di copertina di: Alfred Gell, "Arte e agency. Una teoria antropologica". Raffaello Cortina editore)

Quei capolavori sono totem
- di Simone Verde -

Nel gennaio del 1997, pochi giorni prima di morire, Alfred Gell, uno dei più brillanti e geniali antropologhi britannici riuscì nella sfida più grande della sua vita. Consegnò completo alla Oxford University Press il suo capolavoro dattiloscritto: Art and Agency, an anthropological theory. Possiamo ipotizzare con buona approssimazione quanto Gell si aspettasse da questo suo sforzo estremo. DI sicuro polemiche a non finire, tanto ne era stato abituato durante tutta la sua originalissima carriera accademica. Ancora di più questa volta, visto che il volume si apriva con l'attacco a una delle più acclamate antropologhe del momento, Sally Price. Ciò che Gell non poteva forse immaginare, però, impegnato con una cieca corsa contro il tempo per via di una fine che sapeva imminente, è che il testo sarebbe stato salutato da ampia parte della comunità degli studiosi come un autentico capolavoro. E che avrebbe fondato un filone di studi e di pratiche tanto longevo che questa prima traduzione italiana per i tipi dell'editore Cortina suona - a ventitré anni di distanza - come una riavvenuta rivelazione.
Il rimprovero a Sally Price con cui Gell introduce la sua opera costituisce il senso generale del testo e riguarda una questione essenziale: che senso ha trattare le creazioni delle culture extraeuropee secondo i concetti di bello artistico tipici della tradizione europea?  Nessuno. Neanche quando si trattasse, come proponeva Price, di ridiscutere le categorie dell'arte a contatto con l'alterità di quei popoli, e di «ampliare l'esperienza estetica oltre i ristretti confini culturali della nostra visione» di occidentali. Partendo dal presupposto che l'unico sapere universale che riguarda l'uomo è l'antropologia, Gell tracciava invece una strada mai suggerita: piuttosto che estendere la teoria dell'arte con i precetti di tipo antropologico, bisognava verificare se in antropologia potesse darsi una teoria dell'arte. A partire da questo presupposto, lo studioso procedeva a una vera e propria tabula rasa in cui decadevano le categorie tradizionali dell'estetica e sparivano concetti come quelli di "capolavoro" e di "opera". Ritrovava, quindi, dinanzi a sé un mondo fatto di semplici artefatti, realizzati secondo specifici processi sociali e che, al cospetto della natura, rappresentano vettori di antropizzazione.
Pensiamoci bene, a questa rivoluzione e ai suoi innumerevoli risvolti. Guardandola da vicino persino lo statuto dei nostri musei ne risulta stravolto. Più che scrigni di oggetti esemplari, risultano, come già li aveva voluti la rivoluzione francese e la sua visione illuminista, raccolte di documenti che illustrano le forme culturali con cui differenti comunità hanno voluto rappresentare sé stesse e la loro progettualità nel mondo. Per Gell, in effetti, tutti gli artefatti - e tra questi anche le occidentali opere d'arte - sono un "indice", una espressione delle intenzioni di chi li ha creati. Una volta distaccatisi dalla mano di coloro che li hanno eseguiti e una volta che la società se ne sia appropriata, essi continuano a costituire un agente di trasformazione della realtà. Da qui, il titolo "Arte e Agency", ovvero - come hanno tradotto alcuni, arte e "intenzionalità", oppure "agire intenzionale" in cui l'artefatto è da considerarsi emanazione della volontà dell'artista, del committente, dell'ispiratore, insomma di colui che ne ha formulato il disegno e la progettualità.
Con questa struttura, Gell riuscì in un vero e proprio capolavoro, ovvero a rimescolare a tal punto le categorie da rendere "artistiche" le creazioni dei popoli extraeuropei ed "etniche" quelle degli occidentali, private della loro supposta universalità. Se una canoa trobriandese può essere considerata un'opera d'arte - in senso antropologico ben inteso - in quanto espressione di una visione del mondo dotata di un progetto, una pittura rinascimentale è dotata di una tale "intenzionalità" da rassomigliare quasi a un totem, a una rappresentazione in cui la società celebra sé stessa e la sua capacità di imporre un ordine - culturale - alternativo a quello della natura. La prosa di Gell, è vero, risulta a tratti di difficile lettura, eccessivamente schematica in alcuni passaggi per via di una certa tendenza a scimmiottare il linguaggio della filosofia analitica, tanto di moda al tempo della rocambolesca redazione del saggio. Ma resta uno dei capisaldi da cui partire per uno studio non ideologico o etnocentrico dell'arte, tanto più in società multietniche e multiculturali come quella del nostro tempo.

- Simone Verde - Pubblicato sul Sole del 27/2/2021 -

venerdì 26 marzo 2021

Mille voci!

Eros dell’impossibile – un classico della storiografia contemporanea – illustra lo sviluppo storico della psicoanalisi russa del primo Novecento nella sua relazione con la cultura filosofica, letteraria e artistica, con la psicologia e la pedagogia, con la società e la politica. I capitoli sui principali protagonisti (Andreas-Salomé, Pankeev o l’Uomo dei lupi, Spielrein, i fondatori della Società russa di psicoanalisi; e altre figure meno note, ma la cui importanza è messa in risalto) si intrecciano con la trattazione su grandi temi e movimenti culturali (la diffusione di Nietzsche, il simbolismo dell’Età d’argento e poeti come Belyj, Blok o Rozanov; Bulgakov, l’ambasciatore Bullitt e il Ballo di Satana; i filosofi Berdjaev, Ivanov o Solovëv; la psicologia di Vygotskij e Lurija, e la pedologia; le teorie filmiche di Ejzenštejn; Bachtin e il suo circolo). Questo insieme di temi e personaggi è trattato all’interno del complesso quadro della storia sovietica (fondamentale il ruolo di Trockij nella diffusione della psicoanalisi dopo la Rivoluzione prima che essa fosse bandita alla fine degli anni ’20, con la persecuzione di psicoanalisti di valore). Pubblicato nel 1993, Eros dell’impossibile è stato tradotto in otto lingue. Questa prima traduzione italiana è stata condotta sulla nuova edizione riveduta del 2016.

(dal risvolto di copertina di: Aleksandr Etkind, "Eros dell'impossibile. Storia della psicoanalisi in Russia". Edizioni ETS)

E in Russia esplose la «libido»
- di Vittorio Lingiardi -

"Eros dell'impossibile" è l'espressione usata dal maggior esponente del simbolismo russo, Vjaceslav Ivanov, per descrivere lo stato d'animo culturale nella Russia della cosiddetta Età d'argento, i decenni a cavaliere tra Otto e Novecento. Un'epoca di grandi speranze e delusioni, suicidi e profezie, religione e politica, scienza, magia e antroposofia. Aleksandr Etkind, psicologo e storico delle relazioni Russia-Europa, dà voce, mille voci, a questo eros. Lo fa in un libro da tempo apprezzato all'estero e ora finalmente tradotto nella nostra lingua per la cura di Luciano Meacci, studioso di grande respiro e già professore di Psicologia generale all'Università di Firenze. Definire "Eros dell'impossibile" una «storia della psicoanalisi in Russia» è riduttivo. A questo saggio bene si applicano le parole che Nietzsche scriveva a Lou Andreas-Salomé: «la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ad atti personali dei loro autori [è buona] [...] ho esposto la storia della filosofia antica in questo senso, e amavo dire ai miei uditori: "Questo sistema è confutato e morto - ma la persona che vi sta dietro è inconfutabile, la persona non può far morire"». Proprio perché garantito da un apparato documentario e para-testuale impeccabile, "Eros dell'impossibile" va letto come una fantasmagoria di personalità e relazioni toccate nei modi più vari dalla psicoanalisi: esercitata sugli altri, sperimentata su di sé, scritta e studiata, e infine purtroppo osteggiata fino alla distruzione. Nel tessuto di questa evocazione polifonica, resa ancora più viva da una galleria fotografica con i volti dei protagonisti, Etkind mostra come molti dei temi affrontati dalla nascente psicoanalisi viennese fossero al centro anche delle ricerche dell'intelligencija russa prebellica e poi post-rivoluzionaria.
"Eros dell'impossibile" è un affresco cabalitico, un caleidoscopio di vite parallele che illuminano un'intera stagione culturale e oserei dire antropologica. Vite sfolgoranti e folgorate da una scintilla psicoanalitica. Ne menziono alcune: Sabina Spielrein, esperimento vivente dell'attrazione contro-transferale di Jung, inventrice del concetto di "pulsione di morte" che poi Freud in parte le scippò, trucidata nel 1942 dai nazisti in Russia davanti alla sinagoga di Rostov; Lou Andreas-Salomé, adorata da Nietzsche, amata da Rilke, ammirata da Freud, ma soprattutto padrona femminista di sé stessa; Sergej Pankeev, il paziente freudiano di Odessa noto come "l'uomo dei lupi"; Max Eitingon, psicoanalista di origini bielorusse, fondatore, con Karl Abraham, dell'Istituto Psicoanalitico Ebraico di Gerusalemme; i filosofi Vladimir Solov'ëv, Nikolaj Berdjaev e Vasilij Rozanov (quest'ultimo marito di un'altera amante di Dostoevskij, si conquistò una fama scandalosa per i suoi tentativi di spiegare i misteri del sesso nella cornice radiosa di una religione cosmica); Andrej Belyj, che nei suoi romanzi ricostruì le esperienze della prima infanzia; il critico Michael Bachtin, la cui intera opera dialoga, in modi ora aperti ora più impliciti, con Freud; Aleksandr Blok, che sposò Ljuba Mendeleeva, e scrisse l'enigmatico poema "I dodici"; Michael Zošcenko, scrittore satirico, che si curò con un'autoanalisi di dieci anni eseguita sotto la diretta influenza di Freud; Michael Bulgakov, geniale autore di "Il Maestro e Margherita", appassionato di ipnosi e protetto dall'amicizia dell'ambasciatore americano a Mosca William Bullitt (che fu paziente di Freud e col maestro viennese scrisse una psico-biografia del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson). E ancora i fondatori della Società russa di psicoanalisi, Moisej Vul'f, Tat'jana Rozental', Michail Asatiani, Leonid Droznes e soprattutto Nikolaj Osipov, primo divulgatore in patria del pensiero freudiano, fondatore nel 1910 della rivista «Psichoterapija» ed emigrato per sempre in Occidente negli anni Venti; gli scienziati Lev Vygotskij e Aleksandr Lurija, quest'ultimo il più importante psicologo del periodo sovietico, che inizio la carriera come segretario della Società russa di psicoanalisi per poi seguire altri destini. La danza delle personalità convocate da Etkind non poteva trascurare Lev Trockij e il suo interesse per la nuova scienza. Soprannominato "Penna" dai compagni di partito per le capacità di scrittura, fu subito affascinato dalla psicoanalisi alla quale guardò, strabicamente, come un modo per ricreare la personalità umana nello stampo socialista e che dunque sponsorizzò. Poi l'avvento della stagione stalinista spazzò via, con Trockij e tutto il resto, anche la psicoanalisi.
«In Russia», scriveva Freud a Jung nel 1912, «imperversa in questo momento un epidemia locale di ?A [psicoanalisi]» Nel paesaggio variegato e cosmopolita di una cultura in fermento, affamata di pensieri nuovi e infiammata dalla diffusione della filosofia nietzschiana, le idee di Freud e Jung vennero infatti assimilate rapidamente, incontrando meno resistenza che in Europa. Questo non impedì, insieme all'entusiasmo, lo sviluppo di alcuni scetticismi d'artista. Una certa resistenza, scrive Etkind, era caratteristica degli intellettuali russi. Anna Achmatova, per esempio, prendeva in giro i giovani intellettuali inglesi in analisi da Freud. «Allora aiuta?» chiede la poetessa a un ospite in arrivo da Oxford, che poi era Isaiah Berlin. «Oh, sì!» - risponde lui - «Ma diventano così noiosi che con loro non si può parlare di niente». La stessa Lou Andreas-Salomé sconsiglio Rainer Maria Rilke dal farsi analizzare, perché con i demoni, diceva, sarebbe probabilmente scomparso anche l'angelo creatore. Quanto a Sergej Ejzenštejn, il suo rapporto con la psicoanalisi era molto ambivalente: ne era affascinato, ma la bistrattava: di Sigmund Freud diceva «un nuovo Platone e un nuovo Aristotele si fondono nella personalità opprimente di un individuo dal nome wagneriano»; irriverente com'era si divertiva a chiamare "lebeda" la "libido" freudiana, e un giorno mise in riga il giovane amico Friedrich Ermler con queste parole: «se non la smetti di trastullarti con Freud, io smetterò di frequentarti. Sei uno scemo. Leggi Pavlov e vedrai che al mondo non c'è solo Freud!». Il tour de force in cui ci trascina Etkind si prefigge l'obiettivo di ritrarre il contesto storico e umano della psicoanalisi in Russia, la teoria e la pratica, il movimento prerivoluzionario e quello sovietico, la vitalità carica di malinconiche follie di una comunità trasversale che sfidava di continuo il confine tra la vita e il pensiero. La «tradizione russa», scrive, «non ha conosciuto e tuttora non conosce la specializzazione professionale abituale in Occidente. In Russia la cultura accademica e la cultura artistica si sono fuse con le correnti spirituali e le idee politiche». Nel suo racconto della psicoanalisi russa chiama infatti a raccolta non solo i medici e gli psicologi, ma anche i poeti simbolisti, i filosofi della religione e i rivoluzionari. E così come in Russia c'era tanta psicoanalisi, non dimentichiamo che anche in Russia c'era tanto psicoanalisi: per tutti i casi mi limito a citare il saggio di Freud del 1928 su "Dostoevskij e il parricidio" e il profondo rapporto tra Jung e il letterato Emilij Metner, curatore di una scelta di traduzioni junghiane in russo.
Nonostante la ricchezza vorticosa di informazioni, di circostanze e di riferimenti, il fascino di questo libro sta, come dice il titolo nell'inafferrabilità di quell'eros intellettuale che afferra invece il lettore e anima il mistero del grande popolo russo. Che Rilke dipingeva così: «i veri russi dicono al crepuscolo quello che gli altri negano alla luce del giorno».

- Vittorio Lingiardi -  Pubblicato sul Sole del 28/2/2021 -

giovedì 25 marzo 2021

Decadenza…

"Il Flagello di Dio", di Zamjàtin: una dialettica della barbarie e della civiltà
- di Cédric Monget -

Non tutti i romanzi russi sono lunghi, ma tutti hanno qualcosa di universale. Pertanto, il breve racconto di Zamjàtin sull'infanzia di Attila apre un'ampia riflessione sulla dialettica assassina fra barbarie e civiltà.
La barbarie ci ossessiona, la vita barbara ci tenta. Le nostre stanche anime di Europei tardivi sono come bloccate da un limite interno contro cui vanno a sbattere. Invidiamo il barbaro che uccidiamo, ne invidiamo la morte poiché essa testimonia, per inciso, una vitalità che non ci appartiene più. Scritto a Parigi - in quella che tra il 1928 e il 1955 era una seconda Atene - "Il Flagello di Dio" di Evgenij Zamjàtin lo spiega. I pochi capitoli che compongono questo romanzo incompiuto, sono simultaneamente sia l'apertura che la chiusura  di un'opera e allo stesso tempo anche l'inizio di un'altra opera che non vedrà mai la luce: Zamjàtin muore nel 1937. Tradotto per la prima volta in francese nel 1975, il romanzo viene oggi nuovamente pubblicato in una versione rivista e corretta dalle edizioni Noir sur Blanc. Dalle prime reazioni, l'iniziativa sembra essere stata particolarmente apprezzata.
La storia è duplice, e segue due personaggi che non possono essere più diversi tra loro: Attila e Priscus.
Attila è un bambino. Suo padre Moundzouk, re degli Unni, decide di mandarlo a Roma come ostaggio, e piegandosi in tal modo a quelle che sono le regole e le tradizioni della diplomazia romana. Per tutelare Roma nei confronti di un tradimento da parte dei re barbari che le si sono asserviti, cosa può esserci di più efficace se non la minaccia della vita dei loro figli? Cosa può esserci di più prudente e scaltro, se non provvedere all'educazione di questi bambini - tra i quali alcuni sono destinati a regnare - in modo che diventino devoti a Roma? Affidato al servo di suo padre, il vecchio Adolb, Attila lascia padre e fratello e viene mandato in un mondo di mattoni, di marmo e di sole. A Roma, Attila è infelice. Non riesce a comprendere né il luogo né le persone. Rifiuta questo nuovo mondo e da esso viene rifiutato. Insieme agli altri bambini, ostaggi barbari come lui, subisce gli insegnamenti del vecchio Bassus più di quanto egli creda. Roma è decadente; Bassus è saggio, ma Attila non se ne rende conto e li odia, odia tutto, odia la città e il maestro. Diffidente verso l'insegnamento ricevuto, si mostra puerilmente irrispettoso, inutilmente ribelle, maldestramente offensivo, laddove sempre la finezza di Bassus finisce per umiliarlo. Un giorno, si prepara a rispondere con una coltellata all'ironia del vecchio, ma Roma - non la città, bensì il gallo domestico dell'imperatore Onorio - irrompe nell'aula insieme alla sorella dell'imperatore, Placidia. Il ridicolo della situazione e la sublime bellezza della ragazza sciolgono la tensione e salvano il vecchio saggio: Ridicolo e sublime, vecchiaia e saggezza, quale migliore definizione di decadenza ci potrebbe mai essere?
Alla morte del suo maestro, lo storico Eusebius, Priscus lascia Costantinopoli per Roma, al fine di scriverne la storia. Ivi, alla scuola di Bassus apprende la saggezza; e alla scuola di Placidia i piaceri del bordello. Dopo tutto, non era certo arrivato alla madre del mondo per «esaminare con gli occhi di un medico che studia un malato»! E studiare le sue virtù e i suoi vizi, facendone esperienza in prima persona, non è forse il modo migliore per conoscere Roma, per viverla? Di certo, Priscus non ignora affatto le tentazioni del materialismo storico: «Ci sono quasi due milioni di persone che vivono a Roma. La città conta quarantaseimila case di piacere, millesettecentottanta palazzi, ottocentocinquanta bagni termali, milletrecentocinquantadue piscine pubbliche e fontane, ventotto biblioteche, centodieci chiese, due circhi, cinque teatri [...] Inoltre, nessuno può dire quante statue ci siano, alcuni ne stimano più di diecimila, ma a mio avviso credo siano tante quante sono le persone viventi.» Ma ecco che subito si torna ad una dichiarazione di decadenza: « Sono molte quelle che giacciono in pezzi a causa del recente terremoto. Allo stesso modo, sono altrettanti i viventi... » Priscus è un moralista, ma anche lui, come lo è Bassus, è uno degli uomini viventi «a pezzi».
Attila non lo è; non è una statua crollata, ma piuttosto una spada affilata, tanto pura quanto dura. Attila e Priscus non si incontrano mai veramente. L'uno e l'altro provengono da degli altrove. Entrambi ripartono per tornarsene da dove sono venuti. Attila ne è felice, mentre Priscus avrebbe preferito rimanersene tra le braccia di Placidia. Attila passa dalla barbarie alla barbarie, attraverso la decadenza, così come Priscus passa da Costantinopoli a Costantinopoli attraverso Roma. In comune, non hanno niente se non Bassus, ma se questi rimanda il civilizzato nella civiltà, evitandogli crudelmente di cedere alla decadenza; tuttavia egli non riesce a strappare Attila alla barbarie.
Cosa ci dice Zamjàtin? Di certo non fa un'apologia della barbarie. Zamjàtin non è più uno di quegli «Sciti» che nel 1917 credevano nella barbarie vedendola come rigenerazione della civiltà. Ne "Il Flagello di Dio", Attila è soltanto una forza, quasi naturale, tettonica; non è altro che distruzione, sangue e massacro. Se dopo di lui dovrà esserci rigenerazione, questa non sarà per opera sua. Lui è lì per distruggere: distruggere Roma, tutte le Rome; ma in questo romanzo che cos'è Roma per Zamjàtin? L'Europa? Il nascente Impero sovietico? La civiltà stessa?
Comunque, in ogni casi, altri, più tardi, assai più tardi, ricostruiranno, forse. Forse...
A Stalin, Zamjàtin disse che il personaggio di Attila non era affatto oscurantista. Ma potrebbe ripetere la stessa cosa dopo aver scritto questi sette capitoli? Non somiglia forse alla grande notta tempestosa che annuncia il dolce tramonto della civiltà? E allora che speranza rimane a noialtri civilizzati, a noi decadenti, dopo aver detto - con Priscus - le seguenti ultime parole: «le nostre mani sono già somiglianti alle debole mani dei vecchi, e il nostro destino si trova nelle mani di altri popoli»?

- Cédric Monget - Pubblicato su PHILITT il 23/3/2021 -


fonte Phillitt

mercoledì 24 marzo 2021

Contro le patate !!

«In generale, l'integrazione della riproduzione di forza-lavoro dentro il ciclo di valorizzazione del capitale coincide con l'abbassamento del valore della forza-lavoro, e avviene attraverso il costo minimo delle merci che entrano nel consumo operaio. Questo comporta l'estensione del modo di produzione capitalistico a tutti i settori produttivi della società e l'aumento della loro produttività, in particolare in quei settori che lavorano direttamente per il consumo operaio. Storicamente, prima di estendersi agli altri beni di consumo, il movimento comincia naturalmente attraverso l'agricoltura (quello che fa dire a Bordiga che il capitalismo è innanzitutto sinonimo di "rivoluzione agraria"). Un altro modo di abbassare il valore della forza-lavoro consiste nel cambiare qualitativamente il paniere dei beni, sostituendo alcuni prodotti con altri meno cari, senza incidere direttamente sul livello di vita, vale a dire sulla qualità della forza lavoro: così, per esempio, quando si sostituì il grano con le patate, meno nutrienti ma che davano un miglior rendimento: ragion per cui, il proletariato di Parigi non si ingannava distruggendo i primi campi di patate. Pertanto, la combinazione fra valorizzazione del capitale e riproduzione della forza lavoro realizza l'abbassamento del costo di quest'ultima e, contemporaneamente, l'integrazione dei beni di consumo del proletariato nel processo di trasformazione del plusvalore in capitale addizionale. La classe capitalista vince su entrambi i tavoli.»

- da Christian Charrier: "La Matérielle. Fin de la théorie du prolétariat" .

già pubblicato sul Blog il 27/10/2010

martedì 23 marzo 2021

Rovesciamenti

Al concetto di collasso, il quale depoliticizza il problema postulando una traiettoria unica e predefinita, viene opposto quello di "capovolgimento", che ci consente di fare spazio alla crescente imprevedibilità del nostro tempo, e al ruolo centrale svolto dalla mobilitazione politica. Infatti - sullo sfondo di una crisi sistemica del capitalismo, di certo prodotta dalle "contraddizioni" ambientali che devastano il pianeta, ma anche dalle tensioni interne tra un capitalismo fossile e un capitalismo tecno-"ecologico" - si produrranno dei capovolgimenti in tempi relativamente brevi. A partire da questa base analitica, il libro abbozza diversi scenari, in questa fase tutti perfettamente plausibili. Tra di loro, ce n'è uno che in particolare riesce a richiamare la nostra attenzione: quello di un'apertura verso dei possibili sinonimi di considerevoli capovolgimenti sociali e di civiltà che ci porterebbero ad impegnarci in dei modi di vivere che sfuggono alla logica del sistema-mondo capitalistico. E che ci porrebbe di fronte a delle domande fondamentali: quale potrebbe essere un assetto della produzione che rinuncia alla centralità delle determinazioni economiche? Quale potrebbe essere una politiche che privilegia l'autogoverno popolare e presuppone una ri-localizzazione comunitaria? Come possiamo fare per stabilire delle nuove relazioni con i non umani che pongano fine al nostro straniamento dai viventi, senza tuttavia dissolvere completamente il concetto di umanità? E quali strade intraprendere per poter far crescere tali possibilità? Tutte domande alle quali Jérôme Baschet - con erudizione, chiarezza e libertà di pensiero straordinarie - abbozza delle risposte che sono allo stesso tempo sia plausibili e documentate che desiderabili.

(dal risvolto di copertina di: "Basculements. Mondes émergents, possibles désirables", di Jérôme BASCHET. La Découverte)

Covid-19, una malattia del "Capitalocene"?

I coronavirus sono degli "zoonosi", vale a dire delle malattie che vengono trasmesse agli uomini dagli animali. Per Jérôme Baschet, tali trasmissioni sono il risultato dello sfruttamento e della distruzione dell'ambiente da parte dell'uomo, messo in atto a partire da una logica capitalistica, e quindi sono delle malattie del "capitalocene". Di fronte al moltiplicarsi delle crisi legate alla condizione planetaria - di cui i coronavirus sono solo un assaggio - alcuni temono che prossimamente possa aver luogo un collasso. Nel suo libro "Basculements. Mondes émergents, possibles désirables" (La Découverte, 2021), Jérôme Baschet respinge quest'idea di collasso, da lui considerata eccessivamente politicizzata e deresponsabilizzante, e preferisce indagare, per il nostro avvenire, quelli che potrebbero essere i mutamenti possibili.

«Il ritorno alla normalità sarebbe un ritorno alle medesime condizioni che ci hanno portato a questa epidemia, e significherebbe perciò preparare la prossima epidemia. Siamo entrati nell'era delle pandemie, ed esse saranno sempre più mortifere e produrranno dei danni economici sempre più ingenti. Ciò perché noi, gli esseri umani, abbiamo dichiarato guerra a tutto ciò che è vivente fin dall'indomani della seconda guerra mondiale, con la distruzione generale degli ecosistemi, con il crollo della biodiversità, e attraverso tutto ciò che causa queste zoonosi.» (Jérôme Baschet)

«L'idea di collasso lanciata dai collapsologi, tende a voler suggerire un unico scenario, come se si trattasse di un  edificio che collassa su sé stesso; un fenomeno spontaneo in cui tutto va in un'unica direzione. A mio avviso, ciò che noi stiamo attraversando è una crisi sistemica nella quale i fattori di crisi continuano a rafforzarsi: e questo crea altri fattori di instabilità. Si assiste pertanto a una successione di eventi imprevedibili: per così dire, ci sono come delle placche tettoniche assai instabili, che si muovono seguendo una molteplicità di direzioni e di scenari possibili, i quali non possono essere definiti in anticipo. Dobbiamo fare maggior spazio all'incertezza e all'instabilità. È questo che cerco di comprendere nel concetto di "basculements" ["capovolgimenti"].» (Jérôme Baschet)

Per Jérôme Baschet, storico e specialista dei movimenti zapatisti messicani, la crisi del coronavirus è di fatto una crisi del capitalismo: il virus che l'ha causata è probabilmente legato all'agricoltura intensiva, all'espansione dell'urbanizzazione e alla deforestazione; e si è diffuso grazie all'intensificarsi degli scambi aerei e all'aumento della globalizzazione dei flussi. Lo storico insiste altresì sulla qualità sindemica - e non pandemica - del virus del Covid-19: i suoi effetti si sommano e si coniugano con i fattori di comorbidità frequenti e diffusi nei nostri stili di vita capitalistica (sovrappeso, diabete, ipertensione, ecc.). Il cocnetto di sindemia permette di sottolineare il carattere eminentemente patogeno dei modi di vivere di alimentarsi in regime capitalista, e spinge Baschet a mettere in evidenza la pericolosità di un virus assai più mortifero di quanto lo sia la SARS-Cov-2: il capitalismo stesso.

«Si tratta della logica di un'economia spinta da una compulsione produttivistica e di crescita, che costituisce il suo imperativo categorico che crea delle distruzioni accelerate dell'equilibrio della vita, e che è la causa di queste pandemie.» (Jérôme Baschet)

«Il concetto di Antropocene ci permette di dimostrare che siamo entrati un una nuova era geologica, nella quale l'azione dell'uomo modifica in maniera globale il sistema Terra. È innegabile che sono stati gli esseri umani ad aver provocato questa trasformazione. Ma possiamo veramente dire che è la specie umana in quanto tale ad aver causato questa trasformazione? No, in realtà si tratta i un sistema economico specifico, incentrato sullo sfruttamento delle risorse naturali, e animato da una compulsione produttivistica che si chiama sistema capitalista.» (Jérôme Baschet)

Senza cedere all'idea secondo la quale la crisi del coronavirus avrebbe consentito di imporre una dittatura biopolitica, Jérôme Baschet sottolinea l'importanza di ripensare il funzionamento delle nostre esistenze politiche, e indirizzarsi verso un'esistenza comunitaria tra gli esseri umani, ma senza dimenticare la nostra responsabilità nei confronti delle altre specie animali.

«Il significato profondo dell'epidemia è quello di renderci consapevoli , di farci capire che siamo entrati in questa fase, quella dell'antropocene o capitalocene. È il momento storico in cui noi, quasi tutti gli esseri umani, abbiamo percepito di essere entrati in quest'epoca di catastrofi provocate dall'azione dell'uomo.» (Jérôme Baschet)

«Stiamo assistendo all'emergere di mondi comunitari: i mondi dell'autogoverno popolare. Gli individui stessi, nei loro spazi locali, prendono in mano il proprio destino e scelgono il modo di governo che corrisponda al loro proprio desiderio di una buona vita.» (Jérôme Baschet)

Articolo apparso su France Culture del 22/3/21

lunedì 22 marzo 2021

Trame. Nel segno delle congiure!

La cospirazione, nel corso della Storia, dall'Antichità all'era postmoderna, è stata un fenomeno politico rilevante per qualsiasi forma di potere. Questo modo di resistenza al potere, è stato prevalente durante il Rinascimento, e il Quattrocento italiano, in particolare, può essere considerato come un'«età delle trame». Questo libro offre la prima completa inchiesta sulla letteratura rinascimentale italiana per quel che riguarda il tema della cospirazione. Tale letteratura ricopre una gamma di generi diversi e ha goduto di un'ampia durante la seconda metà del XV secolo, quando lo sviluppo di questa produzione letteraria si era legato all'affermazione del potere politico centralizzato e all'ideologia dei Prìncipi negli Stati italiani. La centralità delle cospirazioni emerge anche nel Cinquecento, nell'opera di Machiavelli, dove il tema si trova strettamente intrecciato ai problemi legati alla costruzione del consenso politico e alla gestione del potere.
Questo volume presenza lo studio dei più significativi testi umanistici (rappresentativi di Stati differenti, di generi letterari, e di autori di spicco - Alberti, Poliziano, Pontano  - e altri letterati minori, meno importanti), e investiga anche le opere letterarie storiche e politiche di Machiavelli. Attraverso un'analisi interdisciplinare, questa ricerca traccia l'evoluzione della letteratura a partire dalle trame che si intrecciano nell'Italia del primo Rinascimento. Evidenzia la funzione chiave avuta dalla tradizione classica e dai ricorrenti approcci narrativi, le tecniche storiografiche e le angolazioni ideologiche che caratterizzano la trasposizione letteraria del tema. Questo libro presenta anche una riconsiderazione delle complesse sfaccettature della letteratura politica umanistica, la quale giocò un ruolo decisivo nello sviluppo di una nuova teoria dello Stato.

(dal risvolto di copertina di: CONSPIRACY LITERATURE. IN EARLY RENAISSANCE HISTORY. HISTORIOGRAPHY AND PRINCELY IDEOLOGY, di Marta Celati Oxford University Press, Oxford, pagg. 304, £ 7. In English)

Eleganti stilettate in stile Rinascimento
- di Gabriele Pedullà -

Come negare il fascino delle congiure? I convegni notturni, i giuramenti, la paura di essere traditi, il momento decisivo in cui occorre passare all’azione quando un piccolo imprevisto potrebbe vanificare il lavoro di mesi... O, su un altro versante, l’inesausta capacità delle cospirazioni, vere o presunte, di nutrire le ipotesi più inverosimili (in Italia la chiamiamo: dietrologia), alimentando l’idea che tutto si compia in segreto: in definitiva, che pochi, nell’ombra, decidano sempre del destino di molti. L’ossessione per le congiure, in fondo, è ciò che rimane alle epoche scettiche, incapaci di credere che qualsiasi cambiamento di rilievo possa prodursi alla luce del sole. Ancora oggi, nell’immaginario globale, stagione per eccellenza delle cospirazioni è il Rinascimento italiano. Si tratta di un lascito dell’Ottocento romantico, che - tra George Byron, Stendhal e Jacob Burckhardt - si compiaceva del contrasto tra violenza e raffinatezza delle corti italiane del Quattro e del Cinquecento. Perché, dopo tutto, le congiure non sono altro che questo: azioni efferate sotto le forme più impeccabili, stiletti occultati nella giarrettiera, prelibatezze irrorate di veleno, cerimonie religiose profanate da un assalto improvviso all’arma bianca. Cinquecento anni, dopo gli sceneggiatori di Netflix e di HBO attingono ancora a piene mani a questo repertorio di spietata eleganza. Gli storici concordano che in Italia la seconda metà del Quattrocento fu una stagione di cospirazioni spettacolari. Nel 1453 il patrizio romano Stefano Porcari ideò una congiura contro il pontefice Niccolò V (si disse, col progetto di restaurare l’antica repubblica romana); nel 1467 papa Paolo II accusò alcuni dei principali umanisti legati al pontefice precedente di tramare contro di lui (questa volta addirittura per riportare in vita il paganesimo); nel 1476 due patrizi milanesi assassinarono sulla soglia della chiesa di Santo Stefano il duca Galeazzo Maria Sforza; solo due anni dopo un attentato simile - pianificato dal nuovo papa e dal re di Napoli - cercò di eliminare i Medici dallo scacchiere politico italiano. E l’elenco potrebbe continuare, tra congiure vere e presunte, riuscite e penosamente naufragate. Proprio perché si tratta di materia incandescente, i ricercatori seri si preoccupano di raffreddarla, liberando le cospirazioni del Rinascimento dagli stereotipi (spesso violentemente anti-cattolici e anti-italiani) che a esse sono attaccati dall’Ottocento. Uno dei modi con cui meglio si può ottenere questo “raffreddamento” è evidenziando la segreta razionalità politica delle congiure. Il proliferare degli attentati ai danni dei principi nel secondo Quattrocento non ha a che fare né con la riscoperta degli ideali repubblicani degli antichi né con la presunta corruzione degli italiani per colpa di un papato scellerato (secondo due paradigmi di lettura speculari, positivo e negativo, ma altrettanto diffusi nell’immaginario internazionale). E, con qualche eccezione (come la lotta dei feudatari napoletani contro la monarchia aragonese), non è nemmeno sicuro che i complotti siano stati stimolati dalle crescenti aspirazioni autocratiche dei principi italiani. È più probabile, infatti, che la congiura si sia imposta come una forma privilegiata di lotta politica perché - in seguito alla pace di Lodi (1454) - per quarant’anni esatti l’equilibrio tra Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli scoraggiò efficacemente i conflitti aperti, con l’eccezione di poche, violente fiammate (spesso proprio all’indomani di una congiura fallita). In mancanza di alternative, ci si rivolse insomma al pugnale o a una coppa avvelenata per ottenere gli stessi effetti che era diventato sempre più difficile conseguire attraverso una campagna militare. Un altro modo per “raffreddare” la materia è quello seguito da Marta Celati in un libro appena apparso da Oxford University Press. Conspiracy Literature in Early Renaissance History si sofferma infatti sul modo in cui i contemporanei raccontarono le congiure di quegli anni in opere che portano la firma di autori del calibro di Leon Battista Alberti, Giovanni Pontano e Angelo Poliziano, tanto per rimanere solo ai più noti. Il libro di Celati consente così di mettere a fuoco almeno due aspetti cruciali. Il primo è quello che si potrebbe definire la forza creativa del classicismo. Nel tentativo di interpretare gli avvenimenti recenti, i diversi umanisti trovarono negli antichi, Sallustio in testa, una guida assai duttile per costruire il proprio racconto (le cause remote della congiura, i ritratti in chiaroscuro dei diversi personaggi, le orazioni per eccitare gli animi dei ribelli...), senza che i modelli del passato precludessero mai la sperimentazione con i più diversi generi, in poesia come in prosa. Le opere degli umanisti sulle congiure confermano insomma il famoso principio di Orazio per cui, sotto la penna di uno scrittore di vaglia, il «noto» si ripresenta sempre come «nuovo». L’altro aspetto da non trascurare è la nascita di quello che si potrebbe chiamare lo studio scientifico dei complotti. Non casualmente, il libro di Celati si chiude sulle tante pagine dedicate da Machiavelli alle congiure, soprattutto nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dove vengono passate in rassegna e discusse mosse e contromosse di tutti gli attori politici coinvolti in un’ipotetica cospirazione (in attacco e in difesa). Affondo, parata. Affondo, parata. Burckhardt ne rimase conquistato, e nelle parole di elogio per la «solita imparzialità» di Machiavelli si può riconoscere uno dei germi della sua idea del Rinascimento come la prima epoca in cui gli uomini, finalmente affrancati dalle superstizioni religiose, cominciarono a trattare lo «Stato come un’opera d’arte», vale a dire come un meccanismo altamente sofisticato da plasmare a piacimento: se necessario senza inchinarsi agli imperativi della morale comune. Era la nascita della modernità, ovvero - per Burckhardt - del nostro stesso presente. Nel segno delle congiure.

- Gabriele Pedullà - Pubblicato su la Domenica del 21/2/2021 -

domenica 21 marzo 2021

Smorfie

Capitale e moderno modo scientifico di conoscenza: un immaginario condiviso [*]
- di Jean-Marc Royer -

Ci sono attualmente delle nuove sfide storiche che vanno di gran lunga al di là di quelle degli ultimi due secoli, al punto che si potrebbe dire che ci troviamo ad essere minacciati a breve, a medio e a lungo termine da un quintuplice "stato di eccezione": ecologico, climatico, pandemico, socio-economico, securitario e bellico. Infatti, ciò che è in gioco è la permanenza degli esseri viventi qui sulla Terra.
In queste condizioni, stare ad aspettare l'ennesima crisi del capitalismo che dovrebbe portare al suo collasso definitivo diventa irresponsabile nella misura in cui - come alcuni eventi sembrano annunciare - è evidente che nessuno ne uscirà indenne, malgrado tutte le fantasie trans-umaniste, survivaliste o post-apocalittiche. Ma ecco che subito sorgono le seguenti domande: perché, nel momento in cui la constatazione di questo pericolo sistemico è ormai oggetto di un largo consenso, non esiste invece alcun movimento di opposizione teorico e politico che sia all'altezza di questa fatale prospettiva? Se una simile situazione fosse solo il prodotto di una «falsa coscienza», com'è possibile che tale falsa coscienza abbia potuto presiedere  per così tanto tempo a questo modo di attuare un ordine così distruttivo e così disumanizzante? Per riuscire a spiegare come nella realtà questi rapporti di produzione siano potuti durare così a lungo, si può solo dedurre e ipotizzare l'esistenza di una base potente e allo stesso tempo inconscia. Ma in questo risiede anche un altro fatto mai pensato altrove: l'essenza del capitale - vale a dire, la morte - non è solamente refrattaria all'analisi, ma essa addirittura vi si oppone, e cosa mai può esistere di più umano, se non tenersene a distanza?
Se noi non pensiamo che la critica radicale possegga il potere magico di cambiare il corso degli eventi, né quello di contrastare la divisione del soggetto, rimaniamo quanto meno convinti che, in mancanza di uno sforzo chiarificatore largamente condiviso, tutte le rivolte che inevitabilmente si verificheranno a fronte di uno stato di eccezione - in corso o annunciato - saranno condannate a dei continui ripetuti fallimenti.  In tali condizioni, riuscire a capire quale sia l'Immaginario [*1] che tiene insieme questa civiltà, come si articola e perché esso è anche il suo tallone di Achille, ci potrebbe permettere di risolvere la questione della base soggettiva del capitalismo, anche quando continua ad accendersi qualche stella nella notte, in piedi come con i gilet gialli.

Per cominciare, mi è sembrato importante chiarire brevemente alcuni termini e soprattutto distinguere tra saperi e conoscenze, a partire dal fatto che queste ultime sono il risultato di un'elaborazione intellettuale, mentre i saperi si collocano dal lato dell'esperienza vissuta e accumulata nel corso dei secoli. Tuttavia, ora, tutto questo sapere volgare è stato progressivamente sconfitto, e poi perduto, nel momento in cui gli esseri umani sono stati proletarizzati in massa, e sono stati costretti ad una vita urbana senza terra; cosa che ha lasciato la strada aperta al dominio di un unico modo di conoscenza, quello delle discipline scientifiche emergenti [*2]. Parallelamente, le «verità» veicolate dalle religioni istituite stavano anch'esse declinando; un fenomeno che, coniugato con l'espansione termo-industriale, genera una visione positiva della perdita di questi saperi secolari. Ciò, è divenuto addirittura uno degli emblemi fondanti della cosiddetta «modernità» [*3], al punto che ancora negli anni '60, uno degli insulti che veniva proferito tra automobilisti, consisteva nel trattare l'altro da «povero contadino» o da «montanaro». Il fatto che delle conoscenze abbiano invalidato alcuni saperi, o abbiano aiutato a disfarsi di alcune credenze, non è contestabile, ma si tratta però di una discussione diversa da questa.
Allo stesso modo, esiste una differenza fondamentale tra il Reale (che sfuggirà sempre a qualsiasi tentativo di darne conto in maniera esaustiva [*4]) e la realtà. Quest'ultima non è altro che il Reale che gli esseri viventi percepiscono attraverso i loro sensi, su cui investono i loro affetti [*5], e che, per descriverlo, lo simbolizzano facendo uso del loro linguaggio. Ma ogni desiderio di esaustività nella descrizione, finirà per rivelarsi inesorabilmente chimerico, ed è per questo che Jacques Lacan ha dichiarato che il Reale sfugge sempre, che il Reale è l'impossibile, anche se l'Occidente ha fantasticato a proposito della sua appropriazione per mezzo di ogni genere di «leggi» (fisiche, chimiche, ottiche...), per quanto esse siano efficaci al fine di realizzare alcuni lavori o di azzardare alcune previsioni. A Lacan viene attribuita anche questa bella formula: «La realtà, è la smorfia del Reale».
Se si vuole che la critica sia pertinente, allora essa va rivolta alla propria epoca, bisogna comprendere cosa la rende perenne e identificare quali sono i nuovi ostacoli all'emancipazione; pena il diventare sclerotica. L'analisi del modo scientifico di conoscenza, che fa parte di questo approccio, non mira a rifiutarlo, e neppure a disapprovarne questo o quell'altro uso che ne viene fatto, bensì, piuttosto intende comprendere come contribuisca al perpetuarsi di un mondo avviato alla sua distruzione.

[*] NOTA: Questo testo, il capitolo di un manoscritto in corso, essendo molto lungo e non facile da leggere su un sito web, viene data la possibilità di scaricarlo qui [in lingua francese].

Suddivisione:

1 Come l'Immaginario occidentale è stato progressivamente strutturato dalla razionalità calcolatrice.
2 Questa razionalità calcolatrice si concretizza teoricamente nel moderno Modo di Conoscenza scientifica.
3 Pertanto, è in maniera intrinseca che il Modo di Conoscenza scientifica è triplicemente trasgressivo.
4 La trasgressione fondamentale che produce, è quella del rispetto inalienabile della vita.
5 Il Modo di Conoscenza scientifica al posto di quella religiosa, è davvero un paradosso improbabile?
6 Un argomento di teoria critica: reintegrare nella Storia, l'Immaginario lacaniano e la psicoanalisi.
     Due osservazioni aggiuntive
     Allegati

- Jean-Marc Royer - Pubblicato il 20/2/2021 su AutreFUTUR.net -

NOTE:

[*1] - L'Immaginario del quale qui si parla è di ordine inconscio e non ha niente a che vedere con ciò che Maurice Godelier ha battezzato con  lo stesso nome. Per illustrarlo brevemente, l'Immaginario può essere descritto come ciò che ci consente di giocherellare, e mettere così insieme questi due universi che si escludono a vicenda: il Reale e il Simbolico. Si tratta di un concetto di origine lacaniana, e su questo ci ritorneremo. Va sempre scritto con la "i" maiuscola, allo stesso modo in cui va scritto Reale e Simbolico. In forma abbreviata: R, S, I.

[*2] - Evitiamo i malintesi: qui non si tratta di negare i contributi del modo scientifico di conoscenza, e ancor meno quelli del rigore razionale, ma piuttosto di fare un'analisi interna ed esaminare quali sono stati e quali sono oggi il suo posto e il suo ruolo nella «civiltà capitalista». Meglio ancora: fin dalle prime avvisaglie dell'epidemia di Covid-19, è in qualche modo toccato in sorte all'autore di queste righe di «combattere dalla parte sbagliata della barricata», esortando i suoi amici a esaminare minuziosamente e in dettaglio tutte le ipotesi inverosimili che stavano circolando... Dal momento che, un anno dopo, tutte queste ipotesi continuano ad essere venerate contro ogni aspettativa (un milione di visualizzazione nel giugno del 2020, così come nel gennaio del 2021), questo ci obbliga a vederlo come se fosse un altro segnale in più del profondo collasso sociale in corso; a cui si assommano i deliranti complottismi a la QAnon.

[*3] - Una concezione vaga, elastica, che permette di metterci dentro tutto, ma che soprattutto consente di mascherare o di eludere qualsiasi problematizzazione causale del divenire contemporaneo di questo mondo. Perciò ho sempre scritto: la cosiddetta «modernità»

[*4] - Questa realtà, è tutto ciò che ci circonda, è la biosfera, l'idrosfera, la criosfera, il mondo minerale, in una parola «l'Universo», senza dimenticare i nostri corpi e le loro manifestazioni... Renderne conto in maniera esaustiva, anche dell'albero che abbiamo di fronte, è semplicemente impossibile: bisognerebbe descrivere ogni radice, ogni ramo fino alla fine di ogni sua foglia, senza parlare del fatto che il Reale di questo albero si evolve con il trascorrere delle stagioni.

[*5] - Ecco un esempio dell'opposizione tra Reale e realtà: immaginiamo un chirurgo che è costretto ad operare una paziente di cui egli è perdutamente innamorato (realtà). In sala operatoria, avrebbe tutto l'interesse a concentrarsi evitando di considerare che il Reale del corpo di questa donna visto nella sua forma fisiologica perché egli abbia successo nel suo atto riparatore...

sabato 20 marzo 2021

Mentitori incalliti!


Partendo da Omero e viaggiando con Alessandro Magno, Danielle Jouanna ci accompagna alla scoperta di un mondo, il nostro, attraverso l’immagine che ne avevano i Greci. È l’alternanza di terra e mare, l’esplorazione di luoghi sempre più lontani e fantastici, mentre gli scienziati tentano le prime misurazioni. Dal paese degli Iperborei alle Colonne d’Ercole, con descrizioni dettagliate e racconti immaginari, i Greci ci rivelano una volta di più il fascino della nostra piccola Terra.

(dal risvolto di copertina: Danielle Jouanna, "Vicino, lontano. Come i Greci vedevano il mondo". Carocci)

Quando il mondo pareva oblungo
- di Carlo Carerna -

Come e quanto conoscessero gli antichi di questa nostra terra è ben rappresentato da Orazio nel primo dei suoi Carmi. Il contadino che ara i campi lasciatigli in eredità dai suoi avi e i cui recinti sono il suo unico orizzonte, non riusciresti a farlo uscire di lì nemmeno con tutto l’oro del mondo; invece il mercante sorpreso dalla tempesta mentre al di là dello stretto naviga sull’Atlantico con le sue merci, loda gli ozi di casa sua, ma non appena vi fa ritorno rattoppa il naviglio sconquassato, insofferente della povertà, e risolca l’Oceano. Manca soltanto il filosofo, il quale un po’ mediante la scienza e un po’ mediante il ragionamento calcola che, se egli vive sotto la metà settentrionale del globo terraqueo, anche la parte meridionale deve essere simile per terre e abitanti.
Verso la fine dei tempi antichi, nel III secolo, un Agamatero riassumendo in un Sommario di geografia il lavoro dei suoi predecessori narra che nell’idea della terra abitata degli antichi essa era circolare, con al centro la Grecia e più precisamente il santuario di Delfi, ombelico del mondo; per Democrito anziché tonda essa era invece oblunga, una volta e mezza più lunga che larga; e per Strabone è un’isola nell’Oceano Atlantico con la forma del mantello dei soldati.
Percorrere la terra era assai più difficile e problematico che non il mare in piccolo cabotaggio lungo le coste durante la primavera e l’estate; eroi epici e indomabili vi riuscirono trionfalmente. Ulisse porta dappertutto i suoi compagni e incontra dee e mostri; Giasone sale nel Mar Nero e vi trova un grande regno; così Ercole in alcune delle sue fatiche. E fuori dalle leggende, diventando leggenda egli stesso, Alessandro Magno con i suoi uomini attraversò il Bosforo, un gesto anche simbolico del passaggio fra due continenti; di lì a Troia e poi ad affrontare la Persia; e poi verso sud in Palestina e in Egitto, e verso nord in Iran e ai confini dell’India, e indietro a Babilonia.
Ma le notizie geografiche ed etnografiche riferite dagli storici di questa impresa straordinaria furono a detta di Strabone, geografo ben ferrato di tre secoli dopo, opere «di mentitori incalliti»; raccontarono di uomini che avevano orecchie grandi come letti, senza bocca e senza naso, e di pigmei alti tre spanne! Il fatto è che anche il geografo deve obbedire a un principio scientifico; suo compito è descrivere il mondo abitato dove è ben conosciuto, trascurando i luoghi ignoti, da cui ci separano mari e deserti; così i suoi scritti sono utili al privato e umile cittadino come al politico e al filosofo, al pari di quelli degli storici. Perciò nella sua Geografia egli si sofferma soprattutto sull’Europa, tracciandone un quadro sereno e plausibile, terra di bravi soldati e tenaci agricoltori, produttrice di tutti i frutti e dei minerali indispensabili alla vita, importatrice solo di profumi e di pietre preziose, nutrice di greggi ma non di bestie selvagge, con un ambiente naturale propizio alla cultura e all’organizzazione politica. I Greci grazie ad essa, alla loro intelligenza, alla tecnica e alla conoscenza dell’arte di vivere hanno condotto un’esistenza felice, pur in un paese di montagne e di pietre; e così i Romani, prendendo sotto la loro tutela popoli arretrati a causa dei luoghi in cui sono posti, hanno insegnato loro come vivere in società.
Questi scenari succedutisi in tutti i secoli dell’antichità sono illustrati da Danielle Jouanna, studiosa della classicità greca, in Vicino lontano. È una storia di avventure dell’animo e della mente; di poeti primitivi avvolti nel mito e di pensatori che, anch’essi mezzi poeti, additarono l’affascinante sfera al centro dell’universo con i pianeti ruotanti all’intorno, dotata della forma perfetta nel suo equilibrio e nella sua bellezza, di cui si poteva scorgere il profilo curvo proiettato sulla luna durante le eclissi e riconoscerlo guardando l’albero di una nave che scompare progressivamente calando all’orizzonte. E se ciò è vero, immaginerà Aristotele ben prima di Colombo che si potrebbe raggiungere l’India anche viaggiando verso Ovest: «Dalle Colonne di Ercole il mare è uno solo e confina con quello dell’India, sicché i due estremi si toccano», scrive il grande scienziato nel trattato Sul cielo. E su quel mare fu lanciato dalla sua città nel V secolo il cartaginese Annone per fondare colonie intorno all’Africa con una flotta di sessanta navi e trentamila uomini e donne. Ne lasciò una relazione in cui si legge che dalle coste scorsero sul continente africano elefanti e tribù di pastori molto amichevoli, o gli Etiopi inospitali, scavatori di miniere e più veloci dei cavalli. Nel Senegal osservarono i coccodrilli e gli ippopotami galleggianti sul fiume omonimo. Altri popoli erano avvolti dai fuochi dei vulcani e costituiti prevalentemente da donne pelose chiamate gorilla, che correvano e si ribellavano scagliando pietre; ne scuoiarono alcune e portarono a casa quelle pelli. Dopo di che pensarono bene di non procedere oltre e di far ritorno a Cartagine. Laggiù, da dove Annone si  ritirò, un certo Giambulo commerciando sulle coste dell’Arabia viene catturato da briganti etiopi e messo con un compagno su una zattera che lo porta su un’isola meravigliosa detta Isola del Sole, che già partecipa delle utopie rinascimentali. Tanto che Giambulo e il compagno furono poi rimessi sulla barchetta e scacciati, perché con l’educazione che avevano ricevuta erano malfattori e avevano abitudini malvagie.
Né mancò chi - un marsigliese di nome Pitea - fornì notizie anche del Nord, salendo da Gibilterra fino alle isole britanniche produttrici di stagno e percorrendole tutte a piedi, ma esplorando anche oltre tutto quanto può un privato cittadino verso Nord e verso Oriente fra popolazioni miti e primitive in un mare ai limiti del mondo, il Baltico, con onde alte anche 40 metri. Peccato che fosse un grande bugiardo (così ancora Strabone, implacabile). Orrendi luoghi, comunque, racconterà il poeta Avieno, senza venti, coperti da un’aria simile a un mantello di piombo che impedisce perpetuamente la luce anche diurna e lascia nuotare sui mari solo mostri terrificanti. Secondo altri invece, come Erodoto, luoghi ricchi e felici perché sono le regioni estreme, racchiudenti al loro interno gli altri paesi, quelle che posseggono le cose da noi ritenute le più belle e le più rare. Di fronte a questi racconti e a questi paesaggi di luoghi, uomini e animali, ci voleva Socrate per ricondurre gli Ateniesi sulla porta di casa loro. Nel Teeteto egli spiega ai suoi ascoltatori che i veri filosofi non conoscono nemmeno la strada che porta al mercato e la sede del tribunale, né si sognano nemmeno di fare pranzi e festini con suonatrici di flauti; la loro mente vola da lì dappertutto, misura gli astri del cielo come un geometra ed esplora l’intera natura senza abbassarsi alle cose che gli stanno vicino. A costo di fare la fine di Talete, il quale mentre studiava gli astri con la testa insù cadde in un pozzo e fu deriso dalla sua domestica. A sua volta la conclusione dell’autrice di questo Vicino, lontano è che a dispetto di tutte le discussioni, le lacune e gli assunti più filosofici che scientifici, «non si può non ammirare il modo in cui tutti gli scienziati, con i mezzi limitati di cui disponevano, avevano già immaginato un’immagine della terra e dell’universo simile all’odierna e vedevano il mondo in un modo simile ai loro antenati, e spesso non molto distante dal nostro approccio attuale».

- Carlo CarernaPubblicato sul Sole del 28/2/2021 -

venerdì 19 marzo 2021

I «Vampire Squids of Finance» e il «Lavoro di Dio»

Mark Carney: valore o prezzo?
- di Michael Roberts -

Mark Carney ha appena pubblicato un libro. Si chiama "Value(s): Building A Better World For All" [N.d.T.: Valor(i): costruire un mondo migliore per tutti].  Il canadese Carney è stato in passato il governatore della Banca d'Inghilterra: il governatore meglio pagato di sempre con 680.000 sterline all'anno, più 250.000 sterline di spese di alloggio.  Recentemente, Carney ha commentato dicendo che «Non si diventa ricchi nel servizio pubblico»!
Precedentemente, Carney era stato governatore della Banca del Canada, diventando il più giovane governatore di banca centrale delle nazioni del G20.  E prima ancora è stato per 13 anni alla, indovinate dove, Goldman Sachs, dove ha avuto un ruolo di primo piano nel consigliare il governo a maggioranza nera del Sudafrica circa l'emissione di obbligazioni internazionali, ed è anche stato attivo per quella società durante la crisi del debito russo del 1998.  Goldman Sachs ha fatto miliardi con queste attività, mentre l'economia sudafricana e quella russa andavano a picco.  E anche Carney ha fatto una fortuna alla Goldman Sachs. Quando gli è stato chiesto recentemente se considerava che lavorare per questa banca d'investimento servisse a «costruire un mondo migliore per tutti», data la sua reputazione di "squalo della finanza", ha risposto «È una domanda interessante. Quando lavoravo per Goldman Sachs non era il marchio più tossico della finanza globale, ma era il miglior marchio della finanza mondiale». Ragion per cui, a quanto pare, avrebbe lasciato appena in tempo.
Recentemente gli è stato chiesto quale pensava fosse stato il suo più grande risultato alla Banca d'Inghilterra.  La sua risposta: «Un processo decisionale più inclusivo con uno staff più eterogeneo». Quindi banchieri più diversificati: un grande risultato.  Non c'è da stupirsi che Carney abbia ricevuto molti riconoscimenti dai grandi & buoni: è stato nominato una delle 100 persone più influenti al mondo dalla rivista Time nel 2010, il canadese più affidabile al mondo nel 2011, ed è stato salutato come il cattolico più influente della Gran Bretagna (da The Tablet) nel 2015.  Ha lasciato anche intendere che potrebbe voler diventare il leader del partito liberale canadese al governo, se e quando Trudeau si dimetterà. Dopo aver finito alla BoE, ha accettato un lavoro con Brookfield Asset Management per consigliarli sulla strategia di investimento ambientale, e ora sta per consigliare l'ONU e il governo conservatore Johnson circa quale dovrà essere la "strategia finanziaria" da presentare alla prossima conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico - la Cop26 - che si terrà a Glasgow, in Scozia, questo novembre. Ora, nel mentre che si occupa dell'«ambiente», egli ha scritto anche un libro che illustra la sua filosofia sulla natura dei mercati.  Come ci racconta, modestamente, dice che «ho guidato le riforme globali per riparare i guasti che hanno causato la crisi finanziaria, ho lavorato per porre rimedio alla nefasta cultura che alligna nel cuore del capitalismo finanziario e ho iniziato ad affrontare sia le sfide fondamentali della quarta rivoluzione industriale che i rischi esistenziali del cambiamento climatico».  Ma nello svolgere questi compiti innovativi con la sua solita bravura, si è anche un po' disilluso nei confronti dei "mercati": «Ho avvertito il collasso della fiducia del pubblico nei confronti delle élite, della globalizzazione e della tecnologia. E mi sono convinto che queste sfide riflettono una comune crisi di valori e che sono necessari dei cambiamenti radicali per poter costruire un'economia che funzioni per tutti».

Non è la prima volta che Carney ha criticato le economie di "mercato" e l'economia mainstream.  Lo aveva già fatto già nel 2016 durante una conferenza a Liverpool. E anche nel suo libro nota che in questo mondo di economie di mercato, rimangono la povertà globale e la disuguaglianza e, cosa più importante per lui, l'ambiente continua ad essere distrutto. Nel suo libro, Carney si chiede perché molte di quelle che sono le risorse della natura non vengono valutate, a meno che non abbiano un prezzo.  Fa l'esempio della foresta amazzonica che appare preziosa solo quando è diventata un allevamento di bestiame. E perciò il prezzo non sempre è stato una buona misura del valore. Durante la crisi del COVID, Carney nota che sono stati i lavori relativamente poco pagati ad avere avuto un alto valore, ma essi non vengono prezzati in quanto tali. Il problema, per Carney, è che con i mercati «Stiamo vivendo l'aforisma di Oscar Wilde - conosciamo il prezzo di tutto ma il valore di niente - con costi incalcolabili per la nostra società».  Vedete, una volta che andiamo oltre l'acquisto e la vendita di beni e passiamo alla fornitura di servizi di cui la gente ha bisogno, "il mercato" cade a pezzi. Quando ci spostiamo da un'economia di mercato a una società di mercato, sia il valore che i valori cambiano. «Sempre più spesso, il valore di qualcosa, di qualche atto o di qualcuno viene equiparato al suo valore monetario, un valore monetario che è determinato dal mercato. La logica della compravendita non si applica più solo ai beni materiali, ma governa sempre più l'intera vita, dall'assegnazione della sanità all'educazione, alla sicurezza pubblica e alla protezione dell'ambiente.» I mercati mercificano i bisogni delle persone e questo è il problema perché «La mercificazione, la messa in vendita di un bene, può corrodere il valore di ciò che viene prezzato». Come sostiene il filosofo politico Michael Sandel, «Quando decidiamo che certi beni e servizi possono essere comprati e venduti, decidiamo, almeno implicitamente, che è appropriato trattarli come merci, come strumenti di profitto e uso».
Allontanandosi dalla filosofia libertaria del libero mercato di Milton Friedman e Ayn Rand, Carney si appella alla filosofia morale del suo eroe, Adam Smith. «Dare un prezzo ad ogni attività umana pregiudica certi beni morali e civili. Fino a che punto dovremmo portare gli scambi reciprocamente vantaggiosi per guadagni di efficienza, è una questione morale. Il sesso dovrebbe essere in vendita? Dovrebbe esserci un mercato del diritto ad avere figli? Perché non mettere all'asta il diritto di rinunciare al servizio militare?» Vedete, l'apparentemente grande sostenitore della "mano invisibile" dei liberi mercati, Adam Smith non era affatto così in tutte le circostanze.  Smith si opponeva ai monopoli e alla corruzione a favore del libero scambio, ma lo temperava anche con un contrappeso morale a sostegno dei deboli e degli sfruttati.  Carney cita lo Smith del suo libro meno famoso, la "Teoria dei sentimenti morali", dove Smith disse: «Per quanto si possa supporre che l'uomo sia egoista, nella sua natura esistono evidentemente alcuni principi per cui si preoccupa della fortuna degli altri, e ciò rende la loro felicità necessaria per lui, anche se non ne ricava nulla se non il piacere di vederla».

In questo modo, Carney finisce per trovarsi di fronte a un dilemma: prezzo o valore?; o per usare termini marxisti: valore di scambio o valore d'uso?; profitto o bisogno sociale?  L'economia dovrebbe occuparsi di aumentare il benessere sociale, ma è invece ossessionata dal prezzo di mercato.  «Ciò dimostra l'errore morale di molti economisti mainstream, che è quello di trattare le virtù civiche e sociali come merci che scarseggiano, nonostante ci siano ampie prove che lo spirito pubblico si incrementa grazie alla sua pratica».  La risposta di Carney consiste nel ristabilire "un equilibrio" tra mercati e morale; tra prezzo e valore. Carney non è certo il primo dei grandi & buoni dell'élite finanziaria che "moralizza" sui fallimenti del capitalismo, una volta che essi si sono ritirati dall'esercizio delle loro funzioni mettendosi a fare tutta una serie di lavori ad alto prezzo ma di basso valore.  Un altro cristiano e collega banchiere centrale, Mario Draghi - ora recentemente nominato (senza essere eletto) primo ministro dell'Italia, e prima ancora capo della Banca Centrale Europea e, indovinate un po', anche lui dipendente di Goldman Sachs -si è messo a professare una filosofia morale che dovrebbe guidare le sue buone intenzioni nel portare avanti le strategie del capitale finanziario. Nel bel mezzo della crisi del debito greco che ha visto il popolo greco perdere posti di lavoro e mezzi di sussistenza per pagare i debiti alle banche francesi e tedesche, Draghi ebbe a commentare: «la crisi ha intaccato la fiducia della gente nella capacità dei mercati di generare prosperità per tutti. Ha messo a dura prova il modello sociale europeo. Accanto all'accumulo di ricchezze sbalorditive da parte di alcuni, c'è un diffuso disagio economico. Interi paesi hanno sofferto le conseguenze di azioni passate sbagliate - ma anche a causa di forze di mercato che a volte sono fuori dal loro controllo».  Come Carney ora, anche Draghi ha poi posto la domanda a se stesso: «qual è la giusta cornice per conciliare la libera impresa e le motivazioni dei profitti individuali con le preoccupazioni per il bene comune e la solidarietà con i deboli?» E ha risposto proprio allo stesso modo in cui lo fa ora Carney: «In definitiva, dobbiamo essere guidati da un più alto standard morale e da una profonda convinzione nel creare un ordine economico che serva ogni persona».
Draghi ha proseguito spiegando che: «Mi sono ritrovato in compagnia di Marx. Non Karl, ma Reinhard. Il cardinale Reinhard Marx ha giustamente insistito sul fatto che l'economia non è fine a se stessa, ma è al servizio di tutta l'umanità».  Il cardinale Reinhart Marx è l'arcivescovo di Monaco che ha scritto un libro nel pieno della Grande Recessione intitolato "Das Kapital: Una supplica per l'uomo", che prende il nome dall'opera di Karl, ma che mira a respingere le idee di Karl.  Reinhart Marx vuole un'economia di mercato che sia «più gentile con i deboli e gli oppressi» piuttosto che «dare ancora più ricompense a coloro che si comportano immoralmente». Questo dovrebbe piacere anche a Carney.
Sembra che l'appello ai "valori morali" piuttosto che alle "forze di mercato" sia stato emesso anche dall'ex capo di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, quando Carney lavorava lì.  Proprio subito dopo la fine del collasso finanziario globale, nel 2010, Blankfein venne intervistato e gli fu chiesto quale responsabilità "morale" avessero avuto Goldman Sachs e altre banche d'investimento nel crollo finanziario che aveva innescato quello che (fino al COVID) era stato il peggior collasso economico globale, dalla seconda guerra mondiale.  Egli ha risposto dicendo che pensava che il suo lavoro come banchiere di prestigio fosse quello di fare «il lavoro di Dio».  Infatti, Blankfein ha continuato la sua crociata morale dirigendo la banca durante lo scandalo del fondo statale multimiliardario 1MDB, nel quale l'ex primo ministro malese Najib Razak e la sua famiglia avevano dirottato diversi miliardi; a quanto pare con la connivenza di Goldman Sachs. In questo caso, il lavoro di Dio sembra sia stato quello di mettere Goldmans ad organizzare emissioni di obbligazioni per un valore di 6,5 miliardi di dollari per 1MDB, usando grandi quantità di fondi statali (2,7 miliardi di dollari) malversati nel corso di un tale procedimento.

Qual è la soluzione pratica offerta da Carney, alla contraddizione tra prezzo e valore creato dal mercato?  Si tratta della classica soluzione mainstream che consiste nel cercare di tenere conto delle esigenze sociali nella determinazione dei prezzi, facendo pressioni e convincendo le imprese capitaliste a fare le cose in maniera etica e ai fini di avere «un mondo migliore per tutti».  Lavorando per la sua ultima società di gestione patrimoniale, egli punta a convincere gli investitori a fare investimenti etici e "verdi". Ma proprio quando ha tenuto la sua lezione di Reith sul suo libro a proposito dei "valori", è stato costretto a ritrattare una sua precedente affermazione sul portafoglio da 600 miliardi di dollari della Brookfield Asset Management, su cui stava lavorando e a proposito del quale aveva dischiarato che era neutrale per il carbonio. Aveva basato la sua affermazione sul fatto che Brookfield possiede un grande portafoglio di energie rinnovabili e «tutte le emissioni evitate che ne derivano». L'affermazione è stata criticata in quanto trucco contabile, dal momento che le emissioni evitate non contrastano le emissioni da investimenti in carbone e altri combustibili fossili responsabili dell'impronta di carbonio di Brookfield di circa 5.200 tonnellate metriche di anidride carbonica. E solo questa settimana, il Financial Times unico di tutti i media, ha sottolineato come tali investimenti etici di solito falliscano perché le aziende non hanno alcuna intenzione di ridurre la produzione di emissioni di carbonio.  «Quando si è trattato di auto elettriche o di cibo a base vegetale, l'irrequieta innovazione del capitalismo  ha aiutato i consumatori a godere dello stesso standard di beni, o qualcosa del genere, tagliando la sua emissione di carbonio. Ma i commercianti più astuti hanno anche usato l'ambientalismo per rietichettare molti prodotti, che nel migliore dei casi si ponevano in maniera neutrale dal punto di vista di salvare il mondo. La finanza ecologica si sta configurando in modo simile: gli investitori scopriranno che la nuova etichettatura dei prodotti non può sostituire il duro lavoro di scrutare attentamente ed esattamente ciò che viene offerto. Nonostante le promesse, non è mai facile essere verdi».
Proprio allo stesso modo in cui Draghi non ha citato Karl Marx ma Reinhart Marx nella sua argomentazione a favore del controllo "morale" delle forze di mercato, così anche Carney evita Karl per affidarsi invece ad Adam Smith e Oscar Wilde.  Ma omette di menzionare il fatto che Wilde, il grande drammaturgo, poeta e genio letterario, era un socialista dichiarato.  L'aforisma di Wilde è chiaramente un messaggio socialista, e non un messaggio morale. Wilde afferma: «Sotto il socialismo tutto questo verrà, naturalmente, trasformato. Non ci saranno più persone che vivono in fetide tane e indossano fetidi stracci, e che allevano bambini malaticci e affamati in mezzo a un ambiente impossibile e assolutamente ripugnante. La sicurezza della società non dipenderà, come ora, dalla situazione climatica. Se arriva il gelo, non avremo centomila uomini senza lavoro, che vagano per le strade in uno stato di disgustosa miseria, o che implorano i loro vicini per l'elemosina, o che si affollano intorno all'ingresso di ripugnanti rifugi per cercare di assicurarsi un tozzo di pane e un immondo alloggio per la notte. Ogni membro della società parteciperà della prosperità generale e della felicità della società, e se arriva il freddo praticamente nessuno soffrirà un peggioramento».
Wilde conclude: «Il socialismo, il comunismo, o comunque lo si voglia chiamare, convertendo la proprietà privata in ricchezza pubblica, e sostituendo la cooperazione alla concorrenza, riporterà la società alla sua giusta condizione di organismo completamente sano, e assicurerà il benessere materiale di ogni membro della comunità. Di fatto, fornirà alla vita la sua giusta base e il suo giusto ambiente».

Non si tratta affatto del valore contro il prezzo, ma del bisogno sociale contro il profitto privato.

- Michael Roberts - Pubblicato il 15/3/2021 su Michael Roberts blog -