giovedì 25 marzo 2021

Decadenza…

"Il Flagello di Dio", di Zamjàtin: una dialettica della barbarie e della civiltà
- di Cédric Monget -

Non tutti i romanzi russi sono lunghi, ma tutti hanno qualcosa di universale. Pertanto, il breve racconto di Zamjàtin sull'infanzia di Attila apre un'ampia riflessione sulla dialettica assassina fra barbarie e civiltà.
La barbarie ci ossessiona, la vita barbara ci tenta. Le nostre stanche anime di Europei tardivi sono come bloccate da un limite interno contro cui vanno a sbattere. Invidiamo il barbaro che uccidiamo, ne invidiamo la morte poiché essa testimonia, per inciso, una vitalità che non ci appartiene più. Scritto a Parigi - in quella che tra il 1928 e il 1955 era una seconda Atene - "Il Flagello di Dio" di Evgenij Zamjàtin lo spiega. I pochi capitoli che compongono questo romanzo incompiuto, sono simultaneamente sia l'apertura che la chiusura  di un'opera e allo stesso tempo anche l'inizio di un'altra opera che non vedrà mai la luce: Zamjàtin muore nel 1937. Tradotto per la prima volta in francese nel 1975, il romanzo viene oggi nuovamente pubblicato in una versione rivista e corretta dalle edizioni Noir sur Blanc. Dalle prime reazioni, l'iniziativa sembra essere stata particolarmente apprezzata.
La storia è duplice, e segue due personaggi che non possono essere più diversi tra loro: Attila e Priscus.
Attila è un bambino. Suo padre Moundzouk, re degli Unni, decide di mandarlo a Roma come ostaggio, e piegandosi in tal modo a quelle che sono le regole e le tradizioni della diplomazia romana. Per tutelare Roma nei confronti di un tradimento da parte dei re barbari che le si sono asserviti, cosa può esserci di più efficace se non la minaccia della vita dei loro figli? Cosa può esserci di più prudente e scaltro, se non provvedere all'educazione di questi bambini - tra i quali alcuni sono destinati a regnare - in modo che diventino devoti a Roma? Affidato al servo di suo padre, il vecchio Adolb, Attila lascia padre e fratello e viene mandato in un mondo di mattoni, di marmo e di sole. A Roma, Attila è infelice. Non riesce a comprendere né il luogo né le persone. Rifiuta questo nuovo mondo e da esso viene rifiutato. Insieme agli altri bambini, ostaggi barbari come lui, subisce gli insegnamenti del vecchio Bassus più di quanto egli creda. Roma è decadente; Bassus è saggio, ma Attila non se ne rende conto e li odia, odia tutto, odia la città e il maestro. Diffidente verso l'insegnamento ricevuto, si mostra puerilmente irrispettoso, inutilmente ribelle, maldestramente offensivo, laddove sempre la finezza di Bassus finisce per umiliarlo. Un giorno, si prepara a rispondere con una coltellata all'ironia del vecchio, ma Roma - non la città, bensì il gallo domestico dell'imperatore Onorio - irrompe nell'aula insieme alla sorella dell'imperatore, Placidia. Il ridicolo della situazione e la sublime bellezza della ragazza sciolgono la tensione e salvano il vecchio saggio: Ridicolo e sublime, vecchiaia e saggezza, quale migliore definizione di decadenza ci potrebbe mai essere?
Alla morte del suo maestro, lo storico Eusebius, Priscus lascia Costantinopoli per Roma, al fine di scriverne la storia. Ivi, alla scuola di Bassus apprende la saggezza; e alla scuola di Placidia i piaceri del bordello. Dopo tutto, non era certo arrivato alla madre del mondo per «esaminare con gli occhi di un medico che studia un malato»! E studiare le sue virtù e i suoi vizi, facendone esperienza in prima persona, non è forse il modo migliore per conoscere Roma, per viverla? Di certo, Priscus non ignora affatto le tentazioni del materialismo storico: «Ci sono quasi due milioni di persone che vivono a Roma. La città conta quarantaseimila case di piacere, millesettecentottanta palazzi, ottocentocinquanta bagni termali, milletrecentocinquantadue piscine pubbliche e fontane, ventotto biblioteche, centodieci chiese, due circhi, cinque teatri [...] Inoltre, nessuno può dire quante statue ci siano, alcuni ne stimano più di diecimila, ma a mio avviso credo siano tante quante sono le persone viventi.» Ma ecco che subito si torna ad una dichiarazione di decadenza: « Sono molte quelle che giacciono in pezzi a causa del recente terremoto. Allo stesso modo, sono altrettanti i viventi... » Priscus è un moralista, ma anche lui, come lo è Bassus, è uno degli uomini viventi «a pezzi».
Attila non lo è; non è una statua crollata, ma piuttosto una spada affilata, tanto pura quanto dura. Attila e Priscus non si incontrano mai veramente. L'uno e l'altro provengono da degli altrove. Entrambi ripartono per tornarsene da dove sono venuti. Attila ne è felice, mentre Priscus avrebbe preferito rimanersene tra le braccia di Placidia. Attila passa dalla barbarie alla barbarie, attraverso la decadenza, così come Priscus passa da Costantinopoli a Costantinopoli attraverso Roma. In comune, non hanno niente se non Bassus, ma se questi rimanda il civilizzato nella civiltà, evitandogli crudelmente di cedere alla decadenza; tuttavia egli non riesce a strappare Attila alla barbarie.
Cosa ci dice Zamjàtin? Di certo non fa un'apologia della barbarie. Zamjàtin non è più uno di quegli «Sciti» che nel 1917 credevano nella barbarie vedendola come rigenerazione della civiltà. Ne "Il Flagello di Dio", Attila è soltanto una forza, quasi naturale, tettonica; non è altro che distruzione, sangue e massacro. Se dopo di lui dovrà esserci rigenerazione, questa non sarà per opera sua. Lui è lì per distruggere: distruggere Roma, tutte le Rome; ma in questo romanzo che cos'è Roma per Zamjàtin? L'Europa? Il nascente Impero sovietico? La civiltà stessa?
Comunque, in ogni casi, altri, più tardi, assai più tardi, ricostruiranno, forse. Forse...
A Stalin, Zamjàtin disse che il personaggio di Attila non era affatto oscurantista. Ma potrebbe ripetere la stessa cosa dopo aver scritto questi sette capitoli? Non somiglia forse alla grande notta tempestosa che annuncia il dolce tramonto della civiltà? E allora che speranza rimane a noialtri civilizzati, a noi decadenti, dopo aver detto - con Priscus - le seguenti ultime parole: «le nostre mani sono già somiglianti alle debole mani dei vecchi, e il nostro destino si trova nelle mani di altri popoli»?

- Cédric Monget - Pubblicato su PHILITT il 23/3/2021 -


fonte Phillitt

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