Considerazioni sulla relazione tra la televisione e la società
- di Anselm Jappe -
Può essere utile cominciare precisando alcune idee di Guy Debord, autore del libro La società dello spettacolo [*1]. La critica radicale dello spettacolo formulata da Debord va ben oltre una semplice critica della televisione e dei mass media. Egli stesso ha detto: «Lo spettacolo non può essere inteso come un abuso del mondo visibile, come un prodotto delle tecniche della diffusione di massa delle immagini» [*2]. Riconoscere, oggi, un valore "profetico" al libro di Debord pubblicato nel 1967 è, pertanto, facile, ma è anche riduttivo qualora la perspicacia di Debord venga vista solo nel fatto che egli prevedeva una società dominata da una dozzina o da un centinaio di canali televisivi di intrattenimento o notizie-spettacolo. Al giorno d'oggi, negli ambienti che si ritengono più intelligenti è di moda storcere il naso di fronte allo "spettacolo", ed esistono registi televisivi e ideatori di programmi per la tv, in Italia, e ministri francesi che amano citare Debord ed elogiarlo. Tuttavia, però Debord ha già detto nel suo libro che: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini.» [*3]. Ha detto anche che lo spettacolo, inteso nella sua totalità, è allo stesso tempo sia il risultato che il progetto del modo di produzione esistente. Di fatto, egli parla della società dello spettacolo, vale a dire, di una società che funziona come uno spettacolo.
Dal momento che Debord non è più un autore "marginale" o "maledetto", ritengo che il concetto di società spettacolare da lui sviluppato sia già noto: si traccia di una società basata sulla contemplazione passiva, in cui gli individui, anziché vivere in prima persona, guardano le azioni degli altri. Ciò avviene non solo sul piano televisivo, e non solo nella pubblicità, ma anche su molti altri piani: nella società della spettacolo, anche la politica - inclusa una buona parte di quella che si proclama rivoluzionaria -, la cultura, l'urbanistica, le scienze si basano sempre sulla distinzione tra spettatore e attore. Non c'è alcuna relazione diretta tra l'individuo e il suo mondo, nonostante egli abbia prodotto questo mondo. Di fatto, la relazione è sempre mediata dall'immagine; un'immagine che viene sempre scelta volutamente dagli altri, cioè dai proprietari della società. Probabilmente ricorderete anche che nel 1967 Debord distingueva due principali tipi di spettacolo: quello chiamato "diffuso", delle società occidentali, dove la vita reale si aliena nell'abbondanza delle merci del consumo e nella loro contemplazione; e lo spettacolo "concentrato" dei paesi totalitari, fascisti o stalinisti, nei quali la merce suprema è la contemplazione della perfezione del capo. Nel 1988, nei suoi "Commentari sulla società dello spettacolo" [*4], Debord annunciava che in tutto il mondo questi due tipi di società spettacolare si sono fusi in un unico tipo che si chiama "integrale", cioè in una una democrazia della merce con tratti autoritari. Non mi dilungherò ulteriormente sul riassunto delle idee di Guy Debord. Vorrei solo ricordare che lo spettacolo di cui Debord parla, è una categoria sociale totale che può sicuramente essere utile per comprendere l'odierna televisione, ma questo solo se si tiene conto del fatto che secondo lui la televisione è un caso particolare di una logica assai più ampia. In altre parole, la televisione-spettacolo può essere compresa solamente come il prodotto di una società spettacolare. Una tale affermazione può sembrare banale, ma la maggior parte delle considerazioni sulla televisione non dicono quasi niente circa questa connessione. Soltanto pochi commentatori vedono nella televisione il risultato logico di una specifica forma di società, vale a dire, del capitalismo pienamente sviluppato, fordista e post-fordista, così come è venuto al mondo dopo la prima guerra mondiale. Le altre teorie sulla televisione, o allargano eccessivamente il campo, o invece lo restringono troppo. Molte di quelle che sono delle considerazioni svolte soprattutto in ambito giornalistico, sociologico, politico e nella cosiddetta «scienza della comunicazione» (che negli ultimi anni, almeno in Italia, si è trasformata in una vera e propria facoltà universitaria che alla fine produce una quantità record di disoccupati), non si interrogano neppure sulla struttura del mezzo, non si pongono la domanda su «che cos'è» la televisione, e non azzardano nemmeno un qualche giudizio. Si chiedono solo quali siano i contenuti che vengono trasmessi, quali analisi semantiche possiamo svolgere, come fare per poter soddisfare ancora meglio il pubblico, ecc. In Italia, la politica ha discusso molto sulla televisione, soprattutto perché l'ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi è anche proprietario delle tre principali reti private. Al contrario, in altri paesi, come la Francia e gli Stati Uniti, si discute animatamente sul tasso di violenza e oscenità in TV e sull'effetto che hanno sui bambini. In questo, e in tanti cosiddetti pubblici dibattiti, quindi, ovviamente non esiste alcuna concettualizzazione della relazione esistente tra società e TV, perché per queste "opinioni pubbliche" e per i suoi rappresentanti l'esistenza stessa della TV, così come quella della società in cui viviamo, è così evidente e "naturale" da non poter nemmeno essere percepita, come avviene con tutte le cose che sono abbastanza ovvie.
In questo testo mi occupo sempre di televisione, ma tuttavia, naturalmente questo discorso si applica a tutti i media elettronici in generale, al cinema, a Internet, alla realtà virtuale, ecc. Ma tralasciano l'inutilità di doverlo ripetere ogni volta, è vero che, a livello di massa, l'importanza della TV come mezzo di accesso al mondo supera da tempo quella di tutti gli altri media messi insieme. Però, non sto parlando di "comunicazione". Radio e televisione sono dei media efficientissimi per riuscire a imporre unilateralmente gli ordini a coloro che li ascoltano, ma, a livello di comunicazione tra individui contano assai poco. Né mi soffermerò più su quel genere di discussione - assai spesso apparentemente appassionante - che ruota solamente intorno ai dettagli, se non addirittura semplicemente introno alla ripartizione del bottino, cioè dell'accesso al microfono. In questo ciclo di conferenze, frequentemente c'è uno sviluppo del tipo opposto di ragionamento: quello che vede nella televisione un caso particolare di quella che è una logica secolare, se non millenaria, del «guardare» e dell'«immagine». Dal momento che la televisione è una trasmissione di immagini, molti pensano che, per poter comprendere la televisione, sia necessario porsi delle domande sulla facoltà visiva stessa dell'uomo e sulla struttura dell'immagine in quanto tale, e sulla forma del suo consumo. Da parte di questi teorici, si fanno abbondanti riferimenti a ciò che chiamano «metafisica occidentale», a Platone e alla sua condanna delle immagini, alle teorie medievali della visione, alla fenomenologia della percezione, alla relazione tra visione e gli altri sensi e alla particolare configurazione che tale relazione ha assunto nella storia europea. Il successo ottenuto dalla televisione fin dal suo inizio in tutto il mondo, sarebbe il risultato di una fame di immagini, una fame congenita nell'uomo; Debord stesso cita il sociologo americano Daniel Boorstin, il quale negli anni '50 scrive uno dei primi studi critici sulla televisione, e commenta: «Ragion per cui, quel che avviene è che Boorstin vede la causa dei risultati che egli descrive nello sfortunato incontro, quasi fortuito, tra un eccessivo apparato tecnico di diffusione delle immagini e un'eccessiva attrazione che gli uomini del nostro tempo provano per lo pseudo-sensazionale. In questo modo, lo spettacolo sarebbe dovuto al fatto che l'uomo moderno è eccessivamente spettatore» [*5].
Potrebbero essere fatte molte considerazioni del genere su autori più recenti, come Neil Postman e il suo libro che sotto molti aspetti appare essere interessante, "Amusing Ourselves to Death" ["Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell'era dello spettacolo", Marsilio, 1985], pubblicato nel 1985. In questo genere di teoria, il caso particolare, la televisione, viene presentata quindi come legata a qualcosa di molto più generale, quasi a una presupposta "natura umana" di tipo antropologico od ontologico. Questo genere di considerazioni non sono necessariamente errate. Ma non aiutano a comprendere la specificità del fenomeno, Tendo ad «affogare il pesce», come dicono i francesi. Un po' come dire che è altrettanto vero che l'eccesso di traffico automobilistico ha parecchio a che vedere con il bisogno umano di spostarsi, o che tutta la produzione materiale ha a che fare con la necessità di mangiare.
Ma a partire da simili presupposti così generali, non si riuscirà mai a capire perché in un dato momento il guardare, il muoversi, il mangiare abbiano assunto una loro forma specifica, sia nel 1500, sia nel 2000, e non in un qualsiasi altro momento. Affogare il concetto di società dello spettacolo nel mare delle considerazioni sull'immagine in quanto tale, e sulla critica all'immagine in quanto tale - come fa il francese Régis Debray, inventore di una presunta "Mediologia" - oppure cercare le presunte radici metafisiche della - in realtà rara - sfiducia nei media elettronici di solito serve, in mezzo a tutte le intenzioni polemiche, a evitare qualsiasi dibattito sulla TV e la società attuale. Invece, ciò che si ottiene è affermare che la critica della TV e dello spettacolo costituisce soltanto una riedizione di un atteggiamento che esiste da duemila anni: quello di condannare la fascinazione superficiale e futile per le immagini, per le forme visuali e per le copie, poiché esse distraggono dalla comprensione intellettuale e poetica delle vere essenze.
D'altra parte, i fustigatori della critica dello spettacolo non omettono di sottolineare come questa critica delle immagini sia, almeno oggi, ma forse da sempre, antiscientifica, antidemocratica, religiosa, antiprogressista. Al oro occhi, criticare la televisione oggi equivale alla condanna dei libri da parte di Platone, che in seguito scrisse molti libri: un atteggiamento, quindi, in realtà ancora più ipocrita e realistico [*6]. Ragion per cui, secondo loro è meglio fare un buon uso di un nuovo mezzo, quando esso fa la sua comparsa [*7].
Bisogna quindi sottolineare, fin dall'inizio, che la struttura essenziale della televisione non è legata solamente all'immagine. La TV non è essenzialmente una trasmissione di immagini. I mezzi elettronici possono anche essere indirizzati verso sensi diversi dalla vista, senza che cambi molto. Basta la dimostrazione di un semplice fatto: alcune delle critiche, forse le più pertinenti rivolte alla televisione, come quelle di Theodor Adorno e di Günther Anders - sulle quali ritornerò -, sono state sviluppate negli anni '30 e '40, e quindi applicate solamente alla radio, dal momento che allora la televisione ancora non esisteva. Nel libro di Anders, "L'uomo è antiquato" [*8], pubblicato nel 1956, si vede come cominci la sua analisi dei mezzi di comunicazione parlando della radio e passando poco a poco a fare delle osservazioni sulla TV, senza che nella sua argomentazione cambiasse qualcosa di essenziale.
Le famose considerazioni sull'«industria culturale» di Adorno e Horkheimer, pubblicate nel 1947, vennero sviluppate analizzando il cinema e la radio. La televisione presenta meno analogie con il cinema - anche se si tratta sempre di immagini e che lo stesso film può essere proiettato al cinema o trasmesso in TV - di quante ne abbia con la radio, sebbene le trasmissioni radiofoniche e televisive non siano interscambiabili. Ma, nelle loro caratteristiche essenziali, TV e radio sono simili tra di loro e non sono state modificate fin dall'inizio: ciascun ascoltatore o spettatore rimane isolato nel suo cubicolo domestico, dove il mondo gli viene fornito nella sua casa in una forma che viene scelta da altri.
La questione essenziale non è se si trasmettono immagini, immagini e suoni insieme, o solamente suoni. Ad essere essenziali sono le relazioni sociali tra gli individui e la relazione tra l'individuo e il mondo. Inoltre, oggi avviene spesso che la televisione non la si guardi nemmeno, ma essa serve solo a fornire un rumore di fondo; altre volte, per mezzo dello zapping, con lo schermo suddiviso in più schermi, con gli spot pubblicitari e con i videoclip non vediamo nemmeno più le immagini nel senso normale, ma solamente un ammasso di colori in movimento a cui non si presta attenzione. Alcuni critici della televisione, come il già citato Postman, associano la loro critica della televisione ad una critica generale del predominio moderno dell'immagine sulla parola parlata e scritta, sostenendo per esempio che l'immagine rechi in sé tante più contraddizioni occulte di quante ne abbia il discorso scritto, e che in fondo solamente la scrittura, vale a dire, il testo isolato e impersonale, educhi al pensiero coerente, logico, analitico, oggettivo, distaccato e razionale, ed insegni a classificare e a dedurre, mentre invece l'immagine, a partire dalla fotografia, sarebbe una violenta esposizione di fatti disordinati e fuori dal contesto che spesso contiene dei giudizi travestiti.
Questo genere di considerazione è indubbiamente interessante, ma, contrariamente a quanto spesso si dice, la critica dei media elettronici non è la mera continuazione di una lunga tradizione, soprattutto francese, di sfiducia e diffidenza nei confronti dello sguardo, e a favore del corpo o di altri sensi, oppure a favore di una concezione feticizzata di immediatezza [*9]. In ciascuno di questi casi, quest'affiliazione della critica dello spettacolo ad una presupposta e presunta sfiducia generale nei confronti dell'immagine non è di certo riscontrabile in Debord, il quale non solo ha realizzato cinque film, diverse opere di collage e una rivista - l'Internazionale Situazionista - che è stata tra le prime riviste intellettuali a contenere delle immagini, ma che ha anche scritto nella prefazione al Tomo II del Panegirico, composto quasi esclusivamente di foto con delle didascalie, e pubblicato postumo: «Le menzogne dominanti dell'epoca sono in grado di far dimenticare che la verità può essere vista anche nelle immagini. L'immagine, che non sia stata intenzionalmente separata dal proprio significato, aggiunge alla conoscenza molta precisione e certezza. Prima dei recenti ultimi anni, nessuno dubitava di ciò. Io mi propongo ora di ricordarvelo. L'illustrazione autentica chiarisce il discorso veritiero, come una proposizione subordinata che non è né incompatibile né pleonastica» [*10].
Tuttavia, non intendo ripetere, riportandole, le diverse analisi critiche sulla televisione come prodotto della tarda società capitalista, dal momento che sono sicuro che già le conoscete. Senza pretendere che si tratti della migliori, o delle uniche critiche, utilizzo come presupposto qui i testi sui mezzi di comunicazione di massa scritti da Debord, da Theodor Adorno e da Günther Anders.
"L'uomo è antiquato", è la principale opera di Günther Anders. Anders, un filosofo tedesco nato nel 1902 e morto nel 1992 [*11], era originariamente un fenomenologo e un discepolo di Husserl e di Heidegger, ma l'esperienza del nazismo e dell'esilio in America, dove per vivere ha dovuto lavorare in fabbrica, lo portarono a una critica fondamentale della società industriale. Particolarmente famose, sono le sue considerazioni sulla bomba atomica. Si possono trovare nel suo pensiero alcuni riferimenti al marxismo, ma essi consistono essenzialmente nel considerare la relazione tra l'uomo e il mondo per mezzo di categorie fenomenologiche, a volte simili a quelle di Husserl o di Heidegger. Però ci parlano di fenomeni reali e portano a conseguenze politiche radicali. Lo stesso Anders indica quali sono le sue tre tesi fondamentali: noi uomini non siamo all'altezza della perfezione dei nostri prodotti; ciò che produciamo supera la nostra capacità di immaginare e la nostra responsabilità; riteniamo che sia lecito, o assolutamente obbligatorio per noi, fare tutto ciò che possiamo fare. Il tema principale di Anders è la discrepanza che esiste tra i nuovi mezzi tecnici creati dall'uomo, tra i quali l'esempio più visibile è quello della bomba atomica, da un lato, e, dall'altro, le sue capacità di immaginare, sentire, pensare, che sono rimaste però ancora le stesse; pertanto, antiche, antiquate. Nel primo volume de "L'uomo è antiquato", Anders dedica i due principali capitoli alla bomba atomica, alla radio e alla televisione. Di questo me ne occuperò ancora in un altro momento; evidentemente, qui non posso fare un riassunto dettagliato di quella che è l'opera di Anders.
Tuttavia è degno di nota ribadire come molte osservazioni sulla televisione che ancora oggi sembrano essere molto pertinenti - come quelle di Adorno, Anders o Debord - sono stare fatte in un'epoca in cui la televisione si trovava ancora ai suoi inizi, o allora si applicavano anche alla radio, come ho già detto. Era l'epoca delle trasmissioni solo in bianco e nero, su un unico canale, che sono poi diventati due, tre al massimo, tutti statali, molto educativi e poco divertenti, quasi senza pubblicità, e in ogni caso trasmettevano solo da metà pomeriggio fino a mezzanotte al massimo, quando terminavano con l'inno nazionale: i più giovani tra voi ci crederanno solo con grande difficoltà. Fu, tuttavia, proprio in quell'epoca, che oggi può sembrare bucolica o arcaica, che vennero intraprese le analisi più apocalittiche sull'impatto della TV sulla società e sulla vita culturale, sociale, politica e familiare. In quell'epoca, personaggi noti - se non ricordo male, anche il cancelliere tedesco - proposero che venisse istituita una giornata settimanale senza televisione, poiché questa veniva considerata molto invadente. Oggi, con la televisione che occupa nella vita sociale uno spazio che ha, rispetto a quei primordi, un valore centuplicato, sono scomparse quasi tutte le critiche. Proporre un giorno alla settimana senza TV susciterebbe qualcosa di talmente esilarante, paragonabile a ciò che potrebbe provocare la proposta di camminare tutti su quattro zampe.
Da un lato, ciò ha a che fare con il fatto che spesso è più facile riconoscere, e pertanto criticare le tracce distintive di un fenomeno solo quando esso è all'inizio, nonostante che i suoi contorni siano ancora informi. Ma quel che conta soprattutto è questo: solo chi è cresciuto in una società senza televisione è stato in grado di notare il passaggio e notare i cambiamenti. Per coloro che, al contrario, la conoscono fin dalla sua nascita, può sembrare divertente discutere se la TV debba esistere o meno, allo stesso modo in cui si potrebbe fantasticare a proposito di un mondo senza gravità. Lo vedo tra gli studenti del corso di «Arte-Media» all'Accademia di Belle Arti dove insegno: la critica alla TV li interessa, non manca loro spirito critico, soprattutto riguardo il contenuto delle trasmissioni. Ma l'esistenza della TV è per loro altrettanto evidente e naturale dell'aria che respiriamo. Viene subito in mente l'affermazione contenuta nei "Commentari sulla società dello spettacolo", di Guy Debord, del 1988: «Il più grande successo dello spettacolo è stato quello di aver fatto crescere una generazione che non ha mai conosciuto nient'altro che lo spettacolo, una generazione per la quale lo spettacolo coincide con il mondo intero e pertanto non possiede alcun termine di paragone».
Partiamo pertanto dal presupposto che sia la società contemporanea ad aver creato la televisione e che la televisione non obbedisce a una logica autonoma. Non è la relazione tra raggio di luce e retina ciò che spiega la televisione, anche perché questa relazione non era molto diversa per gli antichi egizi o al tempo di Platone. Tuttavia ciò non significa che la televisione e gli altri media elettronici siano piovuti dal cielo: sono stati impiantati sotto l'influenza di quelli che erano degli antichi mali. Una società che ha potuto inventare la televisione e dare di essa l'incantesimo supremo, era evidentemente già corrotta, e tutto ciò è avvenuto perché essa era il proseguimento di altre società non coscienti di sé stesse.
È questo il nodo cruciale che viene spesso dimenticato da parte di quei critici che presentano la televisione come se fosse una sorta di genio del male, un vaso di Pandora venuto inspiegabilmente a sconvolgere una vita che prima era armoniosa e felice. In realtà, l'entusiasmo con cui la televisione viene accettata praticamente dappertutto e sempre, non si spiegherebbe se non si incontrasse con con una situazione di forte noia che fa sì che appaia preferibile guardare uno schermo. La solitudine che la televisione comporta, non verrebbe sopportata da chi vive un minimo di vera comunità. Lamentarsi dell'impatto negativo che ha la TV sulla vita famigliare, è particolarmente diffuso. È stato notato che il tradizionale tavolo da pranzo, intorno al quale la famiglia si riuniva guardandosi in facci e parlando, è stato sostituito da un televisore, davanti al quale i membri della famiglia si alienano guardando un punto di fuga comune, anziché guardarsi l'un l'altro; questo sempre se i membri della famiglia non dispongono di un televisore in ogni stanza.
Ma questa forma demente di vita famigliare non si sarebbe diffusa così tanto rapidamente se le persone non si fossero stufate di sentire per la millesima volta i racconti del nonno sulla guerra e quelli dei genitori sul lavoro, o le lamentele sul tempo, o sul prezzo dei pomodori; discorsi che sono il prodotto di una vita che è stata resa vuota dalla ragione economica. La tavola familiare era anche uno strumento di controllo grazie al quale nessuno sfuggiva all'occhio vigile del capofamiglia che voleva vedere se la figlia si vergognava di qualcosa. Tutto ciò non significava, però, come vorrebbero molti, che la TV sia stata uno strumento di emancipazione o di liberazione dei costumi, ma ha significato piuttosto che la specifica forma di alienazione che la TV rappresenta è il proseguimento di altre forme di alienazione sociale, e non il risultato meccanico di un'invenzione tecnica. Quest'ultima evidenza dovrebbe essere sufficiente a confutare le ben note teorie di Marshall McLuhan, che presentava con entusiasmo «il villaggio globale» creato dai media elettronici come se fosse il risultato di una rivoluzione tecnologica paragonabile alle rivoluzioni prodotte dall'invenzione della ruota, della staffa, o della stampa: invenzioni che, secondo McLuhan, avevano creato ogni volta un nuovo tipo di società, di mentalità, di cultura, di economia. Per ricondurre questa teoria alle sue giuste proporzioni, basta ricordare che le invenzioni in quanto realizzazione tecnica, non si diffondono mai prima che esista già una società che ne abbia bisogno. Infatti, nella storia, molte invenzioni sono state fatte più volte, ma inizialmente senza conseguenze, rimanendo così un semplice giocattolo, dal momento che per esse non esisteva ancora il contesto appropriato. La macchina a vapore era già stata inventata nell'antichità, ad Alessandria. Ma in una società nella quale il lavoro veniva svolto dagli schiavi non esisteva alcuna necessità di macchine che meccanizzassero il lavoro, dal momento che, secondo la mentalità allora dominante, gli schiavi ne sarebbero stati gli unici beneficiari. Solamente una società come quella inglese della fine del 18° secolo, nella quale c'era un'enorme disponibilità di manodopera "libera" - e che era essa stessa il risultato di una lunga storia di espropriazione -, avrebbe saputo utilizzare una macchina a vapore che avrebbe consentito a un operaio di produrre venti camicia anziché una sola. Nei secoli precedenti, erano state inventate macchine che erano in grado di incrementare la produttività - e pertanto di diminuire il numero di operai necessari alla produzione -, ma non propriamente per questo motivo; poiché avrebbero tolto lavoro ai poveri e disturbato l'ordine sociale, e talvolta vennero bruciate insieme ai loro inventori invece di essere messe in produzione. Sono esistiti anche degli esempi di cannoni e fucili, di sommergibili e apparecchi volanti inventati nel Medioevo dai cinesi, ma che non sono stati utilizzati; oppure ci si può riferire alle ruote, conosciute dai Maya, ma usate solo come giocattoli. In breve, la tecnologia dipende dalla società, non è un fattore autonomo. Non è stata l'invenzione del tubo catodico ad aver creato la società dello spettacolo.
Ma, allora, chi ha creato questa società? Ci sono teorici, anche divergenti tra loro come McLuhan e Anders, che sono d'accordo su un punto: la televisione non è semplicemente un mezzo che può essere indifferentemente messo al servizio di obiettivi diversi. La sua struttura, la sua forma ne pregiudica fortemente l'uso. Come ha detto McLuhan, «il mezzo è il messaggio». Lui lo dice con intento apologetico, mentre i critici della TV propongono la medesima espressione come una critica. Ma alla fine cos'è questa struttura, se non è una struttura meramente tecnologica, e se non è neppure semplicemente un caso particolare della logica della visione e dell'immagine?
Le analisi più critiche della relazione tra televisione e società mettono in evidenza soprattutto la contemplazione passiva e isolata a cui portano i media elettronici. Al di là del contenuto, lo spettatore è sempre condannato a guardare ciò che fanno gli altri, senza alcun potere sulla propria vita. Ciò che caratterizza la televisione non è il fatto di guardarla semplicemente, ma solamente di guardare. Lo sguardo immobile, la contemplazione inerte: è questo ciò che caratterizza l'assistere alla televisione e che fa di essa l'espressione di una società in cui tutto è spettacolo, come ha detto Debord. Perché non tutto è spettacolare, nel senso di sensazionale, variopinto, emozionante, appariscente; infatti, come osserva Anders, giustamente, la televisione non sempre sensazionalizza gli eventi, ma a volte li banalizza e rappresenta certi eventi, a causa del piccolo formato dello schermo, dell'accompagnamento musicale ecc., sotto un aspetto più innocente di quello che in realtà hanno. Se Debord ha detto che tutto è spettacolo, ciò era perché tutto, dalla politica al traffico, dalle città alla cultura, tende a produrre e a riprodurre l'individuo isolato, e pertanto massificato, che si trova in uno stato di completa impotenza di fronte al mondo che, in realtà, è il risultato delle sue azioni. Ciò che egli fa, è nient'altro che guardare questo mondo, e pertanto essere uno spettatore dello spettacolo. Ma questa contemplazione non è frutto di pigrizia ontologica, bensì il risultato di un ordine sociale che vive grazie alla passività. Ed è questo fatto che lega la tematica della televisione a quella delle merce. Tale connessione è affermata assai spesso, ma raramente viene sviluppata (anche se Debord, tuttavia, la sviluppa più di altri). Perché la televisione è una merce? Non solo perché i televisori sono delle merci e perché per ricevere le trasmissioni di solito si paga, un aspetto questo che è quasi insignificante. E neppure solo perché come tutti sanno, le stazioni televisive giocano un ruolo di primo piano nel promuovere le vendite di ogni genere di merci. E nemmeno perché la televisione propone incessantemente stili di vita che si basano sul consumo incessante di merci. Un motivo, assai più fondamentale, risiede nella struttura della merce, e in particolare nel feticismo della merce. Questo concetto è stato sviluppato da Karl Marx e si propone ad una attenta osservazione come una sorta di nucleo segreto di tutta la sua analisi della società capitalistica. Ma sono pochi i suoi presunti discepoli (vale a dire, i marxisti) che hanno ripreso questo concetto. Tra questi pochi, troviamo però Debord, così come György Lukács o Adorno, per quanto ciascuno di loro lo abbia fatto in maniera diversa. Ultimamente è stato soprattutto il gruppo tedesco Krisis ad aver sviluppato le analisi del feticismo della merce. Il «feticismo della merce» non significa solo un'adorazione dei beni di consumo, un eccessivo investimento affettivo su di essi, come il termine potrebbe far pensare a prima vista. Non indica nemmeno solamente una forma di coscienza mistificata, che cela il vero funzionamento dello sfruttamento capitalistico, come vorrebbe la vulgata marxista. Il concetto di feticismo indica soprattutto quanto segue: nella società capitalista della merce, la produzione non avviene per il suo contenuto, per il suo valore d'uso. Avviene per incrementare il valore, il valore di scambio della merce; sia materiale che immateriale, questo non ha importanza. Non è determinato a partire dalla quantità di lavoro concreto e reale, ma semplicemente di lavoro, di lavoro indifferenziato, di lavoro astratto, come diceva Marx.
Nell'ottica della produzione capitalista di merci, la produzione di oggetti concreti è solo un aspetto secondario; ciò che conta è trasformare il lavoro vivo in lavoro morto, oggettivato, passato, e questa trasformazione deve avvenire secondo che in quel momento sono i parametri vigenti di produttività. Il destino di un prodotto, e di tutta la produzione, non dipende dalla sua reale utilità per qualcuno, né dalla sua bellezza, e neppure dal suo valore simbolico, ma dalla sua capacità di essere venduto, in modo che il valore di scambio in esso contenuto torni ad alimentare un ciclo sempre più ampio di produzione e consumo.
Per esempio, la scelta di produrre cacciabombardieri piuttosto che pane non dipende da una decisione cosciente e collettiva che tiene conto delle necessità sociali, ma dipende dal profitto che si potrebbe ottenere dall'uno o dall'altro prodotto. E questo lo sappiamo tutti. Tuttavia, non si tratta solamente di un'aberrazione morale, o di un difetto imputabile esclusivamente all'avidità di alcuni individui o classi sociali. La società basata sulla produzione di merci si presenta a tutti come un sistema già dato. E questo sebbene tale società sia incontestabilmente un prodotto dell'azione umana, essa rimane opaca e impone a ciascuno le sue regole.
Nella società della merce, il soggetto non è l'uomo, il soggetto è il valore e la merce, il denaro e il capitale, il mercato e la concorrenza. Sono queste creazioni dell'uomo a governare la società umana, senza che in essa non esista neppure la coscienza di questo fatto, perché un tale processo si presenta ai soggetti coinvolti come se fosse "naturale". Tuttavia, neppure ogni società è una società della merce, dal momento che la merce non è una categoria sovra-storica, come lo è il "bene" o il "prodotto", ma è solo una determinata forma storica di essi. La società della merce ha creato forze assai più grandi di quelle di cui potevano disporre le altre società, ed è arrivata al punto di poter devastare il mondo intero. Ma, allo stesso tempo, l'uomo moderno, su queste forze ha ancora meno potere di quanto i suoi predecessori ne avessero sulle forze del passato. Egli non può fare altro che contemplarle e farsi governare da esse [*12]. «Non poter fare altro» non significa che si tratti di un destino invincibile in assoluto, ma che si tratta di una conseguenza logica dal momento in cui si vive in una società della merce. Si capisce allora che il concetto di «società dello spettacolo», in cui l'uomo è ridotto ad un ruolo di spettatore, immerso in una contemplazione passiva, descriva una società storicamente ben determinata, cioè, la società della merce pienamente sviluppata, così come grosso modo è venuta ad esistere dagli anni '20 in poi. Ed è questa che viene descritta dalla prima frase del libro "La società dello spettacolo: «L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli.» [*13]
Di fatto, questa frase è identica alla prima fase de Il Capitale di Marx, che comincia proprio con un'analisi fondamentale della merce. Debord si limita solo a sostituire alla parola "merci", la parola "spettacoli", con la tecnica situazionista del détournement. Lo si capisce subito che lo spettacolo di cui parla Debord è una tappa nello sviluppo della merce. Il secondo capitolo del suo libro si intitola «La merce come spettacolo», e i primi due capitoli insieme costituiscono una una rilettura estremamente importante dell'analisi marxiana del feticismo della merce.
Come abbiamo già detto, nella produzione di merci sparisce il contenuto concreto dell'oggetto e del lavoro che lo produce, conta solamente il lavoro come mera quantità di tempo impiegato, e che Marx chiama «lavoro astratto». Tutta la produzione di merci si basa su un processo di "astrattificazione", di "divenire-astratto", poiché prevale la mera quantità senza qualità. Cioè l'astrazione da ogni contenuto. Lo spettacolo, con la sua riduzione del mondo alla mera apparenza, all'immagine, pertanto non è altro che - come ha detto Debord - una tappa successiva nel processo secolare del "divenire-astratto" del mondo, che ha avuto inizio nel Rinascimento ed è proseguito con ancora maggior forza a partire dalla fine del 18° secolo. Un fenomeno che non è frutto di una misteriosa «metafisica occidentale», come avrebbe forse voluto dire un Heidegger, ma che è il risultato di un processo materiale e sociale ben determinato, e quindi, al limite, è anche modificabile. La televisione è pertanto una sorta di apogeo della società della merce non solo perché fa vendere, ma perché potenzia la struttura fondamentale della società moderna: la contemplazione inerte, vale a dire ciò che l'uomo ha creato senza saperlo, e anche senza volerlo. Non svilupperò qui quest'analisi, perché l'ho già fatto in maniera più dettagliata nel mio libro "Guy Debord".
Devo però accennare a un altro elemento di importanza capitale: lo spettacolo, così come lo intende Debord, non occupa assolutamente l'intera realtà. Assai diversamente da quello che avviene secondo Jean Baudrillard, le cui elucubrazioni vengono talvolta confuse, dagli osservatori più superficiali, con la teoria di Debord. Per Baudrillard, alla fin fine copia e realtà sono indistinguibili; non esiste più una realtà, un originale, un significato, e forse non è neppure mai esistito. La rassegnazione soddisfatta è la conseguenza logica di una tale prospettiva. L'analisi di Debord, al contrario considera l'invasione delle copie a danno dell'originale, dell'apparenza a scapito della realtà, uno scandalo. E questo non perché in fin dei conti questo porterebbe a un risultato. Ma perché si tratta di danni abbastanza reali che vengono inflitti alla realtà. Il predominio della merce e dello spettacolo significa anche un enorme impoverimento della vita vissuta. La merce e lo spettacolo sono l'astrattificazione e la glacializzazione della vita, sono «una negazione della vita che è diventata visibile». Costituiscono un rovescio negativo, una forma perversa della vita, ma non potremo mai sostituirla del tutto con esse.
Anche Anders, già negli anni '50, ha osservato un'inversione attuata dalla televisione: quando il fantasma si rende reale, la realtà diventa fantasmagorica, scrive, specificando che il fantasma non è né una realtà né una semplice immagine, ma piuttosto un essere del medium, con uno statuto ontologico differente. In tal modo, i contatti tra gli uomini reali e i fantasmi assumono i contorni delle classiche storie di fantasmi. Sicuramente, qui, solleveremo delle polemiche, affermando l'aspetto debole di questa teoria, il suo lato "invecchiato", superato, che sarebbe dovuto al suo attaccamento a concetti come quello di "originale" e "reale", "copia" e "apparenza"; categorie che mantengono una forma essenzialista e appartengono ad un’impossibile ricerca dell'autentico e del vero, da cui negli ultimi decenni il pensiero contemporaneo si sarebbe felicemente liberato. È evidente che noi qui assumiamo un altro punto di vista: Solamente quando alla fine è cresciuta la generazione summenzionata - la quale fin dalla nascita non ha conosciuto altro che la copia e l'apparenza, una generazione per cui, fin dall'infanzia, la realtà era quella che veniva trasmessa dalla televisione, e non quella che eventualmente poteva essere sperimentata direttamente -; ebbene solo quando questa generazione è arrivata alle cattedre accademiche si è potuta diffondere la tesi postmoderna secondo cui la realtà non esiste, e non è certo un caso che ciò sia avvenuto prima in quei paesi dove la de-realizzazione della vita quotidiana si trovava già nella sua fase più avanzata. In ultima analisi, la televisione ha contribuito a creare l'uomo-merce: un essere umano che non è semplicemente costretto, dalla necessità, ad entrare nel ciclo del lavoro alienato e del consumo delle merci, come accadeva nei primi tempi del dominio capitalista, quando esisteva ancora un conflitto reale tra una sfera capitalista della vita e l'altra sfera - la famiglia, il villaggio, il quartiere, la corporazione - che non era dominata dalla logica della merce, o quanto meno non completamente dominata. I trionfo dei media elettronici, che ha avuto inizio tra le due guerre mondiali, coincide con una penetrazione capillare della merce ciascuna sfera della vita, con una «colonizzazione della vita quotidiana», come l'ha chiamata Debord.
Con la televisione spariscono il "fuori" e il "dentro", e smette di esistere una sfera separata dalla merce. Tranne che per delle piccole minoranze, non esiste più la voglia di bere che non sia la voglia di bere coca-cola, o un altro prodotto che viene reclamizzato in TV. Non esistono più giocattoli fatti dai bambini stessi, ma solamente quelli che vengono visti nello schermo televisivo. Non esistono comportamenti amorosi diversi da quelli delle soap opera, ecc. Non voglio ripetere analisi già fatte da altri su come alla fine la realtà venga percepita solo attraverso gli schemi mentali e percettivi imposti dalla TV. Anders ha detto, quasi mezzo secolo fa, che ora gli uomini non creano più la propria lingua, così come non fanno più il pane in casa. Vorrei tuttavia sottolineare che tutto ciò conferma la nostra analisi della merce in quanto «forma sociale totale»: un soggetto in forma di merce, per il quale ogni oggetto della percezione, del desiderio, del sentimento o del pensiero viene rappresentato sotto forma di merce.
Anche la funzione di "democratizzazione" che molti vorrebbero attribuire alla televisione consiste proprio nel fatto che davanti ad essa tutti diventano uguali. La televisione ripete nei confronti dei soggetti lo stesso processo universale indotto dalla logica della merce: ridurre tutto a quelle che sono delle differenti espressioni quantitative della medesima sostanza indeterminata senza qualità. Possiamo anche arrivare a parlare di una vera e propria «antropogenesi negativa», o «regressiva». Gli sforzi millenari dell'uomo, fatti per perfezionare la propria esistenza ed arricchire la sua relazione con il mondo, corrono ora il rischio di venire annullati, e l'uomo rischia di cadere in uno stato di povertà esistenziale che non è mai esistito prima. Günther Anders insiste sull'impoverimento, o meglio sulla quasi abolizione dell'esperienza individuale che si verifica allorché ognuno si trova ad essere rifornito stando a casa, come avviene con il gas o con l'elettricità. Tutte quelle che sono le categorie tradizionali dello «stare al mondo», delle relazioni degli uomini con il loro mondo, vengono sempre più messe in discussione a partire dall'esistenza della radio e della TV, e non solo quando arrivano ad esistere cento canali, ma quando appare la loro struttura embrionale. Il fuori e il dentro, la distanza e la vicinanza, il particolare e l'universale, vengono sostituiti dalla sequenza, dalla simultaneità; e la vera presenza, dall'essere e dall'apparire: tutte queste distinzioni scompaiono. La televisione, ha detto Anders, fa scomparire il mondo sotto l'immagine del mondo. Il mondo in quanto mondo, viene sostituito da un modello del mondo su scala ridotta che serve per imparare e interiorizzare i comportamenti che si devono tenere nei confronti del mondo reale. In fondo, l'intera società della merce è una tale antropogenesi negativa: un passo indietro fatto dall'umanità. Di fronte agli idoli del mercato e della redditività, della merce e del capitale, l'uomo moderno non mostra assolutamente un'autonomia maggiore di quella che il cosiddetto uomo primitivo aveva di fronte al suo idolo di legno cui attribuiva quei poteri che in realtà erano quelli della comunità umana. L'entusiasmo col quale abbiamo accolto tale regressione è davvero enorme, e merita una spiegazione. Probabilmente non esiste niente di altrettanto comune a tutti gli abitanti della Terra della volontà di stare a guardare la TV. Su alcuni contenuti possono pesare le differenze culturali, per cui in Arabia Saudita le ballerine seminude forse possono dare scandalo. Ma se si tratta di guardare i cartoni animati, si può star sicuri che questo, quanto meno, farebbe riavvicinare palestinesi e israeliani, ceceni e russi, abitanti delle baraccopoli e milionari americani, ayatollah e attrici porno. Anders sosteneva, già nel 1956, che molti dei suoi contemporanei avrebbero preferito essere in prigione ed avere un televisore per poter guardare i loro programmi (in realtà, egli diceva, «avendo una radio») piuttosto che essere liberi ma senza un tale apparecchio. Che dovremmo dire oggi?
In Afghanistan, dopo la sconfitta dei talebani, come prima cosa hanno ricominciato le trasmissioni televisive. Questo universalismo della TV, da un lato, si spiega a partire dal fatto che la televisione è l'avanguardia della merce, anche in luoghi dove la merce non esiste, o non esiste praticamente. Quella maggioranza dell'umanità che non ha accesso a quasi nessuna di quelle che sono le merci che vengono promosse in TV, tuttavia non si stanca mai di guardare la promessa della merce, lo spettacolo dello spettacolo. Nel paese più povero e arretrato d'Europa, l'Albania, che si trova vicino all'Italia, gli abitanti hanno guardato la televisione per tutto il periodo della lunga dittatura stalinista, e dopo il crollo del regime avvenuto nel 1990 una gran parte di loro si è messa in viaggio per raggiungere l'Italia e andare così a vedere la terra promessa, tanto che, alla fine, l'allora presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti, noto per il suo cinismo, esclamò: «Ma tutta questa gente pensava davvero che tutta l'Italia fosse come si vede negli spettacoli televisivi?»; e poi ordinò che l'esercito rimandasse a casa loro gli illusi.
In una prospettiva ancora più ampia, anche necessariamente vaga, si potrebbe dire che il trionfo della televisione è così universale perché essa risponde a un profondo infantilismo dell'umanità e ad un desiderio di regressione. Come l'individuo, anche l'umanità potrebbe manifestare stanchezza e resistenza rispetto al processo di diventare adulto. La cultura della poetica o del romanzo borghese è chiaramente una cultura degli adulti. Infatti, i bambini non comprendono un romanzo, un poema o una poesia. La televisione, tuttavia, come notava Adorno negli anni '60, si rivolge a uno spettatore di circa 11 anni di età. Da allora in poi, quest'età-obiettivo è stata ancora ulteriormente abbassata. I cartoni animati, di cui parlavo prima in quanto prodotto più universalmente amato dai telespettatori, sono perfettamente godibili da un bambino di 3 anni. Recentemente, durante un breve viaggio in mare, ho visto che un determinato angolo della nave, attrezzato con dei giocattoli e con la possibilità di guardare dei cartoni animati, veniva proposto per fare restare lì i bambini al fine di evitare che vedessero il mare o la costa. Ma la maggior parte degli spettatori che sono rimasti lì erano persone considerate adulte. «Non esiste da nessuna parte un accesso all'età adulta», diceva Debord in uno dei suoi film; e nemmeno alla vera infanzia, potremmo aggiungere, ma solamente all'«infantilizzazione». Perché in questo ha ragione Neil Postman, nel suo libro "La scomparsa dell'infanzia" [Armando editore] [*14]. Gli spettacoli televisivi, offerti in maniera indistinta agli spettatori di tutte le età, hanno di fatto abolito quell'infanzia che la cultura del libro stampato aveva aiutato a creare, mentre la televisione tratta di nuovo i bambini come se fossero dei piccoli adulti; ma adulti resi bambini dalla televisione - potremmo aggiungere.
Ma l'antropogenesi negativa, di cui la televisione costituisce un potente fattore, è davvero fatale, come affermano con rassegnazione Postmanm, Baudrillard e tanti altri? Credo sia ancora troppo presto per poterlo dire. Posso solo aggiungere che nel paesino italiano dove vivo - il quale di certo non costituisce un'eccezione - quegli stessi anziani che non vorrebbero vivere in una casa senza un televisore esprimono spesso nostalgia per il tempo in cui la notte si riunivano la sera per cantare, o quando le donne lavavano tutte insieme i panni alla fontana, scambiandosi pettegolezzi di paese, anziché stare in casa da sole a guardare le soap opera in TV.
Potrebbe anche succedere che molte persone, nel momento in cui venissero lasciate senza TV, dopo un attimo di perturbamento, si strofinerebbero gli occhi chiedendosi da quale sogno si starebbero svegliate. È incredibile, eppure sembrerebbe che un esperimento del genere non sia mai stato fatto in alcun paese cosiddetto "civile". Ogni tipo di sperimentazione sulla vita delle persone viene considerata lecita, dall'uso dell'amianto alla coltivazione di campi transgenici. Ma lasciare una piccola città un mese senza televisione, a fini sperimentali, di questo non si è mai sentito parlare. Forse un giorno, però, si potrebbero vedere delle azioni più forti. Secondo una tradizione citata da Walter Benjamin nelle sue tesi «Sul concetto di storia» [*15], durante la rivoluzione del 1830 a Parigi, o, secondo un'altra versione, durante la Comune di Parigi del 1871, oppure anche durante la rivoluzione spagnola del 1936, i rivoluzionari spararono sugli orologi pubblici. Chissà, forse prima o poi, presto o tardi assisteremo ad alti spari, magari sugli schermi televisivi?
Un'utopia? Vent'anni fa, in California ho conosciuto personalmente alcune persone che non erano rivoluzionarie, ma che avevano decisi di eliminare il televisore dalla casa in cui vivevano insieme, e di chiuderlo in un ripostiglio. Però succedeva che un giorno c'era uno di loro, e un altro giorno un altro, che voleva guardare «solo un certa trasmissione», e ogni volta l'apparecchio veniva rimesso in funzione. Fino a che un giorno si stancarono, lo misero su un muretto in giardino, ad una certa distanza, e ciascuno prese, da buon americano, il proprio revolver e spararono tutti insieme sul televisore. Da allora, in quella casa, non si è più vista la televisione.
- Anselm Jappe - Pubblicato originariamente nel 2015 su ArtePensamento IMS -
NOTE:
[*1] - Guy Debord - La società dello spettacolo.
[*2] - ivi - § 5.
[*3] - ivi.
[*4] - Guy Debord - Commentari sulla società dello spettacolo.
[*5] - Guy Debord - La società dello spettacolo, cit. § 198.
[*6] - Platone sembra essere, in generale, il demone dei moderni difensori della TV, i quali ne fanno una sorta di precursore dei talebani (e non più di Stalin, o di Hitler, come faceva Karl Popper).
[*7] - Vorrei far notare, per inciso, che questa equiparazione di critiche che in realtà appartengono a contesti assai diversi - vale a dire, quello della condanna platonica dell'arte e quello delle critiche moderne della società spettacolare - corrisponde al sofisma di chi risponde ai critici dell'uso dell'energia nucleare, dicendo che i primi treni a volte sono stati accolti da paure apocalittiche e da dimostrazioni della loro estrema pericolosità, e che quindi, in entrambi i casi si tratterebbe di un semplice piagnisteo nei confronti di ciò che è nuovo.
[*8] - Günther Anders, L'uomo è antiquato, vol.1, e vol.2. Bollati Boringhieri (1956).
[*9] - Questa affermazione è presente, ad esempio, nel libro dello storico americano della filosofia, Martin Jay, con un titolo significativo: "Downcast Eyes: the Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought" (Berkeley/Los Angeles/Londres: University of California Press, 1994); vale a dire, "Occhi bassi: la diffamazione della vista nel pensiero francese del XX secolo"; nel quale si parla anche di Debord. [in italiano:
Martin Jay: "La virtù della menzogna. Politica e arte dell'inganno". Bollati Boringhieri.
[*10] - Guy Debord, Panegirico. Tomo secondo.
[*11] - Tuttavia, aggiungo che questo libro è stato discusso recentemente, e che per lo meno un testo di Anders, quello su Kafka è stato pubblicato nel 1969 in Brasile, e che Sérgio Buarque de Holanda, nel suo saggio del 1952, menziona tale libro su Kafka, allora pubblicato solo in Germania. [Günther Anders - Kafka. Pro e contro - Quodlibet].
[*12] - Qui non considero altre forme di alienazione e di feticismo che regnavano nelle società precedenti, le quali pertanto non costituivano un Eden.
[*13] - Guy Debord, La società dello spettacolo, cit. § 13.
[*14] - Neil Postman - La scomparsa dell'infanzia - Armando editore.
[*15] - Walter Benjamin - Sul concetto di storia - Biblioteca Einaudi.
fonte: Ensaios e textos libertarios
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