lunedì 30 aprile 2018

Lumi e non

antilumi

Illuministi sì, ma non troppo
- di Armando Torno -

In un’epoca come la nostra, ossessionata dai talk show con cotture di vivande e omelie di cuochi, solo qualche anima isolata ricorda Grimod de la Reynière, passato tra i più la notte di Natale del 1837, a 79 anni. Nel 1803 diede alle stampe il primo Almanach des Gourmands; dal 1808 un’altra opera da lui firmata, il Manuel des amphitryons, occuperà le bibliografie gastronomiche. Autore di trovate dai ricordi indelebili, fu l’inventore delle «colazioni filosofiche», iniziate nel 1784, due anni dopo i «pranzi del mercoledì». Era amante di fastosi ricevimenti e di scherzi memorabili (in uno dei suoi déjuners philosophiques fece mettere una bara accanto alla poltrona di ogni invitato); si notava inoltre per i panciotti, su cui faceva ricamare ritratti di membri della Comédie Française. Provocatore, ribelle, maestro riconosciuto del gusto, fu avvocato (mai chiese un onorario, come allora usava la nobiltà), infine venne radiato dalla categoria per un libello contro la sua classe sociale.
Ci è sembrato naturale leggere il nome di Grimod in un’opera che intende rivelare la faccia nascosta del periodo illuminista, negli anni che vanno dal 1715 al 1815: si tratta del Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes. Impresa realizzata con poco meno di 300 articoli (o piccoli saggi) da una sessantina di studiosi sotto la direzione di Didier Masseau, non è una ricerca per riabilitare i codini o gli spiriti ostili ai Lumi. Desidera, piuttosto, redigere un inventario di coloro che per ragioni diverse si opposero all’Illuminismo e ai suoi filosofi. Un lavoro che si rivela prezioso anche per conoscere meglio il vasto movimento che si rispecchia nell’Encyclopédie di Diderot et d’Alembert: per cogliere altri aspetti oltre quelli ripetuti da tutti, per scoprirne le polemiche interne (ed esterne), per tentare un bilancio culturale più vero.
Le reazioni non furono soltanto banali o bigotte; non tutti allora credettero alle «magnifiche sorti e progressive», su cui ironizzerà anche Giacomo Leopardi. La qualifica di «reazionario» è figlia della Rivoluzione Francese - il vocabolo réactionnaire è modellato su révolutionnaire – e le opposizioni ai Lumi si fecero sentire subito, non attesero il lavoro della ghigliottina. Il Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes ricorda che non mancò quella della poesia (fece rumore il poema La Religion di Louis Racine, uscito nel 1742), che sviluppò anche un genere satirico. Per fare un esempio, basterà ricordare l’opera rimata anonimamente da Claude-Marie Giraud che sollevò polvere e consensi. Si trattava di una lettera scritta dal diavolo al Patriarca dei Lumi: Épître du diable à Monsieur de Voltaire, editata nel 1760 “agli Inferi, dalla stamperia di Belzebù”. Circolavano inoltre rime facili contro i nuovi filosofi: una di esse giunse tradotta in Italia. Fu utilizzata ancora nell’Ottocento nelle scuole tenute dai gesuiti: «Sono un illuminista/ del bene e del male/ conosco la pista». Eccetera.

La poesia non restò isolata. Nel Dictionnaire diretto da Masseau un articolo è dedicato al romanzo «antifilosofico», che a volte nasce in ambiti graditi agli illuministi: tra i casi, oltre la fortuna settecentesca del cristianeggiante Le avventure di Telemaco di Fénelon (uscito nel 1699), c’è Julie ou la Nouvelle Héloïse di Rousseau del 1761, «una bomba per il mondo culturale» dei Lumi. D’altra parte, Voltaire non risparmiò insulti allo stesso Rousseau: se ne leggono di grevi ai margini delle pagine de Il contratto sociale posseduto dal Patriarca, oggi conservato nella Biblioteca nazionale della Federazione Russa di San Pietroburgo (sino al ’92 portava il nome di Saltykov-Ščedrin).
Non manca il teatro. Spicca la figura di Charles Palissot de Montenoy che nella commedia Les philosophes (1760) sceglie la satira «più amara, sanguinosa e crudele che mai sia stata autorizzata» (una voce del Dictionnaire è dedicata al caso). Tuttavia, Palissot de Montenoy, che nel 1757 aveva scritto anche il libro Petites lettres sur les grands philosophes contro Rousseau e illuministi vari, stimava Voltaire; anzi nel 1778 ne pubblicò un Elogio e ne curerà anche le opere. Diderot non lo sopportava e lo satireggiò ne Il nipote di Rameau.

Buona parte della reazione all’Illuminismo giunse dagli ambienti ecclesiastici. Per citare due personaggi, le cui opere tradotte circoleranno anche nel secolo successivo, ricordiamo l’abate François André Adrien Pluquet e il teologo e sacerdote Nicolas-Sylvestre Bergier. Il primo sarà protagonista di dibattiti per il monumentale Traité philosophique et politique sur le luxe (1786), nel quale analizza – prendendo a prestito idee dei filosofi in voga - gli effetti negativi del lusso. Pluquet utilizza le loro argomentazioni per rintuzzare il dilagante materialismo, cercando di indicare la soluzione nella morale evangelica che ammonisce contro una concezione terrena della felicità: la quale, d’altra parte, ha bisogno del lusso per manifestarsi. Al nome di Pluquet è legato anche un Dizionario delle eresie, che Huysmans pone nella biblioteca del suo eroe Durtal, in Là-bas (1891). Conosce in gioventù il vivace Fontenelle, che muore qualche giorno prima di compiere cent’anni nel 1757, riuscendo tuttavia a sussurrare a un’avvenente signora, incontrata verso lo scoccare del secolo: «Ah, madame, se avessi ottant’anni…». Pluquet frequenta Helvétius, Montesquieu; i padri dell’Encyclopédie gli chiedono di collaborare con articoli, Voltaire ne sfrutta il sapere (è il caso della voce «Destino» del Dizionario filosofico). Egli resta però un «apologeta virulento». Alla voce «Abelardo», nell’opera sulle eresie, per esempio, colpisce i philosophes suoi contemporanei. Citiamo dal primo volume della traduzione italiana, uscita a Venezia in seconda edizione nel 1771: «…la Filosofia non è contraria alla Religione, se non in bocca di quei Sofisti, che sono posseduti dalla mania di rendersi celebri, e che sono incapaci di profondare in cos’alcuna, che vogliono parlar di tutto, e dire in tutto cose nuove…».

Di Bergier, che morì nel 1790, si può dire che fu apologeta del cristianesimo e polemista contro Voltaire, Rousseau e il Sistema della natura di d’Holbach, opera pubblicata anonima e considerata la «Bibbia del materialismo». Confutatore del deismo, reca la sua firma un fortunato Dizionario di teologia. Il lavoro diretto da Didier Masseau dedica una voce oltre che al personaggio a quest’ultima sua impresa.
Impossibile illustrare nei dettagli il Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes: vi troverete i nemici ma anche incertezze e mende dei protagonisti di quella rivoluzione culturale. C’è Chateaubriand o la corrente dell’Intégrisme catholique, si nota l’articolo Voltaire contre Voltaire (numerose furono le contraddizioni del Patriarca); ecco Robespierre con il discorso del 18 floreale dell’anno II (7 maggio 1794), ricco di allusioni contro i soliti Voltaire e Diderot, amici dei “despoti”, ovvero di Federico II di Prussia e della zarina Caterina II. Ovviamente ritroverete Louis de Bonald e Joseph de Maistre. Quest’ultimo, considerato da Baudelaire un maestro, nei suoi Mélanges osserva che la ragione «non genera che dispute, mentre l’uomo per comportarsi nel mondo non ha bisogno di problemi, bensì di ferme credenze».
Ritorniamo a Grimod de la Reynière, la cui reazione ai Lumi - se così è lecito definirla – si basava sul gusto. Un giorno del 1815 decise di ritirarsi nel castello di campagna, dove allestì congegni meccanici per banchetti e per ideare burle. Voleva andarsene da questo mondo ridendo, con un tocco di lieve crudeltà, sempre viva in lui. Forse anche per tale motivo teneva un maialino domestico: lo faceva sedere nel posto d’onore della tavola, rispettando le alte regole raccomandate dal galateo per l’ospite di riguardo.

Armando Torno - Pubblicato sul Sole di Domenica 05 Novembre 2017 -

antilumi libro

Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes (France 1715-1815) , diretto da Didier Masseau, Editore Honoré Champion, Paris, 2 voll., pagg. 1.610, € 250

domenica 29 aprile 2018

Chiacchiere

blanchot

«Chi scava il verso incontra l'assenza degli dèi»: così Maurice Blanchot dà voce a chi ha avuto il privilegio e insieme la sventura di essere colpito dall'anatema della letteratura. Blanchot scende negli abissi della disperazione di Mallarmé, indaga le contraddizioni di un Kafka annientato dalla solitudine, scandaglia l'infinito mormorio della scrittura automatica surrealista, si smarrisce insieme a Rilke e al suo Orfeo, simbolo dell'orgogliosa trascendenza poetica. Saggio di lapidaria verticalità filosofica, "Lo spazio letterario" si interroga sul significato dell'opera, sull'identità dello scrittore, sull'ispirazione poetica. Enigmi al cospetto dei quali, lo si avverte fin dalle prime pagine, Blanchot lotta come fossero i suoi demoni, con lucida ossessione, e che finisce per consegnare purificati alla loro nuda essenza. Il punto di partenza coincide con quello di arrivo, ovvero lo scacco dello scrittore: l'origine dell'opera è irraggiungibile per chi scrive e il desiderio di avvicinarne il centro diventa vocazione, imperativo, tormento, perché trascina in una regione estranea al mondo e a se stessi. Una regione in cui non si può dire «io», in cui bisogna abbandonare tutto e morire di morte anonima per dare alla luce un'opera che nel suo essere è già altro da sé. Apparso nel 1955 e ora presentato dal Saggiatore in una nuova traduzione e con uno scritto di Stefano Agosti, Lo spazio letterario ha fatto del suo autore la punta di diamante della critica letteraria del Novecento e una figura di riferimento per intellettuali come Barthes, Foucault, Lacan e Derrida. Il suo fascino non manca ancora oggi di spalancare la riflessione sulla scrittura, sul difficile ruolo di chi si trova a duellare con l'impossibilità della parola, a spingersi in quell'esperienza che è incessante ricerca e mai approdo. Cancellato l'autore, destituito il lettore, quel che resta è il silenzio dell'opera.

(dal risvolto di copertina di: Maurice Blanchot, Lo spazio letterario. Il Saggiatore)

blanchot cover

Orfeo nel labirinto di Blanchot
- di Mario Andrea Rigoni -

Desta sorpresa che un’intera e solidale costellazione di pensatori, scrittori e critici francesi — Blanchot, Foucault, Derrida, Levinas, Bataille, Lacan e altri — dopo avere dominato la cultura speculativa e letteraria a incominciare dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, si sia oggi quasi completamente eclissata. Eppure quel massiccio successo, correlato alla fortuna delle cosiddette «scienze umane» (linguistica, antropologia, psicanalisi), non solo durò alcuni decenni, non solo investì vari Paesi ma, declinato in Europa, conobbe un tardivo revival nelle università americane.
Le cause del suo esaurimento dipendono in buona parte dall’attuale rifiuto non solo delle ideologie ma anche delle teorie, più che mai quando esse precipitano nell’orfismo fumoso o nel manierismo accademico, come è progressivamente accaduto alla critica francese degli anni Sessanta e Settanta: eppure essa sollevava temi e prospettive per nulla desueti o banali, alcuni addirittura essenziali, che non ne giustificano l’oblio. Tale deve essere l’opinione di Stefano Agosti, il linguista e critico letterario che più precocemente e acutamente si occupò in Italia di Foucault e di Derrida e che adesso ha promosso e accompagnato con una rigorosa postfazione la nuova versione di un libro fondamentale di Maurice Blanchot, risalente al 1955 e apparso in Italia per Einaudi vent’anni dopo (Lo spazio letterario, buona traduzione di Fulvia Ardenghi, edito da il Saggiatore).
  Suggestioni molteplici e complesse sono all’origine della visione letteraria di Blanchot (1907-2003) e della critica che da lui è ispirata. La prima, probabilmente, è una lettura in negativo del concetto hegeliano-marxiano del lavoro: se, nella storia, il lavoro trasforma gli oggetti materiali ma resta pur sempre nell’ambito del definito e del limitato, nella finzione letteraria esso apre invece lo spazio indefinito e illimitato, tutto esteriore e neutro, dell’immaginario, dal momento che la negazione operante nella parola investe il mondo nella sua totalità.
Non solo, come per Saussure, il segno linguistico, divenuto arbitrario, rompe con la cosa significata ma, come già per Mallarmé, sopprime la cosa stessa e, con la cosa, il soggetto che parla. La questione che per conseguenza si pone non è più quella dello scrittore e dell’opera, ma quella del linguaggio in quanto scrittura e lettura autonoma, sorta di rovescio o di controcanto dell’esegesi teologica e simbolica tradizionale, fondata sulla duplice autorità del testo della natura e del Testo sacro.
La letteratura moderna, nata col romanticismo, vive di questo annientamento, che presuppone innanzitutto la scomparsa di un Logos originario e creatore, capace di assegnare un inizio, un senso e una fine al discorso umano: la parola, emancipata dal suo tradizionale compito rappresentativo e comunicativo, espressivo e retorico, diventa allora anonima potenza de-creatrice o contro-creatrice, intrattenimento e mormorio incessante, la «disprezzabile chiacchiera» che, secondo il Monologo di Novalis, meditato sia da Blanchot sia da Heidegger, costituisce «il lato infinitamente serio della lingua».
In questa prospettiva Blanchot attira e interpreta vari scrittori e poeti: in particolare, oltre a Mallarmé, suo riferimento originario ed essenziale, Kafka, Hölderlin e Rilke. Tuttavia, il caso più clamoroso e più nuovo di rilettura promosso, insieme con Blanchot, dalla critica francese di quegli anni, riguarda forse l’opera mostruosa di Sade, nella quale il trompe-l’oeil della pornografia, della violenza e dell’assassinio più iperbolici sarebbe solo un’allegoria del movimento della negazione, più precisamente del linguaggio che distrugge tutte le determinazioni al di fuori di sé: Dio, la natura, gli esseri.
È lampante che l’ossessione centrale di Blanchot riguarda il rapporto del linguaggio con la morte (La letteratura e il diritto alla morte è il titolo di uno dei suoi saggi più chiarificatori). Nello Spazio letterario, libro labirintico e arrovellato, tale rapporto si stringe attorno alla figura e allo sguardo di Orfeo, al quale l’autore dedica sei «pagine stupende», come scrisse nel 1961 Bobi Bazlen in una delle sue straordinarie Lettere editoriali (Adelphi). Il mitico cantore, dice Blanchot, «non vuole Euridice nella sua verità diurna e nel suo incanto quotidiano, ma la vuole nella sua oscurità notturna, nel suo allontanamento, col suo corpo rinchiuso e il volto sigillato, vuole vederla non quando lei è visibile ma quando è invisibile (…). È solo questo che egli è venuto a cercare negli Inferi».

- Mario Andrea Rigoni - Pubblicato sul Corriere del 16/4/2018 -

sabato 28 aprile 2018

Rotaie

prunetti

«E quando mi troverò nel fango, triste come un altoforno spento, con le dita attaccate agli inguini strizzati o senza fiato per una pallonata della vita nello stomaco, coi miei sogni sconvolti o crollati, nel vento e nella pioggia, saprò che mai camminerò da solo.» Prendete 1/3 de L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, 1/3 di Riff-Raff di Ken Loach, 1/3 di vernacolo toscano. Mescolateli insieme, shakerate con grazia rude i giunti della sintassi. Otterrete un cocktail esplosivo che altera la vostra percezione. Un’epica stracciona scritta dai piani bassi della vita.
Un vecchio cuoco tossico uscito da un libro d’avventure, uno stasatore di cessi innamorato della lirica e un anziano attore shakespeariano lobotomizzato, con un corredo di giovani assistenti dediti a piccoli crimini e decisi a sopravvivere in ogni modo a mille guai. Questa è la banda che condivide vita, avventure e lavoro con un italiano emigrato in Inghilterra. Altro che ‘cervelli in fuga’: qui si parla dei sotterranei, dalle pulizie dei bagni a Bristol a una mensa scolastica nel Dorset, fino a una pizzeria di turchi che si fingono napoletani. Sullo sfondo la Brexit e una classe operaia impoverita che cerca il proprio orgoglio. Tra risse, birre e calcio, personaggi di vecchi romanzi si rincarnano nelle cucine d’Oltremanica mentre il fantasma della Baronessa Thatcher perseguita il protagonista. Fino al ritorno in un’Italia dove le acciaierie di Piombino, quelle delle rotaie di 108 metri, rimangono come torri arrugginite a sfidare il cielo terso della Toscana.

(dal risvolto di copertina di: Alberto Prunetti, 108 metri. The new working class hero. Laterza)

Altro che fuga di cervelli a Londra!
- Laggiù servono braccia, come quaggiù -
di Alessandro Robecchi

È un filo lungo e con bei nodi grossi, la letteratura operaia. Si curvava nell'incredulità dell'industria del "Donnarumma all'assalto" di Ottieri per arrivare ai ribelli di Balestrini (Vogliamo tutto!), e poi alla fabbrica, e poi al lavoro nuovo. E ora non resta che capire cosa può essere la letteratura operaia senza la fabbrica, o dopo la fabbrica, o sotto la fabbrica, in quegli inferi di mini-jobs e cottimo spinto, di supervisor e lavoro somministrato che sono oggi la Cajenna del quarto stato.
    Alberto Prunetti, già convincente con il suo "Amianto" (Edizioni Alegre, 2012), va a dare un'occhiata laggiù, e lo fa da pellegrino dolente, capace di portare su di sé narratore le piaghe del suo viaggio: dalle padelle unte ai cessi da sturare, nulla vi sarà risparmiato, tantomeno qualche risata. Ma siccome qui si narra dell'education sentimentale del giovane precario - prima laureato povero e poi lavoratore povero - si comincia con la fuga. Via, via dalla città d'acciaio (Piombino), via dalla fabbrica e dalla vita che ha fatto il Renato, padre metallurgico, una vita così disegnata e dritta che fare il liceo sembrava una scelta eversiva, figurarsi la laurea. Eppure.
    Così il narratore parte, destinazione Inghilterra, le cucine del regno, prima, il lumpenproletariat dei centri commerciali poi, circondato da una genìa di dannati come lui, un po' tossici, un po' ribelli, un po' perduti, dato che con tutte le chiacchiere sulla fuga dei cervelli si scopre poi che lassù servono soprattutto braccia - come quaggiù - e quindi si richiedono buoni schiavi. Dopo il resoconto di un'adolescenza operaia, la storia si fa picaresca, contiene Dickens nei dormitori dei lavoranti e contiene Loach nelle pieghe delle ribellioni quotidiane, si traveste da Riff-Raff, cantata alla Billy Bragg, disegna insomma, come dice lo stesso Prunetti in sede di bilancio, un'«epica stracciona» densa di prospettive mancate, sguatteri yemeniti , padroni turchi di ristorante italiano , gironi infernali di lavoretti malpagati sette giorni su sette, un rosario di ingiustizie che il narratore vira al grottesco.
    Un mostro feticcio gli compare in sogno (e non solo) ed è la vecchia Maggie, la lady di ferro, la madre di tutto il thatcherismo, la peste nera. Unica via e prezioso viatico del Prunetti, i dieci comandamenti che il padre Renato gli affida prima del viaggio in toscano ruvido: «Sciopera. Non leccà il curo al capo. Non fà il crumiro. Se uno studiato ti chiama signore metti il culo al muro...», insomma, le vecchie regole «di classe» buone per gli operai di ieri ed i post-operai spadellatori, pizzaioli, sguatteri, addetti alle latrine di oggi. Saranno quelle regole, o forse un DNA da sfruttato, che trasformano la fabbrica da cui si fugge, come da un destino segnato, in un orgoglio antico. Un vanto: là si fanno rotaie di 108 metri (da cui il titolo), perfette, dritte, più lunghe del prato dell'Old Trafford, lo stadio di Manchester, meraviglia del creato. E su quelle rotaie viaggiano in tutta Europa, i giovani che scappano da qui.
    Il ramingo Prunetti dice che lui a scuola faceva le metafore. E qui ne infila almeno una strutturale e densa, quando al ritorno - come se avesse passato un anno su un brigantino pirata - trova l'altoforno spento, e si spegne anche il padre Renato, come dire che si resta orfani di tutto, e dunque si ricomincia, sempre, come fanno le api.
    Tutto è amaro, anche quando si ride, il narratore ricorre a rifugi emotivi sicuri (la pinta di birra coi colleghi, il fango dei campetti di calcio), complicità impreviste, coscienza di classe vissuta come spirito di corpo e comunanza di destini, e infatti il Prunetti e i suoi tanti compagni d'avventura sembrano spesso una ciurma di galeotti folli segnati dalle tempeste. Una piccola toccante, epica proletaria, in attesa di riscatto.

- Alessandro Robecchi - Pubblicato il 14/4/2018 su Tuttolibri -

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sorel

Sorel, Introduzione alle Riflessioni sulla violenza

   Carissimo Halévy, avrei certamente lasciato questi studi sepolti nella collezione di una rivista, se alcuni amici, il cui giudizio tengo in gran conto, non avessero pensato che bene avrei fatto a porre sotto gli occhi di un vasto pubblico riflessioni di natura tale da far meglio intendere uno dei più caratteristici fenomeni sociali che la storia ricordi. Ma mi è sembrato di dovere a questo pubblico qualche spiegazione, dato che non mi posso aspettare di trovare molti giudici della stessa indulgenza vostra. Pubblicando nel «Mouvement socialiste» gli articoli che si raccolgono adesso in volume non avevo affatto l'intenzione di comporre un libro. Avevo scritto le mie riflessioni via via che esse si erano presentate al mio spirito; sapevo che gli abbonati di quella rivista, familiari ormai con le teorie che da parecchi anni i miei amici vi vanno sviluppando, non avrebbero provato alcun imbarazzo nel seguirmi. Credo bene invece che i lettori di questo libro rimarrebbero assai scontenti se non indirizzassi loro una specie di difesa per metterli in grado di considerare le cose dal punto di vista che mi è abituale. Durante le nostre conversazioni voi avete fatto delle osservazioni che si inserivano talmente bene nel sistema dei pensieri da condurmi ad approfondire alcune interessanti questioni. Sono convinto che le considerazioni che qui vi presento, e che voi avete provocato, saranno assai utili a coloro che vorranno leggere questo volume con profitto. Vi sono probabilmente pochi studi in cui i difetti del mio modo di scrivere appaiono in maniera più evidente; molte volte mi si è rimproverato di non rispettare le regole d'arte, alle quali si sottomettono tutti i nostri contemporanei, e anche di mettere a disagio i miei lettori con il disordine delle mie esposizioni. Non che abbia cercato di rendere il testo più chiaro correggendo molti particolari, ma non mi è riuscito a far scomparire il disordine. Non voglio difendermi invocando l'esempio di grandi scrittori che sono stati criticati per i loro difetti di composizione; Arthur Chuquet, parlando di J. J. Rousseau, dice: «I suoi scritti mancano d'insieme, di ordine, di quel legame tra le parti che costituisce il tutto» . I difetti degli uomini illustri non sarebbero in grado di giustificare le colpe degli uomini oscuri, e credo che sia meglio spiegare francamente l'origine del difetto incorreggibile dei miei scritti. Le regole dell'arte si sono imposte in modo veramente imperativo soltanto in tempi assai recenti; gli autori contemporanei sembra che le abbiano accettate senza troppa pena, perché vogliono piacere a un pubblico affrettato, spesso assai distratto e talvolta desideroso soprattutto di evitare qualsiasi ricerca personale. Queste regole sono state innanzitutto applicate dai fabbricanti di libri scolastici. Da quando si è voluto che gli alunni assorbissero un cumulo enorme di conoscenze, si è dovuto fornire loro dei manuali appropriati a questa rapidissima istruzione; era necessario che tutto venisse esposto in forma tanto chiara, tanto bene articolata e tale da evitare il dubbio, sicché il principiante arriva a credere che la scienza è cosa ben più semplice di quanto non pensassero i nostri padri. In poco tempo lo spirito si trova abbondantemente rifornito, ma niente affatto dotato di un corredo adatto a facilitare il lavoro personale. Questi procedimenti sono stati imitati dai volgarizzatori e dai pubblicisti politici . Vedendoli tanto largamente applicati, le persone di poca riflessione hanno finito per credere che queste regole dell'arte fossero fondate sulla natura stessa delle cose. Io non sono né professore, né volgarizzatore, né aspirante capo-partito; sono un autodidatta che presenta a qualche lettore i quaderni che hanno servito alla mia personale istruzione. Ed è perciò che le regole dell'arte non mi hanno mai interessato molto. Vent'anni ho lavorato per liberarmi di quanto avevo ritenuto della mia educazione; ho condotto la mia curiosità attraverso i libri, non tanto per imparare quanto per ripulire la memoria di quelle idee che le erano state imposte. Da una quindicina d'anni lavoro veramente per imparare; ma non ho trovato nessuno che mi insegnasse quello che volevo sapere; ho dovuto essere il maestro di me stesso e, in qualche modo, fare una classe per conto mio. Tengo dei quaderni in cui formulo i miei pensieri così come vengono; ritorno sulla stessa questione tre o quattro volte con redazioni diverse, allungate e qualche volta trasformate da capo a fondo; mi fermo quando ho finito la riserva delle osservazioni mosse dalle letture recenti. Questo lavoro mi dà una gran pena; è perciò che mi piace specialmente prendere come soggetto di discussione un libro scritto da un buon autore; mi oriento allora più facilmente che non quando mi abbandono alle mie sole forze. Voi vi ricorderete di quanto Bergson ha scritto su l'impersonale, il socializzato, il tout fait, che contiene un insegnamento rivolto a degli allievi bisognosi di acquistare delle conoscenze per la vita pratica. L'allievo ha tanta più fiducia nelle formule che gli vengono trasmesse e le ritiene quindi tanto più facilmente, in quanto le suppone accettate dalla grande maggioranza; si elimina quindi dal suo spirito ogni preoccupazione metafisica e si abitua a rigettare ogni desiderio di una concezione personale delle cose; spesso si arriva a considerare come una superiorità l'assenza di qualsiasi spirito inventivo. Il mio modo di lavorare è assolutamente all'opposto; poiché sottopongo ai lettori lo sforzo di un pensiero che cerca di sfuggire alla presa di quanto precedentemente è stato costruito per tutti, e che vuole trovare qualcosa di personale. Non mi sembra di vero interesse annotare sui miei quaderni altro che quanto non ho riscontrato altrove; lascio volentieri fuori i raccordi, perché quasi sempre rientrano nella categoria dei luoghi comuni. La comunicazione del pensiero è sempre molto difficile per chi abbia delle gravi preoccupazioni metafisiche: si crede che il discorso possa guastare le parti più profonde del pensiero, quelle più vicine al centro motore, quelle che sembrando tanto più naturali non si cerca mai di esprimere. Il lettore deve penare molto per cogliere il pensiero del suo autore, dato che non può pervenire a esso se non ritrovando la via da questi percorsa. La comunicazione verbale è molto più facile di quella scritta, perché la parola agisce sui sentimenti in maniera misteriosa e stabilisce facilmente tra le persone un'unione simpatetica; è così che un oratore può convincere per mezzo di argomenti che, a colui che più tardi legga il suo discorso, sembrano di difficile comprensione. Voi sapete quanto sia utile aver sentito Bergson a ben conoscere le tendenze della sua dottrina e a ben intendere i suoi libri; quando si ha l'abitudine di seguire i suoi corsi, ci si familiarizza con l'ordine dei suoi pensieri e più facilmente ci si raccapezza in mezzo alle novità della sua filosofia (b). I difetti del mio procedimento mi condannano a non aver nessun accesso presso il grande pubblico; ma ritengo che bisogna contentarsi del posto che a ciascuno di noi la natura e le circostanze hanno attribuito, senza voler forzare le nostre doti. C'è nel mondo una necessaria divisione di compiti: è bene che alcuni si dilettino a lavorare per sottomettere le loro riflessioni a chi dimostri spirito meditativo, mentre altri amano rivolgersi alla grande massa delle persone frettolose. Insomma non trovo che la mia parte sia la peggiore: poiché non corro il rischio di diventare il discepolo di me stesso, come è successo ai più grandi filosofi allorquando si sono condannati a dare una forma perfettamente regolare alle intuizioni che avevano apportato al mondo. Certamente non avrete dimenticato con quale sorridente disdegno Bergson ha parlato di questa degradazione del genio. Così poco io sono capace di diventare il discepolo di me stesso che mi è impossibile di riprendere un lavoro passato per esporlo in una forma migliore e rifinirlo del tutto; trovo piuttosto facile apportarvi delle note e delle correzioni; ma inutilmente ho cercato, parecchie volte, di pensare di nuovo al passato. A tanta maggiore ragione, sono condannato a non mai essere uomo di scuola ; ma è questa davvero una gran disgrazia? Quasi sempre i discepoli hanno esercitato un'influenza nefasta sul pensiero di colui che essi chiamavano il loro maestro, e il quale spesso si credeva obbligato di seguirli. Pare ineluttabile che l'essere stato trasformato da alcuni giovani entusiasti nel capo di una setta fu per Marx un vero disastro; se non fosse stato lo schiavo dei marxisti, avrebbe prodotto molte più cose utili. Spesso ci si è preso gioco del metodo di Hegel, immaginando che l'umanità, sino dalle sue origini, si fosse affaticata a portare in grembo la filosofia hegeliana, e che finalmente lo spirito avesse compiuto la sua marcia. Illusioni simili si ritrovano più o meno presso tutti gli uomini di scuola: i discepoli invocano dai loro maestri che essi pongano fine a l'era dei dubbi, apportando soluzioni definitive. Io non ho nessuna attitudine per un tale ufficio di definitore: ogni volta che ho affrontato una questione, ho trovato che le mie ricerche terminavano ponendo problemi nuovi e, fatto ancor più conturbante, che io non avevo spinto oltre le mie investigazioni. Ma forse, dopo tutto, la filosofia non è che un riconoscimento degli abissi entro i quali si svolge il sentiero che la gente volgare segue con la serenità dei sonnambuli. La mia ambizione è di poter qualche volta risvegliare delle vocazioni. C'è probabilmente nell'anima di ogni uomo un fuoco metafisico che riposa nascosto sotto la cenere e che tanto più minaccia di estinguersi quanto più lo spirito ha ciecamente ricevuto una dose maggiore di dottrine bell'e fatte; l'evocatore è colui che rimuove le ceneri e fa sprigionare la fiamma. Non credo di vantarmi senza ragione dicendo che qualche volta sono riuscito a provocare presso i miei lettori lo spirito d'invenzione; ora, è soprattutto lo spirito d'invenzione che bisognerebbe suscitare nel mondo. Ottenere un tale risultato vale assai più che accogliere l'approvazione banale di coloro che sono ripetitori di formule o che riducono il loro pensiero al servizio delle dispute di scuola.

I. Le mie Riflessioni sulla violenza hanno causato il risentimento di molti per la concezione pessimistica su cui questo studio complessivamente riposa; ma so anche che tale impressione non è stata affatto condivisa da voi; nella vostra “Histoire de quatre ans” (d) voi avete brillantemente dimostrato di disprezzare le deludenti speranze di cui si compiacciono le anime deboli. Noi possiamo dunque intrattenerci liberamente sul pessimismo, e sono felice di trovare in voi un corrispondente non ribelle a questa dottrina, senza la quale non si è fatto mai niente di molto elevato nel mondo. Molto tempo fa, ebbi già l'impressione che se la filosofia greca non ha raggiunto grandi risultati morali è perché generalmente essa è stata assai ottimista. Socrate lo era talvolta persino a un punto insopportabile. L'avversione dei nostri contemporanei per ogni idea pessimista, deriva senza dubbio in gran parte dalla nostra educazione. I Gesuiti, che hanno creato quasi tutto ciò che ancora oggi si insegna nelle università, erano ottimisti, perché dovevano combattere il pessimismo che dominava le dottrine protestanti, e perché essi volgarizzavano le idee del Rinascimento; questo interpretava l'Antichità per mezzo dei filosofi, e si è trovato in tal modo indotto a intendere tanto erroneamente i capolavori dell'arte tragica al punto che i nostri contemporanei hanno faticato assai per ritrovarvi il significato pessimista . Al principio del secolo XIX si ebbe un intero coro di gemiti, che ha notevolmente contribuito a rendere il pessimismo odioso. Poeti che veramente non sempre erano del tutto da compiangere, si pretesero vittime della cattiveria umana, della fatalità o persino della stupidità di un mondo che non riusciva a fornir loro delle distrazioni; essi si atteggiarono volentieri a Prometei chiamati a scacciare dal loro trono degli dei gelosi; altrettanto orgogliosi del fiero Nemrod di Victor Hugo (f), le cui frecce lanciate contro il cielo ricadevano insanguinate, essi immaginavano che i loro versi ferissero a morte le potenze costituite che osavano mancare di umiliarsi davanti a essi; i profeti ebraici per vendicare il loro Jahvè (g) non si erano mai sognati le distruzioni che questi letterati fantasticavano per soddisfare il loro amor proprio. Passata questa moda delle imprecazioni, gli uomini di buon senso si domandarono se tutto questo sfoggio di preteso pessimismo non fosse stato il risultato di un certo squilibrio mentale. I successi immensi ottenuti dalla civiltà materiale hanno fatto credere che la felicità scaturirà da sola, in tutto il mondo, in un avvenire assai vicino. «Il secolo attuale», scriveva Hartmann circa quarant'anni fa, «segna l'ingresso nel terzo periodo dell'illusione. Nell'entusiasmo e nell'incantesimo delle sue speranze, si precipita a realizzare le promesse di una nuova età dell'oro. La Provvidenza non permette che le previsioni di un pensatore solitario turbino il cammino della storia con un'azione prematura su di un numero troppo grande di spiriti». Egli giudicava quindi che i suoi lettori avrebbero avuto qualche difficoltà nell'accettare la sua critica all'illusione della felicità futura. I maestri del mondo contemporaneo sono spinti sulla via dell'ottimismo dalle forze economiche . Noi siamo quindi così mal preparati a comprendere il pessimismo che le più volte adoperiamo il termine del tutto a sproposito: chiamiamo erroneamente pessimisti degli ottimisti disingannati. Appena incontriamo un uomo, le cui imprese non hanno incontrato fortuna, deluso nelle sue più giustificate aspirazioni, umiliato nei suoi amori, il quale esprime i suoi dolori nella forma di una violenta rivolta contro la mala fede dei suoi simili, l'idiozia sociale o la cecità del destino, noi siamo pronti a considerarlo un pessimista — mentre quasi sempre bisogna vedere in lui un ottimista deluso, che non ha avuto il coraggio di mutare l'orientamento del suo pensiero, e che non arriva a spiegarsi la ragione delle tante disgrazie che gli son capitate in contrasto a l'ordine generale che regola la genesi della felicità. In politica l'ottimista è un uomo incostante e anche pericoloso, perché non si rende conto delle grandi difficoltà che i suoi progetti presentano; questi gli sembrano possedere una forza propria tale da condurli in porto tanto più facilmente in quanto, nel suo spirito, essi sono destinati a rendere felici un maggior numero di persone. Molto spesso egli ritiene che alcune piccole riforme applicate nella costituzione politica e soprattutto tra il personale degli uffici governativi, basterebbero a orientare il movimento sociale in maniera tale da attenuare quegli aspetti del mondo contemporaneo che maggiormente ripugnano alle anime sensibili. Appena sono al potere i suoi amici, egli dichiara che bisogna lasciare che le cose seguano il loro corso, non andar troppo di fretta e sapersi contentare di quanto la buona volontà suggerisce loro; e non sempre, come si è creduto il più delle volte, simili parole di soddisfazione sono dettate dal solo interesse: l'interesse è grandemente aiutato dall'amor proprio e dalle illusioni di una banale filosofia. L'ottimista passa assai facilmente dalla collera rivoluzionaria al più ridicolo pacifismo sociale. Se dotato di un temperamento esaltato e se, per disgrazia, in possesso di un grande potere, tale da metterlo in grado di realizzare l'ideale che si è costruito, l'ottimista può condurre il suo paese alle peggiori catastrofi. In effetti deve in breve riconoscere che le trasformazioni sociali non si realizzano affatto con la rapidità che egli aveva dato per certa; invece di spiegare il corso delle cose con le necessità storiche, egli si disgusta dei suoi contemporanei; è tentato di togliere di circolazione coloro la cui cattiva volontà gli sembra pericolosa per la felicità di tutti. Durante il Terrore, i più sanguinari furono coloro che avevano il desiderio più vivo di condurre i loro simili a godere di quell'età dell'oro che essi avevano sognato, e che maggiore simpatia provavano per le miserie umane: ottimisti, idealisti, sensibili, essi si mostravano tanto più inesorabili in quanto avevano una maggiore sete di felicità universale. Il pessimismo è ben altra cosa da ciò che generalmente viene presentato nelle caricature: assai più che una teoria del mondo è una metafisica dei costumi; è una nozione di una progressione verso la redenzione saldamente legata: da una parte alla conoscenza sperimentale che si è acquisita degli ostacoli che si oppongono al soddisfacimento delle nostre immaginazioni (o, se si vuole, legata al sentimento di un determinismo sociale); dall'altra alla convinzione profonda della nostra debolezza naturale. Non bisogna mai separare questi tre aspetti del pessimismo, sebbene sia nell'uso di non tenere affatto conto del loro stretto rapporto.

1. Il termine pessimismo proviene dal fatto che gli storici della letteratura sono rimasti assai colpiti dai lamenti che i grandi poeti dell'Antichità hanno levato sulle miserie che costantemente minacciano l'uomo. Sono poche le persone a cui, almeno una volta, non si sia presentata una buona occasione; ma noi siamo contornati da forze maligne sempre pronte a balzar fuori a tradimento per precipitarsi su di noi e abbatterci; di qui l'origine di sofferenze assai reali, che provocano la simpatia di quasi tutti gli uomini, anche di coloro assai benevolmente favoriti dalla fortuna; in tal modo la letteratura della tristezza ha avuto successo attraverso quasi tutto il corso della storia. Ma se si considerasse il pessimismo entro questo genere di produzione letteraria se ne avrebbe un'idea assai imperfetta; in generale, per apprezzare una dottrina, non basta studiarla in modo astratto, neppure presso dei personaggi isolati, bisogna cercare in che modo si è manifestata presso alcuni aggregati storici; è così che si è condotti ad aggiungere i due elementi sui quali si sono avute le maggiori discussioni. 2. Il pessimismo considera le condizioni sociali come formanti un sistema tenuto insieme da leggi ferree, di cui bisogna subire la necessità quale è data in blocco, e la cui scomparsa non sarebbe possibile se non in seguito a una catastrofe che lo inghiotta tutto intero. Una volta dunque che si ammetta questa teoria, sarà assurdo attribuire ad alcuni uomini nefasti la responsabilità dei mali di cui soffre la società; il pessimista non soffre affatto delle follie sanguinarie dell'ottimista, nella sua infatuazione per gli ostacoli non preveduti che incontrano i suoi piani; non è affatto nelle intenzioni del pessimista costruire la felicità delle generazioni future uccidendo gli egoisti del presente. 3. Ciò che vi è di più profondo nel pessimismo, è il modo di concepire la progressione verso la redenzione. L'uomo non andrebbe molto lontano nell'esame delle leggi della sua miseria, come della fatalità, le quali tanto turbano l'ingenuità del nostro orgoglio, se non avesse la speranza di venire a capo di queste tirannie per mezzo di un sforzo da tentarsi con tutto un gruppo di compagni. I cristiani non avrebbero ragionato tanto intorno al peccato originale, se non avessero sentito la necessità di giustificare la redenzione (che doveva risultare dalla morte di Gesù), col supporre che tale sacrificio si era reso necessario a causa di una colpa gravissima di cui si era macchiata l'umanità. Se gli occidentali, assai più che gli orientali, si occuparono del peccato originale, ciò non deriva soltanto, come pensava Taine, dall'influenza del diritto romano , ma anche dal fatto che i latini, avendo un senso della maestà imperiale più elevato dei greci, consideravano che il sacrificio del Figlio di Dio avesse operato un'assolutamente straordinaria e meravigliosa opera di redenzione; di qui la necessità di approfondire i misteri della miseria umana e del destino. Mi sembra che l'ottimismo dei filosofi greci dipenda in gran parte da ragioni economiche; esso dovette nascere presso popolazioni urbane, commercianti e ricche, che potevano considerare il mondo come un immenso magazzino pieno di cose eccellenti, sulle quali la loro brama aveva la facoltà di essere soddisfatta . Suppongo che il pessimismo greco provenga dalle tribù povere, guerriere e montanare, dotate di un enorme orgoglio aristocratico, ma la cui situazione era per contro assai mediocre; i loro poeti li incantavano col vantare la loro discendenza e dando loro a sperare in trionfali spedizioni condotte da eroi sovrumani; essi fornivano la spiegazione delle miserie attuali raccontando i disastri di cui erano rimasti vittime gli antichi capi, quasi divini, per fatalità o a causa della gelosia degli dei; per il momento il coraggio dei guerrieri poteva rimanere impotente, ma ciò non sarebbe stato per sempre; bisognava rimanere fedeli ai vecchi costumi per tenersi pronti a grandi spedizioni vittoriose, che potevano essere vicinissime. Assai spesso si è considerato l'ascetismo orientale come la più notevole manifestazione del pessimismo; certamente ha ragione Hartmann quando ritiene che esso abbia soltanto il valore di un'anticipazione, la cui utilità sarebbe stata di ricordare agli uomini quanto d'illusorio si cela nei beni volgari; si ha torto quindi quando si dice che l'ascetismo insegna agli uomini «il termine a cui devono approdare i loro sforzi» , cioè l'annullamento della volontà; poiché la redenzione è stata nel corso della storia ben altra cosa. Con il cristianesimo primitivo troviamo un pessimismo pienamente sviluppato e completamente armato: l'uomo è stato condannato sin dalla sua nascita alla schiavitù; Satana è il principe del mondo; il cristiano, già rigenerato per mezzo del battesimo, può rendersi capace di ottenere la resurrezione della carne per mezzo dell'Eucaristia ; egli attende il glorioso ritorno di Dio che spezzerà la fatalità satanica e chiamerà i suoi compagni di lotta nella Gerusalemme celeste. Tutta questa vita cristiana fu dominata dalla necessità di fare parte della santa armata, esposta costantemente alle imboscate tese dagli inviati di Satana; questa concezione provocò molte azioni eroiche, generò una coraggiosa propaganda e produsse un serio progresso morale. La redenzione non ebbe luogo; ma noi sappiamo da innumerevoli testimonianze di quel tempo ciò che può produrre di grande il progresso verso la redenzione. Il calvinismo del XVI secolo ci offre uno spettacolo che è forse anche più istruttivo; ma bisogna fare attenzione a non confonderlo, come fanno molti autori, con il protestantesimo contemporaneo; queste due dottrine sono poste agli antipodi l'una dell'altra; non posso capire come Hartmann dica che il protestantesimo «è la tappa di arresto nella traversata dell'autentico cristianesimo» e che esso ha fatto «alleanza con il rinascimento del paganesimo antico»; tali giudizi si applicano soltanto al protestantesimo recente, che ha abbandonato i suoi principii originari per adottare quelli del Rinascimento. Ma il pessimismo, che non entrò affatto nella corrente di idee del Rinascimento, era stato affermato con tanta forza di come lo fu dai riformati. I dogmi del peccato e della predestinazione furono spinti sino alle più estreme conseguenze; essi corrisposero ai due primi aspetti del pessimismo: alla miseria della specie umana e al determinismo sociale. Quanto alla redenzione, essa fu concepita sotto una forma ben diversa da quella che a essa aveva dato il cristianesimo primitivo: i protestanti si organizzarono militarmente ovunque ciò gli fu possibile; essi condussero delle spedizioni nei paesi cattolici, espellendo i preti, introducendo il culto riformato, promulgando leggi di proscrizione contro i papisti. Non si attribuì più alle apocalissi l'idea di una grande catastrofe finale di cui i compagni di Cristo sarebbero stati semplici spettatori, dopo essersi per lungo tempo difesi contro gli attacchi satanici; i protestanti, nutriti dalla lettura del Vecchio Testamento, volevano imitare le imprese degli antichi conquistatori della Terra Santa; prendevano dunque l'offensiva, e volevano fondare con la forza il regno di Dio. In ogni località conquistata, i calvinisti ponevano in opera un'autentica catastrofica rivoluzione, cambiando ogni cosa da capo a fondo. Il calvinismo finalmente è stato vinto dal Rinascimento; pieno di preoccupazioni teologiche prese in prestito alle tradizioni medievali, arrivò il giorno in cui ebbe paura di passare per troppo retrogrado; volle essere al livello della cultura moderna, e ha finito per diventare semplicemente un cristianesimo imbolsito. Oggi sono molto poche le persone che hanno sentore di ciò che i riformatori del XVI secolo intendevano per libero esame; i protestanti applicano alla Bibbia i procedimenti che i filologi applicano a qualsiasi testo profano; a l'esegesi di Calvino si è sostituita la critica degli umanisti. Il cronista che si contenti di registrare dei fatti è tentato di considerare la redenzione come un sogno o come un errore; ma un vero storico considera le cose da un altro punto di vista; quando voglia sapere quale è stata l'influenza dello spirito calvinista sulla morale, il diritto o la letteratura, è sempre portato a esaminare in quale modo il pensiero degli antichi protestanti subiva l'influenza del cammino verso la redenzione. L'esperienza di questa grande epoca mostra assai chiaramente che un uomo di cuore trova, nel sentimento di lotta che accompagna questa volontà di redenzione, una soddisfazione bastante a conservare il suo ardore. Io credo dunque che da questa storia si potrebbero ricavare degli esempi illustri in favore di quell'idea che voi esprimevate un giorno: che la leggenda dell'Ebreo errante è il simbolo delle più alte aspirazioni dell'umanità, condannata sempre a marciare senza conoscere un momento di riposo.

II. Le mie tesi inoltre sono state accolte con stupore da coloro che in qualche modo subiscono l'influenza di quelle idee in materia di diritto naturale che ci sono state trasmesse dalla nostra educazione; e sono pochi i letterati che si sono potuti liberare da queste idee. Se la filosofia del diritto naturale si accorda perfettamente con la forza, non può invece conciliarsi con i miei concetti sulla funzione storica della violenza. Le dottrine scolastiche sul diritto naturale si esauriscono in una semplice tautologia: il giusto è buono e l'ingiusto è cattivo, come se non si fosse ammesso sempre in modo implicito che il giusto è quanto si adatta a delle azioni che si producono nel mondo automaticamente: in tal modo gli economisti hanno a lungo sostenuto che i rapporti in regime di concorrenza nel sistema capitalista sono perfettamente giusti, in quanto la risultante del corso naturale delle cose; gli utopisti hanno sempre preteso che il mondo quale a essi si presentava non era abbastanza naturale; di conseguenza hanno voluto dare un quadro di una società automatica meglio regolata e perciò più giusta. Non posso resistere al piacere di riaccostarmi ad alcuni dei Pensées di Pascal, che imbarazzarono terribilmente i suoi contemporanei e che sono stati compresi appieno soltanto ai nostri giorni. Pascal faticò assai per liberarsi delle idee sul diritto naturale che aveva trovato presso i filosofi; le abbandonò perché non le ritenne sufficientemente penetrate di cristianesimo: «Ho passato gran parte della mia vita», disse, «credendo che vi fosse una giustizia; e in ciò non mi ingannavo; poiché vi è tanta giustizia quanta Dio ha voluto che a noi fosse rivelata. Ma non così io la intendevo, e in ciò io m'ingannavo; poiché credevo che la nostra giustizia fosse essenzialmente giusta e che vi fosse di che conoscerla e giudicarla» (frammento 375 dell'edizione Brunschvicg); — «Vi sono senza dubbio delle leggi naturali; ma questa bella ragione corrotta ha corrotto tutto» (frammento 294); — «Veri juris. A noi ciò non è più dato» (frammento 297). Inoltre l'osservazione doveva mostrare a Pascal l'assurdità della teoria del diritto naturale; se questa teoria fosse esatta, si troverebbe qualche legge universalmente ammessa; ma azioni che noi consideriamo come delitti, altrove sono state considerate virtuose: «Tre gradi di differenza dal polo capovolgono tutta la giurisprudenza, un parallelo decide di ciò che è vero; alcuni anni di possesso, mutano le leggi fondamentali; il diritto ha le sue stagioni, l'entrata di Saturno nel Leone ci indica l'origine di un tale delitto. Compiacente giustizia che un fiume segna a confine! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là... Bisogna, si dice, ricorrere alle leggi fondamentali e primitive dello Stato, abolite da un costume ingiusto. È un gioco sicuro per perdere tutto; niente sarà giusto con questa bilancia» (frammento 294; cfr. frammento 375). Nell'impossibilità in cui ci troviamo di poter ragionare sul giusto, dobbiamo riportarci alla tradizione e Pascal ritorna spesso su questa regola (frammento 294, 297, 299, 309, 312). Egli va anche più oltre, e mostra come il giusto praticamente dipende dalla forza: «La giustizia è soggetta a contestazioni, la forza è del tutto riconoscibile e senza contestazioni. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che era essa giusta. E così non potendosi ottenere che ciò che è giusto fosse forte, si è ottenuto che ciò che è forte fosse giusto» (frammento 298; cfr. frammenti 302, 303, 306, 307, 311). Questa critica del diritto naturale non ha affatto quella chiarezza perfetta che potremmo dargli oggi, perché noi sappiamo che è nell'economia che bisogna ricercare il tipo della forza pervenuta a un regime pienamente automatico e che si può quindi in modo naturale identificare col diritto, — mentre Pascal confonde in uno stesso genere tutte le manifestazioni della forza. I mutamenti che il diritto subisce nel corso del tempo avevano colpito vivamente Pascal e continuano a creare molti imbarazzi ai filosofi: un sistema sociale ben coordinato è distrutto da una rivoluzione e cede il posto a un altro sistema che in modo analogo viene trovato del tutto ragionevole; e ciò che prima era giusto è divenuto ingiusto. Non si è fatto economia di sofismi per dimostrare che la forza era stata messa al servizio della giustizia durante le rivoluzioni; più volte è stato dimostrato che tali argomenti sono assurdi; ma il pubblico non sa risolversi ad abbandonarli, tanto è abituato a credere al diritto naturale! Persino la guerra si è voluta porre sul piano del diritto naturale: la si è assimilata a un processo nel quale un popolo rivendicava un diritto misconosciuto da un empio vicino. I nostri padri ammettevano volentieri che nel corso delle battaglie Dio arbitrava la contesa in favore di colui che aveva ragione; il vinto doveva essere trattato alla stregua di un imputato colpevole: doveva pagare le spese della guerra e dare al vincitore garanzie tali da permettergli di godere in pace i suoi diritti restaurati.

Oggi non manca chi propone di sottomettere i conflitti internazionali a dei tribunali arbitrali; si tratterebbe di una laicizzazione della mitologia antica . I partigiani del diritto naturale non sono avversari irriducibili delle lotte civili, né soprattutto delle manifestazioni tumultuose; lo si è visto a sufficienza durante l'affare Dreyfus (m). Quando la forza pubblica è nelle mani dei loro avversari, ben volentieri essi ammettono che essa viene impiegata per violare la giustizia, e allora dimostrano che si può uscire dalla legalità per rientrare nel diritto (secondo una formula dei bonapartisti); essi cercano almeno di intimidire il governo quando non possono sognarsi di rovesciarlo. Ma combattendo in tal modo i detentori della forza pubblica, non desiderano affatto che questa venga soppressa; poiché è loro desiderio di utilizzarla un bel giorno a loro profitto; tutte le perturbazioni rivoluzionarie del XIX secolo si sono concluse con un rafforzamento dello Stato. La violenza proletaria muta l'aspetto di tutti i conflitti nel corso dei quali è dato osservarla; poiché essa nega la forza organizzata dalla borghesia e pretende sopprimere lo Stato che ne forma il nodo centrale. In tali condizioni non vi è alcuna possibilità di ragionare sui diritti primordiali degli uomini; è perciò che i nostri socialisti parlamentari, che sono i figliolini della borghesia e che niente sanno all'infuori dell'ideologia dello Stato, sono tutti disorientati allorché si trovano in presenza della violenza proletaria; essi non possono applicare a essa i loro luoghi comuni di cui di solito si servono parlando della forza, e vedono con terrore dei movimenti che potrebbero concludersi con la rovina delle istituzioni di cui essi vivono: con il sindacalismo rivoluzionario, niente più chiacchiere sulla Giustizia immanente, niente più regime parlamentare a uso degli Intellettuali; — è l'abominio della desolazione! Quindi non bisogna meravigliarsi se parlano della violenza con tanta collera. Nella sua deposizione il 5 giugno 1907 davanti alla Corte d'assise della Senna nel processo Bousquet-Lévy, Jaurès (n) avrebbe detto: «Io non ho la superstizione della legalità: ha subìto tanti smacchi! Ma consiglio sempre agli operai di ricorrere ai mezzi legali; poiché la violenza è un segno di debolezza passeggera». Ecco qui un ricordo assai evidente dell'affare Dreyfus: Jaurès si rammenta che i suoi amici dovettero ricorrere a delle manifestazioni rivoluzionarie, e si capisce che da questa faccenda non abbia ritenuto troppo rispetto per la legalità, che possibilmente si trovava in conflitto con ciò che egli riteneva essere il diritto. Jaurès assimila la situazione dei sindacalisti a quella in cui si trovarono i dreyfusardi: nel momento essi sono deboli, ma sono destinati a disporre un giorno della forza pubblica; sarebbero dunque assai imprudenti se distruggessero con la violenza una forza che è chiamata a venire in loro possesso. È perfino possibile che egli sia arrivato a rammaricarsi perché l'agitazione dreyfusarda ha troppo scosso lo Stato, così come Gambetta (o) lamentava che l'amministrazione avesse perduto il suo antico prestigio e la sua disciplina. Uno dei più eleganti ministri della Repubblica ha la specialità delle frasi solenni pronunciate contro i partigiani della violenza: deputati, senatori e funzionari, convocati per ammirare sua eccellenza nel corso delle sue tournées, sono incantati da Viviani (p), il quale racconta loro che la violenza è la caricatura o, meglio, «la figlia decaduta e degenerata della forza». Dopo essersi vantato di aver lavorato a «spegnere i lampioni celesti», con gesto magnifico si dà arie di un mattatore ai cui piedi vada a finire il toro inferocito. Se avessi un po' di vanità letteraria, troverei motivo di compiacimento nell'immaginarmi che questo bel socialista pensasse a me quando al Senato, il 16 novembre 1906, ebbe a dire che «non bisogna confondere un energumeno con un partito, e un'affermazione temeraria con un corpo di dottrine». Non c'è piacere più grande, dopo quello di essere apprezzati dalle persone intelligenti, che di non essere compresi da quei pasticcioni che non sanno esprimere altro che in gergo ciò che in loro tiene vece del pensiero; ma ho tutte le ragioni di credere che nel brillante entourage di questo imbonitore, nessuno abbia mai sentito parlare del «Mouvement socialiste». Che si faccia un'insurrezione al momento in cui ci si sente abbastanza fortemente organizzati da conquistare lo Stato, è tutto quanto arrivano a comprendere Viviani e i tirapiedi del suo gabinetto; ma la violenza proletaria che non abbia affatto un tale fine non sarebbe altro che una follia e l'odiosa caricatura della rivolta. Liberi di fare tutto quel che volete, ma non di rovinare la greppia!

III. Nel corso di questi studi avevo constatato qualcosa che mi era sembrato tanto semplice che non credetti di dovervi insistere molto: gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si figurano le loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie per assicurare il trionfo della loro causa. Proponevo di chiamare miti queste costruzioni la cui conoscenza ha nella storia un'importanza tanto grande: lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx sono dei miti. Come esempi notevoli di miti ho dato quelli costruiti dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Rivoluzione, dai mazziniani; ciò che volevo mostrare è che non bisogna cercare di analizzare un tale sistema di immagini allo stesso modo che un oggetto si scompone nei suoi elementi, ma bisogna prenderli in blocco come forze storiche, e che soprattutto bisogna guardarsi dal paragonare i fatti compiuti con le rappresentazioni che prima dell'azione erano state accettate. Avrei potuto dare un altro esempio che è forse anche più evidente: i cattolici sottoposti alle più dure prove non si sono mai scoraggiati, perché essi si immaginavano la storia della Chiesa come una serie di battaglie tra Satana e la gerarchia sostenuta dal Cristo; ogni nuova difficoltà che si presenti è un episodio di questa guerra e deve alla fine concludersi con la vittoria del cattolicesimo. All'inizio del XIX secolo le persecuzioni rivoluzionarie ravvivarono questo mito della lotta con Satana, ciò che ha fornito a Joseph de Maistre (q) parole eloquenti; è questo rinvigorimento che spiega in gran parte la rinascenza religiosa che si produce in quell'epoca. Se oggi il cattolicesimo è tanto minacciato, ciò si deve in gran parte al fatto che il mito della Chiesa militante tende a scomparire. La letteratura ecclesiastica ha contribuito in modo notevole a renderlo ridicolo; così nel 1872 uno scrittore belga raccomandava che si rimettessero in onore gli esorcismi, i quali gli sembravano un mezzo efficace per combattere i rivoluzionari. Molti cattolici istruiti sono spaventati nel constatare che le idee di Joseph de Maistre hanno contribuito a favorire l'ignoranza del clero, che evitava di tenersi al corrente di una scienza maledetta; quindi il mito satanico sembrò loro pericoloso ed essi ne segnalarono gli aspetti ridicoli; ma non sempre ne compresero esattamente la portata storica. Inoltre le abitudini gentili, scettiche e soprattutto pacifiche della generazione attuale non sono favorevoli alla sua conservazione; e gli avversari della Chiesa proclamano a voce ben alta che essi non vogliono ritornare a un regime di persecuzioni che potrebbe restituire alle immagini di guerra la loro antica potenza. Adoperando il termine di mito, credevo di avere avuto una trovata felice, perché in tal modo rifiutavo ogni discussione con coloro che vogliono sottomettere lo sciopero generale a una critica minuta e che accumulano obiezioni contro la sua attuabilità. Pare invece che abbia avuto una ben infelice idea, poiché gli uni mi dicono che i miti sono propri soltanto alle società primitive, mentre gli altri si immaginano che io voglia dare al mondo moderno come forza propulsiva dei sogni analoghi a quelli che Renan riteneva utili per rimpiazzare la religione; ma si è andati anche più lontano, e si è preteso che la mia teoria dei miti sia un argomento da avvocato, una falsa traduzione delle opinioni autentiche dei rivoluzionari, un sofisma intellettualista. Se così non avessi fatto non avrei avuto scampo, dato che volevo evitare qualsiasi controllo della filosofia intellettualista, la quale mi sembra costituire un grande imbarazzo per lo storico che le stia dietro. La contraddizione presente tra questa filosofia e la reale intelligenza degli avvenimenti ha spesso colpito i lettori di Renan: a ogni momento Renan è sballottato tra la propria intuizione, quasi sempre meravigliosa, e una filosofia che non può accostarsi alla storia senza cadere nella banalità; ma troppo spesso, ahimè!, egli si credeva tenuto a ragionare secondo l'opinione scientifica dei suoi contemporanei. Il sacrificio della vita che il soldato di Napoleone affrontava per avere l'onore di operare per un'epopea «eterna» e di vivere nella gloria della Francia, tra sé ripetendo «che egli sarebbe sempre un pover'uomo»; le virtù straordinarie di cui dettero prova i romani, che si rassegnarono a una spaventosa ineguaglianza e si sottoposero a tante fatiche per conquistare il mondo; «la fede nella gloria [che fu] valore ineguagliabile», creata dalla Grecia e in grazia alla quale «nella folla accalcata dell'umanità si fece una selezione, la vita acquistò una forza di propulsione, vi fu una ricompensa per colui che conseguiva il bene e il bello»; ecco qualcosa che la filosofia intellettualista non saprebbe spiegare. Questa, invece, conduce ad ammirare, nel capitolo LI di Geremia, «il sentimento superiore, profondamente triste, con cui l'uomo pacifico contempla il crollo [degli imperi], la commiserazione che nel cuore del saggio muove lo spettacolo dei popoli che operano per il vuoto, vittime dell'orgoglio di alcuni».

La Grecia, secondo Renan, non ha visto niente di ciò, e mi sembra che non ci se ne debba dolere! Inoltre egli stesso loderà i romani per non aver agito secondo i concetti del pensatore ebraico: «Essi lavorano, si affaticano per il vuoto, per il fuoco», dice il pensatore ebraico, «sì, indubbiamente; ma questa è la virtù che la storia ricompensa». Per l'intellettualista le religioni costituiscono uno scandalo particolarmente grave, perché egli è incapace sia di considerarle prive di portata storica, sia di spiegarle; così Renan ha scritto qualche volta in proposito frasi molto strane: «La religione è un'impostura necessaria. I sistemi più grossolani di gettare la polvere negli occhi non possono non essere tenuti di conto con una razza così sciocca come la specie umana, creata per l'errore e che, quando ammette la verità, non l'ammette mai per le buone ragioni. E quindi bisogna dargliene delle cattive». Mettendo a confronto Giordano Bruno che «si lasciò bruciare al Campo dei Fiori», e Galileo che si sottomise al Santo Uffizio, Renan approva il secondo, perché secondo lui il sapiente non ha bisogno di portare a sostegno delle sue scoperte niente altro che delle ragioni; egli pensava che il filosofo italiano volesse completare le sue insufficienti prove con il suo sacrificio, e così pronuncia questa sdegnosa massima: «Non si è martiri che per le cose di cui non si è ben certi». Qui Renan confonde la convinzione che in Bruno doveva essere poderosa, con quella certezza particolarissima che alla lunga sarà provocata dall'insegnamento a proposito di quelle tesi che la scienza ha acquisito; è difficile dare un'idea meno esatta delle forze reali che conducono gli uomini ad agire! Tutta questa filosofia si potrebbe riassumere in questa proposizione di Renan: «Le cose umane sono un press'a poco senza serietà e senza precisione»; ed effettivamente per l'intellettualista ciò che manca di precisione deve anche mancare di serietà. Ma in Renan la coscienza dello storico non era mai del tutto ottusa, ed egli aggiunge subito questo correttivo: «L'avere visto [ciò] è un grande risultato per la filosofia; ma è un'abdicazione da ogni ruolo attivo. L'avvenire appartiene a coloro che non sono disingannati». Da ciò noi possiamo concluderne che la filosofia intellettualista è davvero di un'incompetenza radicale per la spiegazione dei grandi movimenti storici. Ai cattolici ardenti che per tanto tempo lottarono con successo contro le tradizioni rivoluzionarie, la filosofia intellettualista invano avrebbe cercato di dimostrare che il mito della Chiesa militante non corrisponde alle costruzioni scientifiche stabilite dagli autori più sapienti secondo le migliori regole della critica; essa non sarebbe stata capace di persuaderli. Nessuna argomentazione è stata capace di scuotere la fede che questi uomini riponevano nelle promesse fatte alla Chiesa; e fino a che si conservava questa certezza, ai loro occhi il mito non poteva essere oggetto di contestazione. Analogamente, le obiezioni mosse dal filosofo ai miti rivoluzionari potrebbero fare impressione solamente su coloro che sono felici di trovare un pretesto per abbandonare «ogni ruolo attivo» e limitarsi a essere dei rivoluzionari a parole. Capisco che questo mito dello sciopero generale, in ragione del suo carattere di infinità, venga a ferire le persone sagge; nel mondo attuale è assai viva la tendenza a ritornare alle opinioni degli antichi e a subordinare la morale al buon andamento degli affari pubblici, il che conduce a porre la virtù in un giusto mezzo. Fin tanto che il socialismo rimane “una dottrina esposta interamente a parole”, è molto facile di farlo deviare verso un giusto mezzo; ma questa trasformazione ovviamente è impossibile quando si introduce il mito dello sciopero generale, che comporta una rivoluzione assoluta. Voi sapete meglio di me che quanto vi è di meglio nella coscienza moderna è il tormento dell'infinito; voi non appartenete affatto al numero di coloro che considerano delle felici trovate i sistemi con cui si riesce a ingannare i propri lettori con delle parole. Ed è perciò che non mi verrà da parte vostra alcuna condanna se ho attribuito tanta importanza a un mito che dà al socialismo un valore morale tanto alto e una tanto grande onestà. Sono molti coloro che non avrebbero nessun motivo di dissenso con la teoria dei miti se questi non producessero delle conseguenze tanto belle.

IV. Lo spirito dell'uomo è fatto in tal maniera che non si contenta affatto delle constatazioni, ma vuole comprendere la ragione delle cose; io mi domando dunque se non sarebbe utile cercare di approfondire questa teoria dei miti utilizzando i lumi di cui ci ha fornito la filosofia bergsoniana; il saggio che vi sottopongo è senza dubbio pieno di imperfezioni, ma mi sembra che sia concepito secondo il metodo che occorre seguire per fare luce su questo problema. Innanzitutto si nota che i moralisti non ragionano quasi mai su quanto vi è di veramente fondamentale nella nostra individualità; di solito essi cercano di proiettare le nostre azioni compiute nel campo dei giudizi che la società ha redatto in anticipo per i diversi tipi di azione più comuni nella vita contemporanea. Essi dicono che in tal modo essi determinano alcuni motivi; ma tali motivi sono della stessa natura di quelli tenuti in conto dai giuristi nel diritto penale: si tratta di apprezzamenti sociali relativi a fatti a conoscenza di tutti. Molti filosofi, principalmente nell'Antichità, hanno creduto di potere riferire tutto all'utilità; e se vi è un apprezzamento sociale, questo è certamente il caso; — i teologi dispongono gli errori lungo il cammino che, secondo l'esperienza media, conduce normalmente al peccato mortale; essi in tal modo conoscono quale è il grado di malizia offerto dalla concupiscenza, e la penitenza che conviene infliggere; — i moderni insegnano volentieri che noi giudichiamo la nostra volontà prima di agire, confrontando le nostre massime con alcuni principii generali che non sono privi di una certa analogia con le dichiarazioni dei diritti dell'uomo; e molto probabilmente questa teoria è stata ispirata dall'ammirazione che provocarono i Bills of Rights posti al principio delle costituzioni americane. Noi tutti siamo così interessati a sapere ciò che il mondo penserà di noi che prima o poi evochiamo nel nostro spirito considerazioni analoghe a quelle di cui parlano i moralisti; ne consegue da ciò che questi si son potuti immaginare di aver veramente fatto appello all'esperienza, per scoprire ciò che esiste al fondo della coscienza creatrice, quando avevano viceversa considerato soltanto delle azioni compiute da un punto di vista sociale. Bergson, al contrario, ci invita a occuparci del di dentro e di ciò che avviene durante il movimento creatore: «Vi sarebbero», egli dice, «due Io diversi, di cui l'uno sarebbe come la proiezione esteriore dell'altro, la sua rappresentazione spaziale e per così dire sociale. Noi ci impossessiamo del primo mediante un'approfondita riflessione, che ci permette di cogliere i nostri stati interni come esseri viventi, in continua via di formazione, come stati refrattari a una misura... Ma i momenti in cui riconosciamo noi stessi sono rari, ed è perciò che raramente noi siamo liberi. Per la più parte del tempo viviamo esternamente a noi stessi; del nostro Io non percepiamo che il suo sbiadito fantasma... Noi viviamo per il mondo esteriore più che per noi; parliamo più di quanto non pensiamo; noi siamo oggetto d’azione più di quanto non agiamo noi stessi. Agire liberamente è riprendere possesso di sé, è porsi di nuovo nella pura durata». Per veramente comprendere questa psicologia, bisogna «riportarsi con il pensiero a quei momenti della nostra esistenza in cui abbiamo optato per qualche decisione grave, momenti nel loro genere unici, e che non si ripresenteranno di nuovo non più di quanto per un popolo si ripresentano le fasi superate della sua storia». È del tutto evidente che noi godiamo di questa libertà soprattutto quando facciamo uno sforzo per creare in noi un uomo nuovo, con il proposito di spezzare i quadri storici che ci opprimono. Si potrebbe prima di tutto pensare che basterebbe dire che noi siamo allora dominati da sentimenti sovrani; ma oggi tutti ammettono che il movimento è l'essenziale della vita affettiva, è dunque in termini di movimento che conviene parlare della coscienza creatrice. Ecco come mi sembra che bisogna rappresentarsi la psicologia profonda. Si dovrebbe abbandonare l'idea che l'anima sia paragonabile a un motore che si muove, secondo legge più o meno meccanica, in direzione di vari motivi offerti dalla natura. Quando agiamo il fatto è che noi abbiamo creato un mondo del tutto artificiale, posto prima del presente, formato di movimenti che dipendono da noi. In tal modo la nostra libertà diviene perfettamente intelligibile. Queste costruzioni, abbracciando tutto ciò che ci interessa, hanno suggerito ad alcuni filosofi, ispirati dalle dottrine bergsoniane, una teoria che non può non lasciare piuttosto sorpresi. «Il nostro vero corpo», dice a esempio Le Roy (s), «è l'intero universo per quel tanto che noi lo vediamo. E ciò che il senso comune chiama in senso più stretto nostro corpo, ne costituisce solamente la regione della più infima incoscienza e della più libera attività, la parte sulla quale abbiamo una presa diretta e per mezzo della quale possiamo agire sul resto». Non bisogna confondere, come fa costantemente questo sottile filosofo, ciò che è uno stato fugace della nostra attività volontaria, con le affermazioni durevoli della scienza. Generalmente questi mondi artificiali scompaiono dal nostro spirito senza lasciare ricordo; ma quando delle masse si appassionano, allora si può tracciare un quadro, che costituisce un mito sociale. La fede nella gloria, di cui Renan fa un tanto grande elogio, si dissolve rapidamente nelle rapsodie quando non sia rinsaldata da miti che molto variano a seconda delle epoche: il cittadino delle repubbliche greche, il legionario romano, il soldato delle guerre della libertà, l'artista del Rinascimento non hanno concepito la gloria facendo appello a uno stesso sistema di immagini. Renan si duole del fatto che «la fede nella gloria è compromessa dalle limitate vedute sulla storia che tendono a prevalere ai nostri giorni. Pochi», egli dice, «agiscono in vista dell'eternità... Si vuole godere della propria gloria; essa viene mangiata ancora in erba da colui che la fa vivere; e dopo la morte non ne resterà gran che». Mi sembra occorra dire che le limitate vedute sulla storia non sono una causa ma una conseguenza; esse sono il risultato dell'indebolimento dei miti eroici che all'inizio del secolo XIX avevano avuto tanto grande popolarità; la fede nella gloria periva e le limitate vedute sulla storia si facevano preponderanti, mentre venivano meno i miti. Si può parlare all'infinito di rivolte senza mai provocare un movimento rivoluzionario, fin tanto che non vi sono miti accettati dalle masse; è ciò che dà allo sciopero generale tanto grande importanza e che lo rende così odioso ai socialisti, i quali hanno paura di una rivoluzione; essi adoperano tutti i loro sforzi per scuotere la fiducia che i lavoratori ripongono nella loro preparazione rivoluzionaria; e per giungere a ciò essi cercano di mettere in ridicolo l'idea dello sciopero generale, la quale solo può avere un valore propulsore. Uno dei grandi mezzi impiegati da essi consiste nel presentarla come un'utopia: ciò gli è abbastanza facile, poiché raramente si sono avuti dei miti perfettamente puri da ogni mescolanza utopistica. Gli attuali miti rivoluzionari sono quasi puri; essi permettono di comprendere l'attività, i sentimenti e le idee delle masse popolari che si preparano a entrare in una lotta decisiva; non si tratta di descrizioni di cose, ma di espressioni di volontà. L'utopia, al contrario, è il prodotto di un lavoro intellettuale; essa è l'opera di teorici, che dopo aver osservato e discusso i fatti cercano di stabilire un modello con il quale si possano confrontare le società esistenti per misurare il bene e il male che esse contengono; è una composizione di istituti immaginari, ma che offre analogie con le istituzioni reali abbastanza grandi perché il giurista ne possa ragionare; è una costruzione che si può smontare e nella quale alcuni pezzi sono stati tagliati in modo tale da rendere possibile (mediante qualche modifica) il loro passaggio in una futura legislazione. — Mentre i nostri attuali miti conducono gli uomini a prepararsi a una battaglia per distruggere ciò che esiste, l'utopia ha sempre avuto per effetto di dirigere gli spiriti verso riforme che potranno effettuarsi gradatamente modificando il sistema; non bisogna quindi meravigliarsi se tanti utopisti poterono diventare abili uomini di Stato allorché essi ebbero acquistata una maggiore esperienza della vita politica. — Un mito non troverebbe possibilità di essere rifiutato, poiché esso è, nell'insieme, identico alle convinzioni di un gruppo, ed è l'espressione di queste convinzioni in linguaggio di movimento, e quindi, per conseguenza, non è scomponibile in parti, le quali si possano applicare su di un piano di descrizioni storiche. Al contrario l'utopia può discutersi come ogni costituzione sociale; si possono paragonare i movimenti automatici da essa supposti con quelli constatati nel corso della storia, e apprezzare in tal modo la loro verosimiglianza; si può rifiutarla mostrando che l'economia su cui si basa è incompatibile con le necessità della produzione attuale. L'economia politica liberale è stata uno dei migliori esempi di utopia che si possano citare. Si era immaginata una società in cui tutto era riportato a dei tipi commerciali, sotto la legge della concorrenza più completa; oggi si riconosce che questa società ideale non sarebbe più facile a realizzarsi di quella di Platone; ma grandi ministri moderni devono la loro gloria agli sforzi da essi fatti per introdurre nella legislazione industriale qualche cosa di questa libertà commerciale. In ciò abbiamo un'utopia libera da ogni mito; la storia della democrazia francese ci offre una combinazione assai notevole di utopie e di miti. Le teorie che ispirarono gli autori delle nostre prime costituzioni sono considerate oggi come assai chimeriche; e anche spesso non si vuol più conceder loro il valore che per molto tempo gli è stato riconosciuto: quello di un ideale su cui legislatori, magistrati e amministratori dovranno tenere gli occhi sempre fissi per assicurare agli uomini un poco di giustizia.

A queste utopie si mescolarono miti che rappresentavano la lotta contro l'Ancien Régime; finché essi sono stati mantenuti, le confutazioni delle utopie liberali si sono potute moltiplicare senza produrre risultato alcuno; il mito salvaguardava l'utopia alla quale era mescolato. Per molto tempo il socialismo non è stato altro che un'utopia: è con ragione che i marxisti rivendicano per il loro maestro l'onore di aver mutato tale situazione: il socialismo è divenuto una preparazione delle masse impiegate dalla grande industria, le quali vogliono sopprimere lo Stato e la società; d'ora in avanti il modo in cui gli uomini si adopreranno per godere la felicità futura non sarà più oggetto di ricerca; tutto si riduce a l'apprendistato rivoluzionario del proletariato. Disgraziatamente Marx non aveva sotto gli occhi i fatti che ci sono divenuti familiari; noi sappiamo meglio di lui ciò che sono gli scioperi, poiché abbiamo potuto osservare conflitti economici considerevoli per estensione e durata; il miti dello sciopero generale è divenuto popolare e ha fatto solida presa nei cervelli; in fatti di violenza noi abbiamo delle idee che Marx non avrebbe potuto formarsi facilmente; noi dunque possiamo completare la sua dottrina, invece di commentare i suoi testi come per tanto tempo hanno fatto dei malfortunati discepoli. L'utopia tende così a sparire completamente dal socialismo; a questo non occorre cercar di organizzare il lavoro, poiché è il capitalismo che l'organizza. Credo inoltre di aver dimostrato che lo sciopero generale corrisponde a dei sentimenti di sì chiara evidenza a coloro necessari per assicurare la produzione in un regime industriale fortemente progressivo, che l'apprendistato rivoluzionario può essere anche un apprendistato di produttore. Quando ci si pone su questo terreno dei miti si è al coperto da ogni confutazione; ciò che ha fatto dire a molte persone che il socialismo è una specie di religione. È da un pezzo in effetti che si è rimasti colpiti dal fatto che le convinzioni religiose sono indipendenti dalla critica; da ciò si è creduto di poter concludere che tutto ciò che pretende essere al di sopra della scienza è una religione. Si osserva anche che, nel nostro tempo, il cristianesimo tenderebbe a essere meno una dogmatica che una vita cristiana, cioè una riforma morale che vuole arrivare in fondo al cuore; di conseguenza si è trovata una nuova analogia tra la religione e il socialismo rivoluzionario, che si pone come scopo l'apprendistato, la preparazione e anche la ricostruzione dell'individuo in vista di una gigantesca opera. Ma l'insegnamento di Bergson ci ha rivelato che la religione non è la sola a occupare la regione della coscienza profonda; i miti rivoluzionari vi tengono il loro posto allo stesso titolo. Gli argomenti presentati da Yves Guyot (t) contro il socialismo considerandolo una religione mi sembrano dunque fondati su di un'imperfetta conoscenza della nuova psicologia. Renan era assai sorpreso nel constatare che i socialisti sono superiori allo scoraggiamento: «Dopo ogni esperienza mancata essi ricominciano; se la soluzione non si è trovata, si troverà. Non gli viene mai l'idea che la soluzione non esista, e in ciò è la loro forza». La spiegazione di Renan è superficiale; egli considera il socialismo come un'utopia, cioè una cosa paragonabile alle realtà osservabili; e non si comprende affatto come in tal modo la fiducia possa sopravvivere a tante esperienze mancate. Ma accanto alle utopie sono sempre esistiti miti capaci di trascinare i lavoratori alla rivolta. Per lungo tempo questi miti si fondarono sulle leggende della Rivoluzione, e fin tanto che queste leggende non vennero meno essi conservarono tutto il loro valore. Oggi la fiducia dei socialisti è più grande che mai da quando il mito dello sciopero generale domina tutto il movimento realmente operaio. Un insuccesso non può provare niente contro il socialismo dopo che esso è divenuto un lavoro di preparazione; se viene sconfitto, ciò vuol dire che la preparazione è stata insufficiente; bisogna rimettersi all'opera con più coraggio, più insistenza, più fiducia che mai; la pratica del lavoro ha insegnato agli operai che è mediante un paziente apprendistato che si può divenire un vero compagno; ed è anche la sola maniera per divenire un vero rivoluzionario.

V. I lavori dei miei amici sono stati accolti con molto disprezzo dai socialisti che fanno della politica, ma anche con molta simpatia da persone estranee alle preoccupazioni parlamentari. Non è possibile supporre che noi si cerchi di esercitare un'industria intellettuale, e noi protestiamo ogni volta che si pretende confonderci con gli intellettuali, che giustamente sono persone che hanno per professione di sfruttare il pensiero. Le vecchie volpi della democrazia non arrivano a capire che ci si assumano tante seccature se non si ha il segreto proposito di dirigere la classe operaia. Tuttavia noi non potremmo tenere una condotta diversa. Chi ha fabbricato un'utopia destinata a fare felice l'umanità è portato volentieri a considerarsi investito di un diritto di proprietà sulla sua invenzione; crede che nessuno più di lui sia in posizione migliore per applicare il suo sistema; troverebbe molto irrazionale che la sua letteratura non gli valesse una carica nello Stato. Ma noi, non abbiamo inventato proprio niente, e in più sosteniamo che non c'è niente da inventare: ci siamo limitati a riconoscere la portata storica della nozione dello sciopero generale; abbiamo cercato di mostrare che solo dalle lotte intraprese dai sindacati rivoluzionari contro i datori di lavoro e contro lo Stato potrebbe nascere una cultura nuova; il nostro maggior titolo di originalità consiste nell'aver sostenuto che il proletariato si può liberare senza bisogno di ricorrere agli insegnamenti dei borghesi professionisti dell'intelligenza. Quindi siamo stati condotti a considerare come essenziale nei fenomeni contemporanei ciò che altrove era considerato come accessorio: il che è veramente educativo per un proletariato rivoluzionario che fa nella lotta il suo apprendistato. Noi non sapremmo esercitare un'influenza diretta su un lavoro di formazione del genere. La nostra parte può essere utile, a condizione che noi ci limitiamo a negare il pensiero borghese, in modo da mettere in guardia il proletariato contro un'invasione di idee e di costumi della classe nemica. In genere gli uomini che hanno ricevuto un'educazione primaria hanno la superstizione del libro e facilmente considerano dei genii coloro che sono molto in vista nel mondo delle lettere; essi si immaginano che ci sia da imparare da quegli autori il cui nome ricorre spesso nei giornali accompagnato da lodi; essi ascoltano con particolare rispetto i commenti che ricevono dai laureati. Combattere questi pregiudizi non è cosa facile; ma è opera utilissima; noi consideriamo questo compito di importanza capitale e possiamo condurlo a buon fine senza mai porci alla direzione del mondo operaio. Non deve succedere al proletariato ciò che successe ai Germani che conquistarono l'Impero Romano; essi ebbero vergogna della loro barbarie e si sottoposero alla scuola dei retori della decadenza latina: non ebbero di che lodarsi di essersi voluti civilizzare! Durante la mia carriera ho affrontato molti soggetti che non sembrano affatto rientrare nel campo di uno scrittore socialista. Mi sono proposto di mostrare ai miei lettori che la scienza di cui la borghesia, con tanta costanza, vanta i meravigliosi risultati non è così certa come assicurano coloro che vivono del suo sfruttamento, e che spesso l'osservazione dei fenomeni del mondo socialista potrebbe fornire ai filosofi lumi che non si trovano nei lavori degli eruditi. Non credo dunque di compiere opera vana; poiché contribuisco a rovinare il prestigio della cultura borghese, prestigio che finora si oppone a che il principio della lotta di classe assuma tutto il suo sviluppo. Nell'ultimo capitolo del mio libro ho detto che l'arte è un'anticipazione del lavoro quale deve essere praticato in un regime di altissima produzione. Sembra che questa osservazione sia stata assai mal compresa da alcuni dei miei critici, che hanno creduto che volessi proporre a soluzione del socialismo un'educazione estetica del proletariato, che dovrebbe andare a scuola dagli artisti moderni. Ciò sarebbe stata da parte mia un grave paradosso, poiché l'arte che noi oggi possediamo non è che un residuo di ciò che ci ha lasciato una società aristocratica, residuo che inoltre la borghesia ha grandemente corrotto. È opinione dei più alti intelletti che sarebbe assai augurabile che l'arte contemporanea potesse rinnovarsi in un più intimo contatto con gli artigiani; l'arte accademica ha divorato gli artisti di più alto genio senza arrivare a produrre quel che ci hanno dato le generazioni artigiane. Quando parlavo di anticipazione avevo in mente tutt'altra cosa che un tale imitazione; volevo mostrare come nell'arte (praticata dai suoi migliori rappresentanti e soprattutto nelle sue epoche migliori) si trovino analogie capaci di farci comprendere quali saranno le qualità del lavoratore dell'avvenire. Pensavo tanto poco, inoltre, di chiedere alle scuole di belle arti un insegnamento adatto al proletariato, che io fondo la morale dei produttori non su di un'educazione estetica trasmessa dalla borghesia, ma sui sentimenti che sviluppano le lotte intraprese dai lavoratori contro i loro padroni. Queste osservazioni ci portano a riconoscere l'enorme differenza che esiste tra la nuova scuola (u) e l'anarchismo che fioriva a Parigi una ventina d'anni fa. La borghesia aveva per i suoi letterati e i suoi artisti assai meno ammirazione di quanta non ne avessero gli anarchici di quei tempi; il loro entusiasmo per le celebrità di un giorno sorpassava spesso quello che i discepoli hanno potuto avere per i grandi maestri del passato; quindi non bisogna meravigliarsi se, per riequilibrare le cose, i romanzieri e i poeti tanto adulati mostravano per gli anarchici una simpatia che è stata spesso motivo di sorpresa per coloro che ignoravano quando grande sia l'amor proprio nel mondo estetico. Questo anarchismo dunque era intellettualmente tutto borghese, e i guesdisti (v) non mancavano mai di rimproverargli questo carattere; dicevano che i loro avversari, mentre si proclamavano nemici inconciliabili del passato, erano degli allievi servili di questo passato maledetto; essi osservavano che le dissertazioni più eloquenti sulla rivolta non potevano produrre nulla e che non si cambia il corso della storia con la letteratura. Gli anarchici rispondevano mostrando che i loro avversari avevano imboccato una strada che non poteva portare all'annunciata rivoluzione; nel prendere parte ai dibattiti politici i socialisti dovevano, essi dicevano, diventare dei più o meno radicali riformisti, e perdere il senso delle loro formule rivoluzionarie. L'esperienza non ha tardato a mostrare che su questo punto gli anarchici avevano ragione, e che entrando nelle istituzioni borghesi i rivoluzionari si trasformavano acquistando lo spirito di queste istituzioni; tutti i deputati dicono che niente rassomiglia tanto a un rappresentante della borghesia quanto un rappresentante del proletariato. Molti anarchici finirono per stancarsi di leggere sempre le stesse magniloquenti maledizioni lanciate contro il regime capitalistico, e si misero in cerca di una via che li conducesse a delle azioni veramente rivoluzionarie; entrarono nei sindacati che, grazie ai violenti scioperi, mettevano in pratica, nel bene e nel male, quella guerra sociale di cui avevano sentito parlare tanto spesso. Un giorno gli storici vedranno in questo ingresso degli anarchici nei sindacati uno dei più grandi avvenimenti che si siano prodotti nel nostro tempo; e allora il nome del mio povero amico Fernand Pelloutier avrà il riconoscimento che merita. Gli scrittori anarchici che sono rimasti fedeli alla loro vecchia letteratura rivoluzionaria non sembrano aver visto di buon occhio il passaggio dei loro amici nei sindacati; il loro atteggiamento ci mostra che gli anarchici divenuti sindacalisti ebbero originalità vera e non applicarono teorie che erano state fabbricate nei cenacoli filosofici. Essi insegnarono soprattutto agli operai che non bisogna vergognarsi delle azioni violente. Fino allora, nel mondo socialista, si era cercato di attenuare o di scusare le violenze degli scioperanti; i nuovi sindacalisti considerarono queste violenze come normali manifestazioni di lotta, e di conseguenza le tendenze favorevoli al trade-unionismo vennero abbandonate. Fu il loro temperamento rivoluzionario che li condusse a tale concezione; poiché si commetterebbe un grosso errore supponendo che questi vecchi anarchici introducessero nelle associazioni operaie le idee relative alla propaganda per vie di fatto. Il sindacalismo rivoluzionario non è dunque, come molti credono, la prima forza confusa del movimento operaio, che, a lungo andare, dovrà sbarazzarsi di questo errore giovanile; è stato, al contrario, il prodotto di un miglioramento operato da uomini che hanno posto un freno a una deviazione verso concezioni borghesi. Si potrebbe quindi paragonarlo alla Riforma, che volle impedire che il cristianesimo subisse l'influenza degli umanisti; come la Riforma, il sindacalismo rivoluzionario potrebbe abortire, se venisse a perdere, come la Riforma ha perduto, il senso della sua originalità; che è quanto rende di sì grande interesse le ricerche sulla violenza proletaria.

(Georges Sorel, Lettera a Daniel Halévy del 15 luglio 1907)

venerdì 27 aprile 2018

Correndo

jehu runaway train

Non saltare, vai più veloce: una risposta ai nostri amici invisibili
- di Jehu -

Mi trovo nel bel mezzo della lettura della prefazione scritta da Ben Noys, riguardo la comunizzazione, ad un'antologia pubblicata nel 2012:  “Communization and its discontents”. Ben Noys è l'autore che ha coniato il termine "accelerazionismo". In questo libro, che consiste di una collezione di testi della scuola della comunizzazione, appare abbastanza bizzarro il fatto di scoprire che l'abolizione del lavoro salariato non viene mai menzionata fino a pag.221, di 282 pagine. Anzi, lo stesso termine di lavoro salariato appare in tutto il libro forse una paio di dozzine di volta su circa 100.000 parole. Il termine correlato, forza lavoro, viene menzionato circa 12 volte. Che razza di comunismo è questo, che non parla mai di lavoro salariato, di forza lavoro, o di abolizione della schiavitù salariale?!?

Nella sua introduzione alla raccolta, Noys sottolinea tre punti, molto importanti ed inconfutabili:

1 - Non c'è nessuna lotta di classe, nessuna lotta politica: «Il collasso finale del socialismo realmente esistente avvenuto nel 1989, ed il diffuso disincanto nei confronti della socialdemocrazia, dei sindacati, e di altre "tradizionali" strutture dei lavoratori, intese come mezzi di resistenza, non sembrano ancora aver portato ad una rinascita di un modello di auto-abolizione della negatività proletaria o della "moltitudine", o di "qualsiasi singolarità", o di altri "nuovi modelli di lotta". »

2 - Non c'è spazio per la lotta di classe, nessuno spazio per la lotta politica: «Anche se non pensiamo in termini di sussunzione reale, ma piuttosto nei termini del dominio globale del capitalismo o dell'Impero, dobbiamo ancora affrontare la questione se esso possa essere sconfitto, e come. I modi in cui il capitalismo permea e modula la totalità della vita (quella che Deleuze ha chiamato "la società del controllo") ci lascia ben poche possibilità di resistere.»

3 - La comunizzazione non riesce a mostrare il modo in cui arrivare al comunismo a partire da qualsiasi percorso che sia in assenza di lotta (politica) di classe: «Mentre la comunizzazione insiste sull'immediatezza e sull'abbandono dei dibattiti sulla "transizione" o sulla teleologia, vale a dire, dibattiti su che cosa intendiamo raggiungere, è difficile vedere come si possa fare a coordinare o a sviluppare globalmente tali "momenti" di comunizzazione attraverso il campo sociale (come si dovrebbe fare, per distruggere o contrastare un capitalismo che è globale).»

Come spiega Noys, questo non è solo un problema di comunicazione, è un problema che oggi ha ogni movimento radicale che cerca di rovesciare il capitalismo. La comunizzazione non è emersa in maniera chiara perché siano buone le prospettive per rovesciare il capitalismo attraverso la lotta di classe, ma perché sono desolanti le prospettive di rovesciare il capitalismo attraverso i mezzi politici. È improbabile che nel prossimo futuro emerga un qualsiasi movimento politico che abbia qualche realistica possibilità di sbarazzarsi del capitale, e non c'è nessuna possibilità che la comunizzazione possa realizzarsi come movimento politico.

Mentre leggevo l'antologia di Noys, ho sentito dell'ultima offerta del Comitato Invisibile, "Maintenant"[Adesso]. Mi è difficile riuscire a leggere questa dichiarazione senza che continuino a risuonarmi nelle orecchie le critiche incisive di Noys. Comincia con una protesta; non una protesta diretta contro lo Stato borghese, ma contro il testardo disinteresse dei proletari: «Qui ci sono tutti i motivi per fare una rivoluzione. Non ne manca neppure uno. Il naufragio della politica, l'arroganza dei potenti, il regno della menzogna, la volgarità della ricchezza, i cataclismi dell'industria, la miseria galoppante, il nudo sfruttamento, l'apocalisse ecologica - non ci lasciamo mancare niente, neppure l'essere informati su tutto. "Clima: 2016, il caldo infrange qualsiasi record", annuncia Le Monde, come fa quasi ogni anno. Ci sono tutte insieme le ragioni, ma a fare le rivoluzioni non sono le ragioni, sono i corpi. E i corpi si trovano davanti allo schermo.»
Nel vano tentativo di scuotere questa classe dal suo letargo, i nostri invisibili amici ci avvertono dell'arrivo della prossima apocalisse.
«Tutti possono vedere che questa civiltà è come un treno corre verso l'abisso, e la sua velocità aumenta. Più va veloce, più si possono sentire gli isterici applausi degli ubriachi nel vagone della discoteca.» Una metafora interessante! Nella sua critica all'accelerazionismo di Nick Land, Benjamin Noys evoca l'idea di capitale visto come un treno in corsa che la rivoluzione sociale dovrebbe fermare, per evitare un'inevitabile catastrofe.
«La conclusione è quella secondo cui il freno di emergenza non richiede di essere tirato solo per il gusto di farlo, come se fosse una qualche fermata che interferisce in un particolare punto della storia capitalista (diciamo, come la socialdemocrazia svedese - che ora il repubblicano americano medio ora considera come se si trattasse di un vero e proprio orrore del "socialismo"). E neppure si tratta di un ritorno ad un qualche utopico momento pre-capitalista, il quale sarebbe stato oggetto degli anatemi di Marx ed Engels contro il "socialismo feudale". Si tratterebbe piuttosto di quello che sostiene Benjamin a proposito del fatto che: La società senza classi non è l'obiettivo finale del progresso storico, ma è piuttosto il raggiungimento definitivo della sua interruzione frequentemente fallita" (Walter Benjamin). Tiriamo il freno per prevenire la catastrofe, distruggiamo i binari per impedire una distruzione ancora più grande dovuta all'accelerazione.»
I nostri amici invisibili, evocando la stessa metafora, ci dicono di saltare giù nel mentre che siamo ancora in tempo.
Quanto l'accelerazionismo landiano abbia così poco in comune con quest'idea di comunizzazione, si potrebbe immaginare se ci fermassimo, non nei vagoni dove ci sono quelli ubriachi che festeggiano, ma in cima  al treno, nella cabina della locomotiva, insieme all'ingegnere, mentre gli urliamo, superando il frastuono infernale dei macchinari: «Più veloce, più veloce, miserabile bastardo! Va' più veloce!»

- Jehu - Pubblicato su The Real Movement -