sabato 28 aprile 2018

Rotaie

prunetti

«E quando mi troverò nel fango, triste come un altoforno spento, con le dita attaccate agli inguini strizzati o senza fiato per una pallonata della vita nello stomaco, coi miei sogni sconvolti o crollati, nel vento e nella pioggia, saprò che mai camminerò da solo.» Prendete 1/3 de L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, 1/3 di Riff-Raff di Ken Loach, 1/3 di vernacolo toscano. Mescolateli insieme, shakerate con grazia rude i giunti della sintassi. Otterrete un cocktail esplosivo che altera la vostra percezione. Un’epica stracciona scritta dai piani bassi della vita.
Un vecchio cuoco tossico uscito da un libro d’avventure, uno stasatore di cessi innamorato della lirica e un anziano attore shakespeariano lobotomizzato, con un corredo di giovani assistenti dediti a piccoli crimini e decisi a sopravvivere in ogni modo a mille guai. Questa è la banda che condivide vita, avventure e lavoro con un italiano emigrato in Inghilterra. Altro che ‘cervelli in fuga’: qui si parla dei sotterranei, dalle pulizie dei bagni a Bristol a una mensa scolastica nel Dorset, fino a una pizzeria di turchi che si fingono napoletani. Sullo sfondo la Brexit e una classe operaia impoverita che cerca il proprio orgoglio. Tra risse, birre e calcio, personaggi di vecchi romanzi si rincarnano nelle cucine d’Oltremanica mentre il fantasma della Baronessa Thatcher perseguita il protagonista. Fino al ritorno in un’Italia dove le acciaierie di Piombino, quelle delle rotaie di 108 metri, rimangono come torri arrugginite a sfidare il cielo terso della Toscana.

(dal risvolto di copertina di: Alberto Prunetti, 108 metri. The new working class hero. Laterza)

Altro che fuga di cervelli a Londra!
- Laggiù servono braccia, come quaggiù -
di Alessandro Robecchi

È un filo lungo e con bei nodi grossi, la letteratura operaia. Si curvava nell'incredulità dell'industria del "Donnarumma all'assalto" di Ottieri per arrivare ai ribelli di Balestrini (Vogliamo tutto!), e poi alla fabbrica, e poi al lavoro nuovo. E ora non resta che capire cosa può essere la letteratura operaia senza la fabbrica, o dopo la fabbrica, o sotto la fabbrica, in quegli inferi di mini-jobs e cottimo spinto, di supervisor e lavoro somministrato che sono oggi la Cajenna del quarto stato.
    Alberto Prunetti, già convincente con il suo "Amianto" (Edizioni Alegre, 2012), va a dare un'occhiata laggiù, e lo fa da pellegrino dolente, capace di portare su di sé narratore le piaghe del suo viaggio: dalle padelle unte ai cessi da sturare, nulla vi sarà risparmiato, tantomeno qualche risata. Ma siccome qui si narra dell'education sentimentale del giovane precario - prima laureato povero e poi lavoratore povero - si comincia con la fuga. Via, via dalla città d'acciaio (Piombino), via dalla fabbrica e dalla vita che ha fatto il Renato, padre metallurgico, una vita così disegnata e dritta che fare il liceo sembrava una scelta eversiva, figurarsi la laurea. Eppure.
    Così il narratore parte, destinazione Inghilterra, le cucine del regno, prima, il lumpenproletariat dei centri commerciali poi, circondato da una genìa di dannati come lui, un po' tossici, un po' ribelli, un po' perduti, dato che con tutte le chiacchiere sulla fuga dei cervelli si scopre poi che lassù servono soprattutto braccia - come quaggiù - e quindi si richiedono buoni schiavi. Dopo il resoconto di un'adolescenza operaia, la storia si fa picaresca, contiene Dickens nei dormitori dei lavoranti e contiene Loach nelle pieghe delle ribellioni quotidiane, si traveste da Riff-Raff, cantata alla Billy Bragg, disegna insomma, come dice lo stesso Prunetti in sede di bilancio, un'«epica stracciona» densa di prospettive mancate, sguatteri yemeniti , padroni turchi di ristorante italiano , gironi infernali di lavoretti malpagati sette giorni su sette, un rosario di ingiustizie che il narratore vira al grottesco.
    Un mostro feticcio gli compare in sogno (e non solo) ed è la vecchia Maggie, la lady di ferro, la madre di tutto il thatcherismo, la peste nera. Unica via e prezioso viatico del Prunetti, i dieci comandamenti che il padre Renato gli affida prima del viaggio in toscano ruvido: «Sciopera. Non leccà il curo al capo. Non fà il crumiro. Se uno studiato ti chiama signore metti il culo al muro...», insomma, le vecchie regole «di classe» buone per gli operai di ieri ed i post-operai spadellatori, pizzaioli, sguatteri, addetti alle latrine di oggi. Saranno quelle regole, o forse un DNA da sfruttato, che trasformano la fabbrica da cui si fugge, come da un destino segnato, in un orgoglio antico. Un vanto: là si fanno rotaie di 108 metri (da cui il titolo), perfette, dritte, più lunghe del prato dell'Old Trafford, lo stadio di Manchester, meraviglia del creato. E su quelle rotaie viaggiano in tutta Europa, i giovani che scappano da qui.
    Il ramingo Prunetti dice che lui a scuola faceva le metafore. E qui ne infila almeno una strutturale e densa, quando al ritorno - come se avesse passato un anno su un brigantino pirata - trova l'altoforno spento, e si spegne anche il padre Renato, come dire che si resta orfani di tutto, e dunque si ricomincia, sempre, come fanno le api.
    Tutto è amaro, anche quando si ride, il narratore ricorre a rifugi emotivi sicuri (la pinta di birra coi colleghi, il fango dei campetti di calcio), complicità impreviste, coscienza di classe vissuta come spirito di corpo e comunanza di destini, e infatti il Prunetti e i suoi tanti compagni d'avventura sembrano spesso una ciurma di galeotti folli segnati dalle tempeste. Una piccola toccante, epica proletaria, in attesa di riscatto.

- Alessandro Robecchi - Pubblicato il 14/4/2018 su Tuttolibri -

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