Dimenticate E.T.
- di Piergiorgio Odifreddi -
Nelle “Ricerche filosofiche” (1953) Ludwig Wittgenstein scrisse che se un leone potesse parlare non lo capiremmo, perché per capire qualcuno non basta parlare la sua stessa lingua: bisogna anche condividere il suo modo di vivere e di essere. Già gli uomini non capiscono le donne, i padri non capiscono i figli, gli occidentali non capiscono gli orientali, e gli umanisti non capiscono gli scientisti: figuriamoci se gli umani possono capire gli animali parlanti. O, peggio ancora, gli alieni. Eppure il programma Seti (Search for Extraterrestrial Intelligent Life) ricerca dal 1974 la “vita intelligente extraterrestre”. Finora non ha avuto alcun successo, ma il vero problema è sapere se abbia qualche senso. L’idea di ricevere o mandare messaggi radio da e nel cosmo tradisce infatti una visione più fantascientifica che scientifica della vita extraterrestre, e presuppone che gli alieni assomiglino alle ridicole caricature degli uomini che i romanzi e i film di fantascienza ci hanno inflitto negli ultimi cent’anni, da Herbert Wells a Steven Spielberg.
È quasi impossibile trovare accenni alla problematicità delle nozioni stesse di vita extraterrestre e di alieno, nella fantascienza: un genere che fu bollato da Primo Levi come “povera fantasia e cattiva scienza”, e i cui autori furono classificati da Stanislav Lem in “molti ciarlatani e pochi visionari”. È molto più stimolante e istruttivo rivolgersi invece al parere informato degli esobiologi, che studiano appunto gli ambienti favorevoli e le possibili forme di vita nel cosmo: ad esempio, all’interessantissima raccolta di una ventina di saggi curata da Jim Al-Khalili, intitolata Alieni. C’è qualcuno là fuori? (Bollati Boringhieri).
L’esobiologia è complicata dal fatto che per ora conosciamo soltanto un’unica forma di vita: la nostra. Gli scienziati famosi ma di poca fantasia, da Carl Sagan a Steven Hawking, seguono le linee di minima resistenza e immaginano che gli alieni siano esattamente come noi. Dunque, sperano di trovarli simili a noi, e li ricercano su pianeti simili al nostro: fino a qualche decennio fa, su Marte, e ora, sugli esopianeti simili alla Terra che orbitano attorno a stelle simili al Sole, a distanze né troppo lontane né troppo vicine, in modo da permettere la presenza di acqua liquida e di altre condizioni favorevoli alla nostra vita.
In realtà, però, la speranza di trovare altri “uomini” nel cosmo è abbastanza peregrina. Anzitutto, la nostra storia evolutiva è in larga parte un prodotto del caso, e non c’è motivo di credere che anche altrove si sia verificata esattamente la stessa sequenza di eventi che ha portato fino a noi: dalla catastrofe dell’ossigeno di circa due miliardi e mezzo di anni fa, che ha sterminato gli organismi anaerobici e creato l’ambiente favorevole a quelli aerobici, al meteorite gigante di circa sessanta milioni di anni fa, che ha causato l’estinzione dei grandi dinosauri e liberato una nicchia favorevole ai piccoli mammiferi.
Come scrisse Stephen Jay Gould nella Vita meravigliosa (1989), non otterremmo lo stesso risultato neppure sulla Terra, se ripetessimo l’esperimento dell’evoluzione partendo dalle stesse condizioni iniziali, proprio a causa dell’imprevedibilità e della casualità degli eventi che si sono succeduti. Per lo stesso motivo, non possiamo aspettarci che anche solo in qualcuna delle innumerevoli simil-Terre sparse nelle centinaia di miliardi di sistemi solari presenti in ciascuna delle centinaia di miliardi di galassie dell’universo, si siano sviluppati dei simil-uomini in grado di ricevere o di inviare messaggi radio formulati in un simil-linguaggio reciprocamente percepibile e comprensibile da noi e da loro.
Ma se anche così fosse, per assurdo, il tempo e lo spazio impedirebbero comunque la comunicazione. Il tempo, perché fino a un secolo fa neppure noi conoscevamo e usavamo le onde radio, e non c’è motivo di credere che la civiltà tecnologica sopravvivrà molto più a lungo di quelle che l’hanno preceduta: cioè, qualche secolo, o al massimo di qualche millennio, che sono un’inezia rispetto ai quattro miliardi di anni di durata della vita sulla Terra. E lo spazio, perché l’universo noto ha un raggio di circa tredici miliardi e mezzo di anni luce: pur andando alla velocità della luce, le comunicazioni elettromagnetiche potrebbero dunque richiedere milioni o miliardi di anni per arrivare a destinazione, e probabilmente non troverebbero più, o non troverebbero ancora, qualcuno interessato a riceverle e in grado di decifrarle.
Agli ottusi che immaginano gli alieni simili agli uomini, si contrappongono gli acuti che notano come la vita unicellulare sia nata sulla Terra quasi subito, circa 500 milioni di anni dopo la formazione del pianeta, mentre la vita multicellulare abbia richiesto circa quattro miliardi di anni per evolversi, e la vita umana circa quattro miliardi e mezzo di anni: cioè, sia apparsa solo recentissimamente, qualche centinaio di migliaia di anni fa. Se dunque vogliamo estrapolare dall’unico caso conosciuto, possiamo attenderci che gli alieni siano molto diffusi nel cosmo nella forma di organismi unicellulari, poco diffusi nella forma di organismi pluricellulari, e praticamente inesistenti nella forma di organismi analoghi a noi.
La ricerca degli alieni scientifici è comunque molto più stimolante e interessante di quella degli alieni hollywoodiani, per una serie di motivi. Anzitutto, perché già Publio Terenzio Afro notava che “nulla di umano ci è alieno”: meno che mai dei fantocci a sei dita o con un paio di antenne, eccetto che per i bambini e i registi. Ci sono invece letteralmente aliene molte specie terrestri, da quelle che si orientano non visivamente, ma con sistemi sonar o radar, a quelle che possiedono un sofisticato sistema neuronale, ma diffuso negli arti invece che concentrato nel cervello: non a caso Thomas Nagel si pose l’interessante problema filosofico di Come ci si sente a essere un pipistrello (1974), e uno dei saggi del libro di Al-Khalili studia quegli Alieni sulla Terra che sono i polpi.
Ma ci sono organismi terrestri ancora più alieni. In particolare, gli estremofili in grado di vivere in condizioni ambientali estreme di caldo, freddo, pressione, salinità, acidità, alcalinità, anaerobicità o, addirittura, radioattività. La vita la si trova dovunque, sulla Terra: dai ghiacci dell’Antartide al deserto di sale di Atacama, dal lago di catrame di Trinidad ai geyser islandesi, dai depositi di scorie radioattive agli ambienti saturi di metano, dalle profondità sottomarine agli strati superiori dell’atmosfera. Non c’è motivo di pensare che non la si possa analogamente trovare dovunque nel cosmo: non solo sugli esopianeti distanti anni luce da noi, ma già sui vicini satelliti di Giove o Saturno, come Europa, Titano o Encelado.
Sorprendentemente, però, tutti gli organismi terrestri appartengono a un unico albero evolutivo, e posseggono un unico codice genetico. Se e quando trovassimo una vita aliena, la prima e massima curiosità sarebbe sapere se la sua chimica e la sua biologia sono le stesse delle nostre. Se lo fossero, ciò costituirebbe un forte indizio del fatto che la nostra vita è solo un esempio di necessità cosmica. E se non lo fossero, ci si aprirebbe dinanzi lo studio delle varie forme di vita possibili, di cui la nostra diventerebbe solo un esempio di contingenza locale.
Non dobbiamo comunque dimenticare che finora non solo l’unico esempio noto di vita è quello terrestre, ma gli unici esempi noti di astronavi in giro per il cosmo sono le nostre sonde: prima fra tutte il Voyager 1, che in quarant’anni ha finora percorso una distanza di 19 ore luce e sta lentamente abbandonando il sistema solare. Si tratta di “un piccolo passo per un’astronave, ma un passo da gigante per l’astronautica”. E non è detto che un giorno, magari quando ormai la Terra e il Sole saranno scomparsi, qualche extraterrestre la avvisti e la scambi per una misteriosa e incomprensibile forma di vita aliena. A conferma del fatto che, nell’universo, siamo tutti alieni: gli altri per noi, ma anche noi per gli altri.
- Piergiorgio Odifreddi - Pubblicato su Repubblica dell'11 ottobre 2017 -
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