venerdì 26 febbraio 2021

Il Complotto e lo Stato

Sul complottismo in generale e la pandemia in particolare
- da Théorie Communiste, gennaio 2021 -

« Ci nascondono tutto, non ci dicono niente
Più impariamo, meno sappiamo.
Non veniamo informati su niente
Adamo aveva un ombelico?
Ci nascondono tutto, non ci dicono niente
(...)
Il caso comesichiama e la storia sounasega
il cui assassino non si trova
Ci nascondono tutto, non ci dicono niente
Giocano a nascondino e a scaricabarile
A moscacieca e a pincopallino
Sono i re dell'informazione.
»
(Jacques Dutronc, 1967)

«Immaginate che ci abbiano mentito, nei secoli dei secoli/ Che ci siano alcune comunità di alto rango che conoscono le risposte/ I segreti della vita, non quello che ci lasciano vedere.» (Keny Arkana).

Alcune considerazioni preliminari
Nel modo di produzione capitalistica, la popolazione non è un fatto di «natura», e la sua produzione, riproduzione, gestione e le categorie che la costituiscono sono il prodotto dei rapporti di classe e di genere che ne strutturano la sua formazione e la sua evoluzione. Questa popolazione esiste socialmente e si riproduce solo in funzione del capitale. Non c'è alcun substrato intatto o puro che possa servire come prefigurazione di qualcosa; non esiste felicità o sofferenza, buona salute o malattia; non c'è un modo di vivere o di morire che possa essere compreso in una maniera diversa da quella che viene espressa dalla relazione di classe e di genere. Dato il soggetto, bisogna aggiungere che questa espressione - che viene rinnovata continuamente come prodotto storico della relazione di classe e di genere - esiste nella quotidianità del pensiero e dell'azione per tutte le classi, e ancor di più all'insaputa (ma a partire dalla «loro spontanea volontà», dal loro «libero arbitrio») dei suoi attori, per quel che attiene alle classi dominanti o superiori. Questa riproduzione non è una meccanica ideale e fredda dei rapporti di produzione che viene messa in moto dai suoi propri materiali ideali. I rapporti di classe e di genere, in quanto rapporti di produzione, non sono nettamente definiti, ma esistono in una complessità che può essere compresa concettualmente come un dispiegamento dinamico delle categorie di sfruttamento (il rapporto tra lavoro in eccedenza e lavoro necessario) su tutti gli aspetti dell'esistenza che il modo di produzione capitalistico mobilita a partire dal suo carattere totale. Ragion per cui, la popolazione viene prodotta ed esiste certamente nei rapporti di produzione in quanto tali, ma proprio a partire da questo, nell'esistenza quotidiana costituita dalla (ri)produzione del rapporto di sfruttamento nel suo insieme - vista come condizione dell'esistenza dei rapporti di produzione in senso stretto (attraverso le ideologie, i pensieri, l'affettività, la socialità, il tempo libero, la salute, l'alloggio, il nutrimento, la sintomatologia, la registrazione istituzionale, l'identificazione di genere sui documenti della previdenza, ecc.). Far stare insieme tutti questi elementi disparati o eterogenei, non è compito di un Macron o di una lobby, per quanto potente essa possa essere, e non è neppure il prodotto di un caso o della mancanza di intenzioni, di volontà e di decisioni. Sono sempre le strutture che dominano gli individui o i gruppi di individui e le loro azioni, i loro pensieri, le loro ideologie, ecc. e sono esse stesse l'espressione di quelle relazioni di classe e di genere che producono e che riproducendole, naturalmente, le riproducono. [*1]

Partiamo da un'idea semplice, perfino semplicistica.
Nessun Stato, nessuna borghesia rovinerà la propria economia (già di suo non particolarmente brillante) al fine di rafforzare il «controllo»  e l'«asservimento» della popolazione o per favorire i laboratori e le altre Gafa [N.d.T.: GAFA: Google, Amazon, Facebook e Apple]. Al limite, questa potrebbe essere un'opportunità, ma da manipolare con estrema precauzione da parte di questa classe dominante, per evitare gli effetti perversi che potrebbe avere sul lavoro, sulla produzione generale, sulla riproduzione della forza lavoro, sulla circolazione, sul consumo e, in maniera globale, sulla vita sociale quotidiana che alimenta il modo di produzione. Passiamo ora a un livello più elaborato, relativo alla meccanica del discorso complottista (o cospirazionista).

* Non accusare mai l'istituzione, il potere, il bersaglio in generale, di «complotto». Non usare mai questo termine.
* Porsi come avanguardia illuminata.
* Affidarsi alla scienza e alla ragione (proliferazione di note a piè di pagina, oscuri riferimenti accademici, link ipertestuali, grafici, mappe, ecc.).
* Porre sempre la domanda: «A chi giova il crimine?» Designare per ogni avvenimento un responsabile, un leader, un'organizzazione (se possibile, un gruppo occulto), e una singola causa. In questo modo, si potrebbe dire che - dal momento che la rivoluzione bolscevica del 1917 è stata in parte resa possibile nelle condizioni della prima guerra mondiale - il nazionalista serbo che assassinò a Sarajevo l'arciduca d'Austria era un agente di Lenin.
*
Accumulare dei «dettagli inquietanti», collegandoli fra di loro.
* Rifiutare il caso, vedendo perciò solo le correlazioni necessarie («Sai cosa ...?»; «Non è una coincidenza se...»)
* Basarsi sulla storia e trovare ogni genere di eventi simili per quanto siano disparati, purché «somiglianti».
* Tenere presente che il nemico (organizzazioni occulte, servizi segreti, Goldman Sachs, ecc.) non commette mai errori. Tutto ciò che avviene è voluto e non può essergli sfuggito.
* Inversamente, e simultaneamente, il nemico commette degli errori da novellino (e qui torniamo ai «dettagli inquietanti» dell'inizio.
* Rifiutare la contraddizione, escludendola in maniera automatica, nella misura in cui essa può originarsi solo a partire solo da chi ha degli interessi legati a chi «dirige l'orchestra».
* Ricostruire il mondo come se fosse una «totalità espressiva» (la totalità è sempre presente in ciascuno dei suoi elementi, o in ciascuna delle sue parti). Ma, purtroppo, non tutti sono Leibniz e perciò sorvoleremo su qualche  correlazione abusiva.
* La totalità espressiva si esprime attraverso una «teoria delle catastrofi» (il battito d'ali della farfalla australiana e il ciclone in Giamaica), ma senza entropia, dal momento che tutto si risolve nella realizzazione di un unico fine ben concepito.
** Qui la conclusione: il sistema è chiuso, non può essere manomesso ed è teleologico. Veniamo ai fatti: Più precisamente, nel contesto dell'attuale pandemia, la rabbia da complotto attraversa più fasi:

- 1 - La rabbia per certe misure sanitarie varate dai governi sono viste come liberticide. Queste misure sono: l'uso della maschera, soprattutto per i bambini, la chiusura delle attività commerciali «non essenziali» attraverso una blanda critica per la divisione essenziale/non essenziale, la regolamentazione degli spostamenti, la sorveglianza per mezzo di attestati, la realizzazione di App del governo per mappare il Covid per fermarlo, l'emarginazione dei ricercatori che mettono in discussione le strategie governative contro l'epidemia, l'istituzione di un Consiglio di difesa e di uno stato di emergenza per non passare dal parlamento, il coprifuoco, la prospettiva della vaccinazione obbligatoria in nome della libertà di curarsi, ma allo stesso tempo la critica al rifiuto delle autorità sanitarie di fornire sistematicamente l'Idrossiclorochina e altri trattamenti antibiotici che vengono a volte utilizzati, soprattutto negli Stati Uniti

- 2- Questa rabbia crea delle connessioni con tutta una serie di diverse e variegate fonti di informazione, di intellettuali e di ricercatori, il cui punto comune è fornire una prospettiva dissonante ma vendicativa rispetto gli intellettuali mainstream.

- 3 - La spiegazione che parte da una volontà deliberata del governo volta ad asservire le persone attraverso delle misure liberticide , e di renderle servili per mezzo della paura coagula tutti gli elementi più disparati. In generale, per coloro i quali non hanno paura del Covid la paura diviene l'emozione più sbeffeggiata e più avvilente.

- 4 - La conclusione è che il governo e le lobby costituiscono una cricca dominante che è riuscita a menare per il naso le popolazioni instupidite dalla paura grazie ad un virus che a malapena esiste, a manipolare le cifre, a bloccare l'economia con il semplice scopo di asservire le popolazioni che in fin dei conti sono buone solamente a ingrassare l'industria farmaceutica.

Eppure, però...

* questo attaccamento, e questa promozione di libertà individuali,
* questa riflessione, che per asserire la legittimità di un punto di vista fa riferimento a una congrega di intellettuali più o meno a posto, ma che si nascondono sempre dietro dei titoli che sono più prestigiosi di altri,
* questa enfasi sull'asservimento di tutti, sulla paura che li blocca, e dalla quale questa avanguardia illuminata riesce a sottrarsi per portare avanti coraggiosamente un discorso libero e senza maschere,
* e infine questa visione della popolazione come vista solo per il consumo della poltiglia prodotta da una qualche sorta di lobby industriale, mediatica e farmaceutica.

Tutti questi elementi indicano in maniera violenta fino a che punto un tale pensiero possa venire solo a una categoria della popolazione la cui intera esistenza dipende dalla capacità di produrre, e riprodurre una parte dell'ideologia capitalistica, prendendola alla lettera. Vale a dire, secondo una versione che sia corrispondente, e non contraddittoria, alla sua propria esistenza stessa, la quale fa riferimento al posto che essa occupa nei rapporti di produzione. Nei termini di quella che è la sua iscrizione sociale, l'esperienza vissuta da questa categoria di individui è:

* Una relazione non contraddittoria con la libertà individuale di cui essi godono. Il loro essere iscritti alla comunità del capitale in quanto società capitalista, è tale che la loro esistenza di individui isolati non è in contraddizione con la loro dipendenza da questa comunità, dal momento che tale dipendenza non viene vista come una costrizione violenta, ma piuttosto viene vissuta come partecipazione spontanea, in totale solidarietà con le sue istituzioni (si veda più avanti per gli organi dell'apparato statale). Si tratta dell'individuo isolato della libertà e della scelta, e non dell'individuo isolato la cui libertà di scegliere lo porta ad un peggioramento immediato, e lo spinge al vagabondaggio e alla precarietà dissafiliata.
* Una visione normativa della società che viene vista come se dovesse promuovere il libero sviluppo individuale, attraverso la libertà educativa, la libertà sanitaria, la libertà alimentare, la libertà artistica, insieme - nel peggiore dei casi - a un minimo intervento statale che permetta loro di riprodursi come individui isolati, in accordo con l'ideologia capitalistica. E in effetti, la riproduzione dei lavoratori vista come una responsabilità privata è l'ideale capitalista. Sebbene, tuttavia, sia per il proletariato che per le classi superiori, questa responsabilità privata sia sicuramente impossibile, per quanto essa permetta, a libello di esperienza vissuta, l'illusione del libero arbitrio. Ed è grazie a questa sicurezza e a questa omogeneità di una riproduzione senza rimanenze, che tale pensiero può denunciare l'intervento dello Stato additandolo come sistema totalitario e fraudolento.

Questo libero sviluppo dell'individuo nella società, si scontra con l'appartenenza di classe in quanto costrizione interiorizzata, la quale è effettivamente liberticida a partire dalla sua base contrattuale di libera compravendita di forza lavoro. Così, il ricatto di ritirare i propri figli dalla scuola, o quello di opporsi ad una politica sanitaria, esiste solo per quelle persone la cui appartenenza sociale non solo è garantita nei fatti, ma anche nella piena adesione all'ideologia del contratto sociale capitalista e nella sua funzione di cementare le relazioni sociali capitalistiche. Ci sono alcuni che possono permettersi di minacciare di ritirare i propri figli dalla scuola, quando altri invece sanno che la scuola pubblica mette fuori gioco le persone, offrendo loro sempre meno protezione a causa della mancanza di mezzi, di mancanza di controllo sulla «mappatura scolastica» e/o a causa dell'essere passati dalle politiche di integrazione a quelle di lotta contro la «radicalizzazione» e il «separatismo». Questa visione delle popolazioni viste come masse abbrutite di consumatori schiavi delle lobby, ci parla di quanto coloro che se ne fanno portatori siano ideologicamente dominanti, quanto produttivamente inutili, e allo stesso tempo idioti fino al punto di arrivare ad essere ciechi di fronte al fatto che è il lavoro produttivo alla base di quel mondo che essi celebrano a vuoto attraverso le loro denunce. Bisogna intrattenere un rapporto con l'esistenza del tutto particolare, per arrivare a sostenere che la paura sia un freno, come se questa fosse una scelta. Tutto ciò che riguarda i vincoli violenti e «ingabbianti» dell'appartenenza di classe, deve essere ignorato , se la si vuole vedere come se fosse una questione di manipolazione ideologica. E infine,  per arrivare a ritenere che la paura impedisca di pensare, bisogna vivere un'esistenza ovattata, nella quale l'indignazione cerca di spacciarsi per lotta sociale.

I motivi esterni dell'ideologia complottista
La società si trova ad essere decomposta in quella che è una somma di elementi discreti, separati e indipendenti: lavoro, educazione, salute, salario, consumo, tempo libero, privacy, famiglia, rapporti amorosi, ecc. Bisogna inoltre considerare che tutti questi elementi, così come attualmente sono, non sono organizzati come dovrebbero essere dalle attività, dalle pratiche, dalle intenzioni, dalla manipolazione, dalla pubblicità e dai malevoli interessi di un certo numero di individui che formano una casta che comprende le banche, i grandi proprietari, i media, i laboratori farmaceutici, i governi (non in quanto Stato, ma come bande organizzate. Detto in una parola: le élite. L'ordine che promana spontaneamente da tutti questi elementi è una versione corrotta dell'ordine necessario.
Il complottismo opera a partire da una concezione dello Stato piuttosto banale, che lo vede alla base dell'ideologia giuridica e democratica, ma che è anche la nostra comune sorte quotidiana. Da un lato, ci sarebbe il potere dello Stato, e dall'altro l'apparato dello Stato o la «macchina statale», come la chiamava Marx. Il problema risiede nel fatto che l'apparato statale che si materializza nei suoi organi, nella loro divisione, nella loro organizzazione, nella loro gerarchia, nel potere statale di una classe (e di una sola), tutto questo è allo stesso tempo sia organizzazione della classe dominante (in quanto potere di Stato detenuto dalla frazione momentaneamente egemonica della classe dominante, per conto dell'insieme di tutta questa classe) sia organizzazione di tutta la società sotto il dominio di questa classe. Ma se da un lato, lo Stato del modo di produzione capitalista realizza completamente la fusione di queste due funzioni [*2], dall'altro esso diventa la necessità «naturale» di ogni riproduzione sociale. Mentre, è la loro stessa divisione e la loro separazione fondamentale (reale e ideologica) dai rapporti di produzione, a rendere necessariamente di classe gli organi di un apparato statale  (si veda Marx, "La guerra civile in Francia" ), oramai tutti gli organi dell'apparato dello Stato (esercito, polizia, amministrazione, tribunali, parlamento, burocrazia, istruzione, previdenza sociale, informazione, partiti, sindacati, ecc.) appaiono solo come strumenti che possono essere piegati alla volontà di chi li controlla. Da questa duplice funzione dell'apparato statale (non due funzioni, ma una duplice funzione), come dittatura di una classe e come riproduzione di tutta la società, derivano sia la fusione che la neutralità degli organi. Per il complottista, rispondendo così al pensiero spontaneo, questi organi sono neutri, e nella loro stessa esistenza e forma non sono quelli di una dittatura di classe. Di conseguenza, se non funzionano «come dovrebbero», come un «bene comune», ciò avviene perché sono prevaricati, deviati e pervertiti da una cricca, da una casta. Il complottista è il cittadino ideale.
Basandosi su questa concezione «naturale» dello Stato, il complottismo non è affatto la «psicopatologia di qualche sbandato», ma è il «sintomo necessario dello spossessamento politico» e della «confisca del pubblico dibattito». È la risposta alla «monopolizzazione del discorso legittimo» da parte dei «rappresentanti»  assistiti dagli «esperti», dove ogni critica diventa un'aberrazione mentale che viene immediatamente squalificata come «complottista». È vero che il complottismo è diventato la nuova cifra del cretino, e questo perché è diventato anche il nuovo luogo comune della stupidità giornalistica e di numerosi filosofi e sociologhi che si guardano bene dal puntare il dito contro un presidente della Repubblica che sostiene che i Gilet gialli sono il prodotto di una manovra di Putin (Le Point, febbraio 2019). Lordon, il quale ritorna regolarmente sull'argomento su Le Monde Diplomatique del giugno 2015, sintetizzava: «Ma ancor più dello spossessamento, il cospirazionismo, che per le élite è il sintomo di una minoranza irrimediabile, potrebbe essere la paradossale indicazione che il popolo, di fatto, ha conquistato la maggioranza dal momento che vengono rispettosamente ascoltate abbastanza dalle autorità, e sta cominciando a immaginare il mondo senza di loro.»
Il complottismo non sarebbe perciò un sistema di risposte con delle determinazioni sociali proprie, ma piuttosto una semplice reazione giustificata in maniera negativa. Se questo non basta, allora bisogna cogliere la natura della «reazione» in maniera positiva, come un sistema di risposte adeguato a ciò che lo provoca. Il complottismo appare allora come una contestazione dell'ordine dominante, simile quasi a una lotta di classe. Ma non è così. Così come l'antisemitismo è stato il socialismo degli imbecilli, il complottismo è la lotta di classe degli esperti in materia che non si posizionano da nessuna parte in particolare, non nella società, e neppure lungo uno spettro politico-ideologico. La «risposta complottista» vuole esattamente questo mondo, lo stesso Stato, ma liberato dalla «casta»: «immagina il mondo senza la casta». Si tratta soltanto di mantenere tutti gli elementi di questa società, sottraendoli però alle pratiche di questi individui «malvagi» e «manipolatori» che pervertono e corrompono. Vuole un vero sistema salariale, una vera istruzione, una vera politica sanitaria, una vera democrazia, una vera informazione, una vera agricoltura, un vero consumo, una vera economia, un vero Stato. Il complottismo critica tutto, e desidera che ciò che esiste diventi «vero», «reale». Ma nel concepire quello che è il suo oggetto come «lato oscuro» e come détournement demoniaco, questa critica rende tale oggetto un semplice incidente di questo stesso mondo. Così facendo, afferma di non voler fare altro che perseguire il mondo così com'è. L'insieme di tutto ciò che esiste, potrebbe essere così bello se non fosse manipolato, malversato. La classe dominante, la sua riproduzione, le sue pratiche, il perseguimento dei suoi interessi, la produzione ideologica non sono più il prodotto naturale di tutte le relazioni sociali che il complottista vuole conservare, ma sono il risultato prodotto da una banda di delinquenti che ci prende per imbecilli. Il complottista è un furbo suo malgrado, esperto in tutto. È interessante constatare (su questo sono stati fatti alcuni studi) che il complottismo colpisce principalmente i laureati della classe media, quelli che amano il proprio «spirito critico», che se ne vantano e lo mostrano ovunque, avendolo cucito sulla manica. Per quelli che vivono quotidianamente tutte le umiliazioni e le miserie delle relazioni sociali capitaliste, i «complotti» finalizzati ad asservire la nostra libertà in modo da controllarci non hanno alcun senso. Bisogna amarlo questo mondo per non volere esso che ci menta!

A quale generalità fa riferimento il complottismo
Quanto è stato esposto sopra, è solo una piccola analisi del discorso complottista visto come sistema critico, proveniente da una parte - che considera sé stessa come trascurata -, delle categorie dominanti della popolazione per quanto riguarda la gestione statale, e più ampiamente il mondo circostante. Detto ciò, bisogna anche riconoscere che molti temi e caratteristiche del discorso complottista vengono mobilitati in ordine più o meno sparso in un modo che va ben oltre queste categorie dominanti. La questione è quindi anche quella di sapere quale statuto acquisisca questa critica non sistematizzata nel momento in cui essa viene assunta da una frangia significativa delle classi proletarie. Da dove viene questo voler «salvare» lo Stato capitalista? Ed è dello stesso ordine di quel che abbiamo precedentemente descritto? Ma per essere posta in maniera corretta, questa domanda deve includere anche tutti questi temi presi isolatamente come aventi un significato diverso da quello che viene loro conferito dal sistema complottista, proprio a a causa della chiusura di questo sistema che in fin dei conti rende il complottista il cittadino ideale, in quanto difensore dello Stato democratico e del lavoratore libero. Non daremo risposte a tutto questo, ma solo alcuni indizi, alcuni dei quali sono già stati sparsi su queste note.
Nel complottismo ci sono delle componenti che ricordano il democratismo radicale: la comunità dei cittadini nello Stato come forma concreta e partecipativa della loro comunità di individui isolati. Ma, a partire dagli anni '90 e dall'inizio degli anni 2000, la situazione è cambiata. Nel capitalismo risultante dalla ristrutturazione degli anni 1970/1980, la riproduzione della forza lavoro è stata oggetto di una duplice disconnessione. Da una parte c'è sta una disconnessione tra la valorizzazione del capitale e la riproduzione della forza lavoro, mentre, dall'altro lato, abbiamo avuto la disconnessione tra il consumo ed il salario come reddito.
La rottura di una relazione necessaria tra valorizzazione del capitale e riproduzione della forza lavoro, si ripercuote sulle aree di riproduzione coerenti con la loro delimitazione nazionale, e perfino regionale. Si tratta allora di separare, da un lato, riproduzione e circolazione del capitale, e dall'altro lato, riproduzione e circolazione della forza lavoro. Quasi identica ad una crisi di sovraccumulazione e sottoconsumo, la crisi del 2008 è stata una crisi della relazione salariale che è diventata crisi della società del salario, mettendo in moto tutti gli strati e le classi della società che vivono di salario. Ovunque ci si trovi, con la società salariale, si tratta sempre di politica e di distribuzione. In quanto prezzo del lavoro (nella sua forma feticcio), il salario si appella, com'è normale, all'ingiustizia della distribuzione. L'ingiustizia della distribuzione ha un responsabile che ha «fallito nella sua missione»: lo Stato. La posta in gioco diventa così la legittimità dello Stato  nei confronti della sua società. Il proletariato prende parte a tutto questo, alla sua stessa strutturazione in quanto classe coinvolta. Nella crisi della società salariale, le lotte che si svolgono intorno alla distribuzione designano lo Stato in quanto responsabile dell'ingiustizia. Questo Stato, è lo Stato denazionalizzato, agente di una globalizzazione che lo attraversa a sua volta. Contrariamente a quanto faceva la «denazionalizzazione», le politiche keynesiane erano parte di un «nazionale integrato»: una combinazione di economia nazionale, di consumo nazionale, di formazione e di educazione della manodopera nazionale, e di gestione e controllo della moneta e del credito. Nel «periodo fordista», lo Stato era inoltre diventato anche «la chiave del benessere», la quale, destinata ad essere tolta di mezzo durante la ristrutturazione degli anni '70 e '80, è poi stata proprio questa a diventare la sua cittadinanza. Per quanto questa vocazione sia un'astrazione, essa fa riferimento a dei contenuti molto concreti: piena occupazione, famiglia nucleare, ordine-protezione-sicurezza, eterosessualità, lavoro, nazione. È intorno a tali temi che durante la crisi della società salariale si ricostruiscono ideologicamente i conflitti di classe e la delegittimazione di ogni discorso ufficiale. Ecco che allora la cittadinanza diventa l'ideologia sotto cui viene portata avanti la lotta di classe. Esiste un chiaro legame tra il successo delle tesi complottiste e buona parte di espressioni come per esempio i Gilet gialli. Oltre alle somiglianze nella forma dei discorsi, troviamo una denuncia dell'incompetenza dello Stato, della critica della globalizzazione, dello Stato denazionalizzato. A prima vista, questa delegittimazione e questa ideologia cittadina (dal momento che il complottista è l'archetipo del buon cittadino) appare essere critica, ma solo nella misura in cui si tratta di un linguaggio delle rivendicazioni che vengono viste nello specchio offerto loro dalla logica della distribuzione e della necessità dello Stato. Le pratiche che operano sotto questa ideologia sono efficaci perché rimandano agli individui un'immagine plausibile e una spiegazione credibile di ciò che essi sono e di che cosa stanno vivendo; tali pratiche sono costitutive della realtà della loro vita quotidiana. La ricostruzione ideologica dei conflitti di classe diventa così il popolo contro le élite che monopolizzano il discorso legittimo (come è sempre stato), ma si tratta di un discorso che non ha più alcun senso. Il conflitto si trasforma in un conflitto culturale che viene combattuto in nome dei valori: l'inganno e la menzogna contro l'autenticità e la verità (che poi sarebbe ciò che ci viene nascosto, come cantava ironicamente già ai suoi tempi Dutronc, e come canta stupidamente oggi Arkana).
Nel complottismo, ciò che è in gioco, in maniera del tutto perversa come «conflitto», è la relazione tra lo Stato, tra tutti i suoi apparati ideologici, la classe dominante nel suo insieme, e la sua società. Nel contesto della crisi degli Stati e di tutti i loro apparati nei confronti delle loro società, il discredito sociale in cui è caduta questa relazione conferisce alle denunce di tipo complottista una loro dimensione generale. E lo fa in maniera del tutto perversa, dal momento che il funzionamento stesso del complottismo presuppone il voler mantenere questa società così com'è. E tutto ciò si verifica nella misura in cui la classe dominante equivale a nient'altro che a una élite parassitaria che si mantiene attraverso la menzogna, e non in quanto classe dominante, cioè come la necessità stessa di questa società e di tutte le sue relazioni.
Il fatto che le principali aziende di Wall Street si rivolgano alla U.S. Securities and Exchange Commission, l'Agenzia di regolamentazione del mercato dei capitali negli Stati Uniti, per ottenere la modifica di una legge, o di un vantaggio di qualche tipo, non è un «complotto», per quanto l'azione sia stata concertata e celata. Il fatto che i rappresentanti generali economici della classe capitalista americana (e mondiale) si rivolgano ai rappresentanti generali della legalità di quella stessa classe, non è affatto un «complotto», ma è lo Stato. Oppure, forse, si immagina che lo Stato è, o dovrebbe essere, qualche «altra cosa». Al posto delle relazioni sociali capitalistiche (che si vogliono mantenere), non ci sarebbero altro che un piccolo numero di uomini cinici che basano il loro dominio e il loro sfruttamento del «popolo» su una falsa rappresentazione del mondo che si sono inventata per asservire le menti. Il complottismo, ha bisogno di questa concezione semplicistica dell'ideologia, del modo di produzione e dello Stato  per essere ciò che è: l'apologia e la conservazione delle attuali condizioni di esistenza. Ma purtroppo, o per fortuna, come pratica quotidiana, l'ideologia è un'altra cosa: è la pratica dei soggetti che, in quanto tali, riescono ad immaginare di essere stati ingannati (cosa ovvia per un soggetto). Il modo di produzione, è qualcosa di diverso dal «massimo profitto». Lo Stato, con i suoi apparati, qualcosa di diverso da una «cricca». Il complottismo è un approccio globale alla società. Per rispondere alla domanda circa la generalità di alcune delle sue caratteristiche, gli sviluppi summenzionati forniscono qualche indicazione, qualche indizio ed alcuni elementi di comprensione al fine di riuscire a porre «correttamente» la domanda, senza riuscire ancora a formalizzare la risposta.

Concludiamo (momentaneamente)
Le manovre, gli intrighi, le carambole a tre sponde sul biliardo esistono, ma non spiegano niente; hanno bisogno, esse stesse, di essere spiegate come eventi storici correlati e intercambiabili. Nella storia, il complottismo non ama la «lunga durata». Davos è uno scenario decisivo per la globalizzazione, ma è stata la globalizzazione ad aver fatto Davos, e non il contrario. Se, contrariamente a quanto ci dicono Marx ed Engels nelle prime pagine dell'Ideologia Tedesca, il «mondo» non è affatto un «libro aperto», ciò è dovuto al fatto che la sua comprensione richiede la produzione di concetti, e non perché dietro si nasconde una corporazione, una casta di orchestranti e di Illuminati.

Tarona – R.S. - Gennaio 2021

NOTE:

[*1] - Si riportano, come aneddoto su queste considerazioni sulla popolazione, due eventi significativi avvenuti durante le vacanze di Ognissanti del 2020 - il secondo Lockdown e l'assassinio di Samuel Paty - che hanno messo in scena due agenti fondamentali in questa riproduzione di quelle categorie della popolazione che sono i genitori: 1) Quelli che si indignano cotro la volontà di asservire e di disumanizzare la loro progenie attraverso l'uso delle maschere a scuola a partire dai 6 anni di età, minacciano di non mandare più i loro figli a scuola; 2) Altri, per i quali la priorità era quella di difendere disperatamente la conformità alla scuola repubblicana della propria prole, attraverso il bisogno urgente di far capire ai loro figli - provenienti da un contesto di immigrazione - il divieto di parlare, di reagire e di riferirsi all'assassinio dell'insegnante avvenuto all'inizio dell'anno, con il rischio di espulsione e di sanzioni istituzionali e finanziarie per le famiglie interessate.

[*2] - In questo, si differenzia dallo Stato feudale e dall'«Ancien régime».

fonte: Théorie Communiste, la soute

giovedì 25 febbraio 2021

Paura dell’apocalisse

« In sostanza, la proiezione di una “apocalisse” e delle “fantasie sulla fine del mondo” ecc. - quasi religiose - viste nel contesto di base della teoria radicale della crisi, è fuorviante. In realtà, questa fantasia si colloca interamente dal lato degli oppositori della teoria radicale della crisi: sono loro che hanno bisogno di intendere il limite interno assoluto - determinato concettualmente e analiticamente dal modo capitalista di produzione della vita e storicamente limitato - come semplicemente una “fine del mondo”, proprio allo stesso modo in cui lo fanno i difensori ufficiali di quest'ordine di cose, poiché dopo tutto questo è il loro mondo e non possono né vogliono superarlo. Perciò, anche per loro, la critica categoriale dev'essere abbandonata a favore di quello che più interessa loro. Dopo il capitalismo - ossia, dopo il patriarcato moderno produttore di merci e del suo contesto formale di socializzazione negativa - non può e non deve venire niente di diverso, dal momento che, in partenza, qualsiasi alternativa può “essere autorizzata”  ad essere pensata soltanto in queste forme basilari, oppure in quelle forme che ne sono solo meri surrogati. Come può essere descritto un simile atteggiamento, se non come una “questione di fede”? Perfino ancora prima di formulare le proprie basi teoriche, questi realisti presuntuosamente “illuminati” sulla situazione, avevano già espresso la loro fede relativamente alla possibile eternità di questo loro mondo. Sono loro che di fronte al fondamento teorico di un limite interno storico del capitale, dimostrano di avere un'irrazionale pre-teorica “paura dell'apocalisse”, perché la loro coscienza è intrappolata nelle forme feticiste. »

 (Robert Kurz, da "Crisi e Critica" )

martedì 23 febbraio 2021

Lavorare ?!?

Dalla religione patriarcale del lavoro alla femminilizzazione repressiva
- di Ernst Lohoff -

Il periodo di tempo tra la fine del 19° secolo e l'inizio del 20° è stato, in generale, un'epoca di sfrenato ottimismo all'insegna del progresso, da quale ci si aspettava che portasse in paradiso in terra, sulla base dello sviluppo costante della ragione e del trionfo della moderna tecnica. Tuttavia, mentre l'avversario «borghese» si preoccupava principalmente del dominio della natura da parte delle scienze naturali, il marxismo, in quanto variante democratica della religione del progresso , aveva posto il valoro a vero garante di un futuro luminoso. Secondo il credo marxista, rappresenta solamente gli interessi privati. Il lavoro, da parte sua, è il vero artefice del trionfo dell'uomo sulla natura, cosa cui ogni individuo in parte contribuisce attraverso la sua realizzazione produttiva. La forma di attività capitalista, profondamente razionalizzate e ridotta al suo nucleo funzionale, è stata celebrata come incarnazione per eccellenza del fare umano e, allo stesso tempo, è diventato un presupposto del successo dell'obiettivo socialista. Agli occhi del marxismo, la vittoria dell'emancipazione sembrava inevitabile, poiché era convinto che, grazie al potere del lavoro, sarebbe stato in grado di contrapporre la «ragione pura» - diventata pratica e con un impatto sulle masse - al cieco rapporto di sfruttamento capitalista. Supporre che il lavoro industriale e il dominio capitalista avrebbero dovuto rivelarsi, in ultima analisi, incompatibili, era un'ipotesi costruita fin dall'inizio sulla sabbia. Eppure, sono stati necessari molti decenni prima che, dopo ogni genere di lotta, questa aspettativa venisse screditata, anche in termini pratici, dallo sviluppo reale. Il risultato fu ancora più chiaro: la lotta per il diritto al lavoro (industriale) e il suo vettore sociale - la classe operaia -, contro ogni previsione, non portò in alcun modo alla ribellione, prevista da Marx, contro tutte quelle situazioni in cui l'uomo deve vivere come un «essere oppresso».  Invece, l'espandersi del regime di fabbrica e i successi del movimento operaio hanno favorito l'immagine del lavoratore bianco e maschio che realizza un modo di esistenza altamente (auto)repressivo e distruttivo.
La classe operaia - una classe di proprietari di forza lavoro - non ha indebolito in alcun modo le basi del dominio dell'uomo sull'uomo, come pensava il marxismo, ma ha indebolito piuttosto le basi ecologiche, oltre a contribuire a una nuova fondazione del dominio patriarcale. Il lavoro razionalizzato, così come la ragione - incarna una logica patriarcale-maschile indifferente ad ogni sensibilità. Dall'etica del lavoro proletario all'orgoglio del lavoro riproduttivo femminile: la sinistra si è preoccupata di una tale svolta - al più tardi alla fine degli anni '70 - nella misura in cui aveva abbandonato quella che era la sua fede nella classe operaia in quanto portatrice di emancipazione. Ad aver giocato un ruolo fondamentale - oltre alla questione ecologica - è stata la critica femminista. Il movimento delle donne ha insistito giustamente sul fatto che l'apologia del lavoro industriale si basava sulla svalutazione delle attività domestiche.
Anche se il marxismo del movimento operaio era passato di moda, l'idea marxista originale, per cui l'emancipazione continua ad essere un potente alleato per la logica inerente allo sviluppo produttivo capitalistico, era sopravvissuta all'«addio al proletariato» (André Gorz). La strada verso l'emancipazione non veniva aperta dal trionfo del lavoro industriale, bensì dal suo ritrarsi. Ha messo nell'agenda storica «liberarsi dal falso lavoro» (Thomas Schmitt), secondo quella che all'inizio degli anni '80 era la linea prevalente nella discussione sulla «crisi del lavoro». Una società nella quale il primato del lavoro retribuito cominciava a dissolversi gradualmente per mancanza di massa, avrebbe sviluppato altri concetti, meno repressivi, di attività, rispetto a quelle tipiche del capitalismo industriale. Se la normale relazione fordista di lavoro, orientata soprattutto alla vendita della forza lavoro bianca e maschile, diventa un modello superato, ecco che allora emerge dall'ombra sociale il «dimenticato» lavoro di riproduzione, che viene eseguito, secondo l'ordine patriarcale, quasi esclusivamente dalle donne. Le forme di attività che si basano su delle specifiche qualità del lavoro delle donne - e che, di conseguenza, sono più compatibili socialmente ed ecologicamente - sono state chiamate a prendere il posto del lavoro industriale.

Femminilizzazione repressiva: dopo venticinque anni - un quarto di secolo - tali aspettative appaiono sotto una strana luce. Quella che era la previsione della «crisi del lavoro», oggi è una diagnosi. Anziché portare alla relativizzazione dell'importanza del lavoro retribuito, questo sviluppo ha spinto invece fino all'estremo la sua importanza. Ma come ora, nella sua crisi, la società del lavoro è stata soltanto ed esclusivamente una società del lavoro. Non esiste una descrizione delle funzioni lavorative in cui la ricerca delle qualifiche «leggére» (capacità di collaborazione di squadra e di comunicazione, flessibilità) che prima venivano classificate come «femminili», non sia in aumento. Tuttavia, anche con questa sorta di «femminilizzazione», il mondo del lavoro non è affatto diventato più umano, ma solo più duro e più totalitario. Ormai non è più sufficiente eseguire in maniera responsabile i compiti assegnati otto ore al giorno. Ora ad essere richiesta è «la persona come un tutto» che deve partecipare alla lotta della concorrenza e, in linea di principio, lo deve fare per 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Mentre nel contempo, e a partire da tutto questo, le normali relazioni di lavoro sono state di fatto smantellate in tutti i sensi. Le forme di occupazione tipicamente femminili, che prima venivano marginalizzate, ora si moltiplicano in modo esplosivo e sostituiscono il lavoro soggetto subordinato a dare un contributo sociale. Ciò non consente assolutamente un modo di vita più ricco e più adatto alle esigenze delle persone che lavorano, ma significa piuttosto un impoverimento che colpisce soprattutto le donne.
Le grandi aspettative di emancipazione post-industriale della sinistra negli anni '80, erano, pertanto, ancora peggiori dei sogni di liberazione industriale del marxismo. Non ultimo, fu solo grazie alle lotte del movimento operaio tradizionale che la generalizzazione del regime di fabbrica venne almeno accompagnata dall'implementazione di migliori condizioni di assoggettamento sul terreno della dominazione capitalistica.
Il disintegrarsi del regime classico di fabbrica, d'altra parte, ha portato a un deterioramento permanente delle condizioni generali di riproduzione  e ha messo in moto intensi processi di desolidarizzazione. Un disastro simile non è però certo una ragione per ritrattare la critica di quelle che sono le normali relazioni di lavoro di carattere patriarcale, al fine di trasfigurare in maniera retrospettiva, per rimpiangere nostalgicamente le condizioni fordiste. Così come sarebbe tuttavia altrettanto errato continuare a nutrire le aspettative emancipatrici degli anni '80 e ignorare il fatto che i sogni di allora si sono infranti, come se ciò fosse stata solo una combinazione negativa di forze politiche. Oggi, una critica radicale della società del lavoro è più urgente che mai, sebbene abbia bisogno di basi teoriche più solide.

- Ernst Lohoff - da "Dopo il lavoro" - 2005 -

fonte: Blog da Consequência

sabato 20 febbraio 2021

Rivelazioni Ontologiche

« Gli dèi non sono frutto di invenzioni, elucubrazioni o rappresentazioni, ma possono soltanto essere sperimentati». Tale era la prospettiva di Walter F. Otto, ribadita in questo libro, che si può considerare il suo lascito: muovendo da una critica serrata alle «posizioni teoriche che continuano a ostacolare la genuina comprensione della religione greca», e lasciando poi risuonare direttamente «la voce del più spirituale e creativo di tutti i popoli ... che ben riusciamo a percepire, purché ci mettiamo in ascolto di quel che hanno da dirci i suoi maggiori testimoni da Omero in poi », Otto ci mostra come i miti siano in realtà autentiche «rivelazioni ontologiche», in quanto nati non già da sogni dell’anima, ma «dalla lucida contemplazione dell’occhio spirituale spalancato sull’essere delle cose». E ci spiega perché gli dèi greci continueranno sempre a parlarci: «Apollo, Dioniso, Afrodite, Ermes e tutti gli altri restano per noi manifestazioni sempre luminose ed estremamente significative. E per quanto possa risultarci difficile credere seriamente in loro, il loro sguardo sublime non cessa di venirci incontro appena ci solleviamo da tutto ciò che è meramente fattuale nelle altezze dove dimorano le forme ».

(dal risvolto di copertina di: Walter F. Otto - Teofania - Adelphi -

Ma i Greci credevano (davvero) a Zeus, Era e alla bella Afrodite? Sì, perché li vedevano
- L'Olimpo è una religione, non un insieme di storielle. Una presenza divina sperimentata in ogni ambito -
di Giampiero Moretti

Questo libro è dedicato a un tema, la religione greca antica, che appassiona da secoli studiosi e non specialisti. La domanda portante di Walter F. Otto, quella che per l'appunto è in grado di affascinare il lettore a prescindere dalle sue conoscenze degli studi classici, è una questione per noi contemporanei apparentemente distante, forse persino secondaria, mentre Otto ce ne restituisce inaspettatamente tutta la profondità e significanza: i Greci hanno davvero creduto ai loro dei? Otto, con tutta la sapienza di un erudito ma con lo stile coinvolgente di uno scrittore di libri d'avventura, nelle sue pagine molto ispirate fa scorrere dinanzi ai nostri occhi le variopinte figure delle maggiori divinità greche; il suo interrogativo, la fede che a suo dire ha animato i Greci nel dar vita a un Pantheon intramontabile, rimane comunque presente e attivo in ogni pagina della sua analisi. E la risposta alla domanda: cosa hanno da dirci gli dei greci? assume man mano la triplice forma della rievocazione di un tempo mai davvero passato, dell'amore per il mondo al quale le divinità greche, ciascuna a suo modo, danno vita, e di un monito al nostro presente. Possiamo davvero permetterci di considerare la religione greca antica come una congerie di fantasie, un insieme di storielle più o meno ben costruite, adatta a passare il tempo a tavola o attorno a un falò, oppure - ma soltanto in alcuni casi molto particolari - come narrazioni dense di significati nascosti, depositarie di verità esoteriche?
Per Otto, la verità della religione greca antica, della religione olimpica, è strettamente legata alla verità e alla presenza del divino. Una presenza che i Greci a suo dire hanno sperimentato in ogni ambito della loro esistenza, e dalla quale sono stati toccati e spesso travolti; certamente però non si tratta di un'escogitazione per sopportare il mondo, ma di una visione per comprenderlo nella sua pienezza.
Che «tipo» di essere umano era «il Greco» per poter sperimentare il divino come costante presenza mondana? Appena ci poniamo questa domanda comprendiamo che le riflessioni di cui Otto ci fa partecipi nel suo testo non possono essere confusi con riferimenti eruditi; e dunque per quanto i riferimenti a Omero e ad altri autori generalmente considerati classici siano frequenti, il lettore non può, neppure involontariamente, scambiarli per abbellimenti accessori di una tesi. Ogni volta, infatti, che Otto parla delle singole divinità, chiamando in causa ora Apollo, ora Afrodite, ora Artemide, egli certamente ricorre ai Classici: la «fonte» della narrazione, il passo citato insomma, non ha però lo scopo scolastico di risvegliare nella mente del lettore memorie di studi lontani, bensì di far emergere l'orizzonte umanissimo, antropologicamente fondato, in cui quella narrazione ha preso forma grazie alla vita del popolo greco.
Otto considera l'apparizione «greca» nella storia dell'umanità un evento eccezionale, irripetibile. Anche questa sua posizione certamente non originale, va tuttavia a sua volta ricompresa nell'orizzonte che le è proprio: eccezionalità e irripetibilità del mondo greco non si trasformano senz'altro nell'immagine più o meno patinata di un modello per sempre irraggiungibile, e dunque situato in un punto lontanissimo della preistoria dell'umanità, consegnato ai nostalgici del mondo antico. I Greci restano una sorta di «compito» e fine utopico cui l'umanità ancora oggi potrebbe tendere, se fosse in grado di migliorare sé stessa. I paragrafi che Otto dedica a considerare l'amore, e non le ben più «moderne» volontà e obbedienza, come caratteristica essenziale del rapporto tra i Greci e i loro dei, la premura che Otto adotta per farci comprendere come l'esperienza greca del divino coincidesse con la rivelazione di un'infinita ricchezza esistenziale, tutto ciò fa parte a pieno titolo di questo libretto, che ben possiamo considerare come un compendio di quel che lo studioso aveva sentito e compreso.
Non dunque il mondo greco come oggetto di studio distaccato e per certi aspetti quasi indifferente a colui che lo accosta nelle sue fondamenta, bensì tema coinvolgente da un punto di vista esistenziale, che viene avvicinato proprio perché, in qualche modo misterioso, chi avvicina la grecità già le deve appartenere, segretamente amarla. In questa prospettiva, il lettore non potrà che perdonare alcune mancanze o frettolosità che pure sono presenti nello studio di Otto, come si perdonano a un sentiero che si inoltra maestoso in un paesaggio straordinario alcune piccole asperità del terreno, che servono a tenerci desti nel cammino.

- Giampiero Moretti - Pubblicato su Tuttolibri del 18/2/2021 -

venerdì 19 febbraio 2021

Due volte orfana

Un western Illuminista?
- di José Geraldo Couto -

"Notizie dal Mondo", di Paul Greengrass, in programmazione su Netflix, è uno di quei western riflessivi che di tanto in tano appaiono per illuminare retrospettivamente il genere, il più tradizionale di tutto il cinema americano. A grandi linee, può essere ridotto alla storia di un ultrasessantenne che si guadagna da vivere andando di città in città per leggere pubblicamente le notizie che appaiono sulla diversa stampa. Quest'uomo è un veterano sudista della guerra civile, il capitano Jefferson Kyle Kidd (Tom Hanks). Un giorno incontra una ragazzina bionda mezzo selvaggia (la favolosa Helenza Zengel) che non parla né capisce l'inglese. Il suo nome è Johanna e sei anni prima era stata rapita dagli indiani Kaiowa, che avevano ucciso i suoi genitori tedeschi e l'avevano cresciuta come una di loro, fino a quando il villaggio non era stato distrutto e gli abitanti massacrati dai coloni bianchi. «Due volte orfana», come viene detto da uno dei personaggi, Johanna è una creaturina insolita e intrattabile, e così il tormentato capitano Kidd si fa carico della missione di trovare per lei una casa che la possa accogliere. Il viaggio di questo improbabile Duo, che si svolge attraverso villaggi precari, piste incerte, deserti e montagne si rivela come un'immersione nel cuore di un'America lacerata da violente dispute sociali, politiche ed etniche. Il territorio attraversato da Nord a Sud è quello del Texas, e l'anno in cui avviene è il 1870, cinque anni dopo la fine della guerra civile.

Cicatrici viventi
Senza smettere mai di concentrarsi sul vincolo affettivo che si viene a stabilire tra i due personaggi, il film riesce comunque ad esibire in questo loro viaggio una notevole varietà di quelli che sono i temi fondamentali della storia americana: lo sterminio degli indiani, la disputa territoriale con il Messico, il rifiuto da parte del Sud di accettare la sconfitta subita dal Nord e la fine della schiavitù, l'espansione verso Ovest per mezzo della nascenti ferrovie, ecc. Un paese nato sulla base della sparatoria e della rissa si lascia dietro molti traumi e molte cicatrici; alcune delle quali ancora assai vive. «Prima il Texas», grida un malvivente ad un certo punto, preannunciando così la parola d'ordine di Trump e dei suoi seguaci xenofobi e suprematisti, «America First». Così come, allo stesso modo, rivisita dei temi scottanti della Storia, il film "Notizie dal Mondo" dialoga anche con il genere western. Esistono western solari che esprimono tutta la potenza di quello che era un paese nascente e in espansione, come "Ombre Rosse" di John Ford (1939), o "Fiume Rosso" di Howard Kawks (1948); ed esistono western crepuscolari che pongono l'accento sulla sconfitta, sulla perdita, sul lutto: "Sentieri Selvaggi", di John Ford (1956), "Sfida nell'Alta Sierra", di Sam Peckinpah (1962), "Gli Spietati", di Clint Eastwood (1992). "Notizie dal Mondo" fa parte, evidentemente, della seconda schiera. Ma con alcune sfumature. Sebbene abbia praticamente inizio sulle rive di quel Fiume Rosso celebrato dal film di Hawks (e che segnava la frontiera con il Messico fino alla cosiddetta annessione del Texas, avvenuta nel 1945), il suo più evidente riferimento è il classico "Sentieri Selvaggi", nel quale un altro ex combattente sudista attraversa mezza America in cerca della nipote rapita dai Comanches e allevata come una di loro. Ma, a differenza del rancore revancista del veterano interpretato da John Wayne, per il quale l'unico indiano buono era un un diano morto, il capitano Kidd ha un atteggiamento tollerante e civilizzato, tentando di capire l'altro e le sue ragioni.

La forza della parola
È qui che risiede il punto di svolta di "Notizie dal Mondo" rispetto al genere. Ex tipografo che ha visto il suo mestiere distrutto dalla guerra, Kidd è un apostolo della parola scritta. Leggendo per le popolazioni rozze e incolte delle profondità interne della regione, egli alterna i diversi ruoli di predicatore, intrattenitore e agitatore politico. È un agente di informazione, di conoscenza, di illuminazione. Una figura che infrange le idee preconcette e destabilizza le relazioni di potere. In contrasto con l'immagine di cinismo e opportunismo che viene associata alla stampa, in western come "L'uomo che uccise Liberty Valance", di John Ford (1962) e come "Gli Spietati", di Clint Eastwood (1992), qui la parola stampata viene invece vista come strumento di informazione e di emancipazione. «Compri dei libri per lei», dice Kidd ad un parente di Johanna, «le piacciono le storie.»[*] "Notizie dal Mondo" è un western illuminista anche in quella che è la sua struttura visiva. Nonostante l'esuberanza dei paesaggi, il mondo sociale che mostra è una manciata di villaggi sporchi e scuri, avvolti dal fango e dalla polvere. Nelle scene notturne, la stupenda fotografia lascia sempre delle vaste zone di oscurità, e forse non lo fa solo per un tentativo di essere fedele alla precaria illuminazione dell'epoca, ma anche per sottolineare che ci troviamo in un'epoca di tenebre. Quello che resiste, è un profondo mito americano; quello dell'uomo integro, disposto e risoluto a fare quello che giudica giusto, anche se per farlo deve affrontare grandi pericoli e avversità. Questo personaggio, che in passato ha avuto il volto di Henry Fonda, James Stewart, Gary Cooper e Gregory Peck, è qui incarnato con dignità e competenza da Tom Hanks.

Lo spettro degli indiani
Degno di nota è il modo in cui nel film vengono presentati i nativi. Emergono in una delle scene più belle e sorprendenti - una colossale tempesta di sabbia - e non sono nient'altro se non dei volti silenziosi, come se fossero fantasmi di un mondo al quale né Kidd né noi, spettatori, possono avere accesso. Quel che rimane di quest'«altra umanità» perduta è l'idioma che Johanna preserva e cerca di insegnare al capitano. In un passaggio altrettanto ispirato, in cui la bambina cerca di esprimere l'idea di «spirito» attraverso dei gesti circolari nei quali unisce la terra al cielo, Kidd risponde con la linea retta del concetto occidentale di progresso. Il tempo ciclico dei nativi americani, in contrasto col tempo lineare e progressivo dei presunti civilizzati. La cosa migliore, è che tutta questa densità di significati e di riferimenti non pregiudica affatto l'efficacia del dramma umano e dell'avventura, garantendo suspense, inseguimenti, scatti, sorprese e colpi di scena, a dimostrare che, ancora una volta, intrattenimento e riflessione non si escludono necessariamente a vicenda: cosa che il protagonista, del resto, esemplifica per mezzo delle sue letture pubbliche. L'ultima notizia che viene letta da Kidd, per la gioia del pubblico, è la storia di un uomo caduto nel torpore, e dato per morto, viene sepolto vivo, ma che avendo battuto con forza da dentro la bara, venne disseppellito. Forse, non è stata una scelta casuale. E secondo quelli che sono i versi di Nelson Sargento, anche il western, come il Samba, agonizza ma non muore.

José Geraldo CoutoPubblicato il 18/2/2021 sul Blog do Cinema do Instituto Moreira Salles -

[*]: N.d.T.:  E «mi piacciono le storie!» lo ripete anche un altro personaggio del film, il quale probabilmente non sa leggere.

fonte: OutrasPalavras

giovedì 18 febbraio 2021

Perdere tempo

« Si era autonominato apostolo del sabotaggio, aveva un sorprendente dono della parola, passava da un lavoro all'altro trasformando i "mangiaufo" in Wobblies e insegnando loro quella che lui chiamava la "tecnica del perder tempo". La insegnò anche a me. Mi diceva: "Non darci così sotto con quella pala, ragazzo! Non romperti la schiena!"
Mi viene a mente quello che un branco di buoni a nulla fece giù a Bedford, nell'Indiana, nel 1908, quando il padrone disse loro che c'era una riduzione sulla paga.
Allora loro andarono in un negozio di utensili e si fecero accorciare le pale e dissero al padrone: “paga piccola, pala piccola”. Gli era scattata la molla giusta: era una forma di sabotaggio istintivo e spontaneo, anche se il sabotaggio, voglio dire la parola "sabotaggio", era allora sconosciuto in questo paese.
E va ancora bene, paga piccola, pala piccola. Prendi tre e cinquanta: pensi che valga tanto il tuo lavoro? Non essere scemo. E allora: pala piccola, e quando nessuno ti guarda, niente pala.
E che vadano al diavolo! Perdi tempo, sciopera sul lavoro. Capito?
Io trovavo che perder tempo, anche quando ero diventato più o meno padrone della tecnica, era più faticoso che lavorare davvero, ma il mio maestro ne era profondamente soddisfatto.
Mi incoraggiava dicendomi che un po' alla volta ci avrei fatto l'abitudine. »

  Louis Adamic – da "DYNAMITE" – collettivo editoriale librirossi – seimila lire

- già pubblicato sul blog il 21/12/2007 -

mercoledì 17 febbraio 2021

Il Manifesto Invisibile

I due Marx
- di Robert Kurz -

Nel momento in cui ci si trova a commemorare delle nascite, delle morti, o altri anniversari che risalgono a più di un secolo prima, l'oggetto del ricordo, il più delle volte, si è già trasformato in un pezzo da museo finito tra i reperti di un passato ormai morto che non suscita più la minima emozione. Le pagine culturali dei quotidiani, i dignitari della cultura e i curatori fallimentari della storia possono celebrare il loro "evento" stando comodamente appoggiati agli scaffali sui quali sono esposti i ricordi che un tempo avevano fatto battere assai più velocemente i loro cuori. Il "Manifesto del partito comunista" del 1848, redatto da due giovani intellettuali allora pressoché sconosciuti, Karl Marx e Friedrich Engels, ha conservato per molto tempo una sua freschezza ed attualità sorprendente. Un testo che, anche dopo più di un secolo, continua ancora a suscitare un odio rabbioso e ad essere messo all'indice - mentre allo stesso tempo ha una diffusione pari a quella della Bibbia - un testo del genere deve per forza contenere tanta dinamite intellettuale quanto ne possa bastare per un'epoca intera.
Ciò malgrado, il "Manifesto" ormai non potrà più festeggiare il suo 150° anniversario come se fosse un documento che viene discusso in maniera controversa nel bel mezzo del tumulto delle lotte sociali. In un qualche punto degli anni 1980 - al più tardi con la grande svolta verificatasi nel 1989 - questo testo rimasto scottante per così tanto tempo, improvvisamente tutt'a un tratto è diventato freddo e scialbo; è come se, da un giorno all'altro il suo messaggio si fosse come ingiallito, e oggi, anche se lo si studia ancora, lo si fa ormai «senza né odio né passione», come se fosse solo la testimonianza di una storia finita. Ma ciò non significa affatto che la teoria di Karl Marx si sia esaurita e sia arrivata alla conclusione della sua parabola; potrà morire e passare alla storia solo insieme al capitalismo. Né significa che si possa  ritenere inaccettabile il contenuto del "Manifesto", a partire dal fatto che sarebbe basato fin dall'inizio su un "errore". Quando il neoliberismo fa simili affermazioni, ciò è dovuto solo al fatto che sta ancora latrando contro ciò che era il vecchio oggetto della sua rabbia, il quale tra l’altro ormai non può più rappresentare alcuna critica al capitalismo avanzato, dimostrando così come continui ad essere ancora aggrappato ai vecchi tempi.
Per poter capire il perché il "Manifesto" sia riuscito ad esprimere una verità per così tanto tempo, e solo verso la fine del XX secolo sia diventato in qualche modo falso, occorre riconoscere il carattere contraddittorio della teoria marxiana che è sempre stata ritenuta e trattata come se fosse un unicum monolitico. Esiste, per così dire, quasi un «doppio Marx»: dentro un solo cranio, ci sono due teorici che seguono delle linee di argomentazione completamente diverse. Il Marx n°1  è il Marx «essoterico» e positivo universalmente noto, il discendente  e il dissidente del liberalismo, il politico socialista del suo tempo e mentore del movimento operaio, che non rivendica nient'altro che dei diritti di cittadinanza e «un giusto salario per una giusta giornata di lavoro». Questo Marx n° 1 sembra adottare il punto di vista ontologico del "lavoro" insieme alla corrispondente etica protestante, egli rivendica il «plusvalore non pagato» e vuole sostituire la «proprietà privata dei mezzi di produzione» (giuridica) con la proprietà statale.
Non c'è alcun dubbio: questo è anche il Marx del "Manifesto comunista", al cui livello il suo aiutante e coautore Engels si è limitato per tutta la sua vita. Si tratta del manifesto della «lotta di classe», e di come essa ha determinato l'evoluzione del mondo moderno tra il 1848 ed il 1989. «Il vostro diritto» - così Marx ed Engels si scagliano contro una borghesia capitalista ancora giovane -  «non è altro che la volontà della vostra classe eretta a legge.»  Oh, certo, ci sono le famose «condizioni materiali», che hanno la loro importanza; ma ciò che in ultima analisi determina e fa avanzare la storia, è la soggettività integrale e la volontà cosciente di quelli che sono gli interessi sociali antagonisti: «classe contro classe», senza che ci si debba interrogare più in dettaglio sul modo in cui questi soggetti sociali collettivi, e i loro interessi, si siano realmente costituiti. Risuonano qui, assai distintamente, echi dei discorsi dell'illuminismo, secondo il quale si può ricondurre, quasi scientificamente, la società e la sua evoluzione a degli atti di volontà cosciente, quasi come nelle scienze naturali.
A partire da questo, l'obiettivo diventa semplicemente quello del rovesciamento dei rapporti di dominio esistenti, cioè a dire, «l'elevazione del proletariato a classe dominante»; e dopo «il proletariato userà il suo dominio politico per strappare gradualmente tutto il capitale alla borghesia». Improvvisamente, qui il concetto di capitale non designa più una relazione sociale, bensì un ammasso di ricchezza materiale che una classe può sottrarre all'altra, e la cui forma sociale non merita più alcuna considerazione. Denaro e Stato, appaiono così come se fossero della entità neutre da disputarsi e di cui l'una o l'altra classe può fare, in qualche modo, il suo bottino; in modo che il proletariato si legittimi moralmente in questa lotta, in quanto portatore di "lavoro" contro i parassitari «redditi senza lavoro» dei capitalisti. A partire da questa logica, il "Manifesto" reclama come misura essenziale la «centralizzazione del credito nelle mani dello Stato» e il «lavoro obbligatorio (!) per tutti», così come la «creazione di eserciti industriali (!)». Adorno sapeva bene di cosa parlava, quando criticava il Marx del "Manifesto" per aver voluto trasformare tutta la società in una gigantesca prigione di lavoro forzato. Le dittature socialiste dello sviluppo, in Unione Sovietica e nel Terzo Mondo, sono state effettivamente portatrici di tutti i connotati che aveva un comunismo di caserma fondato su una visione utopica del lavoro.
Ma c'è anche un Marx del tutto diverso. Questo Marx n°2, è il Marx "esoterico" e negativo che rimane ancora oggi oscuro e misconosciuto. È il Marx che ha scoperto il feticismo della società ed è il critico radicale tanto del «lavoro astratto» quanto della sua repressiva etica che lo accompagna e che caratterizza il moderno sistema di produzione di merci. Il Marx n°2 non concentra la sua analisi teorica sugli interessi sociali immanenti al sistema ma, piuttosto, sul carattere storico del sistema stesso. Il problema smette di essere quello del «plusvalore non pagato», o quello del potere giuridico di disporre della proprietà privata, bensì quella della forma sociale del valore stesso; una forma che è comune a tutte le classi in lotta e che è anche la causa principale della divergenza dei loro interessi. Questa forma è "feticista" in quanto costituisce una struttura senza soggetto, che agisce «alle spalle» di tutti gli individui che sono coinvolti sottomettendoli congiuntamente all'incessante processo cibernetico della trasformazione dell'energia umana astratta in denaro. Sul piano teorico del Marx n°2, alcune affermazioni essenziali del "Manifesto Comunista" sono semplicemente assurde. Qui, il capitale non è una cosa che sarebbe possibile sgraffignare alla classe dominante,ma è la relazione sociale sociale del denaro totalizzato, che in quanto capitale si è riaccoppiato a sé stesso in un circuito chiuso, e così facendo si è reso indipendente attraverso un movimento fantasmatico, funzionando da «soggetto automatico» (come più tardi, scriverà Marx nel Capitale). Pertanto, ne consegue che non si può superare questa relazione assurda e mettere fine al feticismo moderno per mezzo di un semplice tentativo messo in atto dalla lotta degli interessi immanenti al sistema. Invece, in ultima analisi, è necessario una rottura cosciente con quella che è la forma comune ai diversi interessi, in modo da passare dal movimento forsennato del valore e delle sue categorie ("lavoro", merce, denaro, mercato, Stato) a una «amministrazione delle cose» emancipatrice e comunitaria, usando in maniera consapevole le forze produttive secondo criteri di «ragione sensibile», anziché abbandonarsi alla cieca processualità di una "macchina" feticista.
Qual è la relazione tra il Marx n°1 "essoterico" e il Marx n°2 "esoterico"? Il «duplice Marx» non può essere suddiviso in un "giovane" Marx e in un Marx "maturo", dal momento che il problema si estende come una contraddizione che attraversa tutta la teoria di Marx. Si possono trovare elementi di una critica al feticismo della forma valore e del "lavoro" già negli scritti di gioventù che precedono il "Manifesto Comunista", così come, viceversa, anche nel Capitale e negli ultimi testi emergono elementi che fanno parte del modo di pensare sociologicamente ridotto. Il problema sta nel fatto che Marx, ai suoi tempi, non poteva riconoscere la contraddizione esistente all'interno della sua stessa teoria, nella misura in cui questa contraddizione non si trovava solo nella teoria ma anche nella realtà stessa. Marx è stato l'unico ad aver scoperto quella che era la forma comune inedita - e il suo carattere storicamente limitato degli interessi di classe contrapposti - ma questa sua scoperta non poté esercitare alcuna efficacia pratica, poiché il sistema moderno produttore di merci aveva ancora da percorrere una traiettoria di sviluppo lunga 150 anni. Pertanto, per il movimento operaio il Marx n°2 era insignificante, dal momento che gli era possibile percepire solo la variante del "Manifesto Comunista".
In questo senso, la "lotta di classe" può essere intesa in una maniera del tutto diversa dal solito: lungi dall'aver contribuito alla caduta del capitalismo, essa ha costituito piuttosto il motore interno dello sviluppo del sistema capitalista stesso. Il movimento operaio, limitato alla forma feticista dei propri interessi, ha ripetutamente rappresentato, per così dire, il progresso del modo di produzione capitalista, contro il conservatorismo sconsiderato della controparte capitalista. Ha imposto l'aumento dei salari, la riduzione della giornata lavorativa, la libertà di associazione, il suffragio universale, l'intervento dello Stato in economia, la politica industriale e quella occupazionale del mercato del lavoro, ecc. come condizioni necessarie allo sviluppo e all'espansione del capitalismo industriale. Ed il "Manifesto Comunista" è stata la fiaccola che ha illuminato questo movimento storico all'interno del suo involucro feticista.
Se al giorno d'oggi questo movimento si ritrova paralizzato, è perché anche lo stesso sistema capitalista non ha più davanti a sé alcun orizzonte di sviluppo. La "lotta di classe" è arrivata alla fine, e di conseguenza il "Manifesto Comunista" ha perso ogni forza. Il suo linguaggio stimolante si è pietrificato in un documento storico. Il testo è diventato irreale perché ha svolto quello che era il suo compito. Ma proprio per questo, però, è suonata l'ora del Marx n°2, l’ora del Marx "esoterico": il sistema di riferimenti comuni al «soggetto automatico», che all'epoca storica della lotta di classe non veniva percepito come un fenomeno distinto, ed era rimasto in qualche modo "invisibile", ora è diventato un problema bruciante e la sua crisi globale marcherà profondamente il prossimo secolo. Ora ci sarebbe bisogno di scrivere un altro manifesto, un manifesto nuovo, il cui linguaggio non è stato ancora trovato.

- Robert KurzFebbraio 1988 - "Der doppelte Marx" -

fonte: EXIT!

Nota del Traduttore: Già da me tradotto (francamente non troppo bene) nel gennaio del 2014, ho ritenuto di dover mettere mano a questa nuova traduzione, a partire dal fatto che mi è capitato di leggere in giro assurdità a proposito di “lotta di classe” e di “comitato di affari della borghesia”; nel tentativo di continuare a rivogare il solito vecchio «socialismo da caserma», dove la lotta per i propri interessi immanenti sarebbe ancora e sempre l’unico modo per arrivare a sostituire al «comitato di affari della borghesia» quello degli affari del proletariato, in maniera che esso possa continuare a lavorare per l’eternità, continuando a valorizzare il valore, l’ultimo e unico dio che è rimasto a tutti questi begli spiriti che agitano come uno spauracchio il fantasma della realizzazione dell’illuminismo in cui non hanno mai smesso di credere

lunedì 15 febbraio 2021

Raddoppio

« — Tre desideri —   spiegò sbrigativo Sitwell. — È la forma tradizionale.
    — Vediamo se ho capito bene —
disse Edelstein. — Posso esprimere tre desideri qualsiasi? Di mia scelta? Senza  alcuna penalità da pagare, senza “se” e “ma” reconditi?
    — C’è un solo ma —
disse Sitwell.
    — Lo sapevo —
disse Edelstein.
    — Una cosa semplicissima. Qualsiasi cosa desideriate, il vostro peggiore nemico l’avrà in dose doppia.
       
Edelstein ci pensò su. — Perciò, se io chiedessi un milione di dollari...
    — Il vostro peggiore nemico otterrebbe due milioni di dollari.
    — E se io chiedessi una polmonite?
    — Il vostro peggiore nemico si buscherebbe una polmonite doppia. »

Quello che avete appena letto, è più o meno l'incipit, e il succo, di un racconto di Robert Sheckley del 1970, "The Same to You Doubled", che fa parte di un'antologia dal titolo "Giardiniere di Uomini" , pubblicato su un Urania Mondadori del 29/10/1972.
La storia, mi serve per introdurre, in qualche modo, il concetto di "peggior nemico", che  al giorno d'oggi sono sicuro parli ad assai più che ad una persona – tanto per usare un eufemismo. E dico questo in quanto sono convinto che la situazione  prospettata da Sheckley si sia, a dir poco, quantomeno  rovesciata. Nel senso che la maggioranza delle persone si lascerebbe preoccupare - piuttosto che dalla situazione descritta dal racconto - proprio dal suo rovescio. Come se oggi arrivasse un "genio" ad offrirsi di colpire il vostro peggiore nemico con un male (o un "bene") da voi scelto, che a "vostra volta" però riceverete sul groppone, e per giunta in misura doppia. Se gli prospettaste una polmonite, minimo a voi verrebbe il Covid. E se vi arrivano 2 milioni di euro, al vostro peggior nemico ne arriverebbe comunque uno, di quei milioni. Cosa che, detto fra noi, uno potrebbe anche starci, però vuoi mettere che attacco di fegato che ti viene per aver così favorito il tuo peggior nemico!! Così, tanto per dire.... Ecco, se ci pensate bene, è proprio questa la situazione, la contingenza che si è venuta a determinare in questa tarda modernità di crisi in cui tutto va a rotoli e si dissolve, come un ghiacciaio sotto l'effetto del riscaldamento globale.
Finiti i leader supportabili - non se ne vede uno che possa sopravvivere ad una critica onesta - ecco che assistiamo a questa sorta di fiera dell'antipatia (se non dell'odio, ché quello come l'amore costa assai caro, e di questi tempi è meglio economizzare!) dove le scelte di schieramento procedono a partire da chi ti sta più antipatico. Il campionario è vasto assai, da Renzi a Grillo, a Conte, a Draghi, a Berlusconi... vabbè, è meglio che mi fermo prima di commettere "l'errore"  di ricordare magari a qualcuno il nome di un antipatico dimenticato, e riportarlo così in auge. Non sia mai!
Ho visto le menti migliori della mia generazione... Ecco ora qui dovrei dire che dei cervelli niente male si sono messi a fare il tifo, prima per Renzi, perché detestavano Conte, e ora per Draghi. Allo stesso modo in cui, altre menti altrettanto brillanti si sono messe a tifare per Conte (e mal gliene incolse, ahimè) dal momento che provare schifo e repulsione per il bulletto di Rignano sull'Arno non è certo difficile. E così via... Mi fermo qui, per cercare di non annoiare, e finire così poi per risultare antipatico anch'io. Volevo solo dirvi che con il raddoppio è difficile assai. È difficile punire il "peggior nemico" e non farsi stroncare allo stesso tempo da qualche disgrazia o malattia! Non è facile far prevalere il male, per farlo ci vuole gente preparata e intelligente. Si finisce per incorrere in delle figure di merda. Come quella mia ex collega di lavoro, cui si riuscì a farle credere che avevamo avuto una grossa gratifica che a lei era stata negata; e si recò subito in direzione a perorare la causa per cui questi soldi - non che dovessero essere dati anche a lei ma - dovevano essere tolti a noi. Immaginate la reazione! Ah, per inciso, l'autore del racconto, alla fine, la trova la soluzione per sistemare la cosa: ossia, per trarre un vantaggio lui e recare allo stesso tempo nocumento al suo peggior nemico. Solo che mi duole informarvi che se la si fa al contrario, be’ semplicemente non funziona.

Salud

domenica 14 febbraio 2021

Via mare

Per gran parte della nostra storia, mari e oceani hanno costituito le vie principali dello scambio e della comunicazione a grande distanza fra i popoli, i canali primari non solo per l’esplorazione, la conquista e il commercio, ma anche per la diffusione delle idee e delle religioni. Andando oltre i confini della storia navale e ripercorrendo la circolazione umana lungo le coste e attraverso i maggiori specchi d’acqua del pianeta, David Abulafia ci invita a ridisegnare la nostra mappa mentale del mondo e a prendere atto che le rotte marittime sono state molto più importanti di quelle terrestri come forza motrice dello sviluppo delle civiltà. Dalle prime incursioni di popoli su canoe scavate a mano alle più antiche società marinare (come quella dei polinesiani, dotati di straordinarie abilità nautiche, che già nel I secolo a.C., ben prima dell’invenzione della bussola, commerciavano con le più remote isole del Pacifico), dall’epoca dei grandi navigatori e dei grandi imperi coloniali ai transatlantici e alle gigantesche navi portacontainer di oggi, emerge con chiarezza come le reti commerciali marittime siano sorte da molteplici distinte località fino a costituire un continuum di interazione e interconnessione globali, e abbiano così consentito l’incontro di mondi sideralmente differenti e distanti, come per esempio la Spagna e l’America, il Portogallo e il Giappone, la Svezia e la Cina. Seguendo mercanti, esploratori, marinai, conquistatori, avventurieri, pirati, cartografi e studiosi in cerca di spezie, oro, avorio e schiavi, terre da colonizzare e conoscenza, Abulafia ha dato vita a un’opera di storia universale concepita da una prospettiva radicalmente originale (non dalla terraferma e dai suoi confini, come nella maggior parte delle storie del mondo, ma dalle onde del mare sconfinato) e, insieme, a un vivido racconto dell’incessante lotta dell’uomo con la vastità degli oceani, condotta con scopi a volte nobili e a volte esecrabili, ma sempre per viaggiare, commerciare, conoscere e, in fondo, per sopravvivere.

(dal risvolto di copertina di: David Abulafia, "Storia marittima del mondo". Mondadori)

Nel mare...
- di Alessandro Vanoli -

Nel mare si specchia la storia: quella delle grandi civiltà, dei regni e degli imperi; quella dei mercanti e dei sapienti, delle religioni, delle lingue e delle conoscenze; quella di uomini e donne che non avranno mai volto, siano stati essi marinai, soldati, profughi, schiavi. Comprensibile che agli storici il mare piaccia: perché è lo spazio ideale per allargare lo sguardo e cogliere le relazioni che legarono gli uomini su grandi distanze; è un mondo con le sue regole e le sue abitudini, che spesso sopravvivono per millenni, indifferenti a regni e imperi; ed è un mondo dove la lotta per il potere e la ricerca di gloria e ricchezze si sono esercitate spesso su immense distanze. Insomma è nel mare che gli storici possono cercare nel passato tante tendenze del mondo presente: lo scambio tra le culture, i fenomeni migratori, persino i sintomi antichi della globalizzazione. Per ovvie ragioni questo tipo di studi si è concentrato per lo più su spazi relativamente chiusi.
Il Mediterraneo innanzitutto, che rappresenta la radice principale di gran parte della nostra civiltà. Da Omero ai mercanti arabi, per arrivare alle migrazioni odierne. Ma attraverso lo studio di un caso non è difficile convincersi che gran parte della nostra storia  venga dalle onde. Questo per almeno una buona ragione: i mari per definizione sono aperti, connessi l'uno con l'altro. E se c'è una cosa che caratterizza l'umanità, è lo spostamento, l'andare oltre, la sfida all'ignoto.
Per secoli gli uomini hanno sfidato i limiti geografici posti dall'orizzonte di mari e oceani, spingendo le loro imbarcazioni in acque ignote, studiando venti e correnti, per cercare nuove terre.  Non c'è mai stato un mare veramente chiuso, perché di fronte a ogni stretto ci sono state imbarcazioni pronte ad andare oltre.
Così non stupisce che un grande narratore come lo storico di Cambridge David Abulafia, dopo essersi misurato con il Mediterraneo, abbia deciso di allargare il suo sguardo, scegliendo di raccontare "Una Storia marittima del mondo" (Mondadori): una naturale prosecuzione del viaggio di studio e ricerca intrapreso molti anni fa con "Il grande mare", verrebbe da dire. E in effetti questo volume imponente (per ambizione e numero di pagine) è pensato soprattutto come storia delle strade che sul mare si sono intrecciate dagli albori dell'umanità. Le vie, le rotte, le scoperte sono gli elementi che costituiscono la vera ossatura della narrazione. «Se questo libro ha dei protagonisti», dice Abulafia, «essi non sono quasi mai gli esploratori che aprirono nuove rotte verso gli oceani, bensì i mercanti che ne seguirono le orme. Furono loro, vedendo le nuove opportunità, a trasformare gli instabili rapporti instaurati dai primi in collegamenti solidi, affidabili e regolari, sia all'epoca del commercio greco-romano attraverso l'Oceano Indiano sia dopo i viaggi di Colombo ai Caraibi».
L'autore prende le mosse dalle antiche esplorazioni del Pacifico, cominciate in epoca preistorica e continuate per millenni. Si sposta verso l'Oceano Indiano per descrivere le antiche rotte segnate dai monsoni, che portarono in giro per l'Asia le religioni  e spinsero i mercanti a scambiare merci dalla Cina sino a Roma. Di qui le avventure dell'Atlantico, dagli antichi abitanti dell'Estremo Nord agli esploratori vichinghi e, verso la fine del Medioevo, all'ascesa portoghese. Quindi la grande accelerazione, il salto portato dalla conquista europea degli oceani: da Colombo alle avventure e alle tragedie coloniali del tardo Ottocento. La storia della rotta delle spezie; dello scontro tra i grandi imperi spagnolo, portoghese, francese, olandese e inglese; la storia dei pirati dei Caraibi e della tragica tratta degli schiavi; ma anche la storia che avrebbe condotto sino alla conquista dell'Australia, ai commerci con la Cina e alle ultime conquiste coloniali. Infine il presente. Il controllo commerciale e militare degli oceani durante il Novecento egli ultimi grandi cambiamenti a cui stiamo ancora assistendo.
Da tutto questo, è piuttosto evidente quali siano le linee guida dell'opera (anche perché è l'autore stesso a indicarle). Innanzitutto l'idea unitaria che muove il racconto: questo libro, dice Abulafia, è un tentativo di scrivere insieme la storia dei tre grandi oceani; perché, pur avendoli trattati separatamente nell'esposizione della loro storia più antica, è a un solo oceano che l'autore giustamente pensa. In fondo, dice, avevano ragione gli antichi a pensare il mondo rinserrato tra terre circondato da un vasto oceano.
Le interconnessioni, quelle che avvengono dopo Colombo, sono il vero grande salto di qualità, il momento in cui tutto l'oceano diventa realmente unitario, tenuto assieme dalle rotte e dalle vie commerciali. Un modo per riflettere dunque anche sulle origini della globalizzazione europea. Perché, nota Abulafia, anche se è evidente che il concetto di globalizzazione è a dir poco scivoloso, è altrettanto evidente che dopo il Cinquecento si è creata una divergenza tra Europa e Asia. Ed è chiaro inoltre che per comprendere tale fenomeno si debba tenere conto non solo delle spinte culturali e tecnologiche, ma anche degli antecedenti più antichi.
Una grande opera, insomma, che non è però tanto una storia degli oceani, quanto una classica, ma molto aggiornata storia dell'espansione marittima. Come peraltro dichiara con chiarezza l'autore, notando in conclusione come in fondo sia una vicenda ormai concluda: senza più acque ignote o isole misteriose da scoprire; con i mari sempre più dominati dalle tecnologie portuali e dalle nuove forme di comunicazione. Ma proprio qui, mi verrebbe da dire, ci sarebbe la chiave per guardare più lontano, o almeno altrove. Per sognare una storia del mare che non racconti solo le conquiste umane, ma sia anche una storia delle coste, della pesca e delle immersioni. Che possa tenere conto anche dell'ecologia e della biologia, di cui - ci piaccia o meno - noi facciamo parte. Una storia della superficie e degli abissi, che parli per la prima volta dell'uomo assieme a tutti gli altri esseri marini. Perché in fondo, come ci ha spiegato Herman Melville, che senso avrebbe l'oceano senza le balene?

- di Alessandro Vanoli - Pubblicato sulla Lettura del 6/12/2020 -

sabato 13 febbraio 2021

Tra gli scaffali

Che brutti scherzi gioca la memoria, che brutto scherzo che è la memoria.
Somiglia sempre più agli scaffali di una libreria ingombra di volumi, dove i vecchi libri detengono ormai un posto inamovibile, mentre i nuovi fanno sempre più fatica a conquistarsene uno, per quanto precario.
Si accampano - più timidamente - su un tavolino, su un comodino, ed è lì che vivacchiano aspettando educatamente una migliore sistemazione .
E somiglia a quella libreria soprattutto proprio quando cerchi un libro, un ricordo di cui in quel dato momento hai un disperato bisogno; e non riesci a trovarlo, a metterlo a fuoco.
Ti manca nella mente la posizione cui poterlo riferire, il nome cui collegarlo, ti manca l'immagine del libro, la sua copertina e o la sua costola: una, qualcuna o tutte queste cose insieme.
E poi, improvvisamente, come il balenìo d'un lampo, ecco che davanti agli occhi ti compare quello che cerchi.
Parole, facce, nomi, profumi, musica si intrecciano in maniera ineludibile e si richiamano l'un l'altro.
Ciascun ricordo ha senso solo all'interno della sequenza. Ciascun libro ha senso solo all'interno del suo scaffale. Ciascuno scaffale può avere i suoi libri disposti solo in quella tua libreria.
E le immagini sono inscindibili dalla colonna sonora, quella musica che cominci a sentire che sale. Piano piano. Un po’ come il film "Giù la testa" e il suo motivetto "scion scion"!
Ed ecco la domanda sale prepotente.
A quale libro rinunciare? Quale ricordo estirpare? Quale libro rimuovere dallo scaffale? Quale faccia cancellare? Quale nome dimenticare? Quale sequenza sovrascrivere? Quale canzone smettere di cantare? A quale sogno rinunciare?
Ma poi, perché farlo? Perché mai?!?
Forse perché la memoria ha una sua dimensione data, una sua quantità finita. E una volta oltrepassato il limite, una volta che lo hai superato, ecco che tutto comincia a traboccare, a colare, a scorrere via. Oppure si tratta solo di un fardello che col tempo si è fatto troppo pesante da portare. E diventa sempre più pesante ancora. Insopportabile.
Così, d'un tratto è come se stessi parlando con un'interlocutrice che ti soppesa con occhi impietosi, e se poi la guardi meglio ti accorgi che quegli occhi sono come arrossati da tracce di rimprovero.
Ti guarda, a sua volta, ed è timorosa di essere lei la tua memoria - di essere lo specchio in cui potresti non riconoscerti più. Gelosa. Possessiva.
Mal la si sopporta, col passar del tempo, una così che pretende di conoscere e vagliare le tue nuove amicizie.
Mette bocca in ogni cosa. Invadente. Giovane, di quella gioventù un po’ arrogante.
Consapevole della propria bellezza. Troppo consapevole! Una così è capace di farti fare qualsiasi cosa!
Lasciandoti poco tempo a disposizione per pensare, dopo, se ne era valsa davvero la pena.
Ma quando sei stanco, deluso, a pezzi, come lo sei ora, chi altri ti potrebbe mai consolare?
Chi meglio di lei sa quel che sei, conosce quel che sei stato, quel che senti, quel che vuoi?
È l'unica in grado di sussurrare le parole che ti servono,mentre ti guarda con gli occhi del colore giusto e ti chiama con il tuo nome.
Sa anche perfino cullarti con le strofe di quella vecchia canzone che avevi il terrore che un giorno avresti potuto dimenticare.
E allora ecco che così diventa facile soffermarsi a guardarla - e nel mentre che lo fai è come se le tue rughe si distendessero, pur senza scomparire.
Ti suggerisci che sì, che a conti fatti ne è valsa davvero la pena.
E allora metti  sul piatto quel vecchio disco di vinile, ti accendi una sigaretta, ti versi da bere e ti godi il tuo proprio sorriso calmo che ancora c'è.

(scritta per la prima volta intorno al 1999)

Una carriera …

Stiamo assistendo a uno spettacolo nel quale i suoi ministri non sono altro che le Soubrette entrate in scena solo per distrarre l'attenzione, mentre il capo della banda, insieme al suo luogotenente Ragioniere Generale, porta tranquillamente a termine il colpo che gli è stato assegnato e mette le mani sul malloppo.
Avrà il compenso che gli è stato promesso: il posto di presidente, stavolta della Repubblica!!!

venerdì 12 febbraio 2021

«Détournement»: Istruzioni per l'uso!

Istruzioni per l'uso del "Detournement" [*1]
- di Guy-Ernst Debord & Gil J. Wolman -

Tutti gli animi abbastanza avveduti della nostra epoca convengono sul fatto evidente che per l’arte è divenuto impossibile affermarsi come attività superiore, o anche solo come attività di compensazione alla quale potersi onorevolmente dedicare. La causa di questo declino è manifestamente la comparsa di forze produttive che necessitano di altri rapporti di produzione e di una nuova pratica della vita. Nella fase di guerra civile in cui ci troviamo impegnati, e in rapporto stretto con l’orientamento che scopriamo per certe future attività superiori, possiamo considerare che tutti i mezzi d’espressione conosciuti andranno a confluire in un generale movimento di propaganda che deve abbracciare tutti gli aspetti, in perpetua interazione, della realtà sociale. Sulle forme e sulla natura stessa di una propaganda educativa si fronteggiano diverse opinioni, generalmente ispirate alle varie politiche riformistiche attualmente in voga. Ci basti dichiarare che, per noi, sul piano culturale come su quello strettamente politico, le premesse della rivoluzione non sono solo mature, ma hanno già cominciato a marcire. Non soltanto il regresso, ma anche il perseguimento di obiettivi culturali ‘attuali’, in quanto in realtà dipendenti dalle formazioni ideologiche di una società passata che ha prolungato la sua agonia fino ai giorni nostri, non possono avere che un’efficacia reazionaria. L’innovazione estremistica ha unicamente una giustificazione storica. Nel suo insieme, l’eredità letteraria e artistica dell’umanità deve essere utilizzata a fini di propaganda partigiana. Si tratta, beninteso, di superare qualsiasi idea di scandalo. Dato che la negazione della concezione borghese del genio e dell’arte ha già ampiamente fatto il suo tempo, i baffi della Gioconda [*2] non presentano più alcuno spunto di interesse maggiore della prima versione dello stesso quadro. È necessario oggi seguire quel processo fino alla negazione della negazione. Rivelando, in un’intervista [*3] recentemente rilasciata al settimanale “France-Observateur[*4], di aver operato dei tagli ai classici del teatro per renderne la rappresentazione più felicemente educativa, Bertolt Brecht [*5] si è dimostrato ben più vicino di Duchamp [*6] alla conseguenza rivoluzionaria che andiamo reclamando. Bisogna inoltre notare che, nel caso di Brecht, questi utili interventi sono mantenuti entro limiti ristretti da un infondato rispetto della cultura, così come essa viene definita dalla classe dominante: quello stesso rispetto, insegnato nelle scuole elementari della borghesia e nei giornali dei partiti operai, che spinge i comuni più rossi della periferia parigina a reclamare sempre Il Cid [*7], invece di Madre Coraggio [*8], nelle tournées del T.N.P. [*9]. A dire il vero, bisogna farla finita con tutte le nozioni di proprietà personale in questa materia. Il sorgere di altre necessità rende sorpassate le “geniali” realizzazioni precedenti. Esse divengono ostacoli, temibili abitudini. La questione non è sapere se siamo o meno inclini ad apprezzarle. Dobbiamo passare oltre.
Tutti gli elementi, ovunque essi siano presi, possono divenire oggetto di nuovi accostamenti. Le scoperte della poesia moderna sulla struttura analogica dell’immagine dimostrano che fra due elementi, anche dalle origini più lontane possibili, si stabilisce sempre un rapporto. Attenersi al quadro di un ordine personale delle parole deriva solo dalla convenzione. L’interferenza di due mondi sentimentali, la messa in presenza di due espressioni indipendenti superano i loro elementi primi, ottenendo un’organizzazione sintetica di efficacia superiore. Tutto  può servire. Va da sé che non solo è possibile correggere un’opera o integrare diversi frammenti di opere sorpassate in un’opera nuova, ma anche mutare il senso di quei frammenti, e camuffare in tutti i modi che si giudicheranno opportuni quel che gli imbecilli si ostinano a chiamare citazioni. Simili procedimenti parodici sono stati spesso utilizzati per ottenere effetti comici. Ma il comico mette in scena una contraddizione in una situazione determinata, posta come esistente. In queste circostanze, con lo stato delle cose letterarie che ci appare estraneo quanto il paleolitico, la contraddizione non ci fa ridere. Bisogna dunque concepire una fase parodistico-seria in cui l’accumulazione di elementi détournés, lungi dal voler suscitare l’indignazione o il riso facendo riferimento alla nozione di opera originale, ma marcando al contrario la nostra indifferenza per un originale svuotato di significato e dimenticato, sarebbe rivolta a rendere un certo sublime.

È noto che Lautréamont [*10] si è spinto così lontano su questa strada da ritrovarsi ancora parzialmente incompreso dai suoi più accesi ammiratori. Malgrado la chiarezza del procedimento applicato nelle Poesie [*11], in particolare sulla scorta della morale di Pascal e Vauvenargues [*12], al linguaggio teorico – nel cui ambito Lautréamont vuol fare sfociare i ragionamenti, per concentrazioni successive, alla sola massima –, ci si è stupiti per le rivelazioni di un certo Viroux [*13], che dal momento in cui sono state fatte, tre o quattro anni fa,  hanno permesso anche ai più ottusi di riconoscere nei Canti di Maldoror l’esistenza di un vasto détournement, fra le altre cose di Buffon [*14] e delle opere di storia naturale. Il fatto che i prosatori del “Figaro[*15], come lo stesso Viroux, abbiano potuto vedere in questo un’occasione per sminuire Lautréamont, e che altri abbiano creduto di doverlo difendere tessendo l’elogio della sua insolenza [*16], testimonia solo la debolezza intellettuale dei vegliardi dei due schieramenti, impegnati in cortese tenzone. Una parola d’ordine come “il plagio è necessario, il progresso lo implica[*17] è ancora tanto equivocata, e per le stesse ragioni, quanto la famosa frase sulla poesia che “deve essere fatta da tutti[*18]. Mettendo da parte l’opera di Lautréamont – la cui apparizione estremamente prematura fa ancora in gran parte sfuggire a una critica esatta –, le tendenze al détournement che possono essere riconosciute da uno studio sull’espressione contemporanea sono perlopiù inconsapevoli od occasionali; e, più che nella declinante produzione estetica, è nell’industria pubblicitaria che bisognerebbe cercarne gli esempi più belli.

Si possono innanzitutto definire due categorie principali per tutti gli elementi détournés, e senza distinguere se la loro messa in presenza sia o meno accompagnata da correzioni introdotte negli originali. Sono i détournements minori e i détournements abusivi. Il détournement minore è il détournement di un elemento che non ha importanza autonoma e che dunque deriva tutto il suo senso dalla messa in presenza che gli si fa subire. Si pensi ai ritagli stampa, a una frase neutra, alla fotografia di un soggetto qualunque.
Al contrario, il détournement abusivo, detto anche détournement di proposizione premonitrice, ha per oggetto un elemento significativo in sé: elemento che dal nuovo accostamento trarrà un valore differente. Uno slogan di Saint-Just [*19], una sequenza di Ejzenstejn [*20], per esempio. Nella maggior parte dei casi, le opere détournées dì una certa portata saranno dunque costituite da una o più serie di détournements abusivi minori.

Molte leggi sull’utilizzo del détournement possono essere stabilite sin d’ora.
È il più remoto fra gli elementi détournés a contribuire in maniera più viva all’impressione d’insieme, e non gli elementi che determinano direttamente la natura di quest’impressione. Così, in una metagrafia [*21] relativa alla guerra di Spagna, la frase dal senso più nettamente rivoluzionario è questa pubblicità incompleta di una marca di rossetto: “le labbra più belle hanno un tocco di rosso[*22]. In un’altra metagrafia (Morte di J. H.) [*23] un suicidio è reso con maggior eloquenza da centoventicinque piccoli annunci sulla vendita di bottiglierie che dagli articoli di giornale che ne riferiscono. Le deformazioni introdotte negli elementi détournés devono tendere a semplificarsi all’estremo, dato che la forza principale di un détournement è finzione diretta del riconoscimento, cosciente o nebuloso, da parte della memoria. È risaputo. Aggiungiamo solo che se questa utilizzazione della memoria implica una scelta del pubblico preliminare all’uso del détournement, questo non è che il caso particolare di una legge generale che regola tanto il détournement quanto ogni altra modalità d’azione sul mondo. L’idea di espressione nell’assoluto è morta, e al momento non sopravvive che una scimmiottatura di quella pratica, legata alla sopravvivenza dei nostri nemici. Il détournement è tanto meno efficace quanto più si avvicina a una replica razionale. È il caso di un notevole numero di massime ritoccate da Lautréamont. Più è evidente il carattere razionale della replica, più essa si confonde con lo spirito banale della risposta pronta e arguta, per il quale si tratta di ritorcere contro l’avversario le sue stesse parole. Naturalmente ciò non si limita al linguaggio parlato. È in quest’ordine di idee che ci trovammo a discutere il progetto di alcuni nostri compagni tendente a détourner un manifesto antisovietico dell’organizzazione fascista Pace e Libertà [*24] – che proclamava, in un trionfo di bandiere occidentali assortite, “l’unione fa la forza” –, aggiungendovi su un volantino in formato ridotto la frase “e le coalizioni fanno la guerra”. Il détournement per semplice ribaltamento è sempre il più immediato e il meno efficace. Questo non significa che non possa avere un aspetto progressivo. Si pensi a questa denominazione per una statua e un uomo: “La Tigre detta Clemenceau[*25]. Nello stesso modo, alla costruzione di un ambiente che si fonda su una metafisica data, la messa nera oppone una costruzione d’ambiente nello stesso quadro, ma rovesciando i valori conservati di quella metafisica. Delle quattro leggi appena enunciate, la prima è essenziale e si applica universalmente. Le altre tre valgono praticamente solo per gli elementi abusivi détournés.

Le prime conseguenze evidenti di una generalizzazione del détournement, oltre ai poteri intrinseci di propaganda che esso detiene, saranno la riapparizione di un cumulo di pessimi libri; la partecipazione massiccia di scrittori ignorati; la differenziazione sempre più spinta di frasi o di opere plastiche che si troveranno a essere di moda; e soprattutto una facilità della produzione che per quantità, varietà e qualità supererà di gran lunga la scrittura automatica di tediosa memoria. Il détournement non solo conduce alla scoperta di nuovi aspetti del talento, ma, scontrandosi frontalmente con tutte le convenzioni mondane e giuridiche, non può mancare d’apparire come potente strumento culturale al servizio di una lotta di classe ben cosciente. Il basso costo dei suoi prodotti è l’artiglieria pesante con cui battere in breccia tutte le muraglie cinesi dell’intelligenza. Ecco un vero mezzo di insegnamento artistico proletario, il primo abbozzo di un comunismo letterario.
Le proposte e le realizzazioni sul terreno del détournement si moltiplicano a volontà. Limitiamoci per il momento a indicare alcune possibilità concrete muovendo dai diversi settori attuali della comunicazione, ed essendo ben chiaro che queste divisioni non hanno alcun valore se non in funzione delle tecniche di oggi, e, con il progresso di queste tecniche, tendono tutte a scomparire a vantaggio delle sintesi superiori.
Oltre alle diverse utilizzazioni immediate di frasi détournées nella cartellonistica, nei dischi o nelle trasmissioni radiofoniche, le due principali applicazioni della prosa détournée sono la scrittura metagrafica e, in misura minore, il quadro romanzesco abilmente pervertito.
Il détournement di un’opera romanzesca completa è un’impresa dal futuro alquanto misero, ma che potrebbe rivelarsi efficace nella fase di transizione. A un simile détournement giova accompagnarsi a illustrazioni in rapporto non esplicito con il testo. Malgrado difficoltà che non intendiamo nasconderci, riteniamo sia possibile giungere a un istruttivo détournement psicogeografico di Consuelo [*26] di Georges Sand [*27], che, così truccato, potrebbe essere rilanciato sul mercato letterario, dissimulato sotto un titolo anodino come Grande periferia, o esso stesso détourné come La pattuglia sperduta [*28] (sarebbe bene reinvestire in modo analogo parecchi titoli di film da cui non è più possibile trarre altro, non essendosi impossessati delle vecchie copie prima della loro distruzione, o di quelle che continuano ad abbrutire la gioventù nelle cineteche).
La scrittura metagrafica, per quanto arretrato possa peraltro essere il quadro plastico in cui essa si situa materialmente, offre uno sbocco più fecondo alla prosa détournée, come agli altri oggetti e immagini che convengono. Se ne può dare un giudizio attraverso il progetto, nato nel 1951 e abbandonato per mancanza di fondi sufficienti, che si proponeva la costruzione di un biliardo elettrico configurato in modo che i giochi delle sue luci e il percorso più o meno prevedibile delle sue biglie servissero a un’interpretazione metagrafico-spaziale dal titolo: Sensazioni termiche e desideri delle persone che passano davanti ai cancelli del museo di Cluny in novembre, un’ora circa dopo il tramonto. Da allora, certo, sappiamo che un lavoro situazionista-analitico non può progredire scientificamente su simili binari. I mezzi tuttavia restano validi per dei fini meno ambiziosi.
È chiaramente nell’ambito cinematografico che il détournement può raggiungere la sua maggiore efficacia, e senza dubbio, per chi dovesse preoccuparsi dalla cosa, la sua più grande bellezza.
I poteri del cinema sono talmente estesi, e l’assenza di coordinamento di quei poteri così flagrante, che quasi tutti i film che si distinguono dalla miserabile medietà sono in grado di alimentare polemiche infinite fra spettatori o critici professionisti. Aggiungiamo solo che solo il conformismo di questa gente impedisce loro di trovare un fascino altrettanto coinvolgente e difetti altrettanto palesi anche nei film di infima categoria. Per dissipare un po’ questa risibile confusione di valori, diciamo che Nascita di una nazione di Griffith [*29] è un film fra i più importanti della storia del cinema per il massiccio apporto di innovazioni che presenta. D’altro canto, è un film razzista: dunque non merita assolutamente di essere proiettato nella sua forma attuale. Ma il suo divieto puro e semplice potrebbe risultare spiacevole nel campo del cinema, secondario ma suscettibile di un miglior uso. Sarebbe dunque meglio farne un détournement integrale, senza nemmeno doverne toccare il montaggio, con l’aiuto di una colonna sonora in grado di trasformarlo in una possente denuncia degli orrori della guerra imperialista e dell’attività del Ku-Klux Klan [*30], che, come è noto, negli Stati Uniti proseguono ancora oggi. Un simile détournement, ben calibrato, non è tutto sommato altro che l’equivalente morale dei restauri dei dipinti antichi nei musei. Ma la maggior parte dei film meritano soltanto di essere smembrati per comporre delle altre opere. Evidentemente, questa riconversione di sequenze preesistenti non funzionerà senza il concorso di altri elementi: musicali, pittorici, o anche storici. Visto che fino a oggi tutte le falsificazioni della storia, al cinema, si allineano più o meno al genere di buffoneria delle ricostruzioni di Guitry [*31], possiamo far dire a Robespierre [*32], prima della sua esecuzione: “Malgrado tante sofferenze, la mia esperienza e la grandezza del mio compito mi fanno ritenere che tutto va bene[*33]. Se la tragedia greca, opportunamente ammodernata, ci serve in quest’occasione a esaltare Robespierre, si immagini invece una sequenza di tipo neo-realista, davanti al bancone di un bar per camionisti, per esempio, con uno di loro che dice serio a un collega: “La morale stava nei libri dei filosofi, noi l’abbiamo messa nel governo delle nazioni[*34]. Si vede come questo accostamento aggiunga nuova luce al pensiero di Maximilien, a quello di una dittatura del proletariato.
La luce del détournement si propaga in linea retta. Nella misura in cui la nuova architettura sembra dover cominciare da uno stadio sperimentale barocco, il complesso architettonico – che noi concepiamo come costruzione di un ambiente dinamico in relazione a degli stili di comportamento – utilizzerà verosimilmente il détournement di forme architettoniche note, e in ogni caso trarrà vantaggio, plasticamente ed emotivamente, da ogni tipo di oggetto détourné: gru o ponteggi metallici sapientemente disposti in modo da dare proficuamente il cambio a una tradizione scultorea defunta. Questo sbigottisce solo i peggiori fanatici del giardino alla francese. Ci viene in mente che, in tarda età, D’Annunzio, quel putridume fascistoide, nel suo parco teneva la prua di una torpediniera [*35]. Ignorando i suoi motivi patriottici, quel monumento non può che apparire piacevole.
Estendendo il détournement fino alle realizzazioni dell’urbanismo, certo nessuno resterebbe indifferente se in una città si ricostruisse minuziosamente l’intero quartiere di un’altra. L’esistenza, che non sarà mai troppo sconcertante, ne verrebbe realmente abbellita. I titoli stessi, come abbiamo già visto, sono un elemento radicale del détournement. Questo fatto scaturisce da due constatazioni generali: da una parte, tutti i titoli sono intercambiabili, dall’altra, hanno un’importanza determinante in più discipline. Tutti i romanzi polizieschi della série noire [*36] si assomigliano profondamente, e il solo sforzo innovativo che si esercita sul titolo è sufficiente a mantenere loro un pubblico considerevole. Nella musica, il titolo esercita sempre una grande influenza, e nulla giustifica davvero la sua scelta. Non sarebbe quindi male apportare un’ultima correzione al titolo della Sinfonia eroica [*37] facendone, per esempio, una Sinfonia Lenin [*38].
Il titolo contribuisce fortemente a détourner l’opera, ma una reazione dell’opera sul titolo è inevitabile. Tanto da poter fare un uso esteso di titoli precisi presi in prestito da pubblicazioni scientifiche (“Biologia litoranea dei mari temperati”) o militari (“Combattimenti notturni di piccole unità di fanteria”) [*39]; e addirittura di molte frasi derivate dai giornaletti illustrati per bambini (“Dei meravigliosi paesaggi si offrono alla vista dei navigatori”).
Per finire, occorre citare brevemente qualche aspetto di quel che chiameremo l’ultra-détournement, sarebbe a dire le tendenze del détournement a venire applicato nella vita sociale quotidiana. I gesti e le parole possono essere caricati d’altri sensi, e, per ragioni pratiche, lo sono sempre stati nel corso della storia. Le società segrete dell’antica Cina disponevano di un apparato raffinatissimo di segni di riconoscimento, che investiva la maggior parte dei comportamenti mondani (modo di disporre le tazze; di bere; citazioni di poesie interrotte in punti convenuti). Il bisogno di una lingua segreta, di parole d’ordine, è inscindibile da un’inclinazione al gioco. L’idea-limite è che qualunque segno, qualunque vocabolo, è suscettibile di essere convertito in qualcosa d’altro, addirittura nel suo contrario. Gli insorti monarchici della Vandea [*40], poiché ornati dell’immonda effigie del cuore di Gesù, si definivano l’Armata Rossa. Nell’ambito peraltro limitato del vocabolario della guerra politica, quest’espressione è stata completamente détournée nel giro di un secolo.
Oltre al linguaggio, con lo stesso metodo è possibile détourner l’abbigliamento, con tutta l’importanza affettiva che esso racchiude. Anche in questo caso incappiamo nella nozione di travestimento in stretta connessione con il gioco. Alla fine, quando arriveremo a costruire delle situazioni, obiettivo finale di tutta la nostra attività, ognuno sarà padrone di détourner intere situazioni cambiandone deliberatamente questa o quell’altra condizione determinante.

I procedimenti che abbiamo sommariamente trattato qui non sono presentati come un’invenzione che ci è propria, ma al contrario come una pratica abbastanza comunemente diffusa che ci proponiamo di sistematizzare. La teoria del détournement per se stessa non ci interessa affatto. Ma troviamo che sia connessa a quasi tutti gli aspetti costruttivi del periodo di transizione pre-situazionista. Il suo arricchimento attraverso la pratica appare dunque necessario. Rinviamo a più tardi lo sviluppo di queste tesi.

- Guy-Ernst Debord & Gil J. Wolman -

NOTE:

[*1]  - L’articolo qui riproposto uscì col titolo "Mode d’emploi du détournement" sulla rivista belga “Les Lèvres nues”, n° 8, mai 1956. La traduzione italiana è quella compresa nel volume Guy Debord (contro) il cinema, a cura di E. Ghezzi e R. Turigliatto, Milano – Venezia, Editrice il Castoro / La Biennale di Venezia, 2001, pp. 44-49.
[*2]  - Allude alla riproduzione della Gioconda leonardesca munita di baffi e pizzetto, realizzata nel 1919 da Duchamp col titolo L.H.O.O.K.
[*3]  - Si veda C. Bourdet – E. Sello, Une heure avec Bertolt Brecht, in“France Observateur”, 30 juin 1955, pp. 27-29.
[*4]  - “France Observateur” è un settimanale politico-culturale preceduto da “L’observateur” e fondato nel 1954. Nel 1964 sarebbe diventato il “Nouvel Observateur”.
[*5]  - In Germania negli anni Venti, Bertolt Brecht (1898-1956) è stato assistente alla regia di Max Reinhardt e Erwin Piscator. Rientrato dall’esilio americano nel 1948, ha fondato e diretto la compagnia Berliner Ensemble a Berlino Est, insieme a Helene Weigel.
[*6]  - Marcel Duchamp (1887-1968) ha realizzato a partire dal 1914 una serie di ready-made, oggetti di origine industriale promossi al ruolo di oggetti artistici allo scopo di desacralizzare i valori tradizionali attribuiti all’arte.
[*7]  - Le Cid di Pierre Corneille (1636) è una tragicommedia che fa parte del grande repertorio teatrale francese.
[*8]  -  Mutter Courage und ihre Kinder di Brecht (1941) è un dramma in due quadri ispirato a un’opera di Grimmelshausen, ambientato durante la Guerra dei Trent’anni ma con una riflessione politica militante sulla Germania contemporanea.
[*9]  -  Fondato in Francia nel 1920 da Firmin Gémier e attivo anche nel dopoguerra, il Théàtre National Populaire è stato un teatro sovvenzionato che proponeva un repertorio accessibile al pubblico più largo.
[*10] - Isidore Ducasse detto il Conte di Lautréamont (1846-1870) è autore dei Chants de Maldoror (1868-1869) e di Poésies (1870), testi in prosa che si presentano come manifesti di una rivolta assoluta, all’insegna della crudeltà sadica, di un immaginario al limite della scrittura automatica e di un’ironica pratica del pastiche e del collage. Scoperta dai simbolisti, l’opera è diventata una clamorosa anticipazione delle esperienze surrealiste.
[*11] - In particolare la seconda sezione delle Poésies è un collage che reimpiega quasi esclusivamente, rovesciandole in modo provocatorio, delle frasi tratte da Pascal (Pensées) e dai moralisti classici (Vauvenargues, Maximes et Réflexions e La Rochefoucauld, Maximes).
[*12] - Blaise Pascal (1623-1662), matematico e filosofo francese, ha affidato le sue riflessioni morali e religiose a una serie di note destinate a una Apologie de la religion chrétienne, scritte a partire dal 1657 e pubblicate postume col titolo Pensées nel 1670. Luc de Clapiers marchese di Vauvenargues (1715-1747) pubblicò nel 1746 una Introduction à la connaisance de l’esprit humain accompagnata da una raccolta di Maximes et Réflexions, dove si rivalutano le grandi passioni del cuore.
[*13] -  Si veda Maurice Viroux, Lautréamont et le Dr. Chenu, in “Mercure de France”, n. 1070, 1° dicembre 1952, pp. 632-642. Si tratta dei plagi derivati dalla Encyclopédie d'histoire naturelle ou Traité complet de cette science d'après les travaux des naturalistes les plus éminents, pubblicata fra il 1850 e il 1861 da Jean-Charles Chenu (1808-1879), che a sua volta riprende quasi letteralmente certe descrizioni della Histoire naturelle di Buffon.
[*14] - Georges Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), responsabile dei giardini reali, scrisse un’enciclopedica Histoire naturelle seguita dal supplemento Les Époques de la nature, iniziando nel 1744 e valendosi di numerosi collaboratori: l’opera descrive l’insieme del mondo animale e minerale, con ampio spazio concesso alla geologia.
[*15] -  “Le Figaro”, fondato nel 1826 e diventato quotidiano nel 1866, è l’espressione dell’opinione moderata e rappresenta in Francia la stampa politico-letteraria borghese.
[*16] - Allude probabilmente all’articolo di due surrealisti che saranno nel 1960 i primi commentatori delle Poésies, Georges Goldfayn – Gérard Legrand, Le seul véritable vivant, in “Medium”, novembre 1953, p. 3.
[*17] - La frase qui citata di Lautréamont ha ispirato direttamente la teoria del rovesciamento presentata in questo articolo: “Le plagiat est nécessaire. Le progrès l’implique. Il serre de près la phrase d’un auteur, se sert de ses expressions, efface une idée fausse, la remplace par l’idée juste”. Cfr. I. Ducasse conte di Lautréamont, Poésies, in Id., Opere complete, A cura di I. Margoni, Torino, Einaudi, 1976, p. 480 (II).
[*18] - Cfr. ivi, p. 490: “La poésie doit être faite par tous. Non par un”.
[*19] -  Louis Antoine Léon Saint-Just (1767-1794), fu uomo politico e teorico della Rivoluzione, schierato con gli estremisti che chiedevano senza appello la morte del re. Membro del Comitato di Salute Pubblica con Robespierre e Georges Couthon, poi presidente della Convenzione nazionale, nel 1794 fu arrestato e giustiziato con gli altri due membri del triumvirato. La concisione e la violenza delle sue opere oratorie ne fanno un modello di tribuno rivoluzionario.
[*20] -  Sergueï Mikhailovitch Eisenstein (1898-1948) è stato uno dei più grandi realizzatori del cinema sovietico, sia per i suoi contributi teorici che per i suoi film ispirati a una rivoluzionaria tecnica di montaggio (Bronenosec Potëmkin nel 1925, Oktjabr nel 1927, Aleksandr Nevskij nel 1938, Ivan Groznyj nel 1944-1946).
[*21] - La metagrafia è una forma d’arte già praticata dai lettristi sull’esempio dei dadaisti. Consiste nell’assemblaggio, sotto forma di collage, di fotografie, frasi e parole ritagliate da fonti diverse, soprattutto dalla stampa.
[*22] -  Si riferisce a Le temps passe, en effet, et nous passons avec lui, aprile 1954.
[*23] -  Si riferisce a Mort de J. H. ou Fragiles tissus (en souvenir de Kaki), marzo 1954. Jacqueline Harispe detta Kaki, già indossatrice di Dior, si era lasciata cadere dalla finestra del suo albergo il 28 novembre 1953. Aveva vent’anni.
[*24] - Paix et Liberté è un’organizzazione creata nel 1950 da René Pleven e JeanPaul David, appoggiata ufficiosamente dal governo francese e governata da un comitato segreto, attiva nel clima della Guerra Fredda per combattere il comunismo e la sua propaganda. Dal 1950 al 1956 il gruppo svolse la sua attività utilizzando manifesti, opuscoli, un bollettino di informazione e una trasmissione radio bisettimanale.
[*25] - Georges Clemenceau (1841-1929), uomo politico francese, deputato radicale dal 1871, contribuì alla caduta di vari ministeri guadagnandosi il soprannome di ‘Tigre’. Difensore di Dreyfus nel 1898, fu nominato presidente del consiglio e ministro dell’interno nel 1906. Capo del governo nel 1917, negoziò dopo la guerra il Trattato di Versailles (1919)
[*26] -  Consuelo, pubblicato fra il 1842 e il 1843, è un romanzo che narra la vita di una cantante lirica italiana nel Settecento: la tesi di un avvicinamento fra le classi sociali (qui l’amore fra la cantante figlia di una zingara e Albert conte di Rudolstadt, osteggiato da tutti e concluso con un matrimonio in extremis) si ispira a teorie umanitarie che ispirarono altri romanzi della Sand.
[*27] - Aurore Dupin baronessa Dudevant, detta George Sand (1804-1876) nei suoi romanzi come nella vita privata contrappone l’amore e la rigenerazione morale alle convenzioni mondane, in nome di un umanitarismo vicino a Rousseau. Famosa è la serie dei suoi ‘romanzi campestri’ pubblicati negli anni Quaranta e Cinquanta.
[*28] - Si riferisce a The Lost Patrol, un film prodotto dalla RKO nel 1934 con la direzione di John Ford: storia di una pattuglia inglese perduta nel deserto e lentamente decimata da Arabi invisibili, lasciando alla fine un solo superstite (Victor McLaglen). Nel 1954 è uscito in Italia un film con lo stesso titolo, prodotto da Franco Cristaldi e diretto da Piero Nelli: storia di pochi soldati piemontesi sperduti nelle campagne di Novara dopo la vittoria austriaca del 1849.
[*29] -  The Birth of a Nation (1915), capolavoro di David Wark Griffith (1875-1948), primo lungometraggio girato negli Stati Uniti e grande spettacolo epico, narra la storia di due famiglie, una del Nord e l’altra del Sud, durante la Guerra di Secessione. Il contenuto ideologico razzista del film, contro i Neri americani, suscitò violente polemiche dopo l’uscita nelle sale.
[*30] - Società segreta americana fondata nel Tennessee dopo la Guerra di Secessione, mirava ad escludere i cittadini di colore dal diritto di voto con metodi violenti e intimidatori. Vietata nel 1877, fu rifondata nel 1915 con caratteri puritani, xenofobi e ultranazionalisti, opponendosi anche agli ebrei e ai cattolici. Largamente diffusa negli anni Venti e Trenta, fu ancora messa fuori legge nel 1928.
[*31] -  Sacha Guitry (1885-1957), attore e autore famoso di pièces teatrali, esordì nel cinema negli anni Trenta alternando brillanti commedie a libere ricostruzioni della storia francese: fra queste ultime Le perles de la Couronne (1937), Remontons les Champs Elysées (1938), Si Versailles m’était conté (1953), Napoléon (1954), Si Paris nous était conté (1955). A questi ultimi tre titoli si fa qui riferimento.
[*32] - Maximilien Marie Isidore de Robespierre (1758-1794), avvocato e uomo politico francese, dirigente nel 1771-1792 del Club dei Giacobini, votò per la morte del re proponendo un programma di democrazia integrale. Membro della Convenzione nazionale, fu il principale responsabile dell’esecuzione di Danton e Demoulins, organizzando e legalizzando poi il periodo del Terrore (1792-1794) in nome di una dittatura popolare. Fu arrestato e ghigliottinato insieme ai suoi partigiani.
[*33] -  Cita A. Camus, Le Mythe de Sisyphe, Paris, Gallimard, 1942, p. 166: “Malgré tant d’épreuves, mon âge avancé et la grandeur de mon âme me font juger que tout est bien”. A sua volta Camus citava liberamente i versi 7-8 di Sophocle, Œdipe à Colone, in Sophocle, texte établi et traduit par P. Masqueray, Paris, Les Belles Lettres, 1942, T. II, p. 153: “Mes souffrances, les longues années que j’ai vécues et aussi la force de mon âme m’apprennent la résignation”. Di qui il rinvio di Debord alla “tragedia greca”.
[*34] -  Cfr. Réponse de la Convention nationale aux manifestes des rois ligués contre la République (Rédigée par Robespierre), in Choix de rapports, opinions et discours prononcés à la Tribune Nationale depuis 1789 jusqu’à ce jour ; recueillis dans un ordre chronologique et historique, Paris, Alexis Eymery, 1820, t. XIII année 1793 (quatrième volume de la Convention), pp. 245-246 : “La morale était dans les livres des philosophes : nous l’avons mise dans le gouvernement des nations”.
[*35] -  Gabriele D’Annunzio (1863-1938), dal 1921 viveva in una villa-museo a Gardone sul Lago di Garda, da lui ribattezzata il Vittoriale. Nel 1923, per i suoi sessant’anni, Mussolini gli fece dono della gigantesca prora della nave da guerra Puglia, sistemata appunto nei giardini della villa.
[*36] -  Collezione di romanzi polizieschi creata nel 1945 da Marcel Duhamel presso le edizioni Gallimard: annovera numerosi contributi francesi ma anche un gran numero di traduzioni di autori americani.
[*37] -  È la sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore opera 55 di Ludwig van Beethoven. Composta fra il 1802 e il 1804, in una copia d’autore aveva nome Sinfonia grande intitolata Bonaparte, ma il nome di Napoleone fu cancellato dopo la sua incoronazione a imperatore. La denominazione “eroica” appare solo nel 1806, con la prima edizione.
[*38] -  Vladimir Ilitch Oulianov detto Lenin (1870-1924), uomo politico e teorico russo, capo della maggioranza bolscevica del Partito operaio (1903), fondò un Partito bolscevico indipendente nel 1912 per mettere in pratica i principi del marxismo e trasformare poi il primo conflitto mondiale in una guerra civile che attuasse la rivoluzione in Russia. Organizzatore dell’insurrezione dell’ottobre 1917, fu eletto presidente del Consiglio dei commissari del popolo e lavorò poi per la costruzione del socialismo sul piano economico. Non a Lenin ma all’assedio di Leningrado durante la seconda guerra mondiale è dedicata la settima sinfonia di Dmitri Shostakovich (1906-1975), detta appunto Leningrado (1941).
[*39] - Cfr. Jean Cavillon, Combat de nuit de petites unités d’infanterie, Limoges, Charles-Lavauzelle, 1955.
[*40] - Dipartimento nell’Ovest della Francia, regione Pays-de-la-Loire. La zona fu teatro di un’insurrezione contro-rivoluzionaria fra il 1793 e il 1796. Gli insorti, di estrazione contadina e organizzati da aristocratici ed ecclesiastici, formarono un esercito che vinse in alcune occasioni l’armata repubblicana. Sconfitti alla fine del 1793, i monarchici furono poi decimati in una serie di severe repressioni.