Dalla religione patriarcale del lavoro alla femminilizzazione repressiva
- di Ernst Lohoff -
Il periodo di tempo tra la fine del 19° secolo e l'inizio del 20° è stato, in generale, un'epoca di sfrenato ottimismo all'insegna del progresso, da quale ci si aspettava che portasse in paradiso in terra, sulla base dello sviluppo costante della ragione e del trionfo della moderna tecnica. Tuttavia, mentre l'avversario «borghese» si preoccupava principalmente del dominio della natura da parte delle scienze naturali, il marxismo, in quanto variante democratica della religione del progresso , aveva posto il valoro a vero garante di un futuro luminoso. Secondo il credo marxista, rappresenta solamente gli interessi privati. Il lavoro, da parte sua, è il vero artefice del trionfo dell'uomo sulla natura, cosa cui ogni individuo in parte contribuisce attraverso la sua realizzazione produttiva. La forma di attività capitalista, profondamente razionalizzate e ridotta al suo nucleo funzionale, è stata celebrata come incarnazione per eccellenza del fare umano e, allo stesso tempo, è diventato un presupposto del successo dell'obiettivo socialista. Agli occhi del marxismo, la vittoria dell'emancipazione sembrava inevitabile, poiché era convinto che, grazie al potere del lavoro, sarebbe stato in grado di contrapporre la «ragione pura» - diventata pratica e con un impatto sulle masse - al cieco rapporto di sfruttamento capitalista. Supporre che il lavoro industriale e il dominio capitalista avrebbero dovuto rivelarsi, in ultima analisi, incompatibili, era un'ipotesi costruita fin dall'inizio sulla sabbia. Eppure, sono stati necessari molti decenni prima che, dopo ogni genere di lotta, questa aspettativa venisse screditata, anche in termini pratici, dallo sviluppo reale. Il risultato fu ancora più chiaro: la lotta per il diritto al lavoro (industriale) e il suo vettore sociale - la classe operaia -, contro ogni previsione, non portò in alcun modo alla ribellione, prevista da Marx, contro tutte quelle situazioni in cui l'uomo deve vivere come un «essere oppresso». Invece, l'espandersi del regime di fabbrica e i successi del movimento operaio hanno favorito l'immagine del lavoratore bianco e maschio che realizza un modo di esistenza altamente (auto)repressivo e distruttivo.
La classe operaia - una classe di proprietari di forza lavoro - non ha indebolito in alcun modo le basi del dominio dell'uomo sull'uomo, come pensava il marxismo, ma ha indebolito piuttosto le basi ecologiche, oltre a contribuire a una nuova fondazione del dominio patriarcale. Il lavoro razionalizzato, così come la ragione - incarna una logica patriarcale-maschile indifferente ad ogni sensibilità. Dall'etica del lavoro proletario all'orgoglio del lavoro riproduttivo femminile: la sinistra si è preoccupata di una tale svolta - al più tardi alla fine degli anni '70 - nella misura in cui aveva abbandonato quella che era la sua fede nella classe operaia in quanto portatrice di emancipazione. Ad aver giocato un ruolo fondamentale - oltre alla questione ecologica - è stata la critica femminista. Il movimento delle donne ha insistito giustamente sul fatto che l'apologia del lavoro industriale si basava sulla svalutazione delle attività domestiche.
Anche se il marxismo del movimento operaio era passato di moda, l'idea marxista originale, per cui l'emancipazione continua ad essere un potente alleato per la logica inerente allo sviluppo produttivo capitalistico, era sopravvissuta all'«addio al proletariato» (André Gorz). La strada verso l'emancipazione non veniva aperta dal trionfo del lavoro industriale, bensì dal suo ritrarsi. Ha messo nell'agenda storica «liberarsi dal falso lavoro» (Thomas Schmitt), secondo quella che all'inizio degli anni '80 era la linea prevalente nella discussione sulla «crisi del lavoro». Una società nella quale il primato del lavoro retribuito cominciava a dissolversi gradualmente per mancanza di massa, avrebbe sviluppato altri concetti, meno repressivi, di attività, rispetto a quelle tipiche del capitalismo industriale. Se la normale relazione fordista di lavoro, orientata soprattutto alla vendita della forza lavoro bianca e maschile, diventa un modello superato, ecco che allora emerge dall'ombra sociale il «dimenticato» lavoro di riproduzione, che viene eseguito, secondo l'ordine patriarcale, quasi esclusivamente dalle donne. Le forme di attività che si basano su delle specifiche qualità del lavoro delle donne - e che, di conseguenza, sono più compatibili socialmente ed ecologicamente - sono state chiamate a prendere il posto del lavoro industriale.
Femminilizzazione repressiva: dopo venticinque anni - un quarto di secolo - tali aspettative appaiono sotto una strana luce. Quella che era la previsione della «crisi del lavoro», oggi è una diagnosi. Anziché portare alla relativizzazione dell'importanza del lavoro retribuito, questo sviluppo ha spinto invece fino all'estremo la sua importanza. Ma come ora, nella sua crisi, la società del lavoro è stata soltanto ed esclusivamente una società del lavoro. Non esiste una descrizione delle funzioni lavorative in cui la ricerca delle qualifiche «leggére» (capacità di collaborazione di squadra e di comunicazione, flessibilità) che prima venivano classificate come «femminili», non sia in aumento. Tuttavia, anche con questa sorta di «femminilizzazione», il mondo del lavoro non è affatto diventato più umano, ma solo più duro e più totalitario. Ormai non è più sufficiente eseguire in maniera responsabile i compiti assegnati otto ore al giorno. Ora ad essere richiesta è «la persona come un tutto» che deve partecipare alla lotta della concorrenza e, in linea di principio, lo deve fare per 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Mentre nel contempo, e a partire da tutto questo, le normali relazioni di lavoro sono state di fatto smantellate in tutti i sensi. Le forme di occupazione tipicamente femminili, che prima venivano marginalizzate, ora si moltiplicano in modo esplosivo e sostituiscono il lavoro soggetto subordinato a dare un contributo sociale. Ciò non consente assolutamente un modo di vita più ricco e più adatto alle esigenze delle persone che lavorano, ma significa piuttosto un impoverimento che colpisce soprattutto le donne.
Le grandi aspettative di emancipazione post-industriale della sinistra negli anni '80, erano, pertanto, ancora peggiori dei sogni di liberazione industriale del marxismo. Non ultimo, fu solo grazie alle lotte del movimento operaio tradizionale che la generalizzazione del regime di fabbrica venne almeno accompagnata dall'implementazione di migliori condizioni di assoggettamento sul terreno della dominazione capitalistica.
Il disintegrarsi del regime classico di fabbrica, d'altra parte, ha portato a un deterioramento permanente delle condizioni generali di riproduzione e ha messo in moto intensi processi di desolidarizzazione. Un disastro simile non è però certo una ragione per ritrattare la critica di quelle che sono le normali relazioni di lavoro di carattere patriarcale, al fine di trasfigurare in maniera retrospettiva, per rimpiangere nostalgicamente le condizioni fordiste. Così come sarebbe tuttavia altrettanto errato continuare a nutrire le aspettative emancipatrici degli anni '80 e ignorare il fatto che i sogni di allora si sono infranti, come se ciò fosse stata solo una combinazione negativa di forze politiche. Oggi, una critica radicale della società del lavoro è più urgente che mai, sebbene abbia bisogno di basi teoriche più solide.
- Ernst Lohoff - da "Dopo il lavoro" - 2005 -
fonte: Blog da Consequência
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