martedì 30 giugno 2020

free state of Floyd

25 Tesi sulla "George Floyd Rebellion"
-  di Shemon e Arturo - 24 giugno 2020 -

«La classe operaia di ogni paese vive la propria vita, fa le proprie esperienze, cercando sempre di creare forme e di realizzare valori che nascano direttamente da quella che è la loro opposizione organica alla società ufficiale.»  (CLR James, Grace Lee Boggs, and Cornelius Castoriadis, "Affrontare la Realtà").

1. - La "George Floyd Rebellion" è stata una ribellione multirazziale guidata dai Neri. Non può essere classificata sociologicamente come se fosse una ribellione esclusivamente Nera. I ribelli provenienti da tutti i gruppi razziali si sono battuti contro la polizia, hanno saccheggiato e hanno bruciato delle proprietà. Tra questi c'erano immigrati, latino-americani, asiatici e bianchi.

2. - Questa sommossa non è stata determinata a partire da agitatori esterni. I dati relativi ai primi arresti mostrano che la maggior parte delle persone dimostrano che provenivano dalle aree in cui la ribellione era cominciata. Se fra di loro c'erano delle persone arrivate in auto dai "sobborghi", questo ci parla solamente della geografia tentacolare e scomposta della metropoli americana.

3. - Anche se molti attivisti e molti organizzatori hanno partecipato, la realtà è che questa ribellione non è stata organizzata né dalla piccola sinistra rivoluzionaria, né dalle cosiddette ONG progressiste. La ribellione è stata informale ed organica, ed ha avuto origine direttamente dalla frustrazione della classe operaia Nera rispetto alla società borghese, in particolar modo rispetto alla polizia.

4. - Non è solo la polizia ad essere stata colta alla sprovvista dalla portata e dall'intensità della ribellione, ma di fronte a questa rivolta popolare, che si è rapidamente diffusa ad ogni angolo del paese, lasciando la polizia spaventata e scompaginata, anche la società civile ha esitato ed ha vacillato.

5. - Nel corso della ribellione, la polizia ha mostrato molte debolezze. Trovandosi contro poche centinaia di manifestanti, i reparti sono stati sopraffatti facilmente e si sono visti costretti a concentrare le loro forze in alcuni particolari punti caldi. Una volta che la polizia sopraggiungeva in una zona di conflitto, la gente si ritirava e si spostava in un altro luogo in modo da poter fare più danni. La guerra convenzionale, con la sua enfasi sugli armamenti e la tecnologia superiore, non è stata in grado di contrastare tutta una serie di manovre flessibili, decentralizzate e rapide, incentrate sulla distruzione delle proprietà.

6. - La fase militante della ribellione è durata dal 26 maggio al 1° giugno. Dopo il 1° giugno, la ribellione non è stata repressa solamente con la forza militare, a è stata anche politicamente repressa. A prescindere dalla repressione messa in atto dalla polizia, dai militari e dai vigilantes, la rivolta è stata repressa politicamente da elementi della sinistra, che hanno reagito ai disordini dando la colpa ad agitatori esterni. In alcuni quartieri, i «manifestanti buoni» sono arrivati al punto di arrestare i «manifestanti cattivi» e a consegnarli alla polizia.

7. - Le ONG Nere, ini inclusa la Black Lives Matter Foundation, non hanno avuto alcuna relazione con la fase militante della ribellione. In realtà, tali organizzazioni hanno avuto tendenzialmente un ruolo reazionario, arrivando spesso ad impedire che si diffondessero rivolte, saccheggi e attacchi alla polizia. Le ONG Nere sono state la punta di diamante delle forze che dividevano il movimento in manifestanti buon e manifestanti cattivi. La base sociale delle ONG Nere non è il proletariato Nero, ma piuttosto la classe media Nera e soprattutto, cosa più importante, un segmento della classe media bianca che si sta radicalizzando.

8. - Questa ribellione è avvenuta a partire dalla violenza razzista della polizia e della disuguaglianza razziale, ma aveva a che fare anche con la disuguaglianza di classe, il capitalismo, il Covid-19, Trump ed altro ancora.

9. - Questa ribellione apre una nuova fase in quella che è la storia di Turtle Island. Una nuova generazione di persone ha vissuto un movimento potente, e di fronte alle crescenti disuguaglianze e alla crisi in atto è improbabile che si siedano e si limitino ad accettarle. La ribellione ha prodotto una nuova soggettività politica - il "George Floyd rebel" - che ha dato il via ad una serie di processi, i quali potranno avere molti risultati possibili che verranno determinati dalla lotta di classe nel presente. Alla fine, il proletariato americano è emerso ed è entrato nella storia.

10. - Questa ribellione è la punta di lancia in quella che è la lotta contro la pandemia. La ribellione sta mostrando al mondo come ci possa essere una lotta rivoluzionaria anche durante un pandemia. La pandemia non sta facendo altro che peggiorare le condizioni di vita delle persone in tutto il mondo, e come risultato di tutto questo possiamo aspettarci solo altre ribellioni in tutto il pianeta.

11. - Per il momento, la "George Floyd rebellion" è stata fermata. Molte ONG e molte persone appartenenti alla classe media trarranno beneficio dagli sforzi dei ribelli che hanno combattuto in queste settimane. Ma queste ribellioni torneranno. Fanno parte della lotta di classe che c'è stata negli Stati Uniti, e di quella a livello globale, a partire dall'ultima recessione globale (2008-2013). ora l'economia mondiale si trova di nuovo in recessione.

12. - Le continue proteste quotidiane sono un prodotto contraddittorio della ribellione, e riescono ad attrarre grandi folle, appartenenti più alla classe media ed ai bianchi. Una simile composizione contribuisce a creare un genere di atmosfera che parla di non violenza e di un «contestatore buono», ma che è inseparabile dai leader Neri che sostengono questo tipo di politica. Allo stesso tempo, l'espandersi delle continue proteste quotidiane consente, cosa importante, una maggiore partecipazione.

13. - Le rivolte notturne avevano un limite, nel senso che nella loro attività non attiravano grandi settori della società. Sommosse, saccheggi, e attaccare la polizia sono un'attività propria dei giovani e dei poveri. Molti lavoratori hanno avuto simpatia per queste rivolte, ma sono rimasti a casa. Ciò dimostra che le rivolte da sole non sono sufficienti.

14. - Molte importanti lotte si sono fuse con questo movimento, inclusi i lavoratori dei trasporti che si rifiutano di collaborare con la polizia. Eppure non è ancora chiaro come questa ribellione sia collegata alle lotte sul posto di lavoro, alle lotte nelle carceri e allo lotte per la casa che si stanno svolgendo nel contesto della pandemia. Sembra che ci sono dei collegamenti storici che avranno un loro effetto nel futuro. In che misura le persone che hanno avuto un ruolo nelle precedenti lotte sul posto di lavoro, sono state coinvolte nelle sommosse? E quando i rivoltosi torneranno sul posto di lavoro, in che modo continueranno a lottare sul lavoro?

15. - Spesso, i sindacati vedono la polizia e le guardie carcerari come se fossero dei lavoratori che hanno bisogno di essere protetti, anziché considerarli dei teppisti armati dalla borghesia come in effetti sono. A prescindere dalla lunga storia di scioperi della polizia, dev'essere fatto ancora molto sul fronte del lavoro quando si tratta di polizia e di abolizione delle carceri. Senza gli operai dei trasporti, senza i lavoratori della logistica, senza gli ospedalieri e gli operatori sanitari, la lotta abolizionista è condannata.

16. - Se si considerano i bassi tassi di sindacalizzazione, non si può non prevedere che molte lotte sul posto di lavoro saranno caotiche, esplosive e senza alcuna mediazione da parte dei sindacati, o da qualche altro genere di organizzazione ufficiale. I sindacati arriveranno e tenteranno di controllarli e di coaptarli. Le lotte sul posto di lavoro, possono ripercuotersi  ed alimentare la lotta in strada? Se questo dovesse avvenire, allora entreremo un una nuova fase della lotta.

17. - Per consolidare il proprio potere e prevenire la rivoluzione, la borghesia si affanna a concedere riforme e concessioni. Alcuni poliziotti vengono licenziati ed incriminati; i budget di alcuni dipartimenti di polizia vengono tagliati; alcune scuole ed università annullano i loro contratti con la polizia; alcune statue razziste vengono rimosse; Trump firma un decreto che garantisce maggiori risorse per la gestione della polizia; il consiglio comunale di Minneapolis vota lo scioglimento del suo dipartimento di polizia. Una sequenza del genere segue quello che è un modello comune nella storia del capitalismo: la classe dirigente risponde alla crisi rivoluzionaria riorganizzando e ristrutturando sé stessa in una maniera che le consenta di rimanere al potere.

18. - Ciò che dev'essere fatto attraverso l'auto-attività del proletariato, altri elementi stanno cercando di farlo attraverso le petizioni, il voto, la legiferazione, e per mezzo del cambiamento politico. Nel contesto di un sistema capitalista razziale, le riforme sono un obiettivo lodevole che per quel che riguarda la vita, dà priorità in maniera chiara alla politica. Tuttavia, si deve tenere in mente il fatto che la società borghese vuole limitare il più possibile questa ribellione: limitandosi solamente a George Floyd, riducendo i bilanci della polizia e redistribuendo il budget su altre aree della società. Ma questa ribellione ha a che fare con molto altro. Riguarda la profonda ingiustizia che viene percepita da tutta la popolazione e che nessuna riforma può eliminare.

19. - L'abolizione implica la distruzione materiale di tutta la gamma di infrastrutture di polizia costruite durante l'epoca del capitalismo razziale. L'abolizione ha avuto luogo dal 26 maggio al 1° giugno. Come risultato di quelli che sono stati i disordini diffusi, in una sola settimana sono avvenute più cose in grado di screditare e limitare il potere della polizia, di quanto non ne fossero accadute in molti decenni di attivismo. È stato qui che abbiamo visto, nel suo senso più pieno,  il potenziale dell'abolizione, aprendo quello che è stato un breve momento di solidarietà tra le differenti frazioni razzializzate del proletariato, causando una crisi nazionale, e aprendo la porta ad un mondo nuovo, per un breve momento.

20. - Non tutto ciò che ha avuto luogo nel corso della rivolta è stato emancipante e liberatorio. I medesimi problemi che esistevano prima, hanno continuato ad esistere anche durante la ribellione: razzismo, transfobia, omofobia, competizione per accapararsi le poche risorse. Tutto questo non scompare improvvisamente durante una ribellione. Il compito fondamentale di costruire un mondo nuovo dev'essere ancora svolto.

21. -  Alla domanda realmente posta, circa quale sia il pieno significato di questa ribellione, non abbiamo ancora risposto. Il senso ed il significato di Black Lives Matters riguarda solo il fatto quelli che vengono razzializzati, lo sono in quanto Neri, oppure la lotta Nera acquista un contenuto più ampio?

22. - Paragonare questa ribellione al 1968, è sbagliato. Questa ribellione è diversa, e lo è a molti livelli. A governare in molte città, ci sono sindaci Neri e commissari di polizia Neri. A ribellarsi, è stato quello che è un proletariato multirazziale.

23. - Nei prossimi anni, potrà essere il proletariato Nero a guidare le altre frazioni razzializzate del proletariato? Questa è una domanda che risale ad un secolo fa, con Du Bois, Haywood, James, Jones, ed Hampton, i quali. in questo paese o altrove, hanno cercato di inventare e mettere a punto vari tipi di coalizione con altre frazioni, nel tentativo di sconfiggere il capitalismo razziale e l'impero. Loro tutti sapevano che il proletariato Nero avrebbe potuto innescare una grande ribellione, ma non avrebbe potuto sconfiggere da sé solo i suoi nemici.

24. - L'unificazione del proletariato, in una lotta comune per eliminare il capitalismo, è l'unica speranza che ha l'umanità per salvare sé stessa e il pianeta. Questo contropotere si basa sul fatto che tutte le persone si possono unire per combattere contro il razzismo, contro il patriarcato, e contro tutto ciò che il capitalismo ha in sé e con sé.

25. - Il desiderio di una solidarietà multirazziale è sempre intenso e presente, come tutte le storie di razzismo hanno sempre dimostrato. Lo sviluppo della solidarietà sarà complesso e difficile, e dipenderà dalle circostanze oggettive e dalle scelte strategiche. La preoccupazione maggiore è quella secondo cui la solidarietà potrebbe andare a scapito della liberazione dei Neri. Per far sì che ciò non avvenga, bisogna fare ogni sforzo possibile per rispettare e sostenere l'autonomia della lotta rivoluzionaria Nera.

- Shemon e Arturo - Giugno 2020 -

fonte: communists in situ

lunedì 29 giugno 2020

Il sogno di Sion

« Kafka dice precisamente che una letteratura minore riesce molto meglio delle altre a elaborare la materia. Perché? e cos’è questa macchina d’espressione? Sappiamo che essa ha con la lingua un rapporto di deterritorializzazione molteplice: è la situazione degli Ebrei che hanno abbandonato il ceco insieme all’ambiente rurale, ma anche della lingua tedesca intesa come “linguaggio di carta”. Si andrà allora ancor più lontano, si spingerà ancora più avanti questo movimento di deterritorializzazione nell’espressione. Solo che i modi per farlo sono due: o arricchire artificialmente questo tedesco, gonfiarlo di tutte le risorse di un simbolismo, di un onirismo, di un senso esoterico, di un significante nascosto - e avremo così la scuola di Praga, Gustav Meyrink e molti altri, fra cui Max Brod. Ma questo tentativo implica uno sforzo disperato di riterritorializzazione simbolica, a base di archetipi, di Kabbala e di alchimia, che accentua il distacco dal popolo e non può trovare altro sbocco politico che il sionismo come “sogno di Sion”. Kafka prenderà presto l’altra via, anzi l’inventerà. Egli opterà per la lingua tedesca di Praga, così com’è, nella sua povertà stessa. Andare sempre più avanti nella deterritorializzazione... a forza di sobrietà. Poiché il vocabolario è disseccato, farlo vibrare in intensità. Opporre un uso puramente intensivo della lingua ad ogni uso simbolico, o significativo, o semplicemente significante. Arrivare a un’espressione perfetta e non formata, un’espressione materiale intensa. (Quanto alle due maniere possibili, non si potrebbe ripetere il discorso anche per Beckett e Joyce, benché le condizioni siano diverse? Tutti e due, irlandesi, sono nelle condizioni geniali di una letteratura minore. La gloria di una simile letteratura è appunto quella di essere minore, cioè rivoluzionaria per ogni letteratura. Uso dell’inglese e di tutte le lingue in Joyce. Uso dell’inglese e del francese in Beckett. Ma, mentre il primo procede continuamente per esuberanza e sovradeterminazione, operando tutte le riterritorializzazioni planetarie, l’altro procede a forza di sobrietà disseccata, di povertà voluta, spingendo la deterritorializzazione sino al punto di non lasciar sussistere che intensità.) Quante persone vivono ancor oggi in una lingua che non è la loro? Oppure non conoscono neppure più la loro, e conoscono male la lingua maggiore di cui sono costretti a servirsi? È il problema degli immigrati, e soprattutto dei loro figli. È il problema delle minoranze. Problema d’una letteratura minore e tuttavia anche nostro, di noi tutti: come strappare alla propria lingua una letteratura minore, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una sobria linea rivoluzionaria? Come diventare il nomade, l’immigrato e lo zingaro della propria lingua? Kafka parla di strappare il bambino dalla culla, di ballare su una corda tesa. »  (Gilles Deleuze / Félix Guattari , "Kafka. Per una letteratura minore").

domenica 28 giugno 2020

Dire male del male

« E’ MALE DIRE MALE DEL MALE… »
La capitolazione imposta alle società occidentali dal nuovo Dispotismo
di Gianfranco Sanguinetti

« Ei danno loro a intendere come egli è male
dire male del male, e che sia bene vivere sotto
la obedienza loro…………………… »

Machiavelli, Discorsi sulla prima Deca di
Tito Livio,
Libro III, 1

Gli straordinari progressi compiuti in pochi mesi dal nuovo Dispotismo nella sua prepotente affermazione nelle società occidentali, grazie al virus, avrebbero richiesto anni in una situazione normale, suscitando opposizione violenta e infinite lotte dappertutto. Se ne rallegra il patron del World Economic Forum di Davos, Klaus Schwab : « un lato positivo della pandemia è che ha dimostrato quanto velocemente possiamo apportare cambiamenti radicali al nostro stile di vita… Dobbiamo servircene per garantire il Great Reset di cui abbiamo così tanto bisogno. Ciò richiederà governi più forti ed efficaci… » [*1].

I poteri statali, già screditati, quando non apertamente vilipesi, si sono rinforzati oltre ogni immaginabile limite, irrompendo nella vita delle popolazioni : nessun governo ha esitato a infrangere e violare la Costituzione dello Stato, nessun « garante » e nessun partito si è veramente opposto, molti miliardi sono stati creati dal niente e sono passati di mano, misteriose minacce hanno evidentemente ottenuto dappertutto il loro effetto, con la solitaria eccezione della Svezia. Tutti hanno obbedito alle successive erratiche, ondivaghe e contraddittorie, ma sempre dispotiche, direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – da tempo divenuta una corporation privata che, sine titulo, tiranneggia e batte cassa, tassando i diversi Stati, comprando governi, interi Parlamenti e tutta l’informazione mainstream. Il suo direttore è accusato da più parti di aver commesso crimini contro l’umanità in Etiopia [*2]. Il suo socio di riferimento, Bill Gates, nel delirio di onnipotenza che il nuovo potere raggiunto illegittimamente gli conferisce, ha dichiarato, nell’aprile scorso, in pieno lockdown, che non si potranno ripristinare i diritti delle persone fino a quando non sarà vaccinata l’intera popolazione mondiale. Poiché l’OMS è il paravento di un potere sovranazionale, essa può comprare le politiche dei governi, imporre misure e condizioni, instaurare la censura, determinare la ricerca e l’indirizzo sanitario, plasmare il mondo, esigere ciò che le conviene dalle classi dirigenti dei diversi paesi. L’OMS sta realizzando de facto il primo colpo di mondo della storia universale, imponendo la sua necropolitica dappertutto.

La militarizzazione dell’informazione. Ma c’è un nodo particolarmente sensibile che tocca tutti i paesi occidentali più colpiti dalla pandemia - che sono anche i paesi più ricchi e, si sarebbe supposto, più istruiti del mondo - : questo nodo particolare sembra preoccupare l’OMS e i governi molto più delle conseguenze del virus, un nodo sul quale i poteri pubblici si accordano e non transigono, esigono consenso, prendono precauzioni e sono pronti ad applicare pene severe e censure inedite. Su questo, sono perfino pronti a diventare feroci contro le martoriate popolazioni. E questo nodo è la narrazione ortodossa della crisi sanitaria mondiale o, come dice il Ministero francese, citato più in basso, « lo stretto rispetto della dottrina sanitaria » : a partire dal perfido pipistrello in poi, fino alla giustificazione dell’ imposizione del lockdown generalizzato, della sospensione di ogni attività, al distanziamento e alle barriere sociali, dalla reclusione domiciliare alle terapie inflitte agli infermi, fino alla cremazione dei cadaveri senza funerali, etc. Su queste cose, nessuno ha diritto di mettere in dubbio l’interpretazione corretta e ufficiale degli avvenimenti né di criticare la giusta azione e reazione delle pubbliche autorità, della Organizzazione Mondiale della Sanità, né le cure né i rimedi imposti. Su questa stretta ortodossia ideologica non si vuole tollerare la minima devianza, l’informazione viene militarizzata e quindi censurata : qui finisce ogni libera espressione del pensiero, ogni dubbio e ogni critica convien che qui sian morti : sono considerati crimini di lesa maestà, eresia, alto tradimento, insubordinazione, fake news, tutte cose degne di punizione esemplare. Ognuno deve portare un bavaglio, perché i renitenti possano così esser riconosciuti da lontano e severamente puniti. Mai si era vista un’isteria così generale.

In Gran Bretagna è stata subito istituita una Unità di Risposta Rapida all’interno del gabinetto, che si incarica di rimuovere dall’informazione ogni contenuto giudicato falso, senza appello possibile, o anche soltanto «dannoso» : dannoso per chi, vien da chiedersi ? e perché ? Solo perché si distanzia dalla narrazione vulgata del coronavirus, o emette dubbi sulla gestione e le direttive dell’OMS ?
In Italia non si esita ad applicare Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO) a chi manifesti dissenso, come avveniva in U.R.S.S. : chiunque esprima pubblicamente disaccordo per le misure imposte può essere sequestrato e prelevato per strada da polizia e medici, che, dopo averlo immobilizzato, gli praticano sulla pubblica piazza un’iniezione di anestetico, per poi chiuderlo in un Ospedale Psichiatrico, come avvenuto in Sicilia, legato a un letto di contenzione per un tempo indefinito a discrezione non di un magistrato, ma di un semplice sindaco, e altrove a discrezione di un vescovo [*3]. Nello stesso tempo è stata istituita una Guardia Civica di 60.000 unità volontarie per sorvegliare che la cittadinanza osservi tutte le infinite disposizioni contenute nei Decreti illegali emanati dal presidente del Consiglio. Gli aneddoti non si contano più, ma aiutano a farsi un’idea della mancanza di scrupoli che accompagna l’imposizione del nuovo Dispotismo con tutte le gradazioni di paura e di terrore esercitati ad hominem.
Non so se possa essere una consolazione per gli italiani sapere che anche in Germania una giurista e avvocatessa, Beate Bahner, che aveva giudicato incostituzionale il lockdown, facendo ricorso alla Corte Costituzionale, è stata rinchiusa in manicomio [*4]. Sempre in Germania è stato censurato un Rapporto di 93 pagine, commissionato dal Ministero dell’Interno a medici e scienziati nominati da quello stesso ministero. Il Rapporto [*5] osserva fra l’altro che « le misure terapeutiche preventive non dovrebbero mai portare più danni della malattia stessa ». Invece, denuncia questo Rapporto, « più persone muoiono a causa delle misure contro il Coronavirus di quante ne vengano uccise dal virus ». I giornali, dopo una prima diffusione del Rapporto da parte di un dipendente del Ministero dell’Interno, hanno messo completamente a tacere questa denuncia, e le autorità hanno perseguitato il whistleblower.

L’erezione di una nuova Bastiglia. In Francia, dove attorno ad ogni elettore, divenuto paziente, è stata eretta su misura una nuova Bastiglia, della quale ognuno è l’unico prigioniero, il Ministero dell’Educazione della fu-Repubblica francese ha inviato impunemente a tutti gli insegnanti di scuola di ogni ordine e grado circolari minacciose e oltraggiose con direttive nelle quali delinea, senza vergogna né ritegno, una necropedagogia che deve svilupparsi « nello stretto rispetto della dottrina sanitaria » [*6]. E’ sottinteso che i maestri e professori che non si sottomettono allo « stretto rispetto della dottrina sanitaria » ufficiale, saranno allontanati. La necropedagogia dovrà « orientare le discussioni sul fatto che una stessa pena colpisce le famiglie ». Gli insegnanti devono essere vigilanti contro « le derive settarie (…) provocate da influenze familiari o esterne » : per questo devono « sensibilizzare gli allievi ai rischi di discorsi pericolosi che prodigano falsi rimedi e consigli pericolosi in relazione al COVID-19 ». Devono quindi « lottare contro la disinformazione, le fake news, le voci e le teorie complottiste » ; gli insegnanti devono prestare « attenzione agli allievi i cui responsabili legali [cioè i genitori] siano adepti di certe ideologie o credenze, siano reticenti o opposti alle raccomandazioni fatte in materia di salute pubblica… » Gli allievi vanno interrogati con « domande adattate » a raccogliere « elementi fattuali » e « un fascio di indizi ». Il personale insegnante, « di fronte al rischio di deriva settaria, è tenuto ad allertare i servizi competenti con lo scopo di salvaguardare l’integrità fisica e morale del minore… Il corrispondente accademico incaricato della prevenzione dei fenomeni settari in ambiente scolastico deve sistematicamente essere informato ». Vale la pena ricordare come queste nuove direttive siano quasi identiche a quelle che lo stesso Ministero inviò agli insegnanti dopo gli attacchi terroristici del 2015. Ciò prova, se fosse ancora necessario, che l’intenzione è la stessa, e identico è l’uso del terrorismo e del virus.
Con queste precauzioni il Ministero dell’Educazione pretende di impedire « il discredito della parola istituzionale », impedire che si « fragilizzi il legame della popolazione con le istituzioni pubbliche », e infine impedire la « perdita di controllo delle opinioni pubbliche ». Che il « controllo dell’opinione pubblica » fosse un compito del Ministero, è una novità assoluta che nessuna democrazia tradizionale si era mai assegnata.
Mentre l’Italia vuole creare una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disinformazione a proposito del virus, e ha creato una « task force » col compito di formulare proposte di legge per contrastare la diffusione di notizie false a proposito del Coronavirus, la Commissione Europea vuole, per parte sua, prendere misure per contrastare la disinformazione, sempre a proposito del virus, e combattere contenuti « illegali o dannosi ». Dannosi per chi ?

La virulenta preoccupazione, la cattiva coscienza, e anche la falsa coscienza, nel senso di Josef Gabel, l’isteria che emanano da ogni parola di questi Ukaze, l’intenzione poliziesca che li anima, il tono perentorio, apodittico e malevolo, la paura dello Stato di essere, come in effetti è, screditato dalle sue stesse azioni e menzogne, e la paura di « perdere il controllo delle opinioni pubbliche », sono tutti elementi che fanno prevedere un incanaglimento e un accanimento dei poteri pubblici contro le popolazioni, anche contro i bambini, e fin dalla più giovane età. Il mondo, come direbbe Nietzsche, è « precipitato in un futuro che si vendica già » [*7] ; o, come formulava Hannah Arendt, « tutti gli imbarazzi teorici della nuova visione del mondo (…) fanno intrusione come delle realtà nel mondo quotidiano dell’uomo, e mettono fuori circuito il suo senso comune ‘naturale’... » [*8].

Per lo Stato, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità e per ogni altro potere, dunque, è male dire male del male : ciò che Machiavelli aveva formulato cinque secoli fa come verità teorica, viene ora imposto praticamente e per legge da tutti i poteri costituiti. Ma perché è male dir male del male ? Machiavelli lo spiega con precisione : perché i potenti danno a intendere ai popoli « che sia bene vivere sotto la obedienza loro, e, se fanno errore, lasciargli gastigare a Dio : e così quegli fanno il peggio che possono perché non temono quella punizione che non veggono e non credono » [*9].
Dice però ancora Machiavelli che « quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina di necessità » [*10].
Prima che sia troppo tardi, non è forse giunto il tempo di fare male al male dicendo male del male ?

- Gianfranco Sanguinetti - (27 giugno 2020) -

NOTE:

[*1] - https://www.project-syndicate.org/commentary/great-reset-capitalism-covid19-crisis-by-klaus-schwab-2020-06/italian

[*2] - https://www.roughestimate.org/roughestimate/the-crimes-of-tedros-adhanom
           https://www.hrw.org/news/2016/11/04/open-letter-government-ethiopia

[*3] - https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2020/05/11/la-pandemia-non-ce-e-gli-fanno-tsogarante-chiede-notizie_640d55b2-53c7-4d75-b944-270759306f46.html
                  https://www.recnews.it/2020/05/27/don-loda-di-castelletto-di-leno-un-altro-tso-da-opinione/

[*4] - https://translate.google.it/translate?hl=it&sl=de&tl=it&u=https%3A%2F%2Fwww.rnz.de%2Fnachrichten%2Fheidelberg_artikel%2C-nach-aufruf-zu-corona-demoheidelberger-anwaeltin-in-psychiatrischer-einrichtung-update-_arid%2C508747.html&sandbox=1

[*5] - KM4 Analyse des Krisenmanagements. Cfr. : https://www.ichbinanderermeinung.de/Dokument93.pdf

[*6] - https://cache.media.eduscol.education.fr/file/Reprise_deconfinement_Mai2020/69/3/Fiche-Ecouter-favoriser-parole-des-eleves_1280693.pdf

                https://cache.media.eduscol.education.fr/file/Reprise_deconfinement_Mai2020/69/2/Fiche-Derives-sectaires_1280692.pdf

[*7] - F. Nietzsche, in Mort parce que Bête, Paris, 1998-2003

[*8] - Hannah Arendt, La Crisi della Cultura

[*9] - Machiavelli, Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, III, 1.

[*10] -  Machiavelli, Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, I, 53

sabato 27 giugno 2020

Lupi e no !


"Saggio sull'uomo", il poema più ambizioso di Pope, è costituito da quattro epistole in versi, nelle quali sono racchiusi lo spirito filosofico del Settecento e il sentimento di un'epoca: la consapevole accettazione di un ordine universale in cui odio e benevolenza, ferocia e mansuetudine, piacere e dolore trovano un loro senso imperscrutabile e in cui l'uomo - elemento intermedio ma non centrale della Grande Catena dell'Essere - deve deporre la velleitaria pretesa di comprendere il tutto. Elogiato da Voltaire e da Kant, "An essay on man" fece di Pope una celebrità europea.

(dal risvolto di copertina di: "Saggio sull'uomo". Testo inglese a fronte. Di Alexander Pope.)

Il mito dell’uomo lupo
- di Carlo Bordoni -

C’è un limite alla conoscenza umana? La risposta sembra scontata, se attribuita ai pensatori del XVIII secolo che hanno liberato la ragione dall’oscurantismo. Invece il senso del limite si fa più forte proprio nel momento in cui la vastità dell’universo mette l’uomo di fronte all’infinito. Più accettabile, se a sostenerlo è un poeta tra i maggiori del Settecento, Alexander Pope, che recupera l’idea classica del limite, oltre il quale si incorre nel peccato di presunzione. In questa rivisitazione della hýbris greca, personificazione della superbia, non c’è posto per la Nemesi. La dea della giustizia e della vendetta è destituita di ogni potere, poiché l’uomo che esce dallo «stato di minorità» è in grado di rendersi autonomo e darsi un’etica, grazie alla conoscenza.
Si fa strada l’idea innovativa, rispetto alle credenze precedenti, che l’uomo non sia più al centro dell’universo, che il mondo non sia stato creato per lui. È un’accettazione dolorosa, che costringe a rivedere il rapporto con la religione e a fare i conti con la sofferenza umana, non più alleviata da un Dio misericordioso. E della sofferenza Pope aveva esperienza diretta, tanto da definire la sua vita a continuous disease, una perpetua malattia. Nato a Londra nel 1688 da una famiglia cattolica, a 12 anni si ammala del morbo di Pott, che devia la spina dorsale e gli impedisce la crescita, rendendolo deforme, asmatico, fragile e preda di violente emicranie. Ma non gli impedisce di studiare, frequentare i più importanti intellettuali dell’epoca — da Joseph Addison a Jonathan Swift — di tradurre in inglese l’Iliade e l’Odissea (i cui diritti gli consentono una certa agiatezza) e di divenire il poeta più stimato del suo tempo. Tanto che Giacomo Leopardi, anch’egli sofferente dello stesso male, lo segnalerà nello Zibaldone con sensibilità preromantica che rivaluta gli umili: «Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente singolare e grande si distingua al di fuori per un volto e un occhio assai vivo, ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissimo, e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, Descartes, Pascal».
La riflessione attorno alla condizione umana è contenuta nel suo Saggio sull’Uomo (1734), poema composto di quattro epistole in versi, ripubblicato ora da Liberilibri con testo originale a fronte e curato da Adelino Zanini. È qui che l’autore riconduce l’uomo alle sue più modeste proporzioni («Uomo presuntuoso! Vorresti trovare la ragione/ Per la quale sei stato formato così debole, piccolo, cieco!»), consapevole della sua marginalità nell’universo («Noi vediamo solo una parte, non il tutto»), ma non per questo ignaro della perfezione del creato. La sua esortazione raccoglie un vasto consenso: dall’ammirazione di Voltaire («il poema didascalico più sublime mai scritto in qualsiasi lingua») e di Rousseau («ammorbidisce i miei mali e mi porta la pazienza»), alle citazioni di Kant, che lo accomuna a Isaac Newton.
L’idea che l’universo non sia stato creato a misura d’uomo fa di Pope un paladino della mentalità moderna, mentre entra nel vivo della discussione sull’esistenza del bene e del male e della giustizia divina. Si era infatti aperta una disputa tra il filosofo tedesco Gottfried Leibniz e Pierre Bayle, l’autore francese dei Pensieri sulla cometa, destinata ad avere riflessi non di poco conto sulle questioni religiose. Bayle, in questo d’accordo con Pope, ritiene sia preclusa all’uomo la possibilità di comprendere l’ordine dell’universo e pertanto anche solo provarci sia un’inutile dimostrazione di orgoglio. Mentre Leibniz aveva espresso nella sua Teodicea il principio ottimistico secondo cui «viviamo nel migliore dei mondi possibili», riconoscendo che la volontà di Dio, essendo imperscrutabile, non poteva che avere finalità positive.
Alla luce di questo ottimismo, Pope rifiuta le posizioni di Thomas Hobbes, che accusava la naturale malvagità umana ( homo homini lupus ) di aver bisogno di un ente superiore, lo Stato, in grado di reprimere, controllare ed educare alla convivenza. Hobbes aveva sollecitato gli uomini di buona volontà a sottomettersi al potere di un sovrano per vincere la loro naturale aggressività. Obiettivo raggiunto con una costruzione artificiosa e illiberale, il Leviatano. Per Pope l’umanità non è malvagia, mentre l’armonia del creato è rispecchiata nell’ordine politico; vede nella costruzione sociale moderna non già un apparato artificiale, ma la riproduzione in scala ridotta di un ordine superiore, gravato da difficoltà, ma pur sempre tendente alla perfezione.
«Chi ben ragiona si sottomette... La perfetta felicità dell’uomo (sta) in ciò che la sua natura e stato possono esprimere». Questa accettazione della condizione umana ha in sé qualcosa di moderato, pacificante, da cui traspare l’altra accettazione, quella personale, della propria dolorosa esistenza. Ma è la ragione, più che la fede, a venire in aiuto dell’uomo. Né poteva essere diversamente. Il Saggio sull’Uomo, cogliendo il concetto di medietà (il middle way di Shaftesbury), è quanto di più moderato, ragionevole e allineato allo spirito del tempo. Fede e ragione possono convivere, specie se la razionalità aiuta ad accettare le proprie condizioni, con una sorta di divisione paritetica delle competenze, tra cielo e terra: che l’uomo si accontenti, senza perdere tempo nella vana ricerca di ciò che gli è precluso.
La sintesi del suo pensiero è racchiusa nel verso « Whatever is, is right » (qualsiasi cosa sia, è giusta), che chiude la prima e l’ultima epistola con una venatura socratica: «Che il vero amor proprio e il sentimento sociale son lo stesso;/ Che solo la virtù ci rende quaggiù felici,/ Che tutta la nostra conoscenza sta nel conoscere noi stessi». Quell’ottimismo è però fragile. Destinato a essere messo a dura prova dagli eventi. Alexander Pope muore nel 1744 e, come Leibniz e Bayle, non fa in tempo ad assistere al terremoto di Lisbona del 1755. Quella tragedia, che sconvolge le coscienze di tutta Europa, riaccende le polemiche. Solleva l’indignazione di Voltaire, che irride l’ottimismo di Leibniz nel Candido e si chiede se sia questo il migliore dei mondi possibili. Spinge Rousseau a domandarsi se gli eventi luttuosi non siano frutto dell’imperizia e apre la stagione della responsabilità umana nelle catastrofi morali.

- Carlo Bordoni - Pubblicato sulla Lettura del 26/4/2020 -

venerdì 26 giugno 2020

Il «popolo dei morti»

 « Alla svolta dell’8 settembre, gli italiani vedono abbandonata in strada una divisa che è unica, anche se ha gli stessi colori e la stessa foggia di quella dei militari che se ne disfano per tornare a casa nel caos della mancanza di ordini. È una divisa che ripete e incorpora tutte le divise dell’esercito italiano e che conferisce loro il senso e la forza della sovranità statale. È la divisa del “re-soldato”, che viene simbolicamente gettata sulla via Tiburtina dal finestrino della Fiat 2800 in precipitosa fuga verso l’Adriatico. Simbolicamente perché il re continua a indossarla anche a Brindisi, ma a quel punto, malgrado l’identità di fattura, non è più la stessa divisa: la divisa del re che fugge ha preso per sempre il posto di quella del re che combatte. » La Resistenza, sin dai suoi inizi, è anche una guerra per la sovranità. Una guerra combattuta singolarmente da ciascun partigiano per evitare che il vuoto di potere lasciato dall’8 settembre sia occupato dalla Germania nazista. Se si guarda all’eredità della Resistenza nella Costituzione solo attraverso le lenti dei grandi partiti, il rischio è quello di dimenticare l’esperienza costituente delle bande partigiane come costellazioni di singoli sovrani. Perché la Costituzione repubblicana è il risultato di singoli processi storici e giuridici che investono un arco di tempo più vasto di quello dell’Assemblea costituente e gli ordinamenti creati nel territorio dalle bande partigiane, le zone libere e le repubbliche sono tutte esperienze dirette a creare un nuovo ordine costituzionale.
Con l’aiuto di un archivio straordinario di memorie e testimonianze, Giuseppe Filippetta racconta le scelte e le avventure di chi, dopo l’8 settembre 1943, intraprende, per dirla con Calvino, la «rifondazione di sé che si attua a partire da uno stato primitivo, fuori dalla società» e costruisce con coraggio, sofferenza e magari anche un po’ di ingenuità le fondamenta di uno stato non più fascista. «La Resistenza è un pulviscolo di scelte individuali, di esistenze che insorgono facendosi sovrane, che accorrono ai fuochi e si mettono insieme per dare ordine e libertà alla vita in comune.» Cosa rimane della Resistenza nella Costituzione italiana? L’esperienza delle bande partigiane, dei ragazzi che presero in mano il fucile per costruire un mondo nuovo nel vuoto di ogni sovranità statale.

(dal risvolto di copertina di: "L'estate che imparammo a sparare", di Giuseppe Filippetta. Feltrinelli.)

La Costituzione figlia delle bande partigiane: gli italiani si ripresero la sovranità.
La tesi dello storico Giuseppe Filippetta:la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti
di Giovanni De Luna

Alla base della nostra Costituzione ci sono i lavori dell’Assemblea Costituente che recepirono le indicazioni dei partiti politici, ricostituitosi dopo venti anni dittatura; prima della verifica elettorale del 2 giugno 1946, i partiti trovarono la loro legittimazione nella Resistenza e nella lotta armata contro i nazisti e i fascisti; la ottennero grazie all’efficacia del rapporto che furono in grado di instaurare con le bande partigiane e con le istanze di sovranità dal basso che furono da esse avanzate; queste istanze furono il frutto della scelta di impugnare le armi che - nello sfacelo dello Stato seguito all’8 settembre 1943 e nell’assenza di una sovranità statuale accettata e riconosciuta - portò decine di migliaia di italiani a riappropriarsi della propria sovranità individuale, così da attribuire alla loro esperienza armata un immediato e spontaneo «potere costituente»

Tutto cominciò l’8 settembre
L’estate che imparammo a sparare, il libro di Giuseppe Filippetta in uscita per Feltrinelli (pp. 300, € 22), scandisce questi passaggi, proponendo un’interpretazione della lotta partigiana innovativa sul piano storiografico, originale su quello giuridico. La sua tesi infatti è che la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti, ne scolpì i caratteri originari e, anche se fu recepita solo parzialmente nel testo definitivo, si propone oggi come il lascito civile e istituzionale più significativo della Resistenza. Per argomentare questa posizione, si affida a una ricognizione attenta e partecipe di tante storie personali «minuscole e potenti, grandiose e comuni, differenti e uguali», scruta nelle fonti più disparate, quelle letterarie e quelle «ufficiali», oltre a studiare con grande efficacia il dibattito che coinvolse allora i giuristi, complessivamente orientati a trascurare la portata costituzionale della lotta partigiana.
Tutto cominciò quindi l’8 settembre 1943. Nel vuoto istituzionale e politico spalancatosi dopo la dissoluzione dell’esercito regio, chi decise di combattere, armato, contro i tedeschi e i fascisti, scelse la strada di un impegno volontario e pieno di rischi, dando inizio a un percorso in cui i singoli individui si riappropriarono della libertà, ma soprattutto di una sovranità non più delegata a uno Stato che non c’era più. Fu una scelta che portò a riconquistare anche la propria autonomia individuale, nutrita dalla consapevolezza di poter decidere da soli il proprio destino e quello degli altri. In questo senso, i partigiani furono non politicamente, ma «giuridicamente» rivoluzionari.

L’inizio del nuovo Stato
Queste spinte trovarono un loro primo ambito organizzativo nella banda partigiana. Anni orsono, un grande storico come Guido Quazza la definì un «microcosmo di democrazia diretta», insistendo sul rapporto di fiducia tra i comandanti e i propri uomini, sottolineandone le differenze con la disciplina del vecchio esercito sabaudo; oggi Filippetta precisa quella definizione, indicandola come il primo segmento istituzionale del nuovo Stato. Nella «banda», infatti, la scelta sovrana dei singoli partigiani, attraverso la partecipazione e l’autogoverno, si misurò con compiti e obiettivi che andavano oltre gli aspetti militari di quella loro esperienza; si trattava di gestire - insieme alle armi e al potere che ne derivava - trasporti e viveri, confrontarsi con i bisogni della popolazione, amministrare le strutture burocratiche dei comuni, istituire tribunali, prendere decisioni che coinvolgevano territori più o meno vasti (dalle singole comunità alle vaste aree liberate delle Repubbliche partigiane nate nell’estate 1944). Senza i partiti e il loro ruolo subito decisivo anche nell’Italia del Sud, le bande e il Clnai che le rappresentava non sarebbero però riusciti a incidere sulla politica nazionale. Questo passaggio dalla banda ai partiti, dal locale al nazionale, non fu indolore né facile. Appena finita la guerra, le istanze di sovranità armata che le varie formazioni partigiane avevano incarnato furono inglobate in strategie politiche più complesse e articolate; quando, dopo la vittoriosa insurrezione del 25 aprile 1945, con la consegna delle armi da parte degli insorti, i partiti «delle tessere» soppiantarono quelli «dei fucili», vincoli e compatibilità istituzionali divennero prioritari e, proprio attraverso i partiti, lo Stato appena ricostruito si riappropriò della sua piena sovranità. Nei lavori della Costituente le elaborazioni programmatiche dei partiti ebbero un peso preponderante; pure, qualcosa della «sovranità» degli individui che avevano impugnato le armi riuscì a filtrare. La fedeltà al «popolo dei morti» partigiani invocata da Piero Calamandrei fu, ad esempio, uno degli elementi che rafforzarono l’ispirazione unitaria che riuscì allora ad avere la meglio sui dissidi ideologici già affiorati nei rapporti tra i vari partiti. Non solo. Filippetta indica almeno due articoli che derivano direttamente dalla sovranità individuale vissuta nell’esperienza partigiana: l’articolo 49 (quello che indica come soggetti del concorso alla determinazione della politica nazionale non i partiti, ma i cittadini che possono usare come propri strumenti i partiti, ma che hanno anche altre forme per esprimere la loro volontà) e l’articolo 75 sul referendum abrogativo.
Frammenti, è vero. Pure, oggi, con i partiti costituenti scomparsi nel nulla, forse è proprio da quei frammenti che si può ripartire per rifondare - come auspica Filippetta - un patto di cittadinanza che trovi una sua nuova legittimazione direttamente nelle coscienze dei singoli individui.

- Giovanni De Luna - Pubblicato sulla Stampa del 20/11/2018 -

giovedì 25 giugno 2020

L'apocalisse della «società terapeutica»

La rivoluzione comincia dai corpi
Note su Apocalisse e Rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu
- Pubblicato su Lundimatin il 16/6/2020 -

A partire da giovedì scorso, si può trovare nelle librerie Apocalisse e Rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu, appena rieditato in lingua francese dalle edizioni La Tempête. Questo libro è stato scritto nel 1972, in risposta alla pubblicazione del rapporto del Club di Roma sui Limiti dello Sviluppo. Commissionato dal MIT e finanziato dalla Fiat, il rapporto preconizzava una «crescita zero» ed un limite al capitalismo. Alla sua pubblicazione, Cesarano e Collu reagirono con un'analisi tempestiva e sottile di quello che è il modo in cui il capitalismo stava cambiando in quegli anni: le sue nuove armi erano diventate il millenarismo religioso, la colonizzazione dell'individualità e lo sviluppo di un'economia del debito. Allo stesso tempo, veniva proposto anche un rinnovamento dei concetti e dei modi dell'antagonismo rivoluzionario, che non sarebbe più stato il conflitto tra le classi, ma piuttosto la lotta dei corpi della specie umana contro il loro essere messi a morte da parte del processo capitalistico. A tutto ciò che mette in discussione la sopravvivenza stessa della specie, questo libro oppone una certezza: la rivoluzione comincia dai corpi. Giorgio Cesarano, a quel tempo, è stato un autore vicino alla critica situazionista. Egli ha anche partecipato alla fondazione del Gruppo Ludd, del quale, in quest'ambito, ha parlato Anselm Jappe.
I pochi iniziati agli scritti di Giorgio Cesarano formano una comunità segreta. E questo perché sicuramente questo autore ha prodotto un pensiero totale e senza compromessi, profondo e dialettico, scritto facendo uso di una prosa infuocata che non si lascia penetrare con facilità, e che continua, per quanto sotterranea, ad affascinare da quasi cinquant'anni. Vivente l'autore, tutti i suoi scritti teorici sono stati, per sua stessa ammissione, redatti «sotto l'effetto dell'urgenza». Cesarano aveva intuito, con grande acutezza, che negli anni '70 si stava aprendo una finestra che avrebbe potuto chiudersi molto rapidamente ed in maniera insidiosa, nella quale si sarebbe dovuto lottare violentemente contro le mistificazioni de «la politica». Il suo suicidio, nel 1975, avvenuto all'età di 47 anni, può essere compreso come un rifiuto di vedere come una simile opportunità storica poteva estinguersi in una liberazione fittizia.
Di portata ed intensità impressionante, il pensiero di Cesarano è tra quelli che possono trasformare irrimediabilmente il nostro modo di vedere e di vivere. E lo trasforma non in quanto possa apportare delle informazioni aggiuntive riguardo ad una tematica - come si accontentano di fare tanti libri deperibili - ma a partire dal fatto che riesce a rendere leggibili quelli che sono i giusti conflitto che rileviamo in noi stessi, senza riuscire a definirli in maniera adeguata. Avido lettore, ispirato tanto dalla psicoanalisi quanto dall'antropologia, sia dal marxismo che dalla biologia, Cesarano produce una visione del mondo disincantata ed esigente, all'altezza non solo del suo proprio tempo ma anche del nostro presente. La teoria del valore, delle forme di narcisismo contemporaneo, l'ecologia, la critica della psichiatria (e quella dell'antipsichiatria), della teologia, ma anche l'amore, la coppia, la passione, il desiderio e la trasgressione sono tutti temi che Cesarano affronta e stimola nella prospettiva di una rottura con la miseria della sopravvivenza.
I titoli delle sue opera hanno finito per assumere, nella misura in cui si approfondiva l'urgenza e si restringeva l'orizzonte, un significato particolare. E infatti, nel momento in cui la parola «apocalisse» si trova ormai sulla bocca di tutti, ed ogni soluzione riformista sembra essere diventata definitivamente irrealistica, come si fa a non accettare la sfida di un libro del 1972 che poneva già allora il conflitto nei termini di «apocalisse o rivoluzione»? Da parte di un autore che già nel 1974 proponeva in un «Manuale di sopravvivenza» di sbarazzarsi delle illusioni che parlavano della mutilazione dell'Io per porre finalmente sul serio la narrazione della nostra presenza nel mondo?
Quando Cesarano scrive questi libri, il Club di Roma, un vasto raduno interdisciplinare di esperti delle tendenza più avanzate del capitalismo, aveva appena pubblicato I Limiti dello Sviluppo. Questo testo, che inaugura il fiorire dell'ecologia dei politici che si svilupperà più tardi, e nella quale il peggio del '68 ci avrebbe comodamente sguazzato, intendeva offrire una soluzione duratura alla crisi sociale ed economica che in quegli anni attraversava lo sviluppo del capitale. Finanziato dalla Fiat, l'appello alla limitazione della crescita, alla frugalità e alla parsimonia, ed a una migliore gestione delle risorse, a Cesarano appariva immediatamente come una farsa che meritava la massima attenzione. Oltretutto, questa pubblicazione arriva poco tempo dopo la comparsa e l'affermarsi del potente movimento rivoluzionario italiano, al quale Cesarano, rinunciando all'età di quarant'anni a quella che era la sua vita precedente, si era dato anima e corpo. È quindi dall'interno di queste lotte, e quindi dalle nostre, che Cesarano (ci) parla, che egli (ci) mette in guardia dall'accettare l'errore nella sua presunta contestazione, e (ci) indica la sfida di una guerra ad oltranza contro il mondo della produzione.
Ciò che questa pubblicazione del Club di Roma aveva finalmente reso visibile, era che il capitale avrebbe dovuto affrontare una crisi senza precedenti, e che non ha mai risolto: il limite delle risorse della biosfera. La mortifera potenza dell'economia sega il ramo su cui si trova seduta, ma nella sua caduta trascina con sé l'umanità tutta intera. A partire da quegli anni in poi, non sono solo le condizioni di vita ad essere diventate impossibili, ma nel lungo termine anche le condizioni di sopravvivenza della specie. In un simile contesto, l'antagonismo non può essere che totale e assoluto, e qualsiasi genere di intermediazioni appare una menzogna criminale. Tuttavia, sebbene sia la logica astratta del capitale ad essere responsabile di una simile situazione, sarà essa stessa che cercherà con tutti i mezzi di spacciarsi come l'ultima possibile utopia. D'ora in poi, gli scienziati vestiranno le vesti dei profeti, ai quali gli esseri umani dovranno consegnare ciecamente ogni loro fiducia. Di fronte al rullo compressore di un dominio impersonale e distruttivo, le alternative fatalmente sono: o l'apocalisse, o la rivoluzione.
Questa utopia del capitale ha cominciato ad essere edificata a partire dagli anni '70, quando le macchine hanno cominciato a tendere ad occupare una quota considerevole nel lavoro produttivo, e bisognava aprire nuovi territori per l'estrazione del plusvalore. Lo sviluppo del capitale fittizio - fittizio, in quanto non si basa sul valore attuale ma su quello futuro - si accompagna allora ad un'inedita colonizzazione dei quella che è l'interiorità. Per il capitale, superare una crisi non significa solo riorientare l'economia, ma anche produrre un uomo nuovo adeguato ad esse, un uomo che sia capace di sostenerla. La crisi economica determina una crisi metafisica, una crisi di senso, alla quale il capitale cercherà di porre rimedio a tutti i costi. L'investimento nella «persona sociale» (vale a dire l'individuo che - attraverso il movimento per mezzo del quale pretende di liberarsi - si trova separato da quelli che sono i suoi desideri reali, ma che viene saziato dall'industria culturale, e pienamente sottomesso alle esigenze della società, e perfettamente dipendente da essa) ha costituito una delle armi più insidiose ed efficaci del capitalismo degli anni '70.
È difficile, leggendo le righe che Cesarano dedica alla «persona sociale», non pensare a tutte quelle «reti» nelle quali ciascuno di noi, persuaso dell'originalità della propria storia, esprime ciò che è la miserabile omogeneità delle forme di vita del capitale. Quel che Cesarano analizza, rappresentandolo per mezzo delle categorie della linguistica, come se fosse un dominio del linguaggio sulla parola - vale a dire il dominio del significato di ciò che è morto e disincarnato sul significato di ciò che è vivente -, riflette questa investitura senza precedenti del dominio delle esigenze del capitale sulla vita degli uomini.
Allo stesso modo, anche il capitale fittizio, non basandosi più su un lavoro che esiste, bensì sul credito e sulla speculazione, per poter garantire il suo dominio, deve reintegrarsi e recuperare il discorso teologico. Il credito è perciò un credito di significato. Ogni crisi economica innesca una crisi metafisica, una crisi di quello che è il senso della vita. E ciò può essere sfruttato dal capitale per poter sottomettere gli individui alle proprie esigenze, al suo senso. Per riuscire ad annientare ogni asserzione, deve rendere sé stesso affermativo, assertivo. È quindi in tal modo che il discorso dell'apocalisse, elaborato abilmente dai nuovi profeti del Club di Roma e dell'ecologia di Stato, attesta quello che è un investimento nel dizionario religioso, il quale è idoneo alla riorganizzazione che si è resa necessaria per l'economia capitalistica. La teologia non si è mai separata dal discorso che legittima una riorganizzazione dell'economia: essa consente di nasconderla dietro uno schermo, offrendo un significato fittizio ad una minaccia prodotta nei termini di un vero e proprio antagonismo rivoluzionario.
Questo farsi carico della vita dell'individuo - una volta ridotto al ruolo di «persona sociale» - che si sviluppa parallelamente allo svilupparsi della cibernetica e si giustifica per mezzo di un discorso apocalittico, acquista, in questi tempi difficili che stiamo attraversando, un'inquietante attualità. La «società terapeutica» - termine preferibile a quello, ormai logoro, di «Biopolitica» - produce l'uomo a sua immagine e lo rende identico alla sua sopravvivenza. Come viene riassunto da Jacques Camatte, «lo sviluppo del capitale è delinquenza e demenza. Ormai tutto è permesso; non ci sono più tabù, né divieti. Ma nel loro vivere le diverse “perversioni”, gli uomini e le donne possono perdersi, distruggersi, e non essere più “produttivi” per il capitale; da qui la necessità di una comunità che li possa sempre reintegrare in quella del capitale (è più esattamente in quella che assume le dimensioni di una comunità terapeutica). Un team di terapisti specializzati faranno da mediatori per questo reinserimento.» La crisi di senso viene risolta nel contesto di una gestione e di un farsi carico di ogni più piccolo gesto, e attraverso un incomparabile sviluppo della propaganda. Ma si tratta, però, di una propaganda della «creatività individuale», dello «sviluppo personale»: una propaganda dell'Ego imprenditoriale.
Tuttavia, il pensiero di Cesarano non si ferma a questa sinistra constatazione. Grazie all'archeologia e alla biologia, Cesarano percepisce in quelli che sono i conflitti contemporanei, delle questioni irrisolte che attengono alla storia più nel lungo periodo. L'emergere di un senso, sopravvenuto in seguito alla rottura dell'uomo con l'animale, ha consentito lo svilupparsi di poteri religiosi e di gerarchie. Ed è attraverso differenti protesi, sia linguistiche che simboliche e religiose, che il corpo ha potuto separarsi gradualmente da sé stesso per realizzare il mondo, costituito in quanto cosa che gli sta di fronte. Se la questione metafisica ha una sua storia, essa si risolve quindi storicamente. La violenta introduzione di protesi astratte, che culminano durante il dominio capitalistico del corpo, secondo quelli che sono i termini di Cesarano richiedono una rivoluzione in cui si tratta, non di cambiare i dirigenti, ma «una rivoluzione biologica che definisce in maniera irrevocabile il destino della specie. La liberazione dall'immanenza della morte, coincide con la liberazione dei corpi della specie dalla “macchina” alienata, che si è impadronita delle sue modalità evolutive trasformandole in trappole mortali.»
Cesarano è stato un uomo abitato dalla certezza intima e profonda secondo cui il senso non si sarebbe lasciato offuscare, che la vita si sarebbe inevitabilmente sollevata contro tutto ciò che, ogni giorno sempre di più, la mutila e la nega. Egli ipotizzava che negli anni '70, questo dominio dell'interiorità fosse solo una fase del «dominio formale», che di fatto costituisse un gap, un'occasione, una possibilità. Ci si può chiedere legittimamente se i deliri transumanisti e la «rivoluzione» digitale non abbiano definitivamente portato a termine questa colonizzazione, e se perciò ora noi ci troviamo ormai allo stadio del «dominio reale» del capitale sui corpi. La capacità di separare gli esseri umani, sia da sé stessi quanto dagli altri, e di metterli in relazioni unicamente attraverso lo specchio delle loro «maschere» ha raggiunto un terrificante grado di sofisticazione. Allo stesso tempo, possiamo anche constatare che la risposta capitalista alla vecchia questione del senso comincia a fare acqua da tutte le parti. Le insurrezioni a venire non potranno non porre delle domande sempre più cruciali sulla vita e sulla morte, e persino sulla vita biologica contro la morte organizzata. In tal senso, Cesarano diventa un interlocutore privilegiato, e non può fare a meno di trasmetterci, anziché speranze sempre deluse, la certezza che un'altra vita è possibile, e che essa si costruisce già anche nel presente , e non potrà continuare per sempre ad abdicare alle proprie responsabilità.

- Pubblicato su Lundimatin il 16 giugno 2020 -

mercoledì 24 giugno 2020

Genova per noi

Il 1960 è una data cruciale nella storia politica italiana del secondo dopoguerra: mentre il cinema vive il suo periodo d’oro (escono Rocco e i suoi fratelli di Visconti e La dolce vita di Fellini), il «miracolo economico» è al suo culmine e Roma ospita le Olimpiadi, il Paese attraversa la peggiore crisi istituzionale dalla nascita della Repubblica. Ma che cosa accadde di così tragico in quell’anno? Ce lo raccontano Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone in questo libro denso e appassionante che ricostruisce, sulla base di importanti fonti inedite, i drammatici giorni dell’insurrezione di Genova contro la celebrazione del congresso del Movimento sociale italiano (MSI), dell’eccidio di Reggio Emilia, dei sanguinosi scontri di piazza, delle cariche dei carabinieri a cavallo contro un corteo antifascista a Roma, delle manifestazioni funestate da morti in Sicilia.
Siamo in pieno clima di guerra fredda e il sistema politico italiano riflette lo spirito del tempo: al Quirinale siede Giovanni Gronchi, il Partito comunista di Togliatti è diviso tra spinte rivoluzionarie e visioni riformiste, i socialisti di Nenni sono alla ricerca di una loro «autonomia», la DC di Moro, Fanfani, Segni, Scelba e Andreotti gestisce il potere e intrattiene legami molto stretti con le gerarchie ecclesiastiche della Chiesa di Roma. È in questo contesto che si inserisce la figura di Fernando Tambroni. Il politico marchigiano eletto alla Costituente nel 1946 nelle file della Democrazia cristiana e più volte ministro della Repubblica, viene però ricordato nei manuali di storia soltanto per i pochi mesi del 1960, durante i quali il governo monocolore democristiano da lui presieduto, e nato con il sostegno determinante del MSI, rischiò di gettare l’Italia sull’orlo della guerra civile. Nella memoria del Paese, la sua figura risulta ancora oggi «divisiva» e i fatti di quel 1960 oggetto di memorie contrapposte. A sessant’anni di distanza, Franzinelli e Giacone, che all’analisi storiografica affiancano numerosi aneddoti e dettagli di cronaca, provano a comprendere con gli strumenti della Storia quella pagina cruciale quanto oscura della Repubblica, ripercorrendo la biografia di uno dei suoi protagonisti e portandoci nelle viscere di un’Italia sotto tanti aspetti ancora premoderna e arretrata, ma nella quale già s’intravedevano i germi di una stagione di rinnovamento democratico e rinascita civile.

(dal risvolto di copertina di: Mimmo Franzinelli, Alessandro Giacone, "1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile". Mondadori)

Era il luglio del 1960, c’era Tambroni e l’Italia rischiò davvero di fare “boom”
- di Giovanni De Luna -

La diffidenza con la quale molti guardano al mondo della politica spesso si traduce in una sorta di rimpianto dell’Italia democristiana, di un passato «in cui si stava meglio». Peccato si tratti di un passato «inventato», che non c’entra niente con la storia. Ce lo ricorda opportunamente l’ultimo libro di Franzinelli e Giacone, dedicato al luglio ’60 e a quelle giornate di 60 anni fa quando le piazze antifasciste,  affollate dai giovani delle «magliette a strisce», costrinsero alle dimissioni il governo presieduto dal democristiano Fernando Tambroni, spalancando la porta al centro sinistra e all’alleanza tra la DC e il PSI di Pietro Nenni. Nel loro lavoro gli autori hanno messo a punto un vero e proprio antidoto contro ogni tipo di nostalgia, raccontando la DC nei suoi aspetti peggiori, descrivendo, con dovizia di particolari e sulla base di una documentazione ineccepibile, un partito dilaniato da furibonde lotte intestine, pronto a ogni tipo di avventura per compiacere le sue varie correnti e i loro reciproci rapporti di forza, continuamente esposto alle incursioni del Vaticano (con la minaccia-ricatto di dar vita a un secondo partito cattolico), della Cia (come ricaduta della guerra fredda), dei servizi segreti, degli interessi dei grandi potentati economici, (l’Eni di Enrico Mattei e non solo).
Al centro di questa ricostruzione c’è la figura di Tambroni; il libro è infatti una sua compiuta biografia e ne attraversa tutta la vita fino all’avventura che lo catapultò alla Presidenza del Consiglio proprio durante i fatti del luglio ’60 ( morì poco dopo, a 61 anni, il 18 febbraio 1963). Franzinelli e Giacone raccontano così un Tambroni ossessionato dal potere e pronto a qualsiasi spregiudicatezza, un leader politico che usa colpi bassi verso amici e avversari, collezionando dossier (con il suo archivio segreto che finirà prima al Sifar, poi a Licio Gelli) e dilatando il lato oscuro delle nostre istituzioni.
I fatti del luglio ’60 sono noti. A Genova, il pomeriggio del 30 giugno 1960, un corteo di protesta, affollato da più di centomila persone, fu caricato dalla polizia. Ne nacquero scontri e tafferugli protrattisi fino a notte fonda. L’occasione di tutto questo subbuglio era stata la decisione del MSI, - il partito neofascista - avallata dal governo, di tenere il suo VI congresso nazionale proprio a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza: una scelta che aveva di colpo riaperto ferite non ancora sepolte dai detriti della memoria e del tempo. Presidente del consiglio era appunto Fernando Tambroni. Il suo governo era passato al Senato, il 29 aprile, proprio con l'appoggio determinante dei voti missini, ed era lo specchio delle grandi difficoltà che, al suo interno, la DC trovava nei confronti della decisione di imboccare la strada dell’«apertura a sinistra» cioè di abbandonare il «centrismo» e allearsi con i socialisti. In un clima di grande incertezza si era varato un monocolore «non programmaticamente impegnato», affidato proprio a Tambroni. Una pausa interlocutoria, in attesa che maturassero le condizioni favorevoli per una soluzione più spostata a sinistra, per la quale era pronto Fanfani. Quasi oggettivamente, così, Tambroni si trovò a interpretare il ruolo dell’ultimo baluardo prima dell'avvio di quel centrosinistra giudicato una catastrofica resa ai comunisti, giovandosi in questo senso degli appoggi di uno schieramento eterogeneo in cui confluivano alcune delle gerarchie vaticane più tradizionaliste, settori della destra economica e i fascisti, i quali, in nome dell’anticomunismo, speravano di trovare la loro grande occasione per legittimarsi come attendibili interlocutori della maggioranza governativa.
Fu così la piazza a mobilitarsi contro il suo governo. Il 5 luglio, a Licata, un corteo fu affrontato dalla polizia che sparò, uccidendo un operaio e ferendo gravemente altri cinque lavoratori. A Roma gli antifascisti organizzarono un comizio a Porta San Paolo, il 6 luglio, e vennero caricati dai carabinieri a cavallo.
Sciabolate e manganellate spalancarono una spirale di violenza. Il 7 luglio, per protestare contro quelle cariche, ancora uno sciopero, a Reggio Emilia. Altri scontri, altri spari della polizia e, purtroppo, altri morti. Questa volta furono cinque. E non era finita: a Palermo e a Catania altri morti, sempre con la polizia ad aprire il fuoco. Alla fine Tambroni fu costretto a dimettersi.
Nel dibattito storiografico questi scontri di piazza e le convulsioni governative che portarono all’abbandono della formula centrista appaiono oggi solo la certificazione politica dei cambiamenti profondi che investirono allora il nostro paese. All’inizio del decennio ’50-’60 il capitalismo italiano aveva ancora caratteristiche paleolitiche; alla soglia degli anni ’60 era praticamente in linea, almeno nelle sue più mature espressioni, col capitalismo francese, inglese, tedesco. Il boom economico fu impetuoso e travolgente. E l’apertura a sinistra fu la scelta di un mondo politico costretto ad adeguarsi a un cambiamento che lo aveva complessivamente spiazzato. Franzinelli e Giacone ci raccontano di quelle convulsioni, mostrandoci un desolante intreccio di «pedinamenti, intercettazioni, ricatti». Certo, la DC non era solo questo. Ma questa è la descrizione che ne fanno, con una citazione finale che rende bene la loro tesi; è di Giuseppe Alessi, padre nobile della DC e primo presidente dell’Assemblea regionale siciliana: «la DC di Moro è una merda; il suo tono politico e la sua ipocrisia riproducono lo squallore infido del suo capo».

- Giovanni De Luna - Pubblicato su Tuttolibri del 20 giugno 2020 -

martedì 23 giugno 2020

Pagare il conto !

Covid-19: il 21° secolo comincia ora
- di Jérôme Baschet -

Gli storici sono soliti affermare che il XX secolo globale abbia avuto inizio nel 1914, con il ciclo delle guerre mondiali. È probabile che un domani, il XXI secolo verrà considerato iniziato nel 2020, con l'ingresso sulla scena del SARS-CoV-2. Sebbene il futuro sia ancora abbastanza aperto, la serie di eventi scatenata dalla propagazione del coronavirus ci pone davanti, in maniera accelerata, una specie di prova delle catastrofi che in questo mondo convulso continueranno ad intensificarsi, e che sarà segnato, tra gli altri processi, da un riscaldamento globale la cui traiettoria attuale punta già ad un aumento fra i tre e i quattro gradi. Ciò che si delinea davanti ai nostri occhi, è uno stretto intreccio costituito da molteplici fattori di crisi, che un elemento casuale, tanto imprevisto quanto ampiamente annunciato, è in grado di attivare e scatenare. Il collasso e la disorganizzazione della natura, il caos climatico, l'accelerata decomposizione sociale, la perdita di credibilità da parte dei governanti e dei sistemi politici, la smisurata espansione del debito e la fragilità finanziaria, l'incapacità di mantenere un sufficiente livello di crescita (per limitarci a menzionare solo questo) sono dinamiche che si alimentano e si rafforzano a vicenda, creando un'estrema vulnerabilità, che non sarebbe tale se il sistema globale del mondo non si trovasse in una permanente situazione di crisi strutturale. D'ora in avanti, ogni apparente stabilità sarà solo la maschera di una crescente instabilità.
Il Covid-19 è «una malattia dell'Antropocene», ha affermato Philippe Sansonetti, microbiologo e professore al Collége de France. L'attuale pandemia è un fenomeno totale, in cui la realtà biologica del virus è indissociabile dalle condizioni sociali e sistemici della sua esistenza e diffusione. Fare riferimento all'Antropocene - il periodo geologico nel quale la specie umana si è trasformata in una forza in grado di modificare la biosfera su scala globale - spinge, a mio avviso, a tener conto di una temporalità triplice: a) gli ultimi anni , durante i quali sotto la pressione di un'evidenza sempre più pressante, abbiamo preso coscienza di questa nuova epoca; b) i decenni successivi al 1945, con il diffondersi del consumismo di massa e con la grande accelerazione di tutti gli indicatori dell'attività produttiva (e distruttiva) dell'umanità; c) la fine del 18° secolo e l'inizio del 19°, quando il ciclo dell'energia fossile e l'industrializzazione hanno fatto schizzare la curva delle emissioni di gas serra, che hanno così segnato l'inizio dell'Antropocene.
Il virus che ci affligge ci è stato inviato dalla natura, che viene a chiedere il conto per la bufera che noi stessi abbiamo provocato. L'Antropocene ci obbliga a pagare il conto: è la responsabilità umana ad essere in gioco. Ma la responsabilità di chi, esattamente? Le tre temporalità summenzionate ci consentono di essere più precisi. Nell'orizzonte più immediato, la nostra attenzione viene catturata dalla sorprendente mancanza di preparazione della maggior parte dei paesi occidentali, ed in particolare quelli europei. Per quel che riguarda la Francia, per esempio, l'esaurimento delle scorte di mascherine chirurgiche, e la mancanza di interventi per ricostruirle all'avvicinarsi dell'epidemia, ha provocato indignazione e rabbia nella popolazione. Una tale incapacità di prevedere e anticipare, è sintomo di quella che è un'altra malattia del nostro tempo: il Presentismo, per il quale non esiste nulla al di là dell'immediato. La gestione neoliberista dell'ospedale, con i suoi freddi calcoli di efficienza e di redditività, ha fatto il resto: mancanza di risorse, riduzione del numero dei posti letti, tagli e riduzione del personale, ecc. Sono anni oramai che i medici e gli infermieri negli ospedali, che sono già sovraccarichi di lavoro in tempi normali, che gridano la loro disperazione, senza che siano mai stati ascoltati. Oggi, il carattere criminale delle politiche portate avanti per decenni è sotto gli occhi di tutti. Come ha dichiarato Philipe Juvin, capo del pronto soccorso dell'Ospedale Pompidou di Parigi: «alcune persone irresponsabili e incapaci hanno fatto sì che ora ci troviamo completamente indifesi di fronte all'epidemia». E se Emmanuel Macron ha preteso di ergersi a comandante supremo nella guerra, non dovrebbe dimenticare che una simile retorica, usata da molti governanti, un giorno potrebbe trasformarsi (metaforicamente?) in accusa di altro tradimento.
Fare riferimento alla seconda metà del 20° secolo ci permette di identificare le cause responsabili della moltiplicazione della zoonosi, queste affezioni causate da agenti infettivi che mettono in atto un salto di specie dall'animale all'essere umano. La diffusione e l'espansione degli allevamenti e delle aziende agricole industriali, con quella che è tutta la loro ignominia concentrazionista, ha delle conseguenze sanitarie deplorevoli (come, per esempio, l'influenza suina e l'influenza aviaria). Per quanto riguarda la smisurata urbanizzazione e deforestazione, riducono l'habitat degli animali selvaggi e li spingono sempre più vicino all'uomo (tra le altre malattie, è stata questa la causa dell'AIDS e dell'Ebola). È possibile che questi due fattori non abbiano contribuito alla diffusione della SARS-CoV-2, anche se la catena di trasmissione dev'essere ancora meglio compresa. Tuttavia, ciò che è chiaro è che la vendita di animali selvaggi sul mercato di Wuhan non avrebbe avuto simili conseguenze se quella città non fosse diventata una delle capitali mondiali dell'industria automobilistica. Infatti, la globalizzazione dei flussi economici è la terza causa che dev'essere presa in considerazione, tanto più che l'insensata espansione del traffico aereo è stata il vettore della folgorante diffusione del virus.
Ma per poter dare all'Antropocene quello che è il suo vero nome - il Capitalocene - è necessario tornare indietro di due secoli. In realtà, questo nuovo periodo geologico non è stato causato dalla specie umana in generale, ma piuttosto da una sistema storico specifico. E questo sistema, il capitalismo, ha come caratteristica principale il fatto che nella sua essenza la produzione risponde, innanzitutto, alla necessità di valorizzare il denaro investito in tale produzione, vale a dire, il capitale. A partire da quel momento in poi, e per quanto le configurazioni possono variare di molto, il mondo si organizza in funzione delle imperiose necessità dell'economia. A partire da questo, ne deriva una rottura di civiltà con quelle che erano state tutte le altre precedenti esperienze umane l'interesse privato e l'individualismo competitivo si trasformano in valori supremi, mentre l'ossessione per la pura quantità, insieme alla tirannia dell'urgenza non possono fare altro che creare il vuoto all'interno dell'essere umano. La conseguenza di tutto questo, è soprattutto una mortifera compulsione produttivistica che è l''origine stessa del sovra-sfruttamento delle risorse naturali, della disorganizzazione accelerata della natura e del caos climatico.
Quando usciremo dal confinamento e dall'emergenza sanitaria, niente sarà più come prima; l'hanno già detto in molti. Ma cos'è che dovrebbe cambiare? Tutto quanto si limiterà ad un'esame di coscienza relativo ad una temporalità miope? O terrà conto di quello che è tutto il ciclo del Capitalocene?  Oramai ci troviamo a pieno titolo nel 21° secolo, vale a dire, nel momento storico in cui l'umanità ed il pianeta si trovano a dover pagare il conto del Capitalocene. La vera guerra non è quella contro il coronavirus - in quanto nemico, così come i governanti di tanti paesi pretendono che sia - ma consisterà nel confrontarsi di due opzioni opposte: da un lato, il proseguimento del fanatismo delle merci ed il produttivismo compulsivo che non possono fare altro che portarci all'approfondirsi della devastazione in corso; dall'altro lato, l'invenzione, già palpitante in migliaia di luoghi, di nuovi modi di esistere che cercano di rompere con l'imperativo categorico dell'economia, per privilegiare una buona vita per tutti e per tutte. Scegliendo l'intensità gioiosa della qualità contro le false promesse un'impossibile illimitatezza, si opta così per la tutela dei luoghi abitati e delle interazioni del vivente, per la costruzione di ciò che è comune, così come del mutuo appoggio e della solidarietà, così come della capacità collettiva dell'auto-organizzazione e dell'autogoverno.
Il virus è venuto a tirare il freno di emergenza e a fermare l'assurdo treno di una civiltà che sta correndo verso la distruzione in massa della vita. Lasceremo che tutto questo ricominci? Non sarebbe altro che la garanzia di altri cataclismi, di fronte ai quali quelli che stiamo vivendo attualmente sembreranno, a posteriori, eventi di poco conto.

- Jérôme Baschet - Paris, 31 marzo 2020 - Pubblicato su Comunizar -

lunedì 22 giugno 2020

Contro/Natura

La natura occupa un posto speciale nella cosmologia dei Moderni. Letterale preistoria di tutto quanto è genuinamente civile e propriamente umano, essa è anche – oggi più che mai – la riserva di ragioni che di questa stessa umana civiltà potrebbero o dovrebbero custodire l’antidoto quando non la palingenesi. Il potere normativo della natura è formidabile proprio perché coincide con la sua stessa dissimulazione: di qualcosa che appare, o deve apparire, ovvio e indiscutibile si dirà infatti che «è naturale». Costruita come l’antipode di ciò che è giudicato artificiale e artefatto, la natura ha quindi il potere di escludere come esecrabile e anormale tutto quanto non sembra soddisfarne la presunta normatività. Yan Thomas e Jacques Chiffoleau – l’uno perlustrando l’officina dei giuristi romani, l’altro i discorsi e le tecniche di giudici e teologi medievali – illustrano un profilo drasticamente diverso e per più versi sorprendente della natura. Secondo i due storici essa non precede mai le operazioni giuridiche e le procedure giudiziarie che – ogni volta che la invocano – altro non fanno che istituirla, costruendo allo stesso tempo tutto ciò che, essendole contrario, a essa ripugna. La natura è la protagonista di un indefinito processo di naturalizzazione. Prima a Roma, nel laboratorio del diritto civile, e poi durante tutto il Medioevo, nei processi in cui si costruisce il diritto pubblico di una sovranità che comincia a farsi le ossa reprimendo i suoi nemici, la natura è un vero e proprio strumento. Un arnese prodotto e impiegato da giuristi e giudici, teologi e filosofi, per intervenire sulla società e la realtà, in un intreccio costante di verità e finzione, possibilità e interdetti, eresia e ortodossia, con cui, probabilmente, non abbiamo ancora smesso di fare i conti.

(sul risvolto di copertina di: Yan Thomas, Jacques Chiffoleau, "L’istituzione della natura". Quodlibet)

Diritti di Natura
- di Roberto Esposito - 

Non c’è dubbio. Tra i primi compiti che ci lascia la pandemia c’è quello di ricostruire un rapporto positivo con una natura offesa e violata dall’uomo. Tutelare l’ambiente, proteggere la biodiversità, fronteggiare la crisi climatica. Ciò detto, non tutto è risolto. Intanto – è una costatazione ovvia – anche i virus, come gli uragani e i terremoti, fanno parte della natura. Ma soprattutto il significato di questa passa pur sempre per l’interpretazione dell’uomo. Che non è stata sempre la stessa. Anzi nulla come l’idea di natura ha avuto, nel corso della storia, uno statuto ambivalente. Da un lato la concezione dei diritti naturali, poi diventati diritti umani, ha significato uguaglianza di condizione contro ogni pregiudizio etnico e razziale. Dall’altro la nozione di natura è stata usata per legittimare il potere religioso, e anche politico, tramite la repressione di ciò che è stato definito per secoli “contro natura”.
Questo groviglio di problemi è l’oggetto di un libro prezioso, proprio perché apparentemente inattuale, intitolato L’istituzione della natura, edito da Quodlibet per la cura e con una postfazione di Michele Spanò. Esso è composto di due saggi, convergenti sul medesimo tema, del grande storico del diritto romano, di recente scomparso, Yan Thomas e dello studioso di storia medioevale Jacques Chiffoleau. Il primo esamina il rapporto tra diritto civile e natura nella Roma antica. Diversamente da quanto tramandato dalla tradizione stoica e ciceroniana, i giuristi romani non considerano la natura fonte di diritto. Ciò vuol dire che quello che è contrario alla natura, come ad esempio la schiavitù, non è perciò considerato illegittimo. La natura può costituire un ostacolo fisico, o biologico – per esempio un padre non può essere più giovane del figlio o una donna partorire insieme dieci gemelli – ma non un vincolo legale o morale. L’incesto è un crimine rispetto alla consuetudine e alla legge, ma non un atto contro natura. Le istituzioni giuridiche romane non devono conformarsi a un ordine trascendente come quello naturale. Al contrario, il diritto può adoperare il concetto di natura per i propri scopi, come emancipare un uomo nato schiavo o sottrarre alcuni beni, definiti “comuni”, all’appropriazione da parte dei privati.
Tutto cambia col passaggio alla stagione medioevale, pervasa di teologia cristiana. È allora che si afferma l’esistenza di pratiche contro natura. Il passaggio di paradigma, rispetto al mondo romano, è determinato dal presupposto che a creare la natura sia stato Dio. E che dunque essa non fa che tradurre, nella vita umana, i suoi voleri. Fin dal periodo finale dell’impero romano, quando ormai il cristianesimo diventa religione di Stato, gli atti contro natura – a partire dalla sodomia – cominciano a occupare un posto di rilievo nelle legislazioni penali. Indagati, condannati e puniti con una ferocia che si protrarrà fino ai roghi della Santa Inquisizione.
Naturalmente l’interdetto non si limita alle pratiche sessuali ritenute innaturali, ma investe l’intero ambito della fede – con accuse di idolatria ed eresia. Il tutto in difesa di una natura identificata col suo Creatore. In causa, in questa crociata a favore di una natura santificata, non è solo l’onnipotenza divina, ma anche il potere del sovrano. È l’ordine naturale che legittima la successione dinastica al trono e l’obbedienza dei sudditi. Come anche l’ostilità ad eretici, ebrei, musulmani.
Certo, a partire dal XVI secolo, il diritto naturale frena lo sviluppo dell’assolutismo, definendo limiti che neanche il sovrano può varcare. Ma nel complesso il paradigma di natura svolge un ruolo di conservazione. Tanto da giustificare l’esclamazione di Nietzsche ne La gaia scienza: « Quando finiremo di star circospetti e in guardia? Quando avremo del tutto sdivinizzato la natura! ».
E allora? Per riprendere le considerazioni iniziali, come comportarci oggi nei confronti della natura? E che rapporto essa istituisce col diritto? Da tempo la sensibilità ecologica – la critica alla centralità dell’uomo nell’universo – ci impone un nuovo atteggiamento verso la natura. Ma il libro di Thomas e Chiffoleau ci invita a diffidare di un integralismo naturalistico speculare all’integralismo antropologico. Il diritto della natura al rispetto non si afferma attribuendo personalità giuridica a fiumi e monti, come pure è accaduto, ma al contrario integrando uomo e natura all’interno della stessa forma di vita.
Come la filosofia contemporanea ha da tempo iniziato a fare, si tratta di rompere la relazione esclusiva tra diritto e persona, includendo nella protezione giuridica ecosistemi, ambienti vitali, soggetti collettivi finora non considerati soggetti di diritto. Naturalmente senza abbassare la guardia sui diritti individuali, ma ricollocandoli all’interno di una rete di relazioni naturali e sociali.

- Roberto Esposito - Pubblicato su Robinson del 20 giugno 2020 -