giovedì 18 giugno 2020

“Blanks and Gaps”: la rivoluzione non raccontata

California, anno 419 della Fratellanza dell'Uomo, XXVI secolo dell'era volgare. Lo storico Anthony Meredith ritrova nascosto nel tronco di una quercia il Manoscritto che Avis, moglie e compagna del rivoluzionario Ernest Everhard, ha lasciato incompiuto nel 1932, prima di essere giustiziata dai Mercenari dell'Oligarchia. Nelle pagine scrupolosamente annotate da Meredith si narrano «gli anni turbolenti compresi fra il 1912 e il 1932», quando Stati Uniti, Canada, Messico e Cuba sono schiacciati sotto il "tallone di ferro" di una dittatura protofascista e un manipolo di coraggiosi rivoluzionari tenta, invano, di rovesciarla. Il momento culminante è la carneficina della Comune di Chicago (episodio in cui confluiscono le suggestioni della rivoluzione russa del 1905 e del terremoto di San Francisco del 1906). Sopravvissuta alla prigione e al massacro, protetta da una nuova identità, Avis rievoca gli astratti furori di Everhard e la violenza perfettamente orchestrata dell'Oligarchia in maniera vivida, con una totale adesione sentimentale che - chiosa Meredith - «restituisce la percezione in diretta di quell'epoca terribile». Capostipite dei grandi romanzi del Novecento utopico-distopici, "Il tallone di ferro" (1908) anticipa gli orrori dei totalitarismi che di lì a poco avrebbero segnato la storia mondiale, e se da un lato svela tutta l'ambiguità poetica del sogno socialista di Jack London, dall'altro è una lettura di notevole forza icastica, tuttora capace di lasciare senza fiato. Postfazione di Cinzia Scarpino.

(dal risvolto di copertina di: Jack London, "Il tallone di ferro". Oscar Mondadori)

Il vero richiamo della foresta per Jack London non fu il Klondike ma le meraviglie del socialismo
- di Cinzia Scarpino -

Pubblicato nel 1908 e riproposto oggi negli Oscar Mondadori con una nuova traduzione di Sara Sullam, Il Tallone di Ferro è uno dei titoli più conosciuti di Jack London e appartiene alla fase maggiore della sua produzione narrativa insieme a Il richiamo della foresta, Il popolo degli abissi (entrambi del 1903), Zanna bianca (1908) e Martin Eden (1909). In quello stesso decennio, London, sempre attento ad autopromuoversi, è protagonista di un’intensa attività di conferenziere, si candida due volte a sindaco di Oakland per i social-democratici e dà alle stampe una dozzina di saggi autobiografici. In uno di quei saggi, «Come sono diventato un socialista» (1903), ripercorre la propria conversione politica con queste parole «Così come sono stato individualista senza saperlo, ero adesso un socialista, e inoltre di tipo non scientifico». Peccato minore, il difetto di solidità teorica di questo socialista atipico dalle letture farraginose ma dall’immaginazione romanzesca formidabile, almeno a giudicare dalla lunga fortuna politica del suo libro più scopertamente militante, Il Tallone di Ferro.
Amato e studiato da Leon Trotsky, il romanzo diventerà lettura obbligata, in Italia, nei circoli del PCI a partire dagli anni Quaranta del Novecento. Si tratterà tuttavia di un successo postumo. Già la stesura del libro è per London – scrittore socialmente impegnato e autore di bestseller – «un travaglio d’amore». Come dar forma narrativa a un romanzo politico rendendolo commercialmente appetibile, ovvero adatto ai gusti di lettrici middle-class? Innestando un racconto di resistenza rivoluzionaria a una dittatura spietata (l’Oligarchia, ovvero The Iron Heel) su una storia d’amore (tra il militante Ernest Everhard e Avis, alla quale è affidato anche il racconto dell’intera vicenda). All’uscita del libro, la combinazione di London non raccoglie i frutti sperati: Il Tallone di Ferro è troppo politico per le lettrici e troppo poco ortodosso per i socialisti americani che lo accusano di eresia. La sua popolarità fiorirà invece, in Europa e negli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni Venti con l’inverarsi dei regimi totalitari preconizzati da London. Con precisione visionaria lo scrittore californiano prefigura tutte le caratteristiche delle dittature a venire: una cospirazione totalitaria intenta a cancellare la libertà di pensiero e di parola attraverso il controllo della stampa, l’istituzione di una casta di mercenari e di una polizia segreta, le continue «sparizioni» degli oppositori, un regime di sorveglianza e spionaggio capillare, la contrapposizione studiata dai plutocrati tra una «casta di lavoratori» e la massa informe del proletariato senza nome – «la bestia ruggente dell’abisso». Sono questi i fatti ricordati nel racconto di Avis, testimone e sopravvissuta: i tentativi, tutti falliti, degli oppositori del regime protofascista dell’Oligarchia di rovesciarlo. Ma la grande intuizione di London è di incorniciare questo racconto in una Prefazione che proviene direttamente dal futuro, ovvero dall’utopia della «Fratellanza degli uomini» del 26° secolo d.C. A firmarla è lo storico Meredith e vi si racconta del ritrovamento di un manoscritto che Avis ha lasciato incompiuto poco prima di essere giustiziata dai Mercenari. Meredith chioserà, con numerose note a piè di pagina, il manoscritto stesso. Bastano questi elementi a capire come Il Tallone di Ferro di Jack London sia spesso considerato l’anello di congiunzione tra le utopie politiche ottocentesche – si pensi a Guardando indietro: 2000-1887 di Edward Bellamy (1888) – e le distopie novecentesche di cui costituisce un modello imprescindibile – Da noi non può succedere (1935) di Sinclair Lewis a 1984 (1949) di George Orwell, fino a Il complotto contro l’America (2004) di Philip Roth.
Ciò che colpisce oggi di questo romanzo è certo la sua perdurante attualità – non manca chi ne consiglia la lettura per comprendere meglio come l’ascesa del populismo di Trump e il fenomeno della Brexit siano stati ignorati dalle élite liberal occidentali – per non dire della vividezza cinematografica di alcune sue parti (tra cui spicca il capitolo intitolato «Il popolo dell’abisso», evocazione del massacro della «Comune di Chicago»). Ma è poi la deliberata sovrapposizione di voci diverse – le tirate dogmatiche di Ernest, il resoconto situato e sentimentale di Avis, e il commento un po’ blasé di Meredith – a collocare Il Tallone di Ferro in una dimensione di deliberata incertezza ideologica ed estetica sulla possibilità stessa che la rivoluzione non solo si dia ma sia poi raccontabile. Non è un caso, forse, che la Prefazione, chiave per capire il romanzo nella sua complessità e per scalfire le certezze del verboso Ernest Everhard, sia stata omessa, almeno fino agli anni Ottanta del Novecento, da molte edizioni europee. A conti fatti, nei circoli politici e di partito che ne decretarono il successo a interessare era su tutto il discorso intorno alla rivoluzione. Già, la rivoluzione. Una rivoluzione, però, mai veramente raccontata. Ernest ne agita il vessillo ma non la descrive mai; Meredith, la voce del futuro, in tutta la sua incorporeità ben si guarda dal riassumere le tappe rivoluzionarie che hanno portato dall’oscurità dell’Oligarchia alla radiosità della Fratellanza degli uomini. L’unica che fa intravedere al lettore un percorso di conversione e di rivoluzione è Avis. Il suo resoconto è punteggiato di blanks e gaps, di cose che non racconta perché ha visto solo parzialmente, non ha visto per niente, o ha deciso di rimuovere. È a partire dalla natura studiatamente reticente del racconto di Avis che si può rileggere questo romanzo oggi e cogliere così tutta l’ambiguità poetica del sogno rivoluzionario di London. Con buona pace del dogma, forse, ma non della rivoluzione.

- Cinzia Scarpino - pubblicato su Tuttolibri del 6/6/2020 -

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