giovedì 11 giugno 2020

Redistribuire?

Ogni comunità ha bisogno di giustificare le proprie disuguaglianze: l’uomo deve trovare le ragioni di queste disparità per non rischiare di vedere crollare l’intero edificio politico e sociale. In questa chiave, anche molte ideologie del passato non appaiono più così irragionevoli, se paragonate al nostro presente. Conoscere la molteplicità delle traiettorie e delle biforcazioni della storia può infatti aiutarci a interrogare le fondamenta delle nostre istituzioni e a intuire le loro trasformazioni. Questo libro, fondato sull’analisi di dati comparativi di inedita ampiezza, traccia il percorso dei regimi basati sulla disuguaglianza e ne immagina il futuro in una prospettiva economica, sociale, intellettuale e politica: dalle antiche società schiavistiche fino alla modernità ipercapitalista, passando per le esperienze comuniste e socialdemocratiche, e per il racconto inegualitario che si è imposto negli anni ottanta e novanta.
Con lo sguardo rivolto ai temi più caldi della nostra contemporaneità, Thomas Piketty dimostra come l’elemento decisivo per il progresso umano e lo sviluppo economico sia la lotta per l’uguaglianza e l’educazione, ridiscutendo il mito della proprietà a tutti i costi. Ispirati dalle lezioni della storia, possiamo affrontare il fatalismo che ha nutrito le derive identitarie in Europa e nel resto del mondo, e immaginare un nuovo orizzonte partecipativo per il XXI secolo, basato sull’uguaglianza, la proprietà sociale, l’educazione e la condivisione dei saperi e dei poteri. Nell’atteso seguito di Il capitale nel XXI secolo, best seller mondiale tradotto in 40 lingue e venduto in 2,5 milioni di copie, Piketty lancia la sfida di un nuovo modello economico e culturale, un’autorevole e illuminante chiave di lettura per interpretare il nostro tempo.

(dal risvolto di copertina di: Thomas Piketty, "Capitale e Ideologia". La nave di Teseo)

La disuguaglianza è politica
- di Giorgio Barba Navetti -

Una torta senza lievito. Questa è l'idea di società che si propone Thomas Piketty nel suo nuovo mastodontico volume Capitale e ideologia, il seguito dell'oramai famosissimo Il capitale nel XXI secolo, venduto in milioni di copie in tutto il mondo. Il pasticcere della torta senza lievito non mette l'ingrediente fondamentale per vederla crescere e gonfiarsi nel forno. Le fette da distribuire saranno di poca sostanza.
L'ossessione scientifica di Piketty è la distribuzione dei redditi e della ricchezza. Ossessione giusta, ancor più in tempi di Covid. Il virus, per quanto democratico nel colpire chiunque, non lo sarà nelle sue conseguenze economiche e sociali. Nel mondo post Covid la distanza tra ricchi e poveri probabilmente crescerà. In ogni modo, la disuguaglianza è un problema cruciale del nostro tempo.
Piketty propone di risolverlo attraverso un «socialismo partecipativo» con drastici meccanismi di redistribuzione: la ricchezza può essere solo temporanea, tassata con aliquote fino al 90 per cento; ii capitali dovranno essere trasferiti a tutti i giovani che abbiano 25 anni; i lavoratori dovranno partecipare alla gestione delle aziende e i diritti di voto degli azionisti saranno limitati; infine i redditi saranno anch'essi tassati con una progressione fortemente crescente. Per Piketty la società giusta è quella meno diseguale possibile. Ma manca qualunque ragionamento su come la distribuzione influenzi la creazione di ricchezza. Il tema è come dividere la torta senza pensare a che cosa ci voglia per farla crescere.
Il nuovo lavoro cerca di identificare, attraverso un'immensa rassegna storica, le radici ideologiche di quelli che definisce «i regimi della disuguaglianza». Ossia le società e gli assetti politici e istituzionali che nei tempi hanno giustificato la concentrazione di una larga parte della ricchezza nazionale nelle mani di pochi fortunati. Piketty parte dalle società "trifunzionali" del Medioevo, divise tra clero, aristocrazia e plebe, fino alle società "proprietaristiche" del XIX secolo, che con la rivoluzione industriale iniziano a separare il diritto di proprietà, universale e aperto a tutti, dal potere sovrano,monopolio dello Stato centrale, fino ad arrivare all'"ipercapitalismo" della società contemporanea. Ciascuna di queste forme sociali e politiche genera un "regime di disuguaglianza" e categorie ideologiche che lo giustificano. Secondo Piketty la disuguaglianza «non è economica o tecnologica: è ideologia politica». In altri termini non c'è nulla di naturale e inevitabile nella disuguaglianza. Concetti oggettivi come il profitto, il salario, la qualifica dei lavoratori, il capitale, il debito per il nostro autore «sono categorie sociali e storiche che dipendono interamente dal sistema legale, fiscale, dell'istruzione e politico che si sceglie di istituire». Se non c'è nulla di naturale nella disuguaglianza, essendo iniqua, non è in alcun modo giustificabile. Non esiste una distinzione tra una buona e una cattiva. Anche il fondamento meritocratico e imprenditoriale delle differenze di ricchezza contemporanee non è accettabile per Piketty. Per quanto sia agli antipodi delle società tradizionali, dove le disparità si basavano su attribuzioni  statuarie dei mezzi di produzione (terra, lavoro e capitale). Anzi la narrativa meritocratica è «un modo comodo per i privilegiati (...) di giustificare qualunque livello di disuguaglianza» stigmatizzando i perdenti, i poveri, per mancanza di meritò e capacità. Insomma, le evoluzioni politiche e istituzionali che dalla fine dell'Ottocento, attraverso due guerre mondiali e molte lotte politiche e sociali, hanno completamente trasformato le radici della disuguaglianza, mitigandola con un criterio, per quanto imperfetto, di parità delle possibilità di accesso e istruzione, salute e lavoro, sono comunque una «favoletta meritocratica», visto che nel mondo contemporaneo le differenze di reddito e ricchezza continuano ad aumentare.
E anche i grandi imprenditori di oggi, da Bill Gates a Jeff Besoz, il nostro li considera tanto immeritevoli delle loro fortune, quanto gli oligarchi russi e i principi sauditi. Non c'è genio tecnologico o capacità imprenditoriale che possa giustificare tali ricchezze. Non rimane dunque che il «socialismo partecipativo» una rivisitazione radicalizzata e nostalgica delle socialdemocrazie del dopo-guerra, dei tempi in cui l'aliquota massima sui redditi elevati arrivava al 90 per cento. Sistema politico, dove la proprietà sopravvive, ma limitata, mai eccessiva e distribuita a tutti in modo più o meno egualitario.
Piketty, nella sua appassionata difesa della redistribuzione, dimentica però le radici della crescita economica, il lievito della torta. Sostiene che il suo socialismo partecipativo produrrebbe comunque crescita e ricchezza con argomentazioni aneddotiche e una lettura storica distorta ed ideologica che manca del rigore di un ricercatore della sua levatura.
Non discute che effetto avrebbero un tetto ai diritti di voto degli azionisti, un'aliquota sui redditi e sui patrimoni del 70 per cento o il concetto di «proprietà temporanea» sull'incentivo ad intraprendere e ad innovare. Né si preoccupa se i venticinquenni dotati di capitali senza sforzi, si comprerebbero una casa o inizierebbero un'attività piuttosto che spararseli in birre e automobili veloci. L'autore neppure discute le radici della disuguaglianza contemporanea, dalla tecnologia alla globalizzazione, attribuendola del tutto agli eccessi liberisti post-reaganiani e all'incapacità dei partiti socialdemocratici di contrapporvi piattaforme ideali e politiche più eque. La prospettiva ideologica di Piketty offusca il merito vero del suo lavoro, che è un'analisi seria e approfondita, con dati strepitosi, della dinamica della distribuzione. Nel suo assolutismo, non considera percorsi necessari e più moderati di riduzione della disuguaglianza, che soprattutto non neghino i fondamenti delle conquiste sociali ed economiche contemporanee. Nel post-Covid, è probabile che alcune delle cose che propone entrino nell'agenda dei policy maker: maggiore presenza pubblica nel capitale delle imprese, un reddito minimo universale, maggiore uguaglianza nell'accesso all'istruzione. Ma avremo bisogno di moderazione e di analisi approfondite per affrontare i problemi sociali che la crisi lascerà alle spalle. I numeri e i dati di Piketty saranno di grande aiuto. Ma la sua visione assoluta rischia invece di infuocare le polveri del più cieco populismo.

- Giorgio Barba Navetti - Pubblicato sul Sole del 31 maggio 2020 -

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