venerdì 30 aprile 2021

Il lavoro ti odia, sappilo !!"

Da anni circola sui social network, decorata in modo improbabile, la massima «Fai ciò che ami e non lavorerai mai un giorno della tua vita»: attribuita a Confucio, la frase è entrata nel prontuario di tutti, o quasi. La si può sfoderare e cercare di far bella figura in una conversazione con persone che non si incontrano da decenni, fingendosi interessati ai loro mestieri, al loro percorso professionale. Il concetto confuciano è questo: se il lavoro che fai è quello che hai sempre desiderato, o addirittura se la passione della tua vita è diventata la tua fonte di sostentamento, non hai da lamentarti. Non dovresti sentire stress o fatica sul luogo di lavoro, non dovresti essere rigido sul rispetto degli orari (meglio qualche ora in più), e neanche dovresti avere troppe remore sulla paga. Sarà anche esigua ma in fondo, che vuoi? «In fondo, non fai altro che quello che ti piace!».

Una mentalità questa, raccontata molto bene da Sarah Jaffe, giornalista americana, nel suo libro Work Won’t Love You Back: How Devotion to Our Jobs Keeps Us Exploited, Exhausted, and Alone (Il lavoro non ricambierà il tuo amore: come la devozione ai nostri lavori continua a renderci sfruttati, esauriti e soli), uscito a gennaio per The Bold Type, casa editrice americana del gruppo Hachette. Il libro, che verrà tradotto in italiano e pubblicato per Minimum Fax, è stato molto apprezzato negli Stati Uniti. Sarah Jaffe perlustra e indaga il mondo del lavoro andando al cuore di ogni mestiere, raccontandone le ipocrisie attraverso dei lunghi reportage. Sono dieci i focus, intense interviste ai lavoratori: dallo stagista non retribuito all’insegnante sull’orlo di una crisi di nervi, dal dipendente di una no-profit al magazziniere Amazon, fino all’atleta professionista. Emerge, chiara, la tirannia del lavoro, che non lascia spazio e tempo per nulla. «Come la devozione ai nostri lavori continua a renderci sfruttati, esauriti e soli» è l’emblematico sottotitolo del libro.

Il tema, dal punto di vista del cosiddetto «lavoro di cura» è stato affrontato da Irene Doda in un articolo su https://www.iltascabile.com/societa/sarah-jaffe/
Mentre, un'intervista a Sarah Jaffe, a proposito del suo libro e degli argomenti affrontati può essere letta, su https://vdnews.tv/article/lavoro-amore-non-corrisposto

giovedì 29 aprile 2021

«Noi» e «loro» …

« L'italiano non si stupisce se qualcuno viene arrestato, mai. Lo trova naturale. Solo silenziosamente si stupisce di non essere lui, l'arrestato. Qualcuno recentemente ha scritto che gli italiani dovrebbero fare tutti qualche mese di carcere. Suppongo che il proponente si considerasse estremamente paradossale. In realtà, interpretava l'inconscio collettivo italiano. Gli italiani, man mano che invecchiano, sempre più si rallegrano e stupiscono di non essere mai stati arrestati. Per l'italiano, il fatto di non essere in galera è semplicemente un segno che da noi lo Stato non funziona. E come potrebbe funzionare, avendo dei cittadini come lui? L'italiano libero è semplicemente un italiano che l'ha fatta franca. » 

(G. Manganelli, Mammifero italiano, Adelphi 2007)

mercoledì 28 aprile 2021

Tutti al cinema !!

Quale funzione culturale ha svolto la critica cinematografica negli anni d’oro della produzione e del consumo di film in Italia? Quali sono stati i luoghi principali da cui si è saputo costruire un discorso critico capace di muoversi dentro il più ampio dibattito culturale nazionale? Quali forme ha saputo prendere questo discorso e quali comunità di lettori è riuscito a raccogliere? Il volume delinea una mappatura geografica e ideologica delle riviste di settore, studia la pervasività dei temi cinematografici nei periodici di ambito letterario, teatrale, artistico, nei quotidiani e in alcuni rotocalchi, si interroga sull’autorevolezza e sul potere della figura del critico e sui processi di istituzionalizzazione della pratica critica, individua l’importante ruolo delle donne, studia la funzione delle immagini e il confronto con la sempre più complessa idea di cultura popolare. Mette a fuoco, attraverso traiettorie di ricerca ad ampio raggio, le azioni che hanno contribuito a formare una cultura cinematografica nel nostro paese.

(da risvolto di copertina di: "Culture del film. La critica cinematografica e la società italiana", a cura di M.Guerra e S. Martin. Il Mulino, 308 pagg. €24.)

Vale la pena vedere questo film?
- di Michele Guerra -

Walter Benjamin diceva che «recensire è un'arte sociale», riconoscendo non solo al critico l'esercizio di una pratica a suo modo artistica - e dunque contrastando l'idea del recensore come artista fallito e inacidito -, ma anche la necessaria capacità di farsi interprete dei bisogni della società, in ogni sua articolazione. La critica cinematografica, nel corso del secolo passato, ha vissuto intensamente questa vocazione sociale. Anzitutto ha dovuto darsi un lessico nuovo per poter parlare al più alto numero di persone possibile di un'arte che stava nascendo, lì, sotto gli occhi di milioni di spettatori in tutto il mondo e tra le mani di tecnici e di artisti guardati, in pari misura, con interesse e sospetto. Capire cosa significa "cinema" presupponeva non soltanto comprendere i film e il loro modo di comunicare, ma afferrare in profondità le forze che spingono infine sullo schermo le immagini, forze economiche, politiche e sociali che da sempre incrociano, con intensità variabile, il destino della più potente macchina per narrare che il Novecento abbia conosciuto.
In secondo luogo, la critica cinematografica ha dovuto accettare di essere, fin dall'inizio, luogo di contaminazione, spazio di scrittura capace di ospitare letterati, poeti, avanguardisti di diversa provenienza, perfino politici appassionati che hanno trovato nel cinema il luogo in cui rinnovare certune convinzioni, affondare colpi interpretativi maturati altrove, attrarre i film nell'orbita delle loro personali poetiche o nei loro specifici campi di ricerca. La figura del critico cinematografico "puro" non è - forse per fortuna - mai esistita e anche nel momento in cui il cinema è stato riconosciuto come disciplina e sono nati articolati percorsi di studio e formazione ad esso dedicati, la vocazione all'incrocio dei temi e degli stili non è venuta meno, figlia di una preziosa "a-specificità" che la settima arte ha saputo con naturalezza conservare.
In terzo luogo, la critica cinematografica ha dovuto fare i conti da subito con la complessità e la trasversalità dei suoi lettori. Al cinema, si sa, ci vanno tutti e il fine intellettuale può facilmente ritrovarsi seduto accanto a chi non ha mani letto nulla e godere del medesimo prodotto artistico. Una situazione piuttosto unica, che non ha giovato alla reputazione del cinema e che invece porta il segno della rilevanza e della centralità di quest'arte. Di cinema si scriveva pertanto ovunque, dai rotocalchi più popolari alle riviste di edilizia (è così, non scherzo) e spesso erano gli stessi critici che occupavano posizioni di prestigio nei periodici di settore a trasferire la loro firma  e la loro scrittura a un livello diverso, dialogando con un pubblico nuovo e sforzandosi di interpretare l'atto critico come veicolo di una nuova socialità.
A più voci, "Culture del film. La critica cinematografica e la società italiana" riprende le fila di questi discorsi, concentrandosi sul periodo di maggior consapevolezza ed impegno critico - che va dagli anni Trenta alla fine degli anni Settanta -, ma non precludendosi incursioni in un prima e soprattutto in un dopo che restituiscono la modularità e la capacità di aderire ai contesti del pensiero critico italiano.
Si torna sui luoghi e sulle funzioni della critica, ricostruendo la complessa geografia delle riviste, le loro politiche editoriali, le apparenti ambiguità, per esempio, tra la natura del rotocalco, la sua patina, il richiamo divistico e, sulle stesse colonne, la severità ideologica, i modelli filosofici, l'elaborazione di una nuova estetica del film. Si lavora sul consolidamento di un discorso critico italiano e sulle sue peculiarità, inseguendo il formarsi di questo discorso sia nell'esperienza dei singoli critici sia nella disseminazione di riviste di maggiore e minor respiro, fino al moltiplicarsi delle esperienze "provinciali", che vedevano fiorire in molti angoli del Paese vere e proprie scuole di pensiero e fucine di scrittura sul cinema. Allo stesso tempo, si mettono in luce le continuità e le rotture  tra la critica ritenuta "alta" e quella "popolare", interrogando il mancato incontro tra queste dimensioni e tra le loro esigenze, un incontro che se si fosse cercato con più consapevolezza, se si fosse costruito facendo leva sulla trasversalità del cinema forse avrebbe prodotto quell'allargamento della base che alla cultura cinematografica è infine mancato e che oggi rende più difficile capire chi sia e soprattutto dove sia il lettore medio che ha voglia di impegnarsi su testi di storia, di critica o di teoria del film.
Il volume dà conto anche delle scritture critiche femminili, della stratificazione di una cultura visuale innovativa e necessaria per un pensiero completo sul cinema, non ché della ricezione dei film sui periodici non di settore (dalle riviste storico-politiche a quelle tecnico-industriali, fino alle testate più legate al costume e al gossip). Mentre i fili tornano a tendersi o a riannodarsi, nuovi orizzonti di ricerca si aprono e la crisi del pensiero critico investe il lettore in tutta la sua ampiezza: non abbiamo oggi critici meno bravi o preparati di un tempo, abbiamo comunità di lettori più frammentarie sia dal punto di vista mediale che sociale ed è questa instabilità dello spazio critico - di cui anche i lettori sono evidentemente parte - che ci rimanda ancora a Benjamin e ad un'arte sociale sempre più difficile da esercitare.

- Michele Guerra - pubblicato sul Sole del 28/3/2021 -

martedì 27 aprile 2021

È cominciata di nuovo la caccia alle streghe ...

La crisi della verità
- di Johannes Vogele -

L'azione non si svolge in alcun luogo, vale a dire che non accade nel mondo reale. Il 2020, non è stato soltanto l'anno in cui si è riscoperta la pandemia, ma anche quello in cui c'è stato un grande Festival delle teorie del complotto, in tutte le loro diversità e sensibilità. Non che questa forme di interpretazione della realtà siano nuove: esse si inscrivono in una storia assai lunga, e di certo hanno avuto anche una preistoria, oltre ad avere senza dubbio un avvenire. In un'epoca in cui perfino l'idea stessa di verità si trova ad essere già abbastanza danneggiata e compromessa, e dove le promesse e le altre previsioni provenienti dalle «fonti autorizzate» sono state impallinate a tal punto che l'idea dell'avvenire è oramai solo una questione di fede, anche il mercato delle narrazioni "alternative" è diventato rigoglioso. Dal momento che la verità che esce dalle bocche dei politici e degli economisti ha perso il suo status di oracolo, ora si tratta di andare a cercare altrove e - sorpresa - l'offerta sembra superare qualsiasi speranza. Dall'altro lato, si fa gli offesi: la democrazia, la scienza vengono messe sotto attacco, e noi, come un sol uomo, dobbiamo proteggerle, difendendole con i nostri corpi. Oramai, la critica - così necessaria alla libertà e alla democrazia - suscita solo il sospetto di una cospirazione in atto contro la sicurezza dello Stato e della società. Ed ecco che ancora una volta ci troviamo intrappolati nel sistema binario che caratterizza la modernità capitalistica: democrazia o dittatura, Bene o Male, i Lumi o l'oscurità. Ecco che allora questo testo tenta di comprendere su quale terreno comune si pongono questi nemici giurati, e se una critica dialettica possa - se non porre immediatamente fine - quanto meno destabilizzare delle forme di pensiero che vengono ritenute insuperabili.
È importante sottolineare come il complottismo non sia solo semplicemente un'interpretazione alternativa di un fatto o di un avvenimento. È assai di più una «visione del mondo» attraverso la quale questi fatti e questi avvenimenti vengono percepiti. Sebbene si tratti di elaborazioni complicate, e assai spesso anche degli accumuli giganteschi di dettagli e di «prove», lo schema di pensiero attraverso cui il cospirazionismo li interpreta rimane di una semplicità infantile. Questa visione del mondo è dualistica e oppone il Bene al Male, l'«oligarchia» al popolo, «noi» a «loro», ecc. Con grande disappunto del positivismo, il quale conosce soltanto i fatti, e li confonde con la verità, per il teorico [*1] del complotto niente accade per caso, ed egli vuole scoprire cosa ci sia dietro l'apparenza, la verità nascosta. Questa sua ricerca - tra l'altro, di certo lodevole - gli fa scoprire quello che sta cercando: il grande complotto, gli enormi poteri dotati di una volontà corrotta e malsana che perseguono un piano machiavellico organizzato fino nei minimi dettagli , e che spesso copre un periodo storico lunghissimo. Questa volontà agisce in segreto al fine di consolidare o prendere il potere, eliminando coloro che la ostacolano. Il complottismo scaturisce da una visione conservatrice, e sovente reazionaria, del mondo. Una costellazione - con un passato mitico e ormai quasi scomparso e distrutto - dev'essere salvata in extremis, contro delle forze occulte, che vengono spesso descritte come perverse e decadenti, ma anche cosmopolite e globaliste.
«Il sociologo  e politologo tedesco Samuel Salzborn, prendendo l'esempio della convinzione dell'esistenza di una cospirazione ebraica per dominare il mondo e delle conseguenze omicide che questa follia ebbe nella Germania nazionalsocialista, dichiara ''che ciò che viene attribuito, e di cui si accusano gli altri, nel mito della cospirazione, è in realtà ciò che caratterizza a sua volta quelle che sono le parti represse e negate del sé, i propri desideri, colti così però come mostruosi [...], e che all'inizio vengono formulati solo nella loro forma proiettiva". Credere nella cospirazione in quanto "paura apparente della persecuzione e dell'oppressione", è in definitiva "un'espressione, e allo stesso tempo una minaccia di coloro che non vogliono fare altro che perseguitare e opprimere". In un altro passaggio aggiunge: "Queste sono le fantasie di un mondo regressivo, il sogno di un io armonioso e senza contraddizioni (völkisch), in cui tutto obbedisce a una sola logica, cioè la propria - nessuna contraddizione, nessuna ambivalenza, solo un'identità (comune).» [*2]
In un articolo su Marseille Info Autonomes, si può leggere: «Le teorie del complotto [...] permettono a coloro che le propagano di creare una comunità di seguaci che si riuniscono intorno a queste certezze e a coloro che le creano. Come in tutte le comunità, hanno dei segni di riconoscimento, e dei leader che qui svolgono il ruolo dei predicatori. Attraverso un processo di vittimizzazione, questi profeti si mettono spesso in scena dentro la loro stessa teoria, e diventano così attori principali: "Il complotto ebraico è reale; la prova è che mi censurano, mi impediscono di rivelare la verità" ecc. (Dieudonné o Soral ne sono dei buoni esempi)»[*3].
Tuttavia, anche se il complottismo si situa nel contesto di una «cultura di destra», vale a dire regressiva, esso però non risparmia, tutt'altro, quella che viene convenzionalmente chiamata «la sinistra», all'interno della quale esiste una lunga tradizione nazionalista/antiimperialista, passando per lo stalinista «socialismo in un paese solo» e per l'anticapitalismo tronco e personalizzato, senza dimenticare l'esotismo nostalgico delle «società rurali» e delle altre civiltà pre-moderne o presuntamente extra-capitaliste. Naturalmente, tutte queste tendenze non sono «per loro natura» complottiste, ma hanno spesso delle infelici connessioni con  questa visione del mondo. Per analizzare i numerosi movimenti complottisti, bisognerà quindi necessariamente affrontare anche il cosiddetto fenomeno «confusionista», o «rosso-bruno», che si richiama a entrambi i campi ideologici. Ma sarà sufficiente comprenderlo come facente parte di una «strategia di recupero», dal momento che si tratta soprattutto di forme di coscienza, e che il tema della «manipolazione» è ben lontano dal poter fornire una spiegazione soddisfacente.
Storicamente, il fenomeno che qui ci interessa è piuttosto contemporaneo alla modernità. Per quel che concerne le accuse di cospirazione rivolte alle sedicenti streghe, è interessante constatare che, nel Medioevo, tali accuse venivano rivolte quasi esclusivamente contro individui. È solo a partire dall'inizio dell'epoca moderna che emerge in tutta Europa l'idea delle cospirazioni di streghe su larga scala che nel XVII secolo culminano poi nei pogrom di massa organizzati. È stato forse a partire dal momento in cui viene secolarizzata, scendendo dal cielo sulla terra, e passando dalla volontà divina alla volontà umana, che anche la volontà malvagia viene anch'essa umanizzata e proiettata sulle donne, sugli ebrei e sui cattivi «malfattori» in generale.
Fino alla fine della seconda guerra mondiale, essere un adepto e un seguace di una spiegazione complottista del mondo, oppure aderire a una particolare teoria cospirativa, non era né insolito né marginale. In Europa e negli Stati Uniti, le ideologie del complotto erano dominanti. Michael Butter scrive che «da George Washington fino a Dwight D. Eisenhower, probabilmente non c'è stato nessun presidente degli Stati Uniti che non abbia creduto a una qualche teoria del complotto.» [*3] In Germania, nel 1918, un intellettuale come Thomas Mann scriveva nella sue "Considerazioni di un impolitico": « L ’esegesi storica ci dirà un giorno la parte e funzione che l’illuminatismo internazionale, la loggia massonica mondiale - esclusi, naturalmente, gli ignari tedeschi -, ha avuto nella preparazione spirituale e nel reale scatenamento della guerra mondiale, la guerra cioè della ‘civilizzazione’ contro la Germania. Per quanto mi riguarda, prima ancora che fosse prodotto un qualunque materiale documentario, io avevo in proposito le mie convinzioni precise e incontestabili.» [*4]
Se fino alla metà del XX secolo, tutti i regimi hanno avuto come dottrina ufficiale delle forme di teoria del complotto, è stata naturalmente la Germania nazista a presentare la forma più estrema e di gran lunga la più omicida con il suo antisemitismo redentore [*5] e la sua attuazione attraverso la Shoah.
È stato solo nel periodo del dopoguerra che le società capitaliste occidentali, segnate dallo sviluppo fordista e scientifico e dai processi di pacificazione e di democratizzazione sociali, che si sono allontanate, per un momento, dalle ideologie «estreme», approfondendo l'interiorizzazione dei vincoli del rapporto sociale capitalista. Le ideologie complottiste, come le altre, vennero spinte ai margini della società, dove poi vissero un'esistenza più o meno confinata e riservata.
Ma con la crisi economica, a partire dagli anni 1970-1980, la quale portò con sé naturalmente una crisi sociale ed ecologica, ma anche una decomposizione ideologica, queste rappresentazioni cominciarono a ritornare al cuore della società, al fine di condurre una delle più paradossali battaglie: l'apologia di una naturalità sociale che veniva attaccata da un capitalismo «scatenato» e globalista si confrontava con l'apologia di una normalità della ragione, della scienza e della democrazia; senza però naturalmente rendersi conto che il terreno comune su cui si affrontato, e che nessuno delle due mette in discussione, è quello del capitalismo patriarcale, quello del dominio senza soggetto della macchina della valorizzazione, la quale è entrata in una crisi profonda, per non dire finale.
Per fare solo un esempio piuttosto banale: né gli scettici-climatici - convinti che il riscaldamento climatico sia solo una menzogna volta a instaurare una dittatura a livello globale - né i rappresentati degli Stati e della Scienza - i quali moltiplicano dichiarazioni e conferenze - hanno una vera e propria soluzione per contrastare il riscaldamento del pianeta. Per fare ciò, bisognerebbe innanzitutto svolgere una critica radicale del rapporto sociale capitalista e patriarcale.
Quindi, se è urgente combattere, senza alcuna compiacenza, le correnti della mistificazione complottista, è però inutile farlo a nome del dominio che le produce. Il complottismo si sviluppa in quanto fenomeno di crisi ed è per questo che è particolarmente pericoloso. Lungi dall'identificare quelle che sono le cause reali della decomposizione dei rapporti sociali e della relazione con la natura, propone solo dei capri espiatori: dei gruppi sociali che sarebbero malvagi nella loro essenza, e quindi da abbattere. A seconda della teoria, si può trattare anche di attori inverosimili come i rettiliani o altri alieni extraterrestri, ma la maggior parte dei nemici dichiarati sono di natura umana: i banchieri, le oligarchie, i politici. È fondamentale come si può vedere in tutti questi obiettivi, sia nelle loro strutture che nelle immagini delegate a rappresentarli, come in negativo, la «cospirazione ebraica mondiale»; testimoniato, questo, dalla grande influenza che i Protocolli dei Savi Anziani di Sion hanno ancora nella complo-sfera mondiale. È importante tenere presente questa filiazione, la quale rivela tutto il suo potenziale di violenza e di fascinazione che esercita nei confronti di questi «ribelli», di questi «combattenti della libertà» ed altri «lanciatori di allarme» che spesso assumono un aspetto pacifico e umanista. Tra le altre cose,è anche per questa ragione che bisogna denunciare e combattere ogni forma di antisemitismo e la loro relativizzazione.
Quale tipo di popolazione è particolarmente attratta dalle teorie del complotto? Su questo argomento esiste tutta un'abbondante e contraddittoria letteratura (e delle statistiche) in merito non esente da interpretazioni di parte. Qui non c'è posto per approfondire queste considerazioni. Tuttavia, vale la pena fare un'osservazione, per quanto non sia universalmente accettata; quella per cui il ricercatore tedesco Michael Butter scrive: «I testi, le immagini e i video della teoria della cospirazione che vengono discussi negli studi culturali sono - non solo in passato ma anche al giorno d'oggi - quasi esclusivamente fatti da uomini. La stessa cosa vale anche per la maggior parte dei commenti che appaiono sotto i video, nei blog o negli articoli a contenuto complottista.» [*6] Egli aggiunge, per quanto attiene all'adesione a tali teorie, che gli uomini preferiscono credere per lo più alle grandi teorie cospirazioniste come quelle che riguardano l'11 settembre e il Nuovo Ordine Mondiale, mentre le donne preferiscono credere a quelle che riguardano direttamente la vita, come le scie chimiche o i vaccini. Naturalmente, gli uomini aderiscono anche a queste ultime, ma sarebbero più propensi a integrarle in delle grandi narrazioni cospirative a livello globale.
La crisi globale del capitalismo e i suoi grandi crolli, vengono vissuti dagli individui - cioè da tutti noi - come parte della nostra vita quotidiana. Disoccupazione e miseria, sconvolgimenti ecologici e sociali, incertezza e imprevedibilità richiedono delle spiegazioni. La crisi del coronavirus, ha ancora una volta dimostrato la fragilità di questa «normalità» alla quale ci aggrappiamo. Il soggetto moderno aveva imparato che «è tutto questione di volontà», e che il solo vero attore è egli stesso: nella sua forma individuale o collettiva (nazione, partito, classe, razza, ecc.). Ma la formazione moderna della soggettività ha avuto come corollario la messa in moto di un'immenso macchinario oggettivo, il quale detta le sue leggi al soggetto e perfino alla sua volontà. Si tratta del processo storico della società del capitale e della valorizzazione del «soggetto automatico» (Marx) che viene interiorizzato dagli esseri umani come «seconda natura», in quanto espressione di una legge ineludibile. In primo luogo, ciò comporta anche una «dissociazione» di tutto ciò che si costituisce come femminile (e quindi come inferiore) in quanto condicio sine qua non del costituirsi e del riprodursi di questa relazione sociale. È solamente a partire da questa interiorizzazione che il Soggetto (intrinsecamente bianco, maschile e occidentale) ha potuto permettersi di godere di questo libero arbitrio falsamente emancipato. Ma questa «seconda natura» è un prodotto sociale e i Soggetti, a tutti i livelli di gerarchia sociale, la riproducono ogni giorno attraverso i loro gesti quotidiani e i riflessi ideologici che sviluppano.
La crisi del capitalismo è anche la crisi di questo Soggetto. Il complottismo è una risposta anomica a tale crisi, motivato dalla paura del declassamento (già in atto) e dal disperato attaccamento a una fantasmatica normalità. Esso accompagna il processo postmoderno di decomposizione; ormai i suoi contenuti si sono fatti diversi e contraddittori, e alla grande narrazione si preferisce piuttosto un puzzle di varie teorie, talvolta effimere. A questo proposito , è interessante esaminare il funzionamento del movimento complottista pro-Trump, QAnon, negli Stati Uniti e in tutto il mondo.
L'immagine stessa di questi assaltatori del Campidoglio, la loro esacerbata ed esibita mascolinità, il loro razzismo presupposto e il loro spettacolare attaccamento a un capo, è un presagio di come apparirà questo Soggetto occidentale in decomposizione, e dell'odio e della violenza cui sarà disposto in futuro.
Quando la società non è più in grado di rispondere alle catastrofi in serie che si abbattono sull'umanità e sul pianeta, si indebolisce anche la serietà e le basi dei suoi pronostici cosiddetti «ufficiali» [*7] e rimangono addirittura inascoltati. La società si divide e perde qualsiasi terreno comune tranne quello, rimosso, della crisi del suo modello di riproduzione. Non sarà più sufficiente alcun appello indignato e moralizzatore, se non avremo il coraggio di affrontare la realtà di tale crisi.

- Johannes Vogele – Pubblicato il 6/4/2021 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -

NOTE:

[*1] - Tra i produttori di queste teorie, si trova effettivamente una schiacciante maggioranza di maschi, ragion per cui in questo caso una femminilizzazione sarebbe abusiva.
[*2] - Disponibile su: https://de.wikipedia.org/wiki/Verschw%C3%B6rungstheorie#%E2%80%9EDialektik_der_Aufkl%C3%A4rung%E2%80%9C
[*3] - Michael Butter, Nicht ist wie es scheint [rien n’est comme il semble être], Berlin, Edition Suhrkamp, 2018, p. 120. (Trad. JV).
[*4] - Thomas Mann. "Considerazioni di un impolitico". Biblioteca Adelphi, 335.
[*5] - Lo storico Saul Friedländer ha coniato questo termine per descrivere la passione antisemita dei nazisti. Per questi ultimi si trattava una lotta mondiale fino alla morte tra ariani ed ebrei: la redenzione dei primi era una condizione per la distruzione dei secondi.
[*6] . Ivi, p. 149/150.
[*7] - La fraseologia complottista delle «versioni ufficiali» va ovviamente criticata. Tuttavia, pretendere che il mondo dei politici, degli economisti, degli scienziati e dei media sia libero dall'ideologia e puramente obiettivo, sarebbe ideologico a sua volta.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

domenica 25 aprile 2021

L’altra resistenza

Il film, da cui è tratto il fotogramma è quello sui Fratelli Cervi. Vi si può riconoscere Duilio del Prete, che nella pellicola interpreta il ruolo di Dante Castellucci. Castellucci, calabrese, un passato da attore, già compagno di prigionia dei fratelli Cervi, nella Resistenza comanda la "brigata Picelli".  Il "comandante Facio" verrà accusato di aver sottratto materiale bellico alle altre brigate partigiane e processato dai suoi compagni che fregandosene del suo passato fatto di battaglie come quella del Lago Santo, verrà condannato e fucilato. Per cosa?!? Per una barzelletta! E' il 22 luglio del 1944, e a quanto pare, e per quanto continuano a sforzarsi di negarlo, venne tradito dai comunisti cui dava noia il fatto che Castellucci del CLN non ne volesse proprio sapere. Più o meno la stessa storia di Silvio Corbari che, insieme ai suoi compagni, viene consegnato ai fascisti. A «rimettere a posto la storia», ci penserà il film e così questi pericolosi anarchici che erano stati "giustamente" messi in condizioni di non nuocere alla «causa partigiana», grazie alla sapiente "regia" di Italo Calvino (su ordine di Togliatti) verranno restituiti al loro ruolo di icone della Resistenza. Certo continua ad esserci qualcuno che non ha mai smesso di insinuare che la soffiata sui Fratelli Cervi ... Ma no, che dite?!? Certe cose Togliatti, Longo e Vidali le facevano solo in Spagna, mica a casa loro!!!


sabato 24 aprile 2021

Il "passo dell'ubriaco"

La storia dell’ebbrezza è la storia di una fascinazione che ha sempre oscillato tra l’esaltazione romantica e la condanna scandalizzata. Eppure sono numerosi coloro che, in tutti i tempi e in tutte le culture, hanno rifiutato tale dicotomia per interrogarsi sugli effetti reali dell’alcool e sui poteri insospettabili che nasconde. Dalla Baghdad del IX secolo alla New York del XX secolo, dalla Francia medievale al Giappone dell’era Meiji, poeti, filosofi, scrittori, alchimisti e semplici bevitori hanno esplorato, in modo spesso vacillante e brillo, le conseguenze dell’ubriachezza nel campo dell’arte e in quello della scienza, in quello della politica e in quello della morale – fino a sondare il campo stesso dell’essere. Camminando in compagnia di Abû Nûwas, Nakae Chômin, Rabelais, Dorothy Parker, Zhang Xu e molti altri, Laurent de Sutter propone un viaggio conoscitivo attraverso le trasformazioni offerte dall’ebbrezza, alla ricerca di una nuova verità, che non si regga in piedi se non sbandando: una verità ubriaca, che metta in ridicolo il millenario regime poliziesco della sobrietà.

(dal risvolto di copertina di: Laurent de Sutter, "L'arte di essere ubriachi". Giometti & Antonello. €17,10)

L’arte dell’ebbrezza è fuoriuscire da sé per abbracciare la vita che ci attraversa
-Dalla Baghdad del IX secolo a oggi poeti, scrittori e alchimisti hanno esplorato il “potere” dell’ubriachezza -
di Simone Regazzoni 

C’è una nuova generazione di filosofi che ha fatto dell’indisciplina la cifra stessa del pensiero. Non costituiscono una scuola, nemmeno un movimento; e tuttavia, da una parte all’altra del mondo, condividono un’idea di filosofia che rompe con l’ossessione per gli spettri del proprio passato, che non si identifica con un metodo, un linguaggio, una disciplina accademica, che non riconosce nessun canone né ha oggetti di investigazione privilegiata. È una filosofia viva, intensamente erotica, a tratti eccitata ed eccitante , che non rinuncia a niente perché sa che il pensiero è dovunque, e può scorrere libero anche attraverso una serie di raffinati cocktail scelti con cura e bevuti nel corso di una notte nel rinomato bar «Ternch» di Tokyo.
È qui che inizia e finisce il bellissimo "L'arte di essere ubriachi" del filosofo belga Laurent de Sutter che di questa indisciplinata e vitale generazione di filosofi è sicuramente uno dei rappresentanti più raffinati. Nello spazio notturno del bar «Trench», così distante da una biblioteca o un'aula universitaria, prende corpo una riflessione che spazia dai poeti della Baghdad del IX secolo ai calligrafi dell'era giapponesi dell'era Meiji, dall'etica alla politica, dagli alchimisti a Debord e disegna così una vera e propria ontologia dell'ebrezza che destabilizza la questione chiave della filosofia - la questione dell'essere - fino a produrne il crollo. Le parole di de Sutter, a questo proposito, sono limpide come un Martini cocktail: «Esiste dunque un'ontologia dell'ebrezza, che ne accompagna l'etica, l'estetica, l'epistemologia e la politica - un'ontologia che è innanzitutto negativa, apofatica e deludente anch'essa: l'ontologia del crollo dell'ontos, dell'essere». Questo crollo tuttavia non lascia macerie. Questo crollo è una dissoluzione, un annullamento che apre a una fuoriuscita dell'essere in direzione del movimento traboccante di una vita che eccede i limiti dell'io. Nel libro di de Sutter non c'è nessun elogio del soggetto ebbro, nessuna retorica del bere come esaltazione del soggetto sregolato. Se l'io e il soggetto sono le istanze poliziesche di controllo della vita, l'arte dell'ebrezza è una sorta di raffinatissima arte marziale che spinge al superamento di queste istanze e mette il corpo in contatto con il principio della potenza vitale. Per illustrare la connessione tra gesto, corpo ed ebrezza, de Sutter evoca uno stile di combattimento chiamato zui quan «pugno ebbro» o «pugilato dell'uomo ebbro»: «Laddove un praticante di kung fu tradizionale cerca di raggiungere il suo obiettivo di sferrare o di parare i colpi nella maniera più volontaria, più decisa possibile, il "pugilato dell'uomo ebbro" lascia agire il corpo stesso lì dove questo è in relazione con  la stessa vita». L'arte dell'ebrezza è un'arte della liberazione come intensificazione vitale. Ma come si arriva fin qui, al termine di questo viaggio di fuoriuscita dall'essere in direzione della vita?
In primo luogo entrando in un rapporto sensibile con la verità. Se Platone, nel Simposio, al termine della scala amoris, aveva abbandonato la dimensione di un pensiero che «vede» per passare all'idea del «toccare», de Sutter si spinge oltre: non si tratta né di vedere, né di toccare la verità, ma di berla, consapevoli, per usare le parole di Feuerbach, che «solo la verità diventa carne e sangue è verità». Bere è un'esperienza filosofica  di incorporazione della verità intesa non come sapere, ma come forza di trasformazione, come vis: potenza di eccesso permanente, tensione verso i proprio superamento. Ecco che qui l'idea di filosofia come discorso teorico, meditazione concettuale. forma di sapere, viene ecceduta in direzione di qualcosa come un'arte della vita, un'arte di intensificazione della vita. «Bevendo vino, non ci si accontenta di aggiungere idee, parole o visioni a una sorta di biblioteca interiore che ospiterebbe la nostra conoscenza e la nostra filosofia, ma ci si nutre della forza stessa della verità. in modo da poterla assimilare nel senso più rigoroso del termine». È questa la verità che alberga nel vino, come sapevano gli alchimisti le cui strumentazioni permisero, come ricorda de Sutter, di realizzare attorno al 1100, a Salerno, la distillazione di alcolici. È chiaro come il corpo, il corpo vivente del filosofo, giochi un ruolo centrale nella filosofia di de Sutter. L'arte del bere è un arte di pensare attraverso il corpo liberato dall'illusione dell'io e in grado di entrare in connessione con il principio vitale che rifiuta ogni controllo., ogni gestione. Non è forse questo l'effetto prodotto da un cocktail? L'effetto per cui è ricercato e contro cui combattono i fautori della sobrietà? In una parola: eccitazione, fuoriuscita da sé stessi. Ecco ciò che produce l'arte dell'ebrezza: la fuoriuscita del sé da sé per abbracciare la vita che lo attraversa. Ecco quello che avrà pensato, in una notte di ebrezza, in un bar di Tokyo, l'uomo, il filosofo che ora torna a casa. «Dietro la vetrina la luce si spense. Come ogni notte».

- Simone Regazzoni - Pubblicato su TuttoLibri del 27/3/2021 -

venerdì 23 aprile 2021

Congedarsi dal proprio congedo !!

Hans-Jürgen Krahl, allievo, prima prediletto e poi ripudiato, di Adorno entra in aperta polemica con lui durante le mobilitazioni studentesche. Particolarmente significativa la sua azione con altri studenti il 31 gennaio 1969 in occasione dell’occupazione dell’Istituto per la Ricerca Sociale. Nella circostanza che viene descritta da Adorno in un interessante scambio epistolare con Marcuse, Adorno chiamò la polizia che arrestò insieme a Krahl altri 76 studenti che con lui occupavano un’aula. Krahl subirà, unico tra gli arrestati un processo. Adorno stesso ricorda: «Habermas ed io eravamo presenti quando è successo ed abbiamo potuto controllare che non venisse usata violenza. Adesso sono aumentate le proteste, sebbene Krahl abbia organizzato tutta questa impresa per essere arrestato e, in questo modo, per tenere insieme il gruppo dello SDS di Francoforte in fase di disgregazione- obiettivo che nel frattempo ha raggiunto» (si veda la lettera a Marcuse del 14 febbraio 1969 in H.Marcuse, T.W. Adorno, "Corrispondenza sul movimento studentesco" in H. Marcuse, "Scritti e interventi", a cura di R. Laudani, "vol.1, Oltre l’uomo a una dimensione", Manifestolibri, Roma, 2005, pp. 307-308). Dopo l’attentato subito da Dutschke (11 aprile 1968) Krahl eredita la leadership del movimento riprendendone in parte la linea antiautoritaria ed aspramente critica verso lo stalinismo. In particolare, propugna la centralità del lavoro immateriale e della produzione intellettuale di massa nel capitalismo maturo con la conseguente svalutazione del ruolo rivoluzionario della classe operaia di fabbrica. Nel febbraio del 1970 muore giovanissimo a causa di un incidente d’automobile.

Le contraddizioni politiche nella teoria di Adorno
- Hans-Jürgen Krahl - 1971 -

La biografia intellettuale di Adorno, perfino nelle sue astrazioni più estetiche, è segnata dall'esperienza del fascismo. Il modo in cui questa esperienza si riflette - decifrando dalle opere d'arte il rapporto indissolubile tra critica e sofferenza - costituisce la purezza della pretesa intransigente della negazione, ma simultaneamente ne sottolinea i limiti. Attraverso la riflessione sulla violenza fascista vista come generata dalle naturali catastrofi economiche del modo di produzione capitalista, la «vita mutilata» è consapevole del proprio invischiamento nelle contraddizioni ideologiche dell'individualismo borghese, di cui pure ha compreso l'irrevocabile decomposizione; e allo stesso tempo, non riesce a sottrarsene. Il terrore fascista non produce solo la comprensione dell'ermetica compulsività delle società altamente industrializzate, ma viola anche la soggettività del teorico e rafforza le barriere di classe contro la sua capacità cognitiva. Adorno esprime questa consapevolezza nella sua "Introduzione" ai Minima Moralia:
«La violenza che mi aveva cacciato, mi impediva anche di comprenderla appieno. Non ammettevo ancora a me stesso la complicità che coinvolge tutti coloro che, di fronte all'indicibile che sta accadendo a livello collettivo, parlano solo di questioni individuali».
Sembra che la critica tagliente di Adorno a proposito dell'esistenza ideologica dell'individuo borghese, lo abbia irresistibilmente intrappolato nella sua propria rovina. Ma ciò significherebbe che egli non era mai uscito veramente dall'isolamento che l'emigrazione gli imponeva. Il destino monadologico dell'individuo isolato dalle leggi di produzione del lavoro astratto, si rispecchia nel sua soggettività intellettuale. Per questo Adorno non riuscì a tradurre la sua compassione privata per i miserabili della terra in una partigianeria integrale della sua teoria per la liberazione degli oppressi.
L'intuizione socio-teorica di Adorno, secondo cui la rinascita del nazionalsocialismo sotto la democrazia avrebbe dovuto essere considerata come potenzialmente più pericolosa delle tendenze fasciste contro la democrazia, rovesciò la sua crescente paura di una stabilizzazione fascista del capitalismo monopolistico in un'ansia regressiva verso qualsiasi forma di resistenza attiva contro tali tendenze del sistema.
Egli condivide la coscienza politica ambivalente che hanno molti intellettuali critici tedeschi, i quali proiettano un'azione socialista di sinistra, che in realtà non farebbe altro che scatenare il potenziale del terrore fascista di destra che essa combatte. Ma in tal modo, avviene che ogni prassi viene perciò denunciata a priori come cieco attivismo, e si nega così la possibilità di una critica politica in quanto tale, cioè una critica che distinguerebbe tra una prassi prerivoluzionaria essenzialmente corretta e quelle che invece sono le sue espressioni infantili all'interno dei movimenti rivoluzionari emergenti.
A differenza del proletariato francese e dei suoi intellettuali politici, in Germania manca una tradizione ininterrotta di resistenza militante, e quindi i presupposti storici per una discussione razionale sulla legittimità storica della militanza. Il dominio esistente, che secondo la stessa analisi di Adorno, anche dopo Auschwitz, ha spinto verso nuove forme fasciste [Faschisierung], non sarebbe tale, se l'«arma della critica» del marxismo non avesse bisogno di una «critica delle armi» proletaria supplementare. Soltanto a quel punto la critica diventa la vita teorica della rivoluzione.
Questa contraddizione oggettiva della teoria di Adorno, spingeva verso un conflitto aperto e aveva convertito gli studenti socialisti in avversari politici del loro maestro di filosofia. A prescindere dal fatto che Adorno smascherasse l'ideologia borghese della ricerca disinteressata della verità, mettendola a nudo in quanto fenomeno di scambio di merci, egli diffidava anche delle tracce della lotta politica [Richtungskampf] nel dialogo scientifico.
Ma la sua opzione critica - secondo la quale, per partecipare alla verità, il pensiero dovrebbe orientarsi spontaneamente verso il cambiamento pratico della realtà sociale - perde il suo margine di vantaggio nel momento in cui non può definire sé stesso anche in termini di categorie organizzative. Il suo concetto dialettico di negazione finiva per allontanarsi sempre di più dalla necessità storica di una partigianeria oggettiva del pensiero, che tuttavia rimaneva presente nella determinazione specifica attuata da Horkheimer, circa la differenza tra teoria critica e teoria tradizionale, almeno nel suo sostenere l'«unità dinamica» tra teorico e classe dominata.
L'astrazione da questi criteri portò infine Adorno, nel suo conflitto con il movimento studentesco, a una fatale complicità - che nemmeno lui comprendeva - con i poteri dominanti. Il problema dell'astinenza privata dalla prassi non era affatto l'unica questione coinvolta nella controversia, ma l'incapacità, da parte di Adorno, di affrontare il problema dell'organizzazione indica un'inadeguatezza oggettiva nella sua teoria, che tuttavia assume la prassi sociale come categoria centrale dell'epistemologia e della teoria sociale.
Eppure, è stato il pensiero di Adorno a comunicare agli studenti politicamente coscienti quali erano le categorie emancipatorie che svelano il dominio e corrispondono inesprimibilmente [unausdrücklich] alle mutate condizioni storiche della rivoluzione nelle città; condizioni che non possono essere più determinate da esperienze pregiudiziali non mediate.
La forza di rappresentazione di Adorno ad un micro-livello, ha riportato alla luce, traendole dalla dialettica tra produzione di merci e valore di scambio, le perdute categorie emancipatorie sepolte della critica all'economia politica svolta da Marx, il cui potere in quanto teoria rivoluzionaria - vale a dire, una teoria che stabilisce la costruzione della società a partire dalla prospettiva del cambiamento radicale - è stato per lo più dimenticato dagli economisti marxisti contemporanei. Il pensiero di Adorno a proposito della logica essenziale delle categorie di reificazione e feticizzazione, di mistificazione e seconda natura ha portato avanti la coscienza emancipatrice del marxismo occidentale degli anni venti e trenta, di Korsch e Lukacs, Horkeimer e Marcuse, nella misura in cui esso si formava in opposizione al marxismo ufficiale sovietico.
Nella sua critica filosofica dell'ideologia dell'essere, fondamentale-ontologico e proprio del fattualismo positivista, Adorno decifrò «Origine» e «Identità» come categorie del dominio quali si esprimono nella sfera della circolazione, la cui dialettica liberale legittimante della morale borghese - l'apparenza dello scambio equo tra uguali proprietari di merci - si era dissolta da tempo.
Ma gli stessi strumenti teorici che hanno permesso ad Adorno questa visione della totalità sociale, gli hanno anche impedito di vedere le possibilità storiche di una prassi liberatrice.
Nella sua critica ideologica  di quello che era stato il fu individuo borghese, risuonano postumi di giustificata tristezza. Ma nel suo pensare, Adorno non riusciva a trascendere in maniera immanente (nel senso hegeliano del termine) questa ultima posizione borghese radicalizzata. Ne rimase fissato, con uno sguardo pauroso sul terribile passato: la coscienza che arriva sempre troppo tardi di qualcuno che  solo al crepuscolo comincia a capire.
La negazione di Adorno della società tardo-capitalista è rimasta astratta, chiudendosi alla necessità di determinare la negazione specifica; cioè la categoria dialettica alla quale si sapeva obbligato dalla tradizione di Hegel e Marx. Nella sua ultima opera, "Dialettica negativa", il concetto di prassi non viene più messo in discussione in termini di cambiamento sociale nelle sue forme storiche specifiche, cioè in quelle che sono le forme dei rapporti borghesi e dell'organizzazione proletaria. L'estinguersi della lotta di classe si rispecchia nella sua teoria critica come deperimento della concezione materialista della storia.
Anche così, è vero che un tempo era programmatico, per Horkheimer, che la teoria doveva entrare a far parte della prassi liberatrice del proletariato; ma già allora la forma organizzativa borghese della Teoria Critica non era riuscita a stabilire la congruenza tra il programma e la sua esecuzione. Il fatto è che il movimento operaio, prima distrutto dal fascismo, e poi apparentemente irrevocabilmente integrato dalla ricostruzione del capitalismo tedesco occidentale del dopoguerra, aveva cambiato il significato dei concetti della Teoria Critica. Ed essi dovettero necessariamente perdere specificità, ma questo processo di astrazione avvenne alla cieca.
Lo storicismo di Heidegger come «concetto astorico della storia», venne criticamente sfidato dalla storia concreta e materiale di Adorno, che, tuttavia, si allontanava sempre più dal suo concetto di prassi sociale; nella sua ultima opera, "Dialettica negativa", era evaporata al punto che appare assimilata nella povertà trascendentale della categoria di Heidegger.
Certo, nel suo discorso alla Società Sociologica Tedesca, Adorno ha insistito correttamente ed enfaticamente sull'attualità del marxismo ortodosso: le forze industriali della produzione sono ancora organizzate secondo i rapporti di produzione capitalisti, e il dominio politico, allora come oggi, si basa sullo sfruttamento economico dei lavoratori salariati. Ma a prescindere da quanto la sua ortodossia fosse in conflitto con la sociologia ufficiale della Germania occidentale, tutto ciò era irrilevante, poiché le forme categoriali non erano riferite alla storia materiale.
Questo progressivo processo di astrazione dal processo storico ha riconvertito la Teoria Critica di Adorno nelle forme contemplative, scarsamente legittimabili, della teoria tradizionale.
La tradizionalizzazione del suo pensiero fa della sua teoria la voce della ragione invecchiata nella storia. A livello del suo pensiero, la dialettica materialista delle forze produttive incatenate si riflette nel concetto di una teoria che incatena sé stessa, che è inesorabilmente invischiata nell'immanenza dei suoi concetti. «Se il tempo di interpretare il mondo è finito, e diventa necessario cambiarlo, allora è tempo che la filosofia si congedi... non è più il tempo della Prima Filosofia, ma dell'ultima». Questa Ultima filosofia di Adorno non è stata né disposta né capace di prendere congedo dal proprio congedo.

 Hans-Jürgen Krahl - 1971 - Originariamente pubblicato su “Costituzione e Lotta di classe”

giovedì 22 aprile 2021

Gruppo d’azione?!?

Durante la festa di Capodanno del 1931, presso l’ambasciata inglese in Cina, i delegati di Italia, Francia, America, e Inghilterra vengono informati che in Manciuria vive un uomo che sembra il sosia perfetto del defunto Zar Nicola II, ucciso a Ekaterinburg nel 1918. La notizia viene data dalla bellissima, misteriosa e seducente Oceania Word che insieme a un ufficiale italiano, è incaricata della missione di recuperare l’uomo e portarlo in Europa per accertare se sia il vero Zar miracolosamente scampato all’eccidio della famiglia imperiale. I due non fanno in tempo a partire: l’ufficiale italiano viene ucciso nel cortile dell’ambasciata e la donna rapita. Comincia così questo romanzo di avventure scritto nel 1928, appassionante e carico di tensione fino all’ultima pagina dove verrà svelato l’ultimo mistero di questa storia di fantapolitica. L’azione si svolge fra Cina, Francia, Svizzera, Italia e Russia dove si conclude. Protagonisti dell’avventura Oceania Word, il fratello dell’ufficiale italiano assassinato, Piero degli Orti, la spia russa Ivan Zelenin e l’ammiraglio cinese Pao-Ting.
L’Uomo della Manciuria è il vero Zar o un sosia? Nel dubbio – ma con la remota convinzione che si tratti di Nicola II – Italia, Russia e Cina tenteranno di impadronirsi dell’uomo, la prima per sconfiggere il regime bolscevico rimettendo sul trono il sovrano redivivo, la seconda per sbarazzarsene definitivamente, la terza per usarlo come merce di scambio con le altre due al fine di ottenere privilegi economici.
Il lettore contemporaneo non farà fatica a essere catturato da una storia, carica di tensione e colpi di scena, che lo incatenerà a queste pagine scritte a venti mani da “Dieci” scrittori riuniti da F. T. Marinetti per “servire il romanzo italiano in Italia e all’estero”.
Nel 1927 Filippo Tommaso Marinetti, attingendo dall’ambiente del sindacalismo fascista, riunisce nel gruppo de “I Dieci” Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Lucio D’Ambra, Alessandro de Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Giulio Viola e Luciano Zuccoli, scrittori abili con la penna, narratori di successo e sperimentata esperienza nel campo della drammaturgia e della sceneggiatura teatrale e cinematografica. Il fondatore del futurismo vuole dar vita a un collettivo di scrittori, che diano nuovo e “fascistissimo” impulso alla narrativa italiana. Affidandosi alla propria collaudata esperienza di grande organizzatore e abile inventore di esperienze alle quali egli riesce a dare particolare rutilanza propagandistica, Marinetti lancia il romanzo in un clima di grandi polemiche: lo attacca Settimelli, che lo accusa di aver tradito il futurismo; Malaparte e Pirandello polemizzano sulla cifra pagata dal quotidiano «Il lavoro d’Italia» per la pubblicazione de Lo Zar non è morto in 119 puntate. Le centomila lire, ottenute da Marinetti per i “Dieci” come compenso, apparvero, e in effetti lo erano, una cifra stratosferica in un tempo in cui si cantava “se potessi avere mille lire al mese”.

(dal risvolto di copertina di: Lo zar non è morto, del Gruppo dei Dieci. Luni editrice. €25)

Lo zar Nicola non è del tutto morto
- di Simonetta Bartolini -

Pirandello parlò di «inqualificabile gaglioffata», Malaparte si scandalizzò per la cifra pagata, Settimelli lanciò un’accusa di tradimento. Chi poteva catalizzare tanto sdegno e tanta attenzione se non Filippo Tommaso Marinetti e la sua creatura, il “gruppo letterario dei Dieci”, che firmava il primo romanzo collettivo italiano Lo Zar non è morto? Questa storia comincia pubblicamente il 24 maggio 1928 con un “banchetto” e un telegramma. Il primo avveniva all’albergo degli Ambasciatori a Roma, dove il fondatore del futurismo aveva chiamato a raccolta «letterati, grandi finanzieri e rappresentanti delle Nazioni estere» per presentare il gruppo dei Dieci, formato, oltre a lui, da Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli Lucio D’Ambra, Alessandro de Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Giulio Viola e Luciano Zuccoli. Il telegramma veniva spedito a Mussolini con lo stesso scopo dai dieci scrittori, autodefinitisi “gruppo d’azione per servire il romanzo italiano in Italia e all’estero”.
Non si trattava solo di un’enunciazione di progetti da realizzare, perché a quella data tutto era già stato fatto o era in procinto di compiersi in maniera definitiva. I Dieci infatti avevano appena pubblicato la loro prima opera collaborativa, il Novissimo segretario galante, e dal 18 marzo avevano cominciato a pubblicare a puntate sul «Lavoro d’Italia», il quotidiano della Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali diretto da Edmondo Rossoni, il romanzo collettivo Lo Zar non è morto, ricevendo come compenso la non trascurabile cifra di centomila lire (si pensi che alla fine degli anni Trenta l’Italia cantava il famoso motivetto «Se potessi avere mille lire al mese»). La miscela era esplosiva, e difatti esplose. Il primo ad accendere la miccia delle polemiche fu Emilio Settimelli, futurista della prima ora, e al tempo direttore de «L’impero», che inorridì di fronte all’iniziativa del “maestro”; il tradimento era inequivocabile, scrisse in una lettera aperta pubblicata sul suo giornale e indirizzata al Presidente dei “Dieci” il 6 giugno: non solo Marinetti fondava un’accademia, ma oltretutto si proponeva di rilanciare il romanzo, genere aborrito dai futuristi, e addirittura ne stava pubblicando uno insieme a un gruppo di scrittori alcuni dei quali rappresentavano il modello del “poeta salottiero”, l’opposto dei “giovani artiglieri della baldoria” di marinettiana invenzione.
Qualche giorno dopo Malaparte rincarò la dose con un articolo su «La Fiera letteraria», intitolato Una specie di accademia, nel quale soffiò sul fuoco delle polemiche aggiungendovi la reprimenda legata al fatto che i soldi (ma sbagliava la cifra per eccesso scrivendo di centocinquantamila lire), pagati ai Dieci come compenso per il romanzo, provenivano dalle casse del sindacato i cui tesserati erano in gran parte operai. Gramsci dal carcere prese nota dell’articolo di Malaparte riportandone il contenuto in uno dei quaderni.
Circa un mese dopo, l’8 luglio, Pirandello si univa al coro degli indignati, e in una lettera privata a Marta Abba scriveva: «Centocinquantamila lire hanno avuto per il romanzo, che è una inqualificabile gaglioffata».
Marinetti aveva avuto quel che voleva, clamore intorno alla sua iniziativa; alle polemiche era abituato e ben sapeva quanto esse potevano essere utili a diffondere interesse intorno al romanzo per il quale aveva in animo una successiva edizione in volume che fu realizzata l’anno successivo, nel 1929, e lanciata con un concorso nel quale si invitavano i lettori che avrebbero acquistato il libro a riconoscere quali, fra i cinquantanove capitoli del romanzo, fossero i dieci scritti autonomamente da ciascuno degli autori, specificando che gli altri erano invece il frutto della collaborazione fra i vari scrittori. Dunque si trattava di un vero caso, il primo in assoluto in Italia, di scrittura a venti mani applicata a un romanzo di avventure, e questa, anche se non bastò a placare l’ira di Settimelli, era in effetti una “trovata” futurista, che aveva un precedente in un romanzo a quattro mani scritto da Marinetti e Corra, L'Isola dei baci. Romanzo erotico-sociale, pubblicato nel 1918 dopo una lunghissima gestazione che ebbe più il merito di cementare l’amicizia fra i due che di produrre un’opera narrativamente significativa.
Lo Zar non è morto si presentava sotto la forma leggera del classico romanzo di avventure con tutti gli ingredienti del genere. E come tale anche il lettore contemporaneo può gustarlo con piacere immergendosi in una storia di fantapolitica, ambientata nel 1932, nella quale il protagonista, lo Zar Nicola II creduto morto a Ekaterinburg nel 1918 insieme a tutta la famiglia imperiale, viene ritrovato in Asia nel 1931 nei panni del cosiddetto “Uomo della Manciuria”, un vecchio privo della favella del quale tenteranno di impadronirsi Italia, Russia e Cina; la prima per sconfiggere il regime bolscevico rimettendo sul trono il sovrano redivivo, la seconda per sbarazzarsene definitivamente, la terza per usarlo come merce di scambio con le altre due per ottenere privilegi economici. Ma si trattava veramente dello Zar o solo di un millantatore? Lasciamo al lettore il gusto di scoprirlo, avvertendolo che solo nell’ultima riga dell’ultima pagina sarà sciolto l’ultimo mistero di questo romanzo nel quale la presenza di un fitto ordito di rimandi storico-politici e culturali lo sottrae, almeno in parte, alla dimensione fantastica per farne un testo che partecipa dei meccanismi del romanzo storico, ancorandolo a quella intenzione di offrire al duce un esempio di epopea fascista. Lo Zar non è morto è senz’altro un romanzo popolare con intenti di propaganda, ma è anche, grazie alla presenza di veri artisti della narrazione, uno straordinario meccanismo narrativo che lega personaggi e avvenimenti secondo una struttura perfettamente organizzata che, per esempio, nel contrapporre eroe e antagonista (il fascista e la spia russa) si affida a rigorosi chiasmi narrativi.
Purtroppo nel passaggio dalla versione pubblicata sul «Lavoro d’Italia», che oggi appare finalmente completa in questa nuova edizione (Luni Editrice), a quella in volume, una parte di questa perfetta struttura andò perduta: il romanzo venne tagliato delle parti più letterarie (descrizione di ambienti personaggi) e la successione e la composizione dei capitoli rivoluzionata (passarono da cinquantatré a cinquantanove nonostante i tagli intervenuti) probabilmente per enucleare in capitoli autonomi le parti scritte da ciascun autore e poter così rendere possibile il concorso fra lettori. Marinetti aveva compiuto un’altra delle sue mirabolanti operazioni inventando il romanzo collettivo italiano e agli studiosi resta il sospetto che - per quanto sia rimasto un unicum, e per di più dimenticato a lungo - esso non fosse sfuggito a Maksim Gor’kij, che in quegli anni dimorava in Italia, e che nei primi anni Trenta fondava in Urss le brigate degli scrittori scrivendo: «Se i lavoratori riescono a fare colate di cemento riuniti in brigate, perché una brigata di scrittori non potrebbe scrivere un libro collettivo?». E libro collettivo fu: trentasei scrittori coordinati da Gor’kij scrissero Belomor, un reportage della loro visita all’omonimo gulag.

- Simonetta Bartolini - Pubblicato sul Sole del 21/3/2021 -

Passaggi…

« Marx definisce l’insufficienza di Fourier che, anziché denunciare il lavoro in quanto tale, in quanto essenza della proprietà privata, lo ha "concepito come sorgente della dannosità della proprietà privata e della sua esistenza estraniata dall’uomo un tipo particolare di lavoro - in quanto lavoro livellato, parcellizzato e perciò non libero..." ( Karl Marx, Der historische Materialismus, a cura di Landshut e Meyer, Leipzig (1932), I, p. 292 (Nation{al) Òk(onomie) u. Philosophie)) [trad. it. Manoscritti economico-filosofici cit., pp. 107-8]. [W 7a, 5] »

- Walter Benjamin – da: I «Passages» di Parigi -

mercoledì 21 aprile 2021

La «generosità monetaria» e il grande «Reset» !

Economia intossicata dagli stimoli: il sistema finanziario globale in una gigantesca bolla di liquidità
- di Tomasz Konicz -

I mercati azionari sono in pieno boom. Nonostante la crisi del coronavirus e l'impoverimento di centinaia di milioni di salariati. Ciò che a prima vista appare come contraddittorio, è una conseguenza della lotta contro la crisi ed è il sintomo di un sistema finanziario globale che è esso stesso in ginocchio, e lo è ancora di più proprio per il fatto che si trova in una gigantesca bolla di liquidità. A circa un anno dall'ultimo scoppio di crisi - innescato dalle conseguenze della pandemia, ha fatto sprofondare centinaia di milioni di lavoratori salariati nella miseria più nera - i mercati finanziari stanno vivendo quella che è una delle più grandi impennate di tutta la loro storia. I mercati statunitensi - quanto meno - difficilmente potrebbero stare meglio. Dopo aver subito un collasso, corrispondente a circa il 34% nel mese in cui ha avuto inizio la pandemia, nel mese di marzo del 2020; nei dodici messi successivi l'indice Standard & Poor 500 ha raggiunto i suoi nuovi massimi storici, salendo del 75%, proprio nel momento in cui la malnutrizione e la vera e propria fame sono magicamente aumentati anche negli Stati Uniti. Dalla fine della seconda guerra mondiale, per le azioni è stato l'anno migliore, hanno sottolineato i media americani in quello che è stato l'anniversario del fantasmagorico boom delle azioni, il quale si è accompagnato ad una crollo di 3,5 punti percentuali del prodotto interno lordo degli Stati Uniti. A parte Internet e le aziende high-tech come Amazon, che sono state considerate come le classici vincitrici della crisi della pandemia, il boom azionario è stato alimentato dal rapido svolgimento delle vaccinazioni negli USA, in accordo con quella che è la narrazione che circola sulla stampa finanziaria. Il collasso del marzo 2020 aveva colpito l'intero sistema finanziario globale e aveva fatto crollare gli indici di tutte le azioni rilevanti - prosegue la narrativa. A partire da questo, anche il susseguente boom borsistico sarebbe stato un fenomeno globale. Le borse in Giappone, Cina e Corea del Sud avevano visto massimi simili a quelli del centro americano del sistema finanziario mondiale. Unica eccezione l'Europa, dove la campagna di vaccinazione a rilento e il tasso di contagio in aumento stavano smorzando l'euforia dei mercati finanziari. L'indice europeo Stoxx 600 aveva a malapena raggiunto il suo livello precrisi. Alla fine, negli Stati Uniti molti investitori avrebbero utilizzato i pagamenti diretti del governo, che avevano ricevuto nel quadro delle misure di stimolo, per speculare sui mercati finanziari durante il lockdown. L'aumento dei titoli «meme stocks», resi popolari sui social media, così come l'azione congiunta di compravendita dei titoli dell'azienda di videogiochi Gamestop, sarebbe stato alimentato proprio da questi pagamenti singoli. In realtà, però, il prezzo delle azioni della Gamestop erano salite enormemente un po' prima dei singoli pagamenti di aiuto da 1400$. Per quanto possa essere erroneo il riferimento ai salvataggi una tantum, rimane tuttavia corretto presupporre che le misure di crisi prese dai politici siano la causa di questo boom azionario storicamente unico. Similmente a quanto avvenne con la crisi del 2007/2008, quando scoppiarono le bolle immobiliari negli Stati Uniti e in Europa, le élite funzionarie capitaliste hanno reagito allo scoppiare della crisi del 2020, cominciata con la pandemia, per mezzo di giganteschi programmi di stabilizzazione. Infatti, le misure dell'anno scorso hanno ecceduto di parecchio quelle del 2008. Secondo la nota società di consulenza McKinsey (responsabile, tra l'altro, delle leggi sul lavoro Hartz IV), i programmi statali di crisi ammontano complessivamente alla gigantesca somma dell'equivalente di diecimila dollari USA entro la metà del 2020, che è circa tre volte (!) la spesa statale dopo lo scoppio delle bolle immobiliari a partire dal 2008. Questo gigantesco pacchetto di stimolo governativo dell'economia e del debito, è stata accompagnato da una massiccia stampa di denaro, da parte delle banche centrali su entrambi i lati dell'Atlantico nel quadro del cosiddetto «quantitative easing», che con tale liquidità ha inondato i mercati finanziari.

Stampa di denaro a confronto
In linea di principio,  la procedura in questi programmi di acquisto da parte della banca centrale è relativamente semplice: la banca centrale compra strumenti di debito sui mercati finanziari, come i titoli di Stato (2020) o i titoli tossici (2008), "pagando" questi acquisti di obbligazioni con il denaro che essa stessa ha creato. Di conseguenza, questi titoli scompaiono dal ciclo del mercato, stabilizzando i mercati. Allo stesso tempo, è stato stampato denaro che ora può creare più domanda nella sovrastruttura finanziaria - mentre i titoli acquistati sono parcheggiati nei bilanci delle banche centrali, che funzionano come discariche di rifiuti tossici del sistema finanziario globale. Il denaro appena stampato, la "liquidità" che è stata iniettata nei mercati, fa salire i prezzi sui mercati finanziari: vanno alle stelle, in una bolla. Pertanto, si può parlare qui di una bolla di liquidità. Questo vale tanto per il lungo boom dei mercati finanziari tra il 2009 e l'inizio del 2020, quanto per l'attuale boom dei mercati finanziari, che è stato innescato da programmi di acquisto incomparabilmente maggiori da parte delle banche centrali. Quantificare questa stampa monetaria, che spesso ha comportato semplicemente l'acquisto di debito sovrano da parte delle banche centrali per combattere la crisi, è possibile guardando i bilanci dei "custodi della moneta" dell'Unione Europe e degli Stati Uniti. All'inizio della crisi dell'euro nel 2008, il bilancio della BCE conteneva titoli per circa duemila miliardi di euro. Nel 2019, un decennio più tardi, riferisce la BCE, questo totale di bilancio era salito a circa 4,6mila miliardi di euro - ed è salito a più di 7 mila miliardi di euro nell'anno di crisi del 2020. Di conseguenza, nella zona Euro, da quando è entrata in carica Christine Lagarde, sono stati comprati più titoli-spazzatura che negli otto anni di mandato del suo predecessore Mario Draghi. La stampa di denaro fatta negli Stati Uniti a partire dal «quantitative easing», è altrettanto impressionante: nel mese di febbraio del 2020, vale a dire, prima dello scoppio della pandemia, la Fed (Federal Reserve Systema; Banca centrale degli Stati Uniti) aveva un bilancio totale di circa 4mila miliardi di dollari americani (dei quali circa 3mila miliardi erano stati accumulati nel decennio successivo allo scoppio della crisi immobiliare); nello spazio di un anno, questo valore è salito di quasi 8mila miliardi. Questa stampa di denaro, storicamente senza precedenti, ha consentito agli Stati Uniti e all'Unione Europea di combattere la crisi per mezzo dell'emissione di titoli di Stato. Queste obbligazioni, a loro volta, sono state poi parzialmente comprate dalle banche centrali, le quali per farlo hanno usato il denaro appena stampato. Oltre a far questo, le banche centrali hanno anche comprato il debito del settore privato, in modo da stabilizzarlo. Per quanto riguarda la Fed, tali interventi sono stati 750 miliardi di dollari. L'alchimia della crisi capitalistica tardiva sembra funzioni perfettamente: l'economia viene stimolata per mezzo domanda generata dal credito, i tassi di interesse rimangono bassi grazie al «quantitative easing», di modo che così rimane bassa anche l'inflazione nel mentre che la liquidità addizionale che è stata così creata può circolare nella sovrastruttura finanziaria; e i mercati azionari decollano. Nel corso di poco più di un decennio, l'ultima grande bolla di liquidità (dal 2009 al 2020) ha fatto in modo che il capitalismo tardivo potesse avere una sua apparente vita da Zombie, grazie ai mercati finanziari senza freni e a montagne di debiti che continuavano a crescere, fino a che la pandemia non ha fatto scoppiare la già fragile bolla e ha innescato l'attuale scoppio di crisi. Tuttavia, ciò non significa che l'attuale boom dei mercati finanziari globali, iniziato a partire dalle gigantesche misure di crisi descritte sopra, posso essere sostenuto quanto lo è stato il precedente boom. La crisi non rappresenta un processo lineare, come dimostrato dall'aumento corrispondente a circa il 13% di quelle che sono state le spese per stabilizzare il mercato finanziario globale (dal 2007/2008 al 2020). Al contrario, esso invece segue una dinamica crescente, dove a ogni episodio di crisi non solo deve essere aumentata la "dose" per stabilizzare l'economia della bolla finanziaria globale del XXI secolo, ma diminuisce anche quella che la sua stabilità globale, e lo fa nella misura in cui costantemente aumenta il potenziale di crisi; la cui espressione concreta è la crescente montagna di debito globale. La recente turbolenza sui mercati finanziari, suggerisce che la festa attuale si trasformerà nella grande post-sbornia della crisi molto più rapidamente di quanto non abbia fatto in seguito all'ultimo rialzo. Gli shock sui mercati finanziari - ivi comprese le perdite bancarie per un totale di circa 20 miliardi di dollari, recentemente causate dall'implosione del dubbio fondo di copertura Archegos Capital - possono sembrare, per esempio alla Süddeutsche Zeitung, come se fossero un «improvviso disastro», ma nel frattempo è diventato quantomeno chiaro. anche a molti osservatori borghesi, che i mercati finanziari si trovano nel bel mezzo di un'altra bolla.

«La madre di tutte le bolle del mercato azionario»
I media conservatori americani, per esempio, descrivono ciò che sta attualmente accedendo sui mercati come la «la madre di tutte le bolle del mercato azionario». A causa della forte crescita che si è avuta nei mercati azionari, avvenuta nel bel mezzo di una grave recessione, si è formato un livello dei prezzi storicamente unico. La totale capitalizzazione del mercato di tutte delle società quotate in borsa e con sede negli Stati Uniti, secondo l'indice Wilshire 500 è ora salita a più del 125% del prodotto interno lordo statunitense, superando di circa il 25% l'ultimo picco, verificatosi al culmine della bolla dot-com nel 2000 (ci si riferisce, vale a dire, al boom speculativo dei titoli high tech all'inizio dell'era di Internet). Mai prima d'ora, i mercati azionari statunitensi erano decollati in maniera così brusca durante una fase di crisi. Dallo scoppio della bolla immobiliare, avvenuto nel 2008, e dalla susseguente bolla di liquidità , l'aumento dei valori del mercato azionario era sempre andato quasi in parallelo con la crescita dei bilanci delle banche centrali; cosa che identifica il summenzionato «quantitative easing» della politica monetaria come il motore centrale delle quotazioni sui mercati finanziari. Tracce di questa impronta monetaria, storicamente senza precedenti, si possono ora trovare anche nel mercato immobiliare degli Stati Uniti. Anche se il suo livello dei prezzi in relazione al rendimento medio si trova ancora assai lontano dal sui picco storico, durante la bolla immobiliare del 2005-2007, all'80%, questa proporzione sta cambiando significativamente.Da quando la Fed ha dato inizio ai i suoi programmi di acquisto di titoli, i prezzi degli immobili negli USA sono aumentati più rapidamente del 20% rispetto ai redditi personali. Si tratta del più alto tasso di aumento dei prezzi immobiliari mai registrato; e che a medio termine potrebbe trasformare il settore immobiliare in un nuovo focolaio di problemi. Un altro problema che può mostrare la natura di breve durata dell'attuale bolla di liquidità è il rapido aumento dei tassi di interesse sui mercati obbligazionari. Alla fine del 2020, il tasso sui titoli a 10 anni del Tesoro degli Stati Uniti, era allo 0,93%, mentre quelli a 30 anni si ponevano all'1,65%. Alla fine di marzo, il tasso dei Titoli a 10 anni erano passati all'1,63% , mentre le obbligazioni a 30 anni venivano negoziate al 2,34%. Tale aumento equivale a un terremoto, dal momento che questi tassi di interesse sulle obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti - «a prova di bomba» - sono il fattore centrale nella valutazione di tutte le classi asset relative alla sfera finanziaria; come immobili, azioni, merci, ecc. Con l'aumento dei tassi obbligazionari, i quali riflettono la caduta delle quotazioni delle obbligazioni, aumenta la pressione al ribasso sui mercati azionari, che finora hanno beneficiato di tassi di interesse reali negativi in quest'area. I capitalisti finanziari potrebbero voler investire i loro denaro sui titoli «sicuri» di Stato; e ritirare questi soldi dal mercato azionario. Inoltre, i tassi di interesse dei titoli di Stato americano stanno aumentando, anche se la Fed sta comprando freneticamente quei titoli, che ora rappresentano circa un attivo della banca centrale di quattro miliardi. Ogni mese, si aggiungono 80 miliardi in obbligazioni del Tesoro USA e 40 in cartolarizzazioni ipotecarie. Recentemente, la Fed ha annunciato che continuerà a stampare denaro fino al 2023. Sei i tassi di interesse delle obbligazioni stanno continuando ancora ad aumentare rapidamente, sebbene siano tuttora in corso programmi di acquisto di obbligazioni senza precedenti nella storia, tutto questo segnala un esaurimento di questo strumento di crisi. Infatti, il «quantitative easing» descritto sopra dovrebbe portare a tassi delle obbligazioni più bassi. Ma la «domanda» di obbligazioni americane è talmente bassa che tutto ciò non funziona. Il livello più alto raggiunto sui mercati d'investimento da parte dei tassi di interesse, esercita quindi pressione sai tassi delle altre classi di asset, come i tassi di interesse sulle ipoteche, o sulle obbligazioni delle aziende; e perciò va in contrasto con la politica dell'abbassamento dei tassi di interesse della Fed. Tuttavia, dei tassi di interesse elevato sarebbero puro veleno per l'economia degli Stati Uniti, la quale è stata stabilizzata per mezzo di massicce iniezioni di stimoli economici, poiché ciò farebbe sì che le montagne di debito faticosamente stabilizzate, come quelle delle imprese, potrebbero collassare nuovamente. L'instabilità della bolla attuale appare evidente anche a partire dall'aumento delle aspettative di inflazione, che si manifestano attraverso l'evidente aumento dei tassi di interesse delle obbligazioni (che un'inflazione farebbe ulteriormente aumentare); mettendo così di fatto in discussione la politica dei tassi zero portata avanti dalla Fed. Nelle loro dichiarazioni iniziali, i rappresentanti della Fed hanno chiarito che avrebbero continuato ad aderire alla politica dello zero tassi di interesse, e che nel breve termine avrebbero accettato un'inflazione superiore al 2%, se necessario, per realizzare i loro obiettivi di occupazione e crescita. Secondo i recenti sondaggi, la maggioranza degli economisti nordamericani ritiene che gli Stati Uniti si trovino di fronte al «più grande rischio di inflazione degli ultimi vent'anni».

Il sogno del grande «Reset»
Vista l'attuale situazione, l'economista marxista Michael Roberts parla di un'«economia intossicata dagli stimoli», indotta a una frenesia di crescita a breve termine a causa dei massicci programmi di stimolo dei politici e della stampa di denaro da parte della banche centrali, che nel migliore dei casi verrà seguita da un «lungo sonno». Le crescenti pressioni inflazionistiche (attualmente intorno all'1,5%), soprattutto se viste in combinazione con il debito delle imprese negli Stati Uniti, stanno causando un'impasse nella politica monetaria - sostiene Roberts - sottolineando che quasi il 20% delle 3.000 maggiori imprese quotate in borsa negli Stati Uniti, possono essere descritte come «imprese zombie». Queste 527 aziende non sono più in grado di pagare puntualmente gli interessi sui loro circa 1,36 miliardi di dollari di prestiti. La Fed - così come tutta la politica borghese di crisi nel suo insieme - si trova in una trappola politica a causa del processo storico di crisi, così descritto da Roberts: se a un certo punto la Fed non mette un freno alla sua «generosità monetaria», allora l'inflazione potrebbe «divorare i rendimenti reali». Ma se la banca centrale agisce contro le pressioni inflazionistiche, aumentando il tasso di interesse, ecco che allora si profila un «collasso dei mercati azionari e il fallimento delle imprese». Di conseguenza, lo scenario di stagflazione [inflazione crescente accompagnata da bassa crescita] diventa sempre più vicino. Questa aporia della politica borghese di crisi, che sta diventando sempre più chiara, nel frattempo sta anche dando luogo a dibattiti sulla svalorizzazione del valore, anche sui principali media delle élite funzionali capitaliste, Un articolo sul Financial Times, per esempio, si è espresso semplicemente a favore della cancellazione di un parte consistente del debito. Dal momento che questo non potrebbe rendersi possibile senza gravi distorsioni sui mercati finanziari, dovrebbero essere soprattutto i «debiti pubblici detenuti dalle banche centrali» quelli che andrebbero azzerati. Di fatto, premere il pulsante del «Reset» equivarrebbe a cancellare i bilanci gonfiati delle banche centrali, vale a dire, a eliminare i «depositi di residui tossici» del sistema finanziario mondiale; cosa che equivarrebbe a cancellare, nelle «regioni più importanti dell'economia globale» la misera cifra di 25mila miliardi di dollari. Un approccio simile, concepito per sturare la macchina del debito capitalistico tardivo che abbiamo descritto sopra, viene discusso anche dagli economisti in Europa, i quali recentemente hanno scritto una lettera aperta in cui chiedono di cancellare il debito sovrano che è stato acquistato in questi ultimi anni. Tutte queste considerazioni e discussioni, alla fine equivalgono a dare inizio a un nuovo ciclo di indebitamento attraverso una svalorizzazione del valore quasi senza alcun effetto a cascata (come è avvenuto invece durante la crisi immobiliare, quando i mutui cattivi hanno prima messo nei guai le banche, poi le compagnie di assicurazione, e alla fine i governi in difficoltà). Tuttavia, ciò che non è chiaro è che la costruzione di torri di debito globale della durata di decenni è in sé solo una conseguenza della crisi sistemica della produzione capitalistica di merci, la quale sta soffocando a causa della sua produttività stessa. In questo modo, sono solo i sintomi quelli che continuano ad essere trattati.

- Tomasz Konicz - Pubblicato su: The Lower Class Magazin, 13.04.2021 -

martedì 20 aprile 2021

Predare…

A partire dagli anni Ottanta, il susseguirsi di notizie sulle scorrerie piratesche ha riportato al centro della scena una minaccia che si riteneva ormai superata, rievocata dai racconti d’avventura più che dalla cronaca internazionale. Eppure, fra assalti feroci, equipaggi presi in ostaggio e sequestri di capitani di nave, si è scoperto che i pirati non hanno mai smesso di infestare i mari di tutto il mondo. In un excursus storico che affonda le sue radici nell’VIII secolo e arriva fino ai giorni nostri, Peter Lehr, docente ed esperto di crimine organizzato, si avvale di una vasta gamma di fonti primarie e bibliografiche per dipanare i numerosi fili rossi che hanno caratterizzato la storia plurisecolare dei predoni di mare, dai vichinghi del Nord Europa agli attuali pirati somali e nigeriani, attraverso i wokou lungo le coste della Cina, i dayak del Borneo, i bucanieri dei Caraibi, i corsari del Mediterraneo e le prime donne pirata.
Anche se la carriera di predone è sempre stata inadatta ai timidi e ai moralmente incorrotti, la sete di guadagno e il richiamo dei soldi facili sono solo alcuni dei moventi che hanno indotto uomini di tutto il mondo a rischiare la propria vita in mare aperto. Le vaste distese d’acqua, infatti, hanno sempre rappresentato una possibile via di fuga dall’emarginazione sociale ed economica per le fasce più povere, nel tentativo di superare il malessere dovuto a miseria, disoccupazione e mancanza di prospettive per il futuro. Ecco perché da trent’anni il mar Arabico, il golfo di Guinea, lo stretto di Malacca e il mar Cinese meridionale sono di nuovo infestati dai pirati, largamente agevolati dalla liberalizzazione degli scambi, dall’aumento del traffico marittimo e dal ritiro delle flotte militari dopo la fine della guerra fredda. Non a caso, la pirateria ha sempre potuto proliferare grazie alla mancanza di controlli e vigilanza: ancora oggi, nonostante tutto, gli oceani sono un’area grigia priva di normative condivise, perché per i paesi sviluppati la fluidità dei trasporti marittimi è più vitale di qualsiasi regolamentazione sovranazionale. Offrendoci un’inedita prospettiva sulla storia marittima globale, I pirati mette in luce la continuità tra i tempi antichi e quelli moderni, ricordandoci come la minaccia rappresentata dalla pirateria sia sempre stata indissolubilmente legata alle disparità sociali e alle questioni politiche ed economiche di rilevanza internazionale che si consumano sulla terraferma, proprio sotto i nostri occhi.

(dal risvolto di copertina di: Peter Lehr, "I pirati. Un ritratto dei predoni del mare dall'antichità ai nostri giorni". Mondadori Le scie. Nuova serie. €24,00.)
 
All'arrembaggio dal 700 dopo Cristo
- di Valerio Evangelisti -

La pirateria è fenomeno ricorrente nella storia, ma con lunghi intervalli tra una manifestazione e l'altra e con modalità differenti. Peter Lehr, docente di studi sul terrorismo e la violenza politica presso l'università scozzese di St. Andrews, tenta una sintesi tra i suoi diversi aspetti nel corso dei secoli, fino ad arrivare all'età presente. Il suo volume (I pirati, Mondadori, 2012) dovrebbe essere un testo universitario; ma, come è nella tradizione anglosassone, non fa troppa differenza tra accademia e divulgazione. Lo si legge con passione, e non contiene nulla di inaccessibile al lettore comune. Piuttosto sarà difficile per uno studente presentarsi con questo libro a un esame. In tutta la prima parte, comprendente gli anni dal 700 d.C. al 1500, si salta con disinvoltura tra epoche e aree geografiche, attraverso una miriade di piccoli e piccolissimi episodi. Elenca momenti significativi ma non determinanti, incapaci di dettare chiavi interpretative generali sufficienti per dettare delle costanti. I pirati con cui aveva a che fare Roma antica non somigliavano molto ai predoni cinesi del 1200. I vichinghi (cui la definizione di "pirati" va un po' stretta) costituivano un diverso problema per i regni costieri che subivano le loro incursioni. Il mix tra fatti ed epoche è affascinante da leggere, ma difficile da organizzare in un'analisi compiuta.
Impariamo comunque che pirati medievali e rinascimentali non operavano solo per mare, ma anche per terra, dove puntavano a creare roccaforti, a volte delle dimensioni di autentici regni (Cina, i vichinghi); conosciamo i sistemi di difesa eretti dalle popolazioni aggredite più di frequente, come torri di guardia e fortilizi in zona collinare; apprendiamo i tentativi di vincere per numero il nemico, e così via. Quanto alle motivazioni dei pirati, Lehr cita la miseria, l'avidità e pochi altri moventi, che direi scontati.
Lo stesso taglio aneddotico informa la seconda parte (dal 1500 al 1914), che meriterebbe una trattazione meno semplificata. È infatti il periodo in cui le guerre tra potenze europee si trasferiscono in altri mari, e soprattutto in America Centrale. Il papa ha suddiviso il continente americano in sfere d'influenza, assegnano le regioni più prospere a Portogallo e Spagna. Inghilterra e Olanda vi si immischiano, rivendicando e conquistando fette di ricchezza. L'Oceano Atlantico diventa passaggio di immensi velieri (i galeoni) carichi di tesori, dall'oro alle spezie. La pirateria si organizza per agguantare con la forza parte del bottino.
Qui Lehr cade in un errore semantico. Usa il termine "bucanieri" quale sinonimo di pirati, o meglio, di pirati francesi. In realtà i bucanieri erano cacciatori di professione, presenti sull'isola della Tortuga e nelle regioni occidentali di Hispaniola (oggi Haiti). Famosi per la loro buona mira, erano arruolati quali fucilieri. In sostanza si comportavano da mercenari, ma terminato il mandato tornavano alla caccia.
Il fatto è che Lehr, pur sfoggiando un ampia bibliografia, inciampa in un equivoco tipico di gran parte degli autori anglosassoni. Considera e privilegia i pirati di lingua inglese, trascurando altre esperienze. Ciò ha indotto molti autori britannici a parale di «età dell'oro della pirateria» per i primi decenni successivi al 1700. Lehr non si spinge a tanto, però esalta la cittadina giamaicana di Port Royal quale autentico centro motore della pirateria caraibica. Dimenticando che, negli stessi anni, l'isola francese della Tortuga (La Tortue) era per intero un covo di fuorilegge del mare, non solo con bordelli e osterie, ma anche con una Chiesa cattolica ben impiantata e con un governatore, nominato da Luigi XVI, che riceveva una quota dei bottini e, trattenuta la propria parte, spediva le eccedenze a Versailles. Non è un caso se Sir Henry Morgan, nel progettare la sua fortunata e sanguinosa presa di Panama, dovette rivolgersi ai "colleghi" della Tortuga, per radunare una flotta sufficiente. Ciò prelude a un'altra, annosa questione semantica: la distinzione tra "corsari" e "pirati". La classificazione di Lehr è quella classica. I corsari (un nome tra tutti, Sir Francis Drake) avevano una «patente da corsa», che li autorizzava a condurre per mare una guerra irregolare al nemico del momento della loro monarchia. Ma anche i pirati della Tortuga ricevevano un mandato simile dal governatore della loro isola, e pagavano un tributo al regno europeo di cui si dicevano fedeli.
La differenza è molto sottile, e si fonda sul modo di procedere. Selvaggio, violento e disordinato quello dei pirati; di norma pessimi navigatori che preferivano costeggiare piuttosto che spingersi al largo; più conforme ai canoni di guerra quello dei corsari, che figuravano nei ruolini degli eserciti del loro Paese quali ufficiali di marina. Salvo essere sconfessati, dice Lehr, dalla loro Corona se evadevano troppo dai limiti dell'accettabile e del legale. Più largo di suggestioni e di interpretazioni è Lehr circa i pirati della Malesia, non tanto dissimili da come Salgari ce li ha descritti, dei Mari della Cina e del Mediterraneo, dove la nave tipica di combattimento era la galea, che combinava vele e remi. Belle illustrazioni, nel volume, fanno capire di cosa si sta parlando. Ottime anche le mappe, guide a una narrazione complessa. La parte più utile del libro, la più ampia, è però la terza, intitolata "Nel mondo globalizzato (dal 1914 a oggi)". Trattando della pirateria a noi contemporanea, Lehr svela le sue vere competenze. Tralascia l'aneddotica, svolge analisi rigorose sulla pirateria in Somalia, in Nigeria, in Indonesia, persino con qualche rigurgito nei Caraibi. Analizza legislazioni internazionali e mezzi di contrasto. Questa parte del testo è fondamentale, data la scarsa letteratura in merito. Ciò che lo precedeva nel libro era, in qualche modo, romanzo d'avventure. Giunti all'attualità, si fa tragedia. Per i predoni del mare e per le loro vittime.

- Valerio Evangelisti - Pubblicato sul Sole del 21/3/2021 -

lunedì 19 aprile 2021

«Così va il mondo» !?!!

Il Gatto, il Topo, la Cultura e l’Economia
– di Anselm Jappe -

Una delle favole dei fratelli Grimm – immagino che siano conosciute anche in Messico – si chiama “Il gatto e il topo in società”. Un gatto convince un topo dell’amicizia che ha per lui; mettono su casa insieme, e in previsione dell’inverno comprano un vasetto di grasso che nascondono in una chiesa. Ma con il pretesto di dover andare a un battesimo, il gatto esce diverse volte e si mangia man mano tutto il grasso, divertendosi poi a dare risposte ambigue al topo su quanto ha fatto. Quando finalmente vanno insieme alla chiesa per mangiare il vasetto di grasso, il topo scopre l’inganno, e il gatto per tutta risposta mangia il topo. L’ultima frase della favola annuncia la morale: «Così va il mondo».

Direi che il rapporto tra la cultura e l’economia rischia fortemente di assomigliare a questa favola, e vi lascio indovinare chi, tra la cultura e l’economia, svolge il ruolo del topo e chi quello del gatto. Soprattutto oggi, nell’epoca del capitalismo pienamente sviluppato, globalizzato e neoliberale. Le questioni che vuole affrontare questo “foro de arte publico”, e che vertono tra l’altro sulla questione chi deve finanziare le istituzioni culturali e quali aspettative, e di quale pubblico, deve soddisfare un museo, rientrano in una problematica più generale: quale è il posto della cultura nella società capitalistica odierna? Per tentare di rispondere, io prenderò dunque le cose un po’ più alla larga. A parte la produzione – materiale e immateriale – con cui ogni società deve soddisfare i bisogni vitali e fisici dei suoi membri, essa crea ugualmente una serie di costruzioni simboliche. Con queste, la società elabora la sua rappresentazione di sé stessa e del mondo in cui è inserita e propone, o impone, ai suoi membri delle identità e dei modi di comportamento. Per parlarne non utilizzo qui il termine marxista di “sovrastruttura”, opposta alla presunta “base economica”, perché la produzione di senso può – secondo la società in questione - svolgere un ruolo altrettanto grande, se non più grande della soddisfazione dei bisogni primari. La religione e la mitologia così come gli “usi e costumi” quotidiani – soprattutto quelli relativi alla famiglia e alla riproduzione - nonché ciò che dal Rinascimento in poi chiamiamo “arte” entrano in questa categoria del simbolico. Per molti versi, questi codici simbolici non erano nemmeno separati tra di loro nelle società antiche, basti pensare al carattere largamente religioso di quasi tutta l’arte. Ma soprattutto non esisteva la separazione tra una sfera economica e un’altra sfera simbolica e culturale. Un oggetto poteva allo stesso tempo soddisfare un bisogno primario e avere un aspetto estetico. Storicamente, è stata la modernità capitalista e industriale a separare il “lavoro” dalle altre attività, e a fare di esso e dei suoi prodotti, sotto il nome di “economia”, il centro sovrano della vita sociale. In concomitanza, il lato culturale ed estetico, che nelle società preindustriali era inerente a ogni aspetto della vita, si concentra in una sfera a parte. Questa sfera è apparentemente libera dalle costrizioni della sfera economica, e in essa può affiorare una verità critica, altrimenti repressa o rimossa, sulla vita sociale e la sua crescente sottomissione alle esigenze sempre più inumane della concorrenza economica. Ma la cultura paga questa libertà con la sua marginalizzazione, con la sua riduzione a un “gioco” che, non facendo direttamente parte del ciclo di lavoro e accumulazione di capitale, rimane sempre in una posizione subordinata rispetto alla sfera economica e a quelli che la governano. Ma nemmeno quell’”autonomia dell’arte”, che ha avuto il suo apogeo nel XIX secolo, ha potuto resistere alla dinamica del capitalismo, volto a fagocitare tutto e a non lasciare niente al di fuori dalla sua logica di valorizzazione. Prima, le opere dell’arte autonoma – per esempio i quadri – sono entrati nel mercato, diventando merci come le altre. Poi, la produzione stessa di “beni culturali” è stata mercificata, mirando fin dall’inizio solo al profitto e non alla qualità artistica intrinseca. Questo è lo stadio dell’”industria culturale”, descritto inizialmente da Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Günther Anders nei primi anni quaranta del secolo scorso. In seguito, si è assistito a una specie di perversa reintegrazione della cultura nella vita, ma solo in quanto ornamento della produzione di merci, cioè sotto forma di design, pubblicità, moda ecc. La quasi-sparizione delle istituzioni culturali pubbliche ha infine eliminato gli ultimi resti di indipendenza degli artisti di fronte al denaro; ormai, essi sono raramente altro che i nuovi buffoni e cantanti di corte che debbono azzuffarsi per le briciole che i nuovi padroni, sotto il nome di sponsor, gli gettano.

Questa è la situazione in cui viviamo oggi. Certo, molti provano un disagio vago di fronte a questa “mercificazione della cultura” e preferirebbero che la cultura “di qualità” – a seconda dei gusti, può trattarsi del “cinema d’autore”, dell’opera lirica o dell’artigianato indigeno – non fosse trattata esattamente come la produzione di scarpe, giochi video o viaggi turistici, cioè con la sola logica dell’investimento e del profitto. Evocano dunque ciò che in Francia si chiama “l’eccezione culturale”: la spietata logica capitalistica va bene in tutto (e soprattutto là dove “noi” siamo i vincitori), ma purché lasci gentilmente la cultura fuori dalle sue grinfie. In verità, questa speranza mi sembra ingenua e senza molto senso. Infatti, accettando la logica di base della concorrenza capitalistica, se ne accettano poi anche tutte le conseguenze. Se è giusto che una scarpa o un viaggio siano considerati esclusivamente in base alla quantità di denaro che rappresentano, è alquanto illogico aspettarsi poi che questa stessa logica si fermi davanti ai “prodotti” culturali. Qui vale lo stesso principio come altrove: non ci si può opporre agli “eccessi” “liberisti” della mercificazione – ciò che oggi fanno in molti - senza metterne in discussione i fondamenti, cosa che quasi nessuno fa. In ogni caso, la speranza è vana, perché la logica globale della merce non rinuncia a dilaniare corpi di bambini, se può fare un piccolo guadagno con le mine anti-uomo; non si farà dunque certo intimorire dalle rispettose rimostranze di cineasti francesi o di direttori di musei esasperati di dover strisciare sul ventre davanti a dei manager di Coca-cola o dell’industria petrolchimica perché gli finanzino una mostra. La capitolazione incondizionata dell’arte di fronte agli imperativi economici è solo parte della mercificazione tendenzialmente totale di ogni aspetto della vita, e non la si può mettere in discussione per la sola arte senza tentare di rompere con la dittatura dell’economia a tutti i livelli. Non c’è nessun motivo perché proprio l’arte dovrebbe riuscire a mantenere la sua autonomia rispetto alla pura logica del profitto, se nessun’altra sfera ci riesce.
Dunque, la necessità per il capitale di trovare sempre nuove aree di valorizzazione non risparmia certo la cultura, ed è evidente che all’interno della cultura, in senso lato, l’«industria del divertimento» costituisce il suo oggetto di investimento principale. Già negli anni settanta, il gruppo pop svedese “Abba” era il primo esportatore del paese, davanti all’industria militare Saab; i Beatles furono fatti baronetti dalla Regina già nel 1965 a causa dell’enorme contributo dato all’economia inglese. Inoltre, l’industria dell’intrattenimento, dalla tv alla musica rock, dal turismo alla people’s press, svolge un importante ruolo di pacificazione sociale e di creazione di consenso, ottimamente riassunto nel concetto di «tittytainment» («tettontimento»). Nel 1995 si riunì a San Francisco un “State of the World Forum” cui parteciparono circa 500 tra i personaggi più potenti del mondo (tra l’altro Gorbaciov, Bush, Thatcher, Bill Gates...) per discutere della questione che cosa fare in futuro con quell’ottanta per cento della popolazione mondiale che non sarebbe più stato necessario per la produzione. Come soluzione fu proposto il “tittytainment”: alle popolazioni “superflue” e tendenzialmente pericolose sarà destinato un miscuglio di nutrimento sufficiente e di intrattenimento, di entertainment abbrutente, per ottenere uno stato di letargia beata simile a quella del neonato che ha bevuto dai seni (tits in gergo americano) della madre. In altre parole, il ruolo centrale che svolge tradizionalmente la repressione per evitare i sovvertimenti sociali viene ormai largamente affiancato dalla infantilizzazione.

Il rapporto tra l’economia e la cultura non si limita dunque alla strumentalizzazione della cultura, al fastidio di vedere su ogni manifestazione artistica i logo dei sponsor – che, sia detto en passant, finanziavano la cultura anche quarant’anni fa, ma attraverso le tasse che pagavano, e dunque senza potersene vantare e soprattutto senza poterne influenzare le scelte. Tuttavia, il rapporto tra la fase attuale del capitalismo e la fase attuale della “produzione culturale” va ancora più lontano. C’è una idiosincrasia profonda tra l’industria dell’intrattenimento e la spinta del capitalismo verso l’infantilizzazione e verso il narcisismo. L’economia materiale è largamente unita alle nuove forme dell’«economia psichica e libidinale». Per spiegare quello che voglio dire, devo un’altra volta tentare di esporne in poche parole i presupposti.
Il mondo contemporaneo si caratterizza per il prevalere ormai totale di quel fenomeno che Karl Marx ha chiamato feticismo della merce. Questo termine, spesso frainteso, indica molto più di un’adorazione esagerata delle merci, e neanche vuole solo indicare una semplice mistificazione. Si riferisce al fatto che nella società moderna e capitalistica la maggior parte delle attività sociali prendono la forma di una merce, materiale o immateriale che sia. Il valore di una merce è determinata dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione. Non sono le qualità concrete degli oggetti a decidere del loro destino, ma la quantità di lavoro incorporata in loro – e questa quantità si esprime sempre in una somma di denaro. I prodotti che ha creato l’uomo cominciano così a condurre una vita autonoma, governata dalle leggi del denaro e della sua accumulazione in capitale. Bisogna prendere alla lettera il termine “feticismo della merce”: gli uomini moderni si comportano come quelli che chiamano i “selvaggi”: venerano i feticci che loro stessi hanno prodotto, attribuendogli una vita indipendente e il potere di governare gli uomini. Questo feticismo della merce non è un’illusione o un inganno, ma il modo di funzionamento reale della società della merce. Domina ormai tutti i settori della vita, ben al di là dell’economia. Questa religione materializzata comporta tra l’altro che tutti gli oggetti e tutti gli atti, in quanto sono merci, sono uguali. Non sono nient’altro che delle quantità più o meno grandi di lavoro accumulato, e dunque di denaro. E’ il mercato che esegue quest’omologazione, indipendentemente dalle intenzioni soggettive degli attori. Il regno della merce è dunque terribilmente monotono, ed è addirittura senza contenuto proprio. Una forma vuota e astratta, sempre la stessa, una pura quantità senza qualità – il denaro – s’impone man mano alla infinita molteplicità concreta del mondo. La merce e il denaro sono indifferenti al mondo che per loro non è altro che un materiale da utilizzare. L’esistenza stessa di un mondo concreto, con le sue leggi e le sue resistenze, è alla fine un ostacolo per l’accumulazione del capitale che non conosce altro scopo che se stesso. Per trasformare ogni somma di denaro in una somma più grande, il capitalismo consuma il mondo intero – sul piano sociale, ecologico, estetico, etico. Dietro la merce e il suo feticismo si nasconde una vera e propria “pulsione di morte”, una tendenza, incosciente ma potente, verso l’annientamento del mondo.
L’equivalente del feticismo della merce nella vita psichica individuale è il narcisismo. Qui, questo termine non indica, come nel linguaggio corrente, un’adorazione del proprio corpo, o della propria persona. Si tratta piuttosto di una grave patologia, ben conosciuta nella psicoanalisi: significa che una persona adulta conserva la struttura psichica dei primissimi tempi della sua infanzia, quando ancora non c’è distinzione tra l’Io e il mondo. Ogni oggetto esterno è vissuto dal narcisista come una proiezione del proprio Io. Ma in verità questo Io rimane terribilmente povero a causa della sua incapacità di arricchirsi in veri rapporti oggettuali con oggetti esterni – in effetti, il soggetto, per farlo, dovrebbe prima riconoscere l’esistenza del mondo esterno e la sua propria dipendenza da esso, e dunque anche i propri limiti. Il narcisista può sembrare una persona “normale”; in verità non è mai uscito dalla fusione originaria con il mondo circostante e fa di tutto per mantenere l’illusione di onnipotenza che ne deriva. Questa forma di psicosi, rara all’epoca di Sigmund Freud, che la descrisse per primo, è diventata da allora uno dei disturbi psichici principali; se ne vedono le tracce un po’ ovunque. E non è un caso: vi si trova la stessa perdita del reale, la stessa assenza del mondo – di un mondo riconosciuto nella sua autonomia fondamentale – che caratterizza il feticismo della merce. D’altronde, questa negazione drastica dell’esistenza di un mondo indipendente dalle nostre azioni e dai nostri desideri ha costituito fin dall’inizio il centro della modernità: è il programma enunciato da Descartes quando aveva scoperto nell’esistenza della propria persona l’unica certezza possibile.
In una società basata sulla produzione di merci era inevitabile, a lungo andare, che il narcisismo diventasse la forma psichica prevalente. Ora, è evidente che l’enorme sviluppo dell’industria del divertimento sia allo stesso tempo causa e conseguenza di questa fioritura del narcisismo. In questo modo, tale industria partecipa a quella vera e propria “regressione antropologica” cui ci porta ormai il capitalismo: un annullamento progressivo delle tappe dell’umanizzazione in cui stava l’essenza della storia antecedente. Anche qui, il discorso da fare sarebbe molto lungo. Mi limito a ricordarvi le tappe per cui ogni essere umano, secondo le conclusioni della psicoanalisi, deve passare nel suo primo sviluppo psichico. Deve superare quel senso di fusione rassicurante con la madre che caratterizza il primo anno (si tratta di ciò che Freud chiama “narcisismo primario”, una tappa comunque necessaria) e passare attraverso i dolori del conflitto edipico per arrivare a una realistica valutazione delle proprie forze e dei propri limiti, rinunciando ai sogni infantili di onnipotenza. Solo così può nascere una persona psicologicamente equilibrata. L’educazione tradizionale mirava, più o meno bene, a questo: sostituire il principio di piacere con il principio di realtà, ma senza uccidere del tutto il principio di piacere. Le tappe non correttamente risolte dello sviluppo psicologico dell’individuo danno luogo a nevrosi e addirittura psicosi. Il bambino non dispone dunque di una perfezione originaria, né abbandona spontaneamente il suo narcisismo iniziale. Ha bisogno di essere guidato per poter accedere al pieno sviluppo della sua umanità. Le costruzioni simboliche caratteristiche di ogni cultura svolgono evidentemente un ruolo essenziale in questo processo e costituiscono a questo titolo un patrimonio prezioso dell’umanità (anche se non tutte le costruzioni simboliche tradizionali sembrano ugualmente atte a promuovere una vita umana piena, ma questa è un’altra questione). Al contrario di questo, il capitalismo nella sua fase più recente – diciamo dagli anni settanta in poi -, in cui il consumo e la seduzione sembrano aver sostituito la produzione e la repressione come motore e modalità dello sviluppo, rappresenta storicamente l’unica società che promuove una massiccia infantilizzazione dei soggetti, legata a una de-simbolizzazione. Ormai, tutto cospira a mantenere l’essere umano in una condizione infantile. Tutti gli ambiti della cultura, dal fumetto alla televisione, dalle tecniche di restauro delle opere antiche alla pubblicità, dai giochi video ai programmi scolastici, dallo sport di massa ai psicofarmaci, da Second life fino alle esposizioni attuali nei musei contribuisce a creare un consumatore docile e narcisista che vede nel mondo intero una sua estensione, governabile con un click.

Non può perciò esistere nessuna scusa o giustificazione per l’industria del divertimento e per l’adattamento della cultura alle esigenze del mercato che hanno contribuito così potentemente alle tendenze regressive. Ci si può dunque chiedere perché un tale degrado ha suscitato così poca opposizione. In effetti, tutti hanno contribuito a questa situazione: la destra, perché crede comunque e sempre al mercato, almeno da quando è diventata interamente liberale. La sinistra, perché crede nell’uguaglianza dei cittadini. Quello che è più curioso è proprio il ruolo svolto dalla sinistra in questo adeguamento della cultura alle esigenze del neo-capitalismo. La sinistra ha costituito spesso l’avanguardia, il battistrada nella trasformazione della cultura in una merce. Tutto si è svolto all’insegna delle parole magiche “democratizzazione” e “uguaglianza”. La cultura deve essere a disposizione di tutti. Chi può negare che si tratti di un’aspirazione nobile? Molto più rapidamente della destra, la sinistra – “moderata” o “radicale” che sia – ha abbandonato – soprattutto dopo il ’68 - ogni idea che possa esistere una differenza qualitativa tra espressioni culturali. Spiegate a un qualsiasi rappresentante della sinistra culturale che Beethoven vale più di un rap o che i bambini farebbero meglio a imparare a memoria delle poesie piuttosto che giocare alla play station, e lui vi chiamerà automaticamente “reazionario” e “elitista”. La sinistra ha fatto quasi ovunque la pace con le gerarchie di reddito e di potere, trovandole inevitabili o addirittura piacevoli, benché i danni che fanno siano sotto gli occhi di tutti. Ha invece voluto abolire le gerarchie là dove queste possono avere un senso, a condizione che non siano stabilite una volta per tutte, ma mutabili: quelle dell’intelligenza, del gusto, della sensibilità, del talento. Ma anche coloro che ammettono il decadimento della cultura generale, vi aggiungono, come un riflesso condizionato, che una volta la cultura era forse di livello più alto, ma era l'appannaggio di un'infima minoranza, mentre la grande maggioranza sprofondava nell'analfabetismo. Oggi invece tutti vi avrebbero accesso. A me sembra però che i bambini che oggi crescono con Omero e Shakespeare o Cervantes costituiscano una minoranza ancora più infima di quella di una volta. L’industria del divertimento ha semplicemente sostituito una forma di ignoranza con un’altra, così come l’enorme aumento di persone che hanno un diploma di scuola superiore o che frequentano l’Università non sembra aver incrementato molto il numero delle persone che veramente sanno qualcosa. In Francia, per esempio, si può fare un master universitario su dei temi e con delle conoscenze che trent’anni fa sarebbero stati insufficienti per ottenere il diploma di una scuola media tecnica. Non oso sperare che in Messico sia molto diverso. Così è facile che ogni anno il cinquanta per cento dei giovani consegue il diploma liceale – che grande vittoria della democratizzazione.

Non si possono chiamare i prodotti dell’industria del divertimento una “cultura di massa” o “cultura popolare”, come suggerisce per esempio il termine “musica pop”, e come affermano tutti coloro che accusano di “elitismo” ogni critica di ciò che in verità non è altro che la “formattazione” delle masse, per utilizzare una parola contemporanea assai eloquente. Il relativismo generalizzato e il rifiuto di ogni gerarchia culturale si sono spesso spacciati, soprattutto nell’epoca “postmoderna”, per forme di emancipazione e di critica sociale, per esempio in nome delle culture “subalterne”. A me sembra evidente che sono un riflesso culturale del dominio della merce. Come abbiamo già visto, la merce è una pura quantità di lavoro e dunque di denaro, sempre uguale, incapace di distinzioni qualitative. Davanti alla merce, tutto è uguale. Tutto è solo del materiale per il processo sempre uguale di valorizzazione del valore. Questa indifferenza della merce per ogni contenuto si ritrova in una produzione culturale che rifiuta ogni giudizio qualitativo e per cui tutto equivale a tutto. “L’industria culturale rende tutto uguale” sentenziò Adorno già nel 1944.
Qualcuno accuserà un’argomentazione come la mia di “autoritarismo” e affermerà che è “la gente” stessa che spontaneamente vuole, chiede, desidera i prodotti dell’industria culturale, anche in presenza di altre espressioni culturali, così come milioni di persone mangiano volentieri nei fast-food, pur potendo mangiare, per gli stessi soldi, in una taverna tradizionale. E’ facile controbattere ricordando che in presenza di un bombardamento mediatico massiccio e continuo in favore di certi stili di vita la “libera scelta” è alquanto condizionata. Ma c’è di più. Come abbiamo visto, l’accesso alla pienezza dell’essere umano richiede un aiuto da parte di chi già possiede, almeno in parte, questa pienezza. Lasciare libero corso allo sviluppo “spontaneo” non significa affatto creare le condizioni della libertà. La “mano invisibile” del mercato finisce nel monopolio assoluto o nella guerra di tutti contro tutti, non nell’armonia. Ugualmente, non aiutare qualcuno a sviluppare la sua capacità di differenziazione significa condannarlo a un infantilismo eterno. Vi do un esempio non tirato dalla psicoanalisi e a cui tengo molto. Esistono quattro gusti fondamentali, nel senso del sapore: dolce, salato, acido e amaro. Ora, il palato umano è in grado di percepire la decimillesima parte di una goccia di amaro in un bicchiere d’acqua, mentre per gli altri gusti ci vuole una goccia intera. Di conseguenza, nessun gusto è tanto capace di differenziazione e di una molteplicità quasi infinita di sensazioni gustative quanto l’amaro. Le culture del vino, del tè e del formaggio, queste grandi fonti di piacere nell’esistenza umana, si basano su questi infiniti tipi e gradi di amaro. Ma il bambino piccolo rifiuta spontaneamente l’amaro e accetta solo il dolce e poi il salato. Dev’essere educato ad apprezzare l’amaro, vincendo una resistenza iniziale. Svilupperà in cambio una capacità di godere che altrimenti gli rimarrebbe preclusa. Tuttavia, se nessuno glielo impone, non chiederà mai altro che il dolce e il salato, che conoscono ben poche sfumature, ma solo il più o meno forte. E così nasce il consumatore di fast food –che è basato solo sul dolce e sul salato - incapace di apprezzare gusti diversi. E quanto non si è appreso da piccoli non si apprenderà più da grandi; se il bambino cresciuto con hamburger e coca-cola diventa un neo-ricco e vuole ostentare cultura e raffinatezza, consumando vini italiani e formaggi francesi, non ci riuscirà ad apprezzarli veramente. Direi che si può applicare questo ragionamento sul “gusto” gastronomico senza molti cambiamenti anche al “gusto” estetico. Ci vuole un’educazione per apprezzare una musica di Bach o una musica tradizionale araba, mentre il semplice possesso del corpo basta per “apprezzare” gli stimoli somatici di una musica rock. E’ vero che la maggior parte delle popolazioni chiede ormai “spontaneamente” coca-cola e musica rock, fumetti e pornografia in rete: ma questo non dimostra che il capitalismo, che offre tutte queste meraviglie a profusione, è in sintonia con la “natura umana”, bensì che è riuscito a mantenere questa natura al suo stadio iniziale. In effetti, nemmeno mangiare con coltello e forchetta fa spontaneamente la sua apparizione nello sviluppo di un individuo.

Dunque, il successo delle industrie del divertimento e della cultura del “facile” – un successo incredibilmente mondiale che travalica tutte le barriere culturali – non è solo dovuto alla propaganda e alla manipolazione, ma anche al fatto che questi vengono incontro al desiderio “naturale” del bambino di non abbandonare la sua posizione narcisista. L’alleanza tra le nuove forme di dominazione, le esigenze della valorizzazione del capitale e le tecniche di marketing è tanto efficace perché si appoggia su una tendenza regressiva già presente nell’uomo. La virtualizzazione del mondo, di cui tanto si parla, è anche una stimolazione dei desideri infantili di onnipotenza. “Abbattere tutti i limiti” è l’incitazione maggiore che si riceve oggi, che si tratti della propria carriera professionale o della promessa di eterna salute e di eterna vita grazie alla medicina, delle esistenze infinite nei video-giochi o dell’idea che un’illimitata “crescita economica” sia la soluzione a tutti i mali. Il capitalismo è storicamente la prima società basata sull’assenza di limiti. E oggi si comincia a prendere la misura di che cosa ciò significa. L’industria del divertimento è dunque assolutamente consustanziale alla società della merce. La vera arte invece, se essa si prende sul serio, se è fedele alla sua essenza, non dovrebbe dunque mai andare d’accordo con l’economia e il mercato. Il qualitativo e il quantitativo sono qui principi antitetici. Ma esiste questa “vera cultura”, e se esiste, dove la si potrà trovare? L’abbiamo definita fin qui soprattutto ex negativo, parlando di tutto ciò che non è. Manca qui il tempo per dilungarsi sulla grandezza e sull’ambiguità della cultura tradizionale. Era talvolta capace di scuotere l’osservatore, cioè il pubblico, capace di dire “no” non solo alla società, ma anche alla costituzione di ogni individuo, ingiungendogli, come dice una poesia del poeta tedesco Rainer Maria Rilke : «Tu devi cambiare la tua vita», o proclamando, come il poeta francese Arthur Rimbaud: «Bisogna cambiare la vita», o ancora come lo scrittore francese Lautréamont: «L’arte deve essere fatta da tutti, non solo da alcuni». Certe opere del passato, mentre le guardiamo, sembrano guardarci e aspettare da noi una risposta. Tuttavia, non si può opporre in assoluto un’arte “alta“ o “grande” del passato, sempre volta al miglioramento dell’essere umano, all’industria culturale odierna. La complicità aperta o nascosta con i poteri dominanti e con i modi di vita dominanti ha sempre caratterizzato gran parte delle opere culturali. L’importante è che esisteva la possibilità di uno scarto, talvolta espressa attraverso la categoria estetica del “sublime”. L’opera, in quest’ottica, non deve essere “al servizio” del soggetto che la contempla. Non sono le opere che debbono piacere agli uomini, ma gli uomini che devono cercare di essere all’altezza delle opere. Non spetta allo spettatore, o “consumatore”, di scegliere la sua opera, ma all’opera di scegliere il suo pubblico e di determinare chi è degno di essa. Non spetta a noi giudicare Baudelaire o Malevitch; sono loro che ci giudicano e che giudicano della nostra facoltà di giudizio. Fino a un’epoca recente, si giudicava – in campo estetico - una persona sulle opere che sapeva apprezzare, e non le opere sul numero di persone che sapevano attirare. Chi era in grado di cogliere tutta la complessità e la ricchezza di un’opera particolarmente riuscita era dunque considerato come qualcuno che era andato molto avanti sulla strada della realizzazione umana, normalmente grazie a un lavoro duro su se stesso. Che contrasto con la visione postmoderna per cui ogni spettatore è democraticamente libero di vedere in un’opera ciò che vuole, e dunque ciò che vi proietta lui stesso! Certo, in questo modo lo spettatore non sarà mai confrontato con niente di veramente nuovo e avrà la confortante certezza di poter sempre rimanere così com’è. E questo è esattamente il rifiuto narcisistico di entrare in un vero rapporto oggettuale con un mondo distinto da lui. Questa attitudine a conferire dei choc esistenziali, a mettere in crisi l’individuo invece di confortarlo e confermarlo nel suo modo di esistenza è visibilmente del tutto assente nei prodotti dell’industria del divertimento, che mirano all’«esperienza» e all’«evento». Chi vuole vendere, va incontro ai bisogni degli acquirenti e alla loro ricerca di una soddisfazione immediata, confermando l’opinione alta che hanno di se stessi piuttosto che frustrandoli con delle opere non immediatamente “leggibili”. Da quel punto di vista, non esiste più oggi quasi nessuna differenza tra un’arte “alta” o “colta” e un arte “di massa”. Le opere del passato vengono incorporate nella macchina culturale, per esempio tramite mostre spettacolari, restauri che devono rendere le opere godibili per ogni spettatore (per esempio, ravvivando eccessivamente i colori), o tramite versioni massacrate dei classici letterari o musicali per “avvicinarle“ al pubblico. Oppure mescolandoli a espressioni del presente che tolgono ogni specificità storica, come nel caso della famigerata piramide nel cortile del Louvre a Parigi. Il pungolo che le opere del passato potrebbero ancora possedere, foss’anche solo a causa della loro distanza temporale, viene neutralizzato tramite la loro spettacolarizzazione e commercializzazione. Niente di più fastidioso dei musei che diventano “pedagogici” e vogliono “avvicinare” la “gente comune” alla “cultura” con una pletora di spiegazioni sulle pareti e tramite auricolari che prescrivono a ciascuno esattamente che cosa deve provare di fronte alle opere, proiezioni video, giochi interattivi, museum shops, magliette... Si afferma di rendere in questo modo la cultura e la storia fruibili anche agli strati non-borghesi (come se i borghesi di oggi fossero colti). In verità, proprio questo approccio user-friendly mi pare il massimo dell’arroganza verso gli strati popolari, di cui suppone che siano per definizione insensibili alla cultura e che l’apprezzino solo se viene presentata nel modo più frivolo e infantile possibile. Sparisce così anche l’atmosfera piacevole dei musei un po’ polverosi di una volta, piacevole proprio perché sembrava di entrare in un mondo a parte, dove si poteva riposare dal turbine che ci circonda sempre – anche perché questi musei erano poco frequentati. Adesso, più un museo è “ben gestito” e attira il pubblico, più assomiglia a un incrocio tra una stazione metropolitana all’ora di punta e una sala informatica. A questo punto, perché ancora andarci? Tanto vale guardare le stesse opere su un CD, perché dell’«aura» dell’opera originale non è comunque rimasto niente. E’ stato un altro modo perverso di unire l’arte alla vita, di cancellare la loro differenza e di eliminare ogni idea che possa esistere qualcosa di diverso dalla piatta realtà che ci circonda. Il vecchio museo, con tutte le sue tare, poteva essere lo spazio appropriato all’apparizione di qualcosa di veramente inaudito per lo spettatore, proprio perché era tanto diverso da ciò che viviamo abitualmente. Oggi, le classe scolastiche che vengono trascinate attraverso le sale d’esposizione ricevono più che altro un’efficace vaccinazione preventiva contro ogni rischio di poter sentire un messaggio esistenziale dalla parte dell’arte o della storia, o almeno di andarle a scoprire per conto proprio...

La cultura cosiddetta “contemporanea”, cioè prodotta oggi, partecipa generalmente allo stesso modo regressivo. Gli artisti stessi hanno tradito il compito dell’arte. Lo si vede nell’eterna ripetizione del gesto di Marcel Duchamp nell’arte contemporanea da quarant’anni. L’orinatoio esposto nel 1917 come “fontana” era una provocazione venuta a proposito; in seguito è diventata una patente di nobiltà per esporre qualsiasi oggetto come opera d’arte, eliminando così ogni idea di un’opera eccellente o di un ”sublime”. Quest’arte è altrettanto poco capace di scuotere lo spettatore quanto lo sono i prodotti dell’industria dell’intrattenimento. Mentre le avanguardie cosiddette “classiche” della prima metà del XX secolo sapevano dire l’essenziale sulla loro epoca storica, l’arte di oggi riesce difficilmente ad evitare l’impressione della sua insignificanza. Si può anche rifiutare l’idea di una “morte dell’arte” generale (io me ne sono occupato altrove), ma risulta comunque difficile trovare un’arte contemporanea all’altezza dei suoi predecessori. Essa partecipa alla derealizzazione generale, proprio come l’industria del divertimento, ed è diventata una sottospecie del design e della pubblicità. Essa merita allora la sua commercializzazione. L’arte contemporanea si è buttata nelle braccia dell’industria culturale e chiede umilmente di essere ammessa alla sua tavola. Ciò è un risultato, tardivo e imprevisto, di quell’allargamento della sfera dell’”arte” e di quella estetizzazione della vita che sono stati cominciati un secolo fa dagli artisti stessi, come appunto Duchamp. Sembra dunque che non esistano più molte opere capaci di contribuire alla nascita di soggetti critici. Esistono solo dei clienti. Allora fa davvero poca differenza come si gestiscono i musei. Si afferma che i musei devono adeguarsi alla necessità di “far pubblico”, pena la loro sparizione. Ma il risultato è lo stesso. Un’arte che serve soltanto a creare dei clienti soddisfatti non è comunque più un’arte degna di questo nome.
Bisognerebbe almeno ammettere una differenza qualitativa, di peso, tra i prodotti dell’industria dell’intrattenimento e una possibile “cultura vera” per poter evocare per quest’ultima un trattamento a parte. Bisogna ammettere dunque la possibilità di un giudizio qualitativo e non puramente relativo e soggettivo. C’è una grande differenza tra voler stabilire dei parametri di giudizio, pur sapendo che non discendono dal cielo, ma che debbono essere soggetti alla discussione e al cambiamento, da un lato, e negare, dall’altro, a priori la possibilità stessa di stabilire dei parametri, di modo che tutto è uguale a tutto. Se tutto si equivale, niente vale più la pena. Sono questa uguaglianza, e l’indifferenza che ne segue, a stendersi come un sudario sulla vita dominata dal mercato e dalla merce. Esse minano alla base la capacità degli umani di fare fronte alle minacce onnipresenti di barbarizzazione. Le sfide che ci aspettano nei prossimi tempi hanno bisogno di essere affrontate da persone nel pieno possesso delle loro facoltà umane, non da adulti rimasti bambini nel senso peggiore della parola. Sarà curioso vedere che posto terranno l’arte e le istituzioni culturali in questo passaggio epocale.

Anselm Jappe -  11 maggio 2009 -Testo in italiano pubblicato su Exit !

fonte: Exit !