martedì 13 aprile 2021

Il ritorno della paura

La lezione del Leviatano
La nostra era una società senza paura. Poi il virus è arrivato a sparigliare le carte come dimostrano le svolte politiche in Europa e America. E la rilettura di Hobbes
- di Maurizio Ferraris -

La nostra è una società senza padri (Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli 2013) e senza dolore (Byung-chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi 2021), il che significa che è una società senza paura, perché il dolore è qualcosa che si teme, e il padre non è solo protezione, ma anche e forse soprattutto minaccia. O meglio, la nostra era una società senza paura, fino a che il virus non è tornato a ricordarci che il male e la morte fanno parte della vita. E che la paura non è solo una passione triste, ma è un sentimento che non inganna («sono proprio impaurito, o credo soltanto di aver paura?» è un interrogativo che, credo, nessuno si è mai posto) oltre che l’origine di quella fuga senza fine dalla paura che chiamiamo “coraggio”, nonché la base della convivenza civile tra gli umani. Se le valenze psicologiche della paura sono intuibili a prima vista, coglierne la portata politica richiede uno sforzo filosofico il cui merito va sopra tutti (in una linea che da Machiavelli giunge a Schmitt e a Canetti) a Thomas Hobbes (1588-1679). È lui stesso, avanti negli anni, a raccontarci che la sua nascita fu prematura a causa dello spavento della madre alla notizia dell’avvicinarsi della Invincibile Armada di Filippo II, e consegnò questo sentimento ai versi «mother dear/ Did bring forth twins at once, both me and fear» («la mia cara madre partorì due gemelli, me e la paura»).

È un male? No. Lo sarebbe se nascessimo nell’Eden, ma veniamo al mondo in una Terra minacciosa e, senza il soccorso reciproco che ci diamo in società, siamo condannati a una vita solitaria, povera, brutta, brutale e breve. È la paura di questi mali maggiori che spinge gli umani ad accettare il male minore, la convivenza con i loro simili, ed è altra paura, dell’isolamento e delle punizioni, che li rende rispettosi delle leggi. L’animale sociale non è un animale socievole, e se accetta delle regole, e in particolare quei tre princìpi su cui, secondo Hobbes, si regge la vita degli umani (che sia necessaria la pace, che la pretesa di tutti su tutte le cose sia rovinosa, e che i patti vadano rispettati) è solo per evitare il peggio. Se è così, conclude Hobbes, fare politica, agire nella società, consiste nel gestire l’enorme capitale del terrore. È l’insegnamento di Tucidide, la cui traduzione costituì per Hobbes l’occasione di un tardivo ingresso in società, a quarant’anni, e la scelta ha un valore programmatico: il potere è togliersi la paura facendo paura, per esempio quando gli ateniesi si presentano davanti alla piccola isola di Melo con la loro Invincibile Armada e dettano le condizioni. La stessa identica paura che dominava millenni dopo a Monaco, nel 1938, quando Daladier, Chamberlain e Mussolini avallarono l’invasione dei Sudeti da parte di Hitler mentre il presidente Beneš non era nemmeno invitato all’incontro. O la paura che Putin riesce a suscitare nei suoi interlocutori, e che ha avuto vittime illustri, come l’allora presidente Sarkozy, uscito da un incontro a un G8 del 2007 come un pugile suonato, come è facilissimo verificare su YouTube. Ciò che vale per la guerra e per gli incontri al vertice vale anche per ogni angolo della società.

Il capolavoro politico di Hobbes, il Leviatano, intitolato come il mostro marino della Bibbia, esce nel 1651, e due anni prima Carlo I era stato giustiziato. Si trattava anche dell’onda lunga di una osservazione che Hobbes aveva proposto dieci anni prima negli Elements of Law, Natural and Politic: i parlamentari inglesi che rifiutano al re un prelievo fiscale senza contestarne la sovranità si comportano da geometri incompetenti. Che cosa li frenava? Ovvio, la paura. Ma proprio la ragione, e nella fattispecie la ragion di Stato, può trasformarli in geometri competenti, capaci di elaborare il teorema fondamentale della sovranità moderna: il potere non deriva da un diritto divino, bensì da convenzioni tra uomini, e visto che la sovranità è nulla più che capacità di proteggere, quando questa capacità vien meno decade l’obbligo verso il sovrano.

Ferdinand Tönnies, nella sua celebre biografia (Thomas Hobbes, Leben und Lehre, 1896), scrisse che Hobbes si rese intenzionalmente così odioso da far sì che nessun partito volesse concedere agli altri la soddisfazione di ucciderlo. Non so se la capitalizzazione della paura si spingesse così lontano in Hobbes, certo è che gli è riuscito di trasformare uno stato d’animo, una emozione o un difetto, secondo come lo si guarda, nella fondazione ultima della politica. Quella paura che ha spinto l’apparato tedesco a restare fedele sino all’ultimo a Hitler, anche perché era rafforzata dalla paura nei confronti dell’avanzata russa. O, a maggior ragione, quella paura reciproca che ha paralizzato gli arsenali atomici per settant’anni e sperabilmente per sempre. Ma la paura è talmente necessaria in politica che quando non c’è bisogna inventarsela. È in questo senso che, nel 2018 Martha Nussbaum stigmatizzò la presidenza Trump come “monarchia della paura” (The Monarchy of Fear: A Philosopher Looks at Our Political Crisis, Simon & Schuster, New York). Ma nel caso di questo come di altri populismi si trattava di costruire dei nemici in una società che si sentiva garantita, e che poneva alla cima delle proprie preoccupazioni ben più la borsa, il timore dell’impoverimento, che la vita.

Sostenere, ad esempio, che impedire lo sbarco a dei naufraghi è difendere i confini della patria è generare paure vere con cause finte, e come tali fragili, e destinate a scomparire al primo accenno di una causa vera. Anche qui, dunque, il virus ha sparigliato le carte. Non ha certo allontanato il timore dell’impoverimento (anzi, l’ha motivato ed accresciuto), ma insieme ha acceso una paura ancora maggiore, il timore della malattia mortale. Come sempre, ci sono stati i negazionisti, ma le svolte politiche determinate dal virus, in America come in Europa, sono eloquenti: rivelandosi incapaci di garantire la sicurezza e la sicumera che promettevano, le corone di latta raccolte a colpi di post sui social sono ruzzolate come la testa di Carlo I nel 1649. La piccola bestia, né viva né morta, ha resettato il patto sociale dettato dalla grande bestia, da Leviatano, il Moby Dick della politica.

- Maurizio Ferraris - Pubblicato su Repubblica del 18/3/2021 -

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