lunedì 5 aprile 2021

I nemici? Quelli giusti!

Tra quanti parteciparono attivamente alla Rivoluzione russa del 1917, Victor Serge è sicuramente uno degli osservatori più acuti e critici. Scampato alle purghe degli anni trenta, rifugiatosi in Francia, Serge si impegna a lungo nella denuncia del «tradimento» della Rivoluzione operato da Stalin, ma non smette di ragionare anche sui propri errori, o meglio sugli errori dell’intero movimento rivoluzionario russo, di cui anche lui aveva fatto parte. Non rinnega la rivoluzione, ma ne percepisce col tempo i limiti e ne analizza con rigore la storia, mutando il suo pensiero su molti punti. Questo volume propone due momenti centrali dell’analisi di Victor Serge: il primo (La Rivoluzione russa), del 1938, viene scritto quando Serge è da poco arrivato a Parigi, proveniente dalla prigionia siberiana; il secondo (Trent’anni dopo la Rivoluzione russa), viene scritto nel 1947, a pochi mesi dalla morte, nell’esilio di Città del Messico. Come nota David Bidussa nella prefazione, si tratta di due scritti che rappresentano «l’alfa e l’omega» dell’ultima stagione pubblica di Victor Serge. Sopra ogni cosa aleggia il concetto di totalitarismo e il tradimento di un’idea: a trent’anni dai fatti rivoluzionari, degli ideali che avevano animato le piazze non resta niente. Tutto viene messo in discussione e non resta che ripartire su nuove basi, prendendo le distanze dal passato.

(dal risvolto di copertina di: La Rivoluzione Russa, di Victor Serge. Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 105, € 12.)

Victor Serge, solitudine di un eterno militante
- di Davide Bidussa -

Molti anni fa Susan Sontag scrisse che Victor Serge - a differenza di Arthur Koestler, Ignazio Silone, Albert Camus o George Orwell - era stato dimenticato, nonostante avesse fatto e scritto molte cose che in fondo lo accomunavano a ciascuno di loro. Perché era un esule, mentre gli altri avevano in fondo una patria?, si chiede. Oppure perché non fu uno scrittore impegnato in modo discontinuo nella militanza, «bensì un attivista e un agitatore tutta la vita?». Forse, si risponde. Ma la verità, prosegue, è che Serge rimase solo perché seppe «scegliersi i giusti nemici». [Susan Sontag, Nello stesso tempo, Mondadori, 2007, pagg. 48-74]
È un buon giudizio. Per comprendere davvero Serge occorre tuttavia cercare in quella sua solitudine l’alfa e l’omega di quel percorso senza compromessi che negli ultimi dieci anni si svolge tra Parigi, dove è esule dall’aprile 1936, e Città del Messico dove muore nel novembre 1947 all’età di 57 anni. Questi due poli si snodano in due scritti fondamentali, brevi, caratterizzati da una scrittura veloce, febbrile, ma molto puntuta: il primo, dal titolo La Rivoluzione russa, in meno di quaranta pagine fornisce uno schizzo sintetico della parabola della storia russa dalla legge di liberazione dei contadini (1863) all’inizio del ripiegamento della rivoluzione con i primi anni 20; il secondo, Trent’anni dopo la rivoluzione russa, lo scrive nell’estate del 1947, esce dieci giorni dopo la sua morte e rappresenta il suo testamento politico. In entrambi Serge riprende spunti e temi su cui è venuto riflettendo nella sua critica al processo di trasformazione seguìto alla morte di Lenin e all’ascesa al potere di Stalin. Al centro sta il confronto con un lungo “non detto” rappresentato dalla vicenda di Kronstadt (febbraio marzo 1921), una rivolta di anarchici e libertari contro l’autoritarismo dei bolscevichi che l’Armata rossa guidata da Trockij, in accordo con Lenin, reprime ferocemente. Una vicenda su cui Serge, nel 1921, è incerto, ma che nel 1938 ritiene rappresentare il vero inizio del processo di autoritarismo del sistema staliniano. Trockij difende la propria decisione ancora nel 1938 (la sosterrà in un testo dal titolo La nostra morale e la loro), Serge la rifiuta recisamente perché non è più disposto ad accogliere il principio che in tutte le rivoluzioni arriva un momento in cui alcuni ideali o sogni dovranno essere necessariamente sacrificati per garantire la sopravvivenza del nuovo ordine. Un principio che, a suo modo, difende anche Benedetto Croce, quando scrive, nel 1933, che Giovanni Calvino bene fece a mandare al rogo Michele Serveto nella Ginevra repubblicana di metà del ’500 perché, osserva Croce (nel suo Vite di avventure, di fede e di passione, Adelphi, p.226 e sgg) la legittimazione di ulteriori posizioni, come appunto il pensiero di Serveto, avrebbe comportato il rischio di una frantumazione del calvinismo nella sua fase iniziale e dunque la dissoluzione delle conquiste culturali del calvinismo stesso. Allo stesso tempo, Serge non è più disposto a condividere un secondo principio che ora gli appare come l’essenza della repressione del marzo 1921. Ovvero la presenza di una mentalità che non sopporta le minoranze e le eresie politiche, o comunque quei percorsi di riflessione e di proposta politica che obbligano a ripensare le proprie scelte.
Un giudizio che la guerra non cambia e che, soprattutto, non si modifica con la divisione in due dell’Europa sancita dalla fine della guerra. Condizione, scrive nell’estate 1947 in Trent’anni dopo la rivoluzione russa, che lo convince del fatto che «La rivoluzione proletaria ai miei occhi non è più il nostro fine; la rivoluzione che intendiamo servire non può essere che socialista, nel senso umanistico della parola. Più esattamente socializzante, democraticamente, libertariamente compiuta…. ».
Poco meno di un anno prima, nei suoi quaderni di lavoro, Serge si era chiesto se lo scenario che si apriva con il nuovo dopoguerra potesse pensare di ripresentarsi con le stesse forze politiche e con la stessa filosofia avviata con il primo dopoguerra. La sua risposta è negativa. Dopo di che scrive:
«Il socialismo è andato di sconfitta in sconfitta a partire dal 1920, il comunismo totalitario si è stabilizzato, in quanto controrivoluzione rispetto al movimento socialista e, sul piano economico, con l’avvento di una economia rigorosamente collettivistica e pianificata. […] Il fine da perseguire era ed è ricostruire ampi movimenti in grado di diventare delle forze sane dopo un periodo di recupero; e attraverso tutto questo ostacolare il totalitarismo comunista».
Tutto non era solo in questione, ma andava radicalmente ripensato daccapo. Un linguaggio che, alla fine, spiega quella solitudine su cui si interrogava Susan Sontag.

- di Davide Bidussa - Pubblicato sul Sole del 7/3/2021 -

3 commenti:

Claudio Albertani ha detto...

Giusto per la cronaca. Serge non ha partecipato attivamente alla rivoluzione russa del 1917, semplicemente perché arrivò in Russia l'8 febbraio del 1919. Nel 1917, stava a Barcellona, dove era arrivato nel mese di febbraio dopo aver scontato cinque anni di galera in Francia.
Saluti

Claudio Albertani ha detto...

Giusto per la cronaca. Serge non ha partecipato attivamente alla rivoluzione russa del 1917, semplicemente perché arrivò in Russia l'8 febbraio del 1919. Nel 1917, stava a Barcellona, dove era arrivato nel mese di febbraio dopo aver scontato cinque anni di galera in Francia.
Saluti

BlackBlog francosenia ha detto...

Visto che lo hai voluto scrivere due volte, si rende necessaria la domanda:
E quindi?!?

Salud

Franco