La Resilienza ha la pretesa di prepararci al peggio, senza però chiarire quali sono le cause del peggioramento. Proprio nel momento in cui, in Francia, il progetto di Legge Climatica è al vaglio dell'Assemblea nazionale, Thierry Ribault pubblica un libro - Contre la résilience. A Fukushima et ailleurs (ed. L'Echappée) - in cui ci mette a disposizione la sua critica feroce di quella che non è altro che una «tecnologia del consenso», la quale a suo avviso mira solo a rendere il disastro accettabile per tutti. A fronte di avvenimenti come l'epidemia di Covid-19, il cambiamento climatico o il terrorismo, la società viene invitata a rafforzare la propria ... Resilienza. Dieci anni dopo il disastro di Fukushima e l'adozione, in Giappone, di un piano di «resilienza nazionale», oggi, in Francia , l'Assemblea nazionale esamina il progetto di Legge Climatica e Resilienza. A tutto questo, Thierry Ribault oppone la sua critica radicale di un concetto che egli descrive come, simultaneamente, un'ideologia dell'adattamento e una tecnologia del consenso che punta a rendere accettabile il disastro, mentre evita, allo stesso tempo, che ci si possa interrogare su quali sono le case di tale disastro.
Stéphane Mandard: I membri del Parlamento francese hanno iniziato l'esame del progetto di Legge su clima e resilienza, che è il frutto del lavoro della Convenzione dei cittadini per il clima. Il dibattito si è focalizzato sulle misure da prendere per frenare il riscaldamento climatico, e assai meno sul concetto di resilienza. Qual è il suo significato?
Thierry Ribault: La resilienza trae la sua forza a partire dal fatto di essere indiscutibile. Posta come se si trattasse di un presupposto per la soluzione di tutti i mali del mondo, ci esorta a esplorare i Mille e Un modo di piegarsi senza rompersi, in modo da renderci conformi al nostro ambiente, e di rafforzarci nell'affrontare una simile prova. Resistere senza opporre resistenza e accettare il fatto che gli uomini si evolvano nel contesto di una civiltà del disastro, mentre la benedicono per averli resi più forti; è questo il suo modus operandi. Addomesticare e governare il peggio, al fine di riuscire così a stimolare quelle che sono le nostre capacità di «anti-fragilità», vista come forza interiore che ci permette di anticipare le catastrofi e di accettarne l'ineluttabilità, per andare avanti. Ciò perché la resilienza intende prepararci al peggio senza mai chiarirne le cause. Questo equivale a interiorizzare la minaccia e a trasformare la realtà fisica e sociale del disastro in una necessità cui non possiamo sottrarci; spingendo allo stesso tempo ciascuno di noi a far finta di non vedere che in tal modo, per tentare di rispondere, siamo costretti a sottometterci. Questo imperativo di preparazione è alla base della «transizione ecologica e climatica» così tanto attesa dalla Legge Clima e Resilienza. Una preparazione che avviene attraverso l'«accelerazione dell'evoluzione delle mentalità» e per mezzo della responsabilizzazione individuale. Questa politica di resilienza sembra avere tutte le caratteristiche di un'implacabile e disumanizzante ingegneria del consenso, e a partire da questo si riesce a comprendere perché i dibattiti si concentrino sulle modalità della sua attuazione, piuttosto che sul suo carattere ideologico.
Stéphane Mandard: Lei denuncia un'ideologia dell'adattamento (al peggio), una tecnologia del consenso che punta a rendere accettabile il disastro, ad accettare il peggio, evitando di metterne in discussione le cause. Eppure, tuttavia, il progetto di Legge sul Clima e sulla Resilienza ambisce innanzitutto a «lottare contro» il riscaldamento climatico?
Thierry Ribault: La resilienza è una tecnologia del consenso poiché è allo stesso tempo tanto un discorso sulla tecnologia quanto una tecnologia essa stessa, che come tale mira a spingere le popolazioni in una situazione di disastro, accettando la tecnologia (a Fukushima, è il nucleare), ivi comprese le tecnologie di sopravvivenza e di addomesticamento della natura che dovrebbero rimediare ai danni causati. Altresì, si tratta di acconsentire alla loro cogestione. Accettare l'ignoranza, ed essere attaccati da quello che ci colpisce nel nostro essere più profondo, in particolare nella nostra salute. E acconsentire, infine, a sperimentare nuove condizioni di vita. Chiamando a «lottare contro» il riscaldamento climatico - vivendo insieme ad esso ed esortando ciascuno a prendere parte al proprio governo, in maniera attiva, positiva e civica - La Legge sul Clima e la Resilienza si va ad inscrivere nella «Resilio-mania» contemporanea. Rende emozionalmente gestibile ciò che è smisuratamente terrificante, e per farlo rende eufemizzante il fatto che ci troviamo nel bel mezzo di una catastrofe, e concentra le sue istruzioni riguardo le cose da fare in futuro, contando sulla nostra capacità di rimbalzare e arrivare così al «mondo di domani» che è già qui.
Amministrare il consenso al disastro, richiede l'amministrazione dei sentimenti riguardo ad esso. Per la «cultura del rischio», si tratta di convincere a far diventare ciascuno di noi, attraverso dei sentimenti di gioia attiva, un «cittadino consumatore attore del cambiamento», si tratta di «cambiare imperativamente le nostre mentalità, i nostri modi di vivere e i nostri modi di agire». Questa legge appartiene alla ragione catastrofica che trova sempre delle buone ragioni per subire il disastro con il pretesto di superarlo. Ciò che la rende discutibile, pertanto, non è che essa sarebbe solo un collage di «piccole misure» (come dicono, indignandosi, quelli che si aspettano sempre di più da uno Stato pietrificato), ma il fatto che sancisce questo nuovo spirito di molestia che si basa sull'individualizzazione della loro governance e sul «do it yourself», su questa maestria del bricolage pilotata in tempi di catastrofe. Uno spirito che, all'indomani dell' incidente nucleare di Fukushima, ha contribuito a calmare la rabbia della popolazione.
Stéphane Mandard: Come è nato il concetto di resilienza e come è emerso nel campo dell'ecologia?
Thierry Ribault: Dalla scienza dei materiali, è stata mobilitata come terapia per ogni genere di esperienza dolorosa (cancro, AIDS, perdita di una persona cara, prigionia, catastrofi, attentati, maltrattamenti e abusi), per tutte quelle prove che si suppone di poter sopportare a partire dal fatto che vi si trovi un senso; la resilienza ha conosciuto un'espansione a 360°. Nel campo dell'ecologia, la sua importazione ha avuto luogo a partire da un'edificante deviazione dalla produzione. Negli anni '50, gli americani Eugene et Howard Odum, biologhi incaricati dalla Commissione dell'Energia Atomica degli Stati Uniti, studiarono la resistenza degli ecosistemi degli atolli corallini della Micronesia - e incidentalmente delle popolazioni - agli effetti delle particelle radioattive disseminate a causa dei test nucleari. Il morboso interesse di questa «ecologia delle radiazioni» per lo studio della capacità dell'essere vivente di adattarsi alla propria distruzione e a trarne vantaggio nelle isole trasformate in laboratori nucleari usa e getta, andrà in eredità alla nascente ecologia sistemica. Negli anni '70, l'ecologo canadese Crawford Holling confermerà questa rotta e svilupperà un programma di «sicurezza eco-sistemica» più liberale, che verrà battezzato Resilienza; vale a dire, la capacità di sopportare gli shock e riorganizzarsi in maniera efficace capitalizzando le «opportunità emergenti».
Stéphane Mandard: Di fronte alla pandemia di Covid-19, così come dopo gli attentati del 2015, le esortazioni ad adattarsi, o a «vivere con», si moltiplicano, al fine di preparare il famoso «mondo che verrà». Lei lo vede come un modo che hanno i leader politici per liberarsi dalle loro responsabilità?
Thierry Ribault: Vivere con il Lockdown, vivere con una maschera, un'autocertificazione, un coprifuoco... pertanto vivere accettando la privazione delle libertà e la sorveglianza dovuta al rispetto di tale privazione diventa indiscutibile. Tanto più che nella sua pretesa di risolvere il problema, la resilienza si fa carico di assolvere alcuni e di far sentire colpevoli gli altri: coloro che rifiutano di collaborare a un simile «mondo del giorno dopo». Cittadini, industriali e politici diventano in parti uguali responsabili, come proclama Barbara Pompili, il ministro dell'ecologia, il 10 febbraio, alla vigilia dell'esame del progetto di legge, dicendo che «fermeremo questo grande mucchio di spazzatura»; eludendo però la definizione di questo «noi» livellatore, al fine di poter meglio legittimare il fatto che «coinvolgeremo tutti». La resilienza consente di eludere la realtà oggettiva della catastrofe e delle sue conseguenze, prodotte da un tecno-capitalismo sempre meno controllabile, riconducendone le cause alla contingenza, laddove invece si tratta di processi socio-economici colti in flagrante delitto di contraddizione. Resa oggettiva, ecco che la catastrofe diventa una questione da risolvere con sé stessi, diventa un superamento da compire senza che però ci si debba chiedere se esso non sia peggiore di ciò che viene superato: diventa una vittoria sulla paura, attraverso cui si suppone di stare annientando la minaccia che genera tale paura. Ecco che allora si tratta di combattere il cancro, il riscaldamento climatico, il Covid-19 o il terrorismo, senza però combattere il mondo che li genera, poiché la resilienza è sempre in prospettiva. La domanda così diventa: come può l'infelicità di oggi condurci verso la felicità di domani? Questa liquidazione del passato e del presente, nega alle persone qualsiasi prospettiva che permetta loro di prendere coscienza della propria situazione, e di reagire rivoltandosi.
Stéphane Mandard: Fukushima viene presentata come il laboratorio della resilienza. Dopo la catastrofe, il governo giapponese ha elaborato un piano nazionale di resilienza volto a «costruire una nazione forte e resistente ai disastri». Dieci anni dopo, cosa possiamo dire a riguardo?
Thierry Ribault: Le piscine sospese piene di combustibile, rimangono alla mercede dei terremoti, tre nuclei fusi sono irrecuperabili, l'acqua contaminata del sito raggiungerà l'oceano, sono stati mobilitati 90.000 tra liquidatori e de-contaminatori in condizioni di sicurezza discutibili, ci sono ancora 43.000 persone rifugiate e i tumori alla tiroide sono in aumento. Il disastro nucleare di Fukushima rimane un'impossibilità non risolta che la politica della resilienza continua a pretendere di poter risolvere. È stato nominato un ministro per la «costruzione della resilienza nazionale». È stato sviluppato un programma di decontaminazione che spinga la gente a parteciparvi e che serva a disattivare la loro paura della radioattività. È stata adottata una politica di incoraggiamento al ritorno della popolazione nelle proprie case, ponendo fine agli aiuti ai rifugiati e sovvenzionando la ricostruzione delle scuole nelle comunità abbandonate. Decidendo di ripopolare gli ospedali con dei malati anziché rendere inabitate delle terre inabitabili, una strategia di riconquista delle zone contaminate, incoraggia la gente a tornarci e a sopravvivere. I «resilio-terapeuti» possono così vantarsi di essere riusciti a trattenere la popolazione esposta alla contaminazione - la stragrande maggioranza della quale non è stata sfollata - e a ridurre al silenzio la loro libertà di avere paura, con la scusa di liberarla da tale paura. Obiettivo, questo, chiaramente dichiarato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che non vede l'ora di «dissipare la paura della pandemia di Covid-19», in alternativa ad uscirne.
Stéphane Mandard: Se la resilienza è un'impostura soluzionista che porta a un vicolo cieco, allora quale alternativa possiamo sostituirle per poter sfuggire al disastro?
Thierry Ribault: Una ragione non catastrofica, dove l'ansia non viene più considerata come se fosse il sintomo di una malattia dell'incapacità di adattamento, ma come un moto ed un sentimento vissuto e giustificato, come un tentativo di liberarsi dalla situazione di ignoranza e di impotenza nella quale ci troviamo. La paura è il segno di un'immutabile disposizione alla libertà e alla verità. Un momento indispensabile per riuscire a prendere coscienza della cause che ci spingono a provarla. Dal momento che essa è un effetto della catastrofe, e non una conseguenza, contrariamente a ciò che afferma la resilio-terapia, la quale individualizza il trattamento, colpevolizzando le vittime e raccomandando di imparare a spegnere la nostra paura in modo da accettare meglio la nostra disgrazia. Liberarsi dalla pretesa e dalla presunzione - anche tecnologica - di poter rispondere a quelle che sono delle situazioni impossibili, significa prendere coscienza della nostra impotenza e delle sue cause. Il resto verrà da sé.
Intervista pubblicata su Le Monde del 22/3/2021 -
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